Degustiamo i vini in lattina della Zai Urban Winery. Sarà questo il futuro?


di Stefano Tesi

Tanto per chiarire, vengo dalla generazione che più di trent'anni fa assaggiò i cosiddetti wine cooler, una specie di bevanda alcoolica fatta tagliando il vino col succo di frutta, roba alla quale pure il coevo 8 e 1/2 Giacobazzi (sponsor prima e poi sponsorizzato nientepopodimento che da Gilles Villeneuve) faceva vento.


Figuriamoci quindi se mi fa impressione la notizia dell'uscita sul mercato di un nuovo vino in lattina, lanciato settimane fa dalla veronese Zai (l'acronimo sta per Zona Altamente Innovativa ed è identico alla Zona Agricola Industriale che ospita il Vinitaly, "in cui l’azienda ha avuto origine", ammettono i fondatori), che tanto fa arricciare il naso al conformismo enoico nazionale. Quindi nessun pregiudizio, solo curiosità.


Infatti mi sono fatto mandare i campioni e, lo dico subito, l'assaggio del prodotto non è affatto catastrofico come era facile pronosticare. 
Anzi diciamo pure che, al confronto, questi vini molto facili ma corretti, perfino piacevoli se consumati col giusto approccio, che non provano a spacciarsi per quello che non sono, escono bene - chi più, chi meno - dal confronto con prodotti imbottigliati di pari categoria e prezzo: "Il prezzo a scaffale sarà di circa 3,50/4,50 euro a lattina. Il prodotto è in fase di lancio e sono in corso trattative con vari mercati stranieri in primis, ma anche in Italia con gruppi della GDO e altre realtà del mondo Horeca che hanno mostrato interesse" mi risponde, a domanda, il loro ufficio stampa.


Perchè non è solo l'aspetto organolettico ciò che conta in questi casi, ma quello sociale e commerciale. 
Andando per ordine, i canned wines sono sei e sono modulari, nel senso che fanno parte di un progetto di marketing unico e coordinato, all'interno del quale nessun prodotto può fare a meno degli altri. Diciamo insomma che si tratta di un paniere di lattine che fanno capo a un'unica storia, disegno, grafica e filosofia.


Zai, che si autodefinisce "urban winery", punta dichiaratamente ai mercati nel Nord America o almeno ad essi si ispira e si ammanta di un'aura green. "Le nostre referenze sono frutto di un lungo studio enologico. Per esempio Gamea, uno dei vini top di gamma è il frutto di ben quattro vendemmie, anziché una, condotte tutte a mano”. 


A riprova che la leva principale dell'operazione commerciale si basa sullo storytelling c'è il fatto che ognuno dei sei vini corrisponde a un personaggio di fantasia, cronologicamente collocato "nel 2150, anno che vede l’estinzione del 99% delle specie animali e vegetali, uva compresa, a causa del cambiamento climatico. Anche nel packaging le lattine rimandano ai personaggi, protagonisti di un viaggio per risolvere il mistero dell’antica profezia sul vino e salvare il mondo. Una storia che sarà in continua evoluzione, che non mancherà di colpi di scena, al pari di un vero e proprio fumetto".


C'è da sorridere?

Sì, ovviamente, se si vuole parlare con disincanto. Ma anche no. Può anche darsi infatti che il business possa funzionare e di per sè non ha nulla di scorretto.

Ecco i vini (nb: tutti vegani e bio, tranne il PJ White, e tutti confezionati in lattine di alluminio da 25 cc), con relativa "storia" e mie note si assaggio:

Dr. Corvinus, 100% Corvina Verona IGT, gradazione alcolica 11% Vol.: è l’ultimo erede di una dinastia di sommelier, vive con il suo assistente Cork Borg nel castello di famiglia cercando un modo per produrre il vino senza usare le uve, ormai estinte, ma con esiti poco soddisfacenti. Naso discreto, piacevole in bocca, da tutto pasto. Se bevuto alla giusta temperatura è piacevole.


Gamea, 100% Garganega Verona IGT, gradazione alcolica 9.5% Vol.: è una donna avventurosa e indipendente, che ama la natura e ha una laurea in scienze biologiche. Dedica la sua vita alla salvaguardia del Pianeta. E' un vino con qualche pretesa, piuttosto ruffiano soprattutto al naso. In assaggio bendato coi pari grado non sfigura.


Mr. Bubble, 100% Glera Veneto IGT, è un vino frizzante con gradazione alcolica 9.5% Vol.:
è un viveur che, usando il suo razzo a forma di lattina, ha battuto ogni record di velocità, tanto da guadagnarsi il nickname di “pilota del millennio”. Mi sembra decisamente il più debole dei sei vini.


Lady Blendy, Merlot e Cabernet Veneto IGT, gradazione alcolica 10.5% Vol.: è una gatta dalla doppia anima. Specializzata in meccanica e riparazioni, si prende cura degli altri e ama dormire. La notte si trasforma in uno spietato cacciatore di taglie. Organoletticamente è corretto ma eccessivamente commerciale, un vino per tutti i palati.


PJ White, 100% Pinot Grigio Terre Siciliane IGT, gradazione alcolica 10% Vol.: è l’anarchico del gruppo, il ribelle piantagrane. Pigro per natura, è convinto che tutti ce l’abbiano con lui. Passa le sue giornate ascoltando musica, suonando la chitarra e giocando ai videogame. E' nel bene e nel male esattamente quello che ti aspetti.


Cork Borg, 100% Moscato Veneto IGT, vino frizzante con gradazione alcolica 7% Vol.: è un robot a forma di cavatappi, costruito da un antenato di Dr. Corvinus. Il suo mestiere è assistere i più famosi sommelier della terra. La sua evidente mancanza di pretese lo rende coerente al tipo, un divertissement.


Conclusioni: fuori dallo snobismo, è un'operazione commercialmente interessante e, probabilmente, anche indice di un trend abbastanza netto. Non nel senso della novità in sè, ma il fatto che ci si investa con modo così deciso significa che il mercato potrebbe essere maturo. Sul piano puramente qualitativo, si tratta di prodotti ben fatti e dignitosi, spesso non peggiori di quelli di pari prezzo in bottiglia. Del resto, è chiaro che chi compra vini del genere lo fa con la leggerezza di chi non cerca bevute impegnative, ma anzi, col vino, acquista ciò che esso ha intorno: praticità, evasione, intrattenimento. La cosa più divertente? 

Prima la ricerca e poi l'assaggio comparativo alla cieca con vini comprati in GDO. Non si finisce mai di imparare.

Villa Dora - Lacryma Christi Bianco "Vigna Vulcano" 2008

Villa Dora da molti anni si dedica alla produzione di bianchi longevi, è stata la prima azienda campana ad organizzare la vendita in cassetta di più annate di Lacryma Christi, una vera e propria rivoluzione nel territorio vesuviano dove per secoli si è venduto il vino prima della vendemmia successiva per dissetare le mille osterie della grande città. 


Un progetto iniziato nel 2002 per la precisione e che si è affermato anno dopo anno. Questa etichetta, blend di Falanghina e Coda di Volpe, 
adesso curata dal bravo enologo lucano Fabio Mezza, è ormai una garanzia e sono numerosi i sommelier degli stellati che hanno messo questo Vesuvio da bere in carta.


Questo bicchiere non è esuberante, ma sottile e delicato, ha la 
straordinaria capacità di mantenere la freschezza tipica ed esuberante della Falanghina, avvolta nel naso piacevolmente fruttato della Coda di Volpe. Il suo nero di sabbia vulcanica si fa ben sentire nel finale amarognolo e, nel corso degli anni, con la straordinaria e incredibile evoluzione olfattiva che porta il bicchiere nell'inesplorato mondo dei sentori di idrocarburi e del fumè. 


Il risultato è dunque quello di un bianco esile ma longevo, un vecchietto che corre la maratona di New York, da abbinare assolutamente alla buona cucina di mare della Costa anche se noi preferiamo godercelo
piano piano smozzicando un latticino fresco dei vicini Monti Lattari. Una grande prova di forza, che ha fatto fare a Villa Dora della famiglia Ambrosio un deciso passo in avanti nella qualificazione della propria proposta.

Chartron et Trébuchet - Chablis 1er Cru Beauroy 2018


di Luciano Pignataro

Chartron et Trébuchet è una delle grandi firme di Famille Helfrich, a capo del gruppo Les Grands Chais de France.


Questo Chardonnay, 
vinificato e affinato sulle fecce in acciaio ci ha colpito per la freschezza floreale, il buon corpo, una beva immediata che fa subito finire la bottiglia.

Tenuta Fontana - Asprinio di Aversa DOC "Alberata" 2018


di Luciano Pignataro

La vite è pianta che ama maritarsi e di questa spiccata vocazione abbiamo quasi perso le tracce con la nascita della viticultura specializzata. Eppure, restano tracce incredibile di come questa pianta si sia adattata ad ogni condizione nel corso dei secoli, riuscendo a coprire un solo terrazzamento in Costiera amalfitana, oppure contribuendo all’agricoltura a due piani con la pergola.


Forse una delle espressioni più spettacolari è la vite maritata nell’Agro Aversano di cui esistono ancora pochissime ma spettacolari tracce, viti definite impropriamente ad Alberata mentre il termine tecnico preciso è piantata. Qui a farla da padrona è l’uva Asprinio, stretta parente del Greco di Tufo secondo recenti ricerche sul dna, un vitigno che molto probabilmente è stata gestita per la prima volta dagli Etruschi. Uno degli aspetti più interessanti della viticultura campana è proprio questo incrocio fra la tecnica etrusca e quella greca che si incontrarono/scontrarono nell’isola d’Ischia ma che si confrontarono lungo quasi tutta la regione perché le tracce etrusche sono ampiamente confortate dal Museo di Pontecagnano a Sud di Salerno e sicuramente si spinsero nella Piana del Sele in direzione di Paestum, lì dove poi i romani fissarono i confini amministrativi, fra la Campania Felix e la Lucania.


Ad Aversa le viti sono sostenute dai pioppi la cui altezza media si aggira fra i dieci e i 15 metri. Per vendemmiare p necessaria una vera e propria conoscenza della tecnica tramandata di generazione in generazione che tiene quasi sospesi i contadini su scale altissime. In queste zone, durante la formazione delle alte spalliere e durante i lavori di potatura secca, i tralci delle viti vengono sistemati in senso verticale in modo da formare un ventaglio aperto.

Alberata

Scrive W. Goethe nel suo "Viaggio in Italia": “Finalmente raggiungemmo la pianura di Capua…. Nel pomeriggio ci si aprì innanzi una bella campagna tutta in piano…. I pioppi sono piantati in fila nei campi, e sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti…. Le viti sono d’un vigore e d’un’altezza straordinaria, i pampini ondeggiano come una rete fra pioppo e pioppo”. Girando fra Aversa e Casal di Principe è ancora possibile godere di questo spettacolo.


Ecco dunque spiegato il fascino di questa beva, un vino decantato da Soldati nel suo Viaggio in Italia e da Veronelli che nasce da piante a piede franco sopravvissute grazie alle caratteristiche del suolo vulcanico. Parliamo di una azienda giovane perché l’imbottigliamento è iniziato solo ne 2009, ma di lunghissima tradizione familiare che risale almeno a cinque generazioni, la cui ultima è rappresentata da Mariapina e Antonio Fontana sostenuti dai genitori Raffaele e Teresa Diana. Azienda a cavallo tra l’Aversano e il Sannio, precisamente l’area del Fortore dove si coltivano aglianico, sciascinoso e falanghina mentre nell’Aversano ovviamente tutti gli sforzi sono diretti alla valorizzazione dell’Asprinio. La produzione è seguita dall’enologo fiorentino Francesco Bartoletti.

Asprinio

La fermentazione avviene in anfore di terracotta a temperatura controllata, a cui segue un affinamento, sempre in anfora, di sette mesi con permanenza sulle fecce fini e infine altri due mesi in bottiglia prima di entrare il commercio. La spericolata vendemmia avviene in genere alla fine di settembre o all’inizio di ottobre.


A distanza di quasi tre anni il bianco conserva la sua vibrante acidità, note agrumate di cedro e di miele al naso, beva spedita e fresca con un sottofondo amaro che chiuse lasciando il palato pulito. 
Una bella esperienza, un esempio di biodiversità da conservare e tutelare.

InvecchiatIGP: Tenute Rubino e il loro Primitivo IGT Visellio 2003


di Carlo Macchi

Sono convinto che Alice, quando si affacciò nel pozzo che la portò nel Paese delle Meraviglie, fosse meno sorpresa di me nel momento in cui mi sono affacciato al bicchiere dove avevo versato il primo sorso di questo stupefacente primitivo.
Ti aspetti ossidazione e alcol e invece trovi frutta matura bella concreta come prugna e ribes, accanto a fresche ma complesse note balsamiche, con liquirizia in prima fila.


Bocca rotonda ma viva, con la classica dolce pienezza dei “non tannini” vellutati del primitivo. Sorso dopo sorso il mio stupore aumentava come si moltiplicavano le sensazioni olfattive, che portavano verso il sangue e una solare macchia mediterranea.


Di fronte a cotanto vino e a tale sorpresa i miei occhi erano spalancati come quelli dello stregatto, il mio naso vibrava come quello del Cappellaio Matto dentro alla tazza di tè, la mia bocca era deliziata da questo vino che ad ogni sorso, come il fungo nella storia di Carrol, da una parte cresceva d’importanza e profondità e dall’altra rimpiccioliva nel bicchiere. Veramente un vino delle meraviglie!

Prezzo dell’annata in commercio sui 25 Euro.

Gini - Soave Classico La Froscà 2014


di Carlo Macchi

Chiamatelo Soave “base” del 2014 e da lì cominciate a salire e a stupirvi non solo per la freschezza ma per la pienezza del sorso e la profondità aromatica. 


La vendemmia 2014, accanto a tanta roba “da 2014” porta con sé un discreto numero di grandi vini. Questo è forse uno dei più sorprendenti. Chapeau!

Biodinamico "equiparato" al biologico: perché è una grande opportunità per tutti


di Carlo Macchi


Art. 1: La produzione biologica viene definita attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale. Il metodo di agricoltura biodinamica viene equiparato al metodo biologico nei limiti in cui il primo rispetti i propri disciplinari e i requisiti previsti a livello europeo per produrre biologico.

Questo è il primo articolo della normativa approvata il 19 maggio scorso e su queste parole si è scatenato un inferno mediatico che difficilmente è riuscito a far ragionare ma solo a far prendere posizione su due barricate diverse, che non hanno mai avuto l’opportunità e l’intenzione di comunicare se non a cannonate.


La cosa che, da non sostenitore della biodinamica e nello stesso tempo “fustigatore” della chimica nel vigneto, mi viene in mente è che queste poche parole siano non tanto un riconoscimento della biodinamica ma un modo per portare la biodinamica a ragionare con il settore enologico/scientifico (mi si passi il termine) più prossimo. In altre parole se un produttore biodinamico vuole i contributi non solo dovrà lavorare in regime biologico ma dovrà avere anche un ente certificatore che lo afferma, quindi sottostare a controlli che, volente o nolente, lo porteranno a confrontarsi con il mondo del biologico. 
Nello stesso tempo gli enti certificatori del biologico dovranno trovare un modo per convivere e per "creare ponti" con produttori che hanno idee e metodologie molto diverse per non dire agli antipodi.


Questi due mondi che si toccheranno potranno respingersi (ma non credo) o convivere. Prima magari da separati in casa ma in futuro potrebbero piano piano avvicinarsi e così far iniziare un dialogo che oggi, non so se per colpa di produttori o di accaniti e intransigenti sostenitori di questi mondi paralleli (i negazionisti della scienza e gli avvelenatori, tanto per usare termini con cui i due mondi si definiscono) non esiste.


Per questo vedo con piacere la scelta del legislatore, che però riuscirà ad essere propositiva solo se da una parte i produttori biodinamici e dall’altra gli enti di certificazione biologica faranno entrambi un passo avanti nell’ottica di progredire, di allargare i propri orizzonti e di arrivare a produrre vini “moralmente e fisicamente” migliori.

Chianti Classico Connection 2021 – Inno alla Gioia


di Augusta Boes

Dio salvi il Gallo Nero, la sua inventiva e la sua creatività!


E dopo la leggenda che lo vede protagonista determinante in una sfida tra Cavalieri nel Medioevo, il Gallo Nero quest’anno scrive una nuova e importante pagina nella storia del vino e del Chianti Classico perché riesce a portare il Made in Italy nel mondo sconfiggendo addirittura il malefico Covid-19. Adesso ditemi se anche questa impresa non entrerà a pieno titolo nella leggenda! E quindi, se il Mondo non può venire alla Casa del Gallo Nero, lui si industria, si attrezza, si organizza e parte alla conquista del Mondo pieno di buon vino e di tanto sano entusiasmo, perché il Mondo non debba mai restare senza Chianti Classico!


Ed è così che la storica rassegna Chianti Classico Collection, che ha sempre attirato addetti ai lavori e appassionati da tutto il mondo, quest’anno diventa Chiani Classico Connection e va in scena in 6 città di cinque paesi diversi: Chicago, Firenze, Londra, Monaco, New York e Tokyo in un incontro globale tra Produttori e Addetti ai lavori con webinar, masterclass, e degustazioni in presenza purtroppo ancora contingentate e solo su invito.


È la naturale evoluzione in un format che possa continuare ad essere di grande respiro internazionale anche in tempi di limitazione degli spostamenti e di restrizioni dovute alla pandemia, perché la produzione di Chianti Classico, tra Annata, Riserva e Gran Selezione, ha come sbocco principale il mercato estero per il 70%, con gli Stati Uniti che da soli ne assorbono il 33%. Ma non lasciatevi fuorviare troppo dalle statistiche e sappiate che i maggiori estimatori di questo grande vino continuiamo ad esse Noi, qui nel Bel Paese, con una domanda che assorbe il 20% della produzione totale, e se consideriamo che gli USA contano 328 milioni di abitanti e l’Italia 60, si fa presto a fare una botta di conti sul consumo medio pro-capite. Questo mi rincuora molto, e ancora di più il fatto che la domanda interna, così come quella globale, alla fine dei conti non abbia subito nessuna particolare contrazione durante la pandemia, nonostante la grave crisi del settore Ho.Re.Ca. Gli investimenti dei Produttori in e-commerce e in comunicazione B2C evidentemente sono stati molto efficaci e ampiamente ripagati.



Ma veniamo a noi, e a questa giornata di degustazione così diversa ma così ugualmente impegnativa ed emozionante. Il Consorzio ci ha ospitati in una cornice davvero suggestiva: il Chiostro Grande del Museo di Santa Maria Novella. Tavolini opportunamente distanziati, un software semplice ed intuitivo per gli ordini dal catalogo delle etichette presenti, e l’efficienza dei sommelier di sala, hanno consentito una degustazione davvero proficua e in assoluta sicurezza. Ci è piaciuto questo format? Ci è piaciuto perché ci ha consentito di assaggiare tante ottime bottiglie con concentrazione e tranquillità, in un contesto dove ha parlato esclusivamente il vino. Ci è mancato tanto il contatto e il colloquio con i Produttori però, che non erano presenti per ovvi motivi; ci è mancato il confronto con amici e colleghi, il loro contagioso entusiasmo e la loro allegria che rendevano l’aria così elettrizzante e piena di energia positiva. Ci sono mancate in sinesi le luci della ribalta che hanno sempre contraddistinto questa manifestazione rendendola sempre così squisitamente glamour!


Anche in questo caso però c’è da dire che l’inventiva del Gallo Nero è stata arguta e ammirevole; era difatti possibile chattare con i produttori volendo, prenotare incontri digitali con loro nonché visite in cantina. Devo ammettere che non ho usufruito di questo servizio perché non amo particolarmente la comunicazione virtuale. Personalmente in questi casi il contatto umano, l’essere vicini guardandosi negli occhi, sono cose che per me assumono una importanza imprescindibile: dopo tutto il vino è principalmente convivialità, e quanto era bello far festa tutti insieme! E così la parola resta esclusivamente ai calici che raccontano una annata, la 2019, che in una solo parola definirei Gioiosa! Calici intensi, profumati, giustamente scalpitanti e in linea con una esuberante giovinezza. Cavalli di razza che sfilano con armoniosa eleganza, ognuno con il suo stile ma tutti con la voglia e l’ardire di diventare grandi campioni. Per non parlare delle Riserve e Gran Selezioni, lì c’è poco da ardire, il sorso già appare disteso ed eloquente; la scelta consapevole di produrre qualità non è solo uno slogan, ma un impegno serio e appassionato che restituisce i suoi frutti alzando di anno in anno l’asticella dell’eccellenza.


Non è mia abitudine fare la lista dei miei dieci assaggi migliori, lascio ai colleghi più esperti e titolati di me l’arduo compito, anche perché avrei difficoltà a identificare l’undicesimo, il dodicesimo e così via. Vorrei però menzionare una etichetta, una sola, già menzionarne due sarebbe un torto a tutte le altre. Non sarà forse stata la più buona, ma è certamente stata la bottiglia giusta al momento giusto, il mio penultimo assaggio dopo una lunga giornata in cui hanno predominato la forza, i muscoli e l’esuberante giovinezza del sorso; ecco questa è stata una vera coccola, una carezza, un dolce rifugio.


Fattoria di Lamole – Chianti Classico Gran Selezione "Antico Lamole Vigna Grospoli" 2016 (100% sangiovese bio)

Meraviglioso! Una poesia in versi liquidi, una emozione profonda, così avvolgente, morbido, ampio ed equilibrato, con un bouquet didascalico di viola mammola, amarene, piccoli frutti rossi e dolcezza ematica, impreziosito da spezie dolci, arancia amara, e persistenti note balsamiche di erbe aromatiche.


Concludo con l’ultima grande novità dell’ingegnoso Gallo Nero, una novità che consentirà a tutti di poter progettare e realizzare la propria personalissima esperienza enogastronomica, culturale e artistica in questo meraviglioso angolo di paradiso tra Firenze e Siena. È la Chianti Classico Card, un vero e proprio passe-partout nel mondo del Gallo Nero; acquistandola si potrà di fatto scegliere fra le oltre 100 offerte delle Aziende vitivinicole che hanno aderito al progetto, visitare le Cantine, degustare i prodotti a marchio Gallo Nero, e godere degli innumerevoli tesori dell’Arte di cui questo territorio è ricchissimo. E allora tutti in Chianti Classico questa estate, con o senza mascherina poco importa, ma pieni di entusiasmo e voglia di riscoprire e di vivere appieno questo meraviglioso gioiello tutto italiano.

InvecchiatIGP: Montecappone - Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Riserva Utopia 2008


di Roberto Giuliani

Non posso nascondere di avere un debole per i vini di Gianluca Mirizzi, che si tratti di bianchi o di rossi non fa alcuna differenza. Mi mancava però l’occasione di assaggiare un suo Verdicchio che avesse un po’ di anni sulle spalle, qualcosa che potesse confermare ulteriormente le impressioni estremamente positive che gli ho sempre elargito.


Bene, l’occasione è arrivata con la nuova rubrica InvecchiatIGP, che insieme a Lorenzo Colombo, Carlo Macchi, Luciano Pignataro, Andrea Petrini e Stefano Tesi, alias Garantito IGP, abbiamo deciso di dedicare ai vini “vecchi” che ci hanno maggiormente sorpreso. 

Arrivato il mio turno, non ho potuto fare a meno di pensare all’Utopia di Montecappone, sicuro che Gianluca potesse mandarmi qualcosa di interessante, infatti così è stato. Premetto una cosa, l’Utopia (il nome è già chiarificatore) è la realizzazione di un sogno, di un’idea di Verdicchio che raccontasse al meglio le potenzialità dei vigneti che dimorano sulle colline dei Castelli di Jesi, per fare questo Gianluca non ha voluto chiedere il supporto del legno, ma ha usato solo il cemento, per un anno, al fine di preservare al massimo tutte le caratteristiche di quest’uva straordinaria.


Il 2008, uscito nel 2010, è un’illuminante testimonianza di utopia realizzata, con il suo colore oro intenso e luminoso e i profumi di frutta candita e secca ma dal timbro fresco, non da vino passito, parliamo di albicocca, pesca, ananas sciroppato, c’è anche un piacevole richiamo alla giuggiola, all’arancia candita, poi venature di nocciola, pietra focaia, sensazioni iodate, fiori macerati. Al palato, a occhi chiusi, potresti pensare a un bianco di 4-5 anni, non certo di 13, perché quella base acida che lo sostiene rende il frutto vivo, non dolciastro, addirittura più fresco che al naso, mentre il corredo minerale e le note di nocciola e mandorla accompagnano un finale lungo, intenso e sapido.


Un grande bianco marchigiano, che conferma quanto ci sarebbe bisogno di trovare vini del genere al ristorante, con i quali si contribuirebbe a demolire quella convinzione ancora troppo diffusa che i vini bianchi italiani siano buoni solo da giovani.

Il Portichetto - Barbera d’Asti Superiore "I Tartufi" 2011


di Roberto Giuliani

Perso nei ripiani della cantina, trovo questo vino acquistato 7 anni fa, prodotto da un’azienda agrituristica di San Damiano d’Asti e maturato in botticelle. 


Un coup de coeur, esprime tanto frutto appena maturo e un corpo dove la freschezza della Barbera c’è tutta, ed è stata la sua arma vincente.



Tenute Salentine - Primitivo di Manduria 76 Monete 2017


di Roberto Giuliani

Il Primitivo di Manduria è una doc pugliese che abbraccia le province di Taranto e Brindisi; la parte del leone però la fa Taranto, infatti i comuni coinvolti sono be 15: Avetrana, Carosino, Faggiano, Fragagnano, Leporano, Lizzano, Manduria, Maruggio, Monteparano, Pulsano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico, San Marzano di San Giuseppe, Sava, Torricella e la frazione di Talsano e delle isole amministrative del comune di Taranto, intercluse nei territori dei comuni di Fragagnano e Lizzano; mentre nel brindisino la denominazione si sviluppa nei comuni di Erche, Oria e Torre Santa Susanna.

L’azienda Tenute Salentine, dei fratelli Mario e Francesco Marinelli, si trova a Carosino (TA) e si avvale della consulenza dell’enologo Fabio Mecca, uno dei più esperti dell’area centro-sud italiana, e questo 76 Monete 2017 è uno dei vini che mi ha maggiormente colpito, maturato in legno nuovo per un anno.


Ha colore rubino profondo, praticamente impenetrabile, trama olfattiva fitta, si sentono forti note di carruba, marasca, amarena, mora, prugna, mirtillo, poi pepe nero, tabacco, cacao, liquirizia, vaniglia, noce moscata, fiori appassiti, leggero idrocarburo. 
Bocca inevitabilmente generosa, ma capace di nascondere molto bene i 15 gradi alcolici, nonostante sia un vino intenso e potente, non appesantisce il sorso grazie a una buona base acida che dà slancio alle sensazioni.


Un Primitivo di carattere, a tratti austero eppure morbido e avvolgente, che chiama piatti altrettanto intensi come le bombette ripiene, i cui ingredienti base sono la carne di maiale, il formaggio e il pepe, ma ci sono infinite varianti più o meno saporite. Altrimenti puntate direttamente al cinghiale, quello vero, non incrociato, le cui carni scure e dal gusto selvatico, insaporite con le spezie, si esaltano al massimo con un vino come questo.

Alla scoperta della Lacrima di Morro d'Alba!

Il quarto appuntamento di Studio Marche, in collaborazione con l’Istituto Marchigiano di Tutela Vini, si tinge di nuovo di rosso attraverso un approfondimento della Lacrima di Morro d’Alba DOCCon una superficie vitata di 258 ettari, la Doc ritaglia il proprio areale nella provincia di Ancona e comprende i comuni di Morro d'Alba, Monte S. Vito, S. Marcello, Belvedere Ostrense, Ostra e Senigallia, ad esclusione dei fondi valle e dei versanti collinari di Senigallia rivolti verso il mare.


Questo vino si ottiene da un vitigno autoctono antico, il Lacrima, il cui nome deriva dal fatto che la buccia dell’uva, quando arriva al punto di maturazione, si fende, lasciando gocciolare, lacrimare, il succo contenuto. 
Tradizionalmente maritato all’olmo e all’acero, non si ha conoscenza da quando il vitigno Lacrima iniziò ad essere coltivato in quella che è la sua attuale area di elezione, ma sappiamo con precisione che la sua importanza e i suoi pregi erano già ben noti nel territorio regionale nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Infatti, nel volume “La esposizione ampelografica marchigiana-abruzzese tenuta in Ancona il settembre 1872 e studi sulla vite e sul vino della provincia anconitana” pubblicato nel 1873 è già inserita la descrizione del vitigno Lacrima che troviamo menzionato, come uno dei tre vitigni più coltivati nelle Marche, anche nel primo volume dell’Ampelografia italiana, pubblicato a Torino nel 1879, a cura del Comitato Ampelografico Centrale.

Il vitigno

Il Lacrima è un vitigno non facile coltivazione a causa della notevole precocità di germogliamento ed è per questo che nel corso del tempo, soprattutto dopo la secondo dopoguerra, ha visto un periodo di contrazioni delle sue superfici e solo attorno alla metà degli anni ‘80, grazie al rinnovato interesse di un piccolo gruppo di produttori, si è cominciato di nuovo a valorizzare questo vino tanto che, nel 1985, si è ottenuto il riconoscimento della denominazione d’origine controllata “Lacrima di Morro” o “Lacrima di Morro d’Alba” che a sua volta ha dato ulteriore impulso allo sviluppo del territorio e al perfezionamento delle tecniche di gestione dei vigneti e di vinificazione delle uve.

La DOC Lacrima di Morro d’Alba è riferita a 3 tipologie di vino ottenuto con almeno l’85% di uve Lacrima:

- Lacrima di Morro d’Alba

- Lacrima di Morro d’Alba Superiore

- Lacrima di Morro d’Alba Passito

Ultima curiosità prima di passare alla degustazione dei sei vini: la buccia dell’uva Lacrima ha uno spessore notevole, il che, in fase di macerazione, fa sì che la cessione di antociani, tannini e sostanze coloranti, sia enorme. In particolare, tra le sostanze aromatiche, viene rilasciata una grande quantità d geraniolo che conferisce il classico odore di rosa attribuito al vino.


Lucchetti - Lacrima di Morro d’Alba DOC “Fiore” 2020
: l’azienda Agricola Lucchetti è una famiglia di vignaioli che ha fortemente creduto nella viticoltura indigena tanto che oggi, guidata da Paolo e Loretta, coltivano, in maniera biologica, 30 ha di vigneto solo a lacrima e verdicchio. Il vino, l’unico con tappo a vite, è un compendio di come deve essere un buon Lacrima di Morro d’Alba appena svinato ovvero una spremuta alcolica di rosa e frutti rossi. Sorso diretto, brioso, che sa di festa e domenica con gli amici accanto a del buon ciauscolo.


Conte Leopardi Dittajuti - Lacrima di Morro d’Alba DOC 2020
: l’Azienda Agricola Conte Leopardi Dittajuti oltre ad essere una dei maggiori produttori di Rosso Conero DOC, produce anche piccole quantità di Lacrima di Morro D’Alba come questo che ho nel bicchiere che vanta un ventaglio aromatico di rosa, geranio, frutti di bosco in composta, pepe rosa su sfondo vinoso. Fresco e beverino.


Tenute Cesaroni - Lacrima di Morro d’Alba DOC “Le Barbatelle” 2019
: la Tenuta Cesaroni è un’azienda a conduzione familiare con vigne che baciano il Trabocco, una piccola cascata naturale che appartiene ad un presto promosso Parco Nazionale. Naso ancora giovanissimo, giocato su note di ciclamino, rosa, lampone e noce moscata. Il palato è di pregevole freschezza, con i tipici aromi varietali che ritornano in chiusura.


Moncaro - Lacrima di Morro d’Alba DOC Superiore “Gaudente” 2019
: l’azienda cooperativa, che oggi gestisce oltre a 1.200 ettari di vigneti nelle aree a più alta vocazione viticola della regione, si propone in degustazione con questo interessante Lacrima di Morro D’Alba Superiore che inizia a farci capire le reali potenzialità di questo vino in termini di complessità aromatica. Infatti, il bicchiere nel corso del tempo si esprime su eleganti ed intense note floreali di iris, rosa e sentori fruttati lampone, more, mirtilli, ciliegia in confettura a cui seguono bagliori speziati. Morbido e carnoso, regala un sorso pieno e suadente e di grande persistenza fruttata.


Stefano Mancinelli - Lacrima di Morro d’Alba D.O.C. Superiore 2018: quando il Lacrima non era di moda e la superficie vitata era forse 1\20 di quella attuale, Stefano Mancinelli era l’unico a puntare sul vitigno in purezza tanto che nel 1985, all’epoca del riconoscimento della DOC, l’azienda possedeva quattro ettari sui sette totali. Dei tanti Lacrima di Morro d’Alba prodotti dall’azienda, tra cui un metodo classico, questo Superiore si fa apprezzare per trillante nota floreale di rosa e viola, seguita da un cesto succoso di more, mirto, rabarbaro e pepe rosa. In piena corrispondenza, il palato si sviluppa elegante, fresco, dinamico, per nulla intralciato da tannini filigranati, deliziando con dissolvenza sapido-amaricante di radice di liquirizia e confettura di frutti di bosco.

Marotti Campi - Lacrima di Morro d’Alba D.O.C. Superiore “Orgiolo” 2017: la Marotti Campi nasce dalla fattoria di famiglia di metà ‘800 e solo nel 1999, dopo aver coltivato la vite per generazioni, si è deciso finalmente di costruire una cantina moderna per vinificare le proprie uve da 70 ettari di vigneto dove vengono coltivati solo verdicchio e lacrima. L’Orgiolo è il loro Lacrima di Morro D’Alba da lungo affinamento e infatti la 2017 è l’ultima annata in commercio. Il vino, dopo tre anni di affinamento, esprime totalmente le potenzialità evolutive del Lacrima, smussandolo della carica aromatica giovanile che viene sostituita da sensazioni più eleganti ed austere dove ritrovo la carruba, il caffè in grani, gerle di petali di rosa appassita, noce moscata ed erbe aromatiche. Al sorso è slanciato, teso, avvolgente, ben delineato nel tannino e dalla chiusura sapidamente accattivante.



Azienda Agricola Uccellaia - Rosso dell'Uccellaia 2006


di Andrea Petrini

La ricerca di un “buen retiro” per staccare dal caos cittadino, ma anche un luogo dove coltivare le proprie passioni come allevare i cavalli oppure produrre e bere buon vino secondo le ancestrali regole contadine.


Così può iniziare la storia di
Chicca Baroni Nicoletti e suo marito che nel 1977, tra i colli della Val Nure, precisamente ad Albarola di Vigolzone (PC), scoprono e si innamorano di questo angolo di terra di 15 ettari, circondato da boschi di castagni e robinie, 8 dei quali coltivati a vigneto.


Da quel momento, e fino al 1998, l’attività principale dell’azienda agricola, chiamata Uccellaia visti i tanti volatili che nidificavano nei dintorni, è stata l’allevamento dei cavalli da sella, ma c’è un filo invisibile che lega i cavalli di ieri ai vini di oggi che prende forma e sostanza a partire dal 1998 quando i Nicoletti, grazie alla coltivazione di vigneti già presenti (dal 2002 a conduzione BIO), producono il loro primo vino, il Rosso dell’Uccellaia che, dal 2007, porta il nome di uno dei cavalli più belli e importanti del loro allevamento: Inventato. Nome particolare, vero? Già, perché se il cavallo a cui si fa riferimento è un incrocio abbastanza inusuale tra una fattrice purosangue e uno stallone hannover, anche questo Rosso, blend di merlot (55%) e barbera (45%), è frutto di un uvaggio fuori dai soliti schemi soprattutto se facciamo riferimento al territorio dei Colli Piacentini.


Durante questo periodo di pandemia, grazie al mio amico e sommelier Giuseppe Esposito, che ha organizzato la diretta via Zoom, ho avuto la fortuna di incontrare on-line Giulia Nicoletti, figlia di Chicca, con la quale, assieme a tanti altri appassionati, ho avuto la fortuna di degustare, per la prima volta, il Rosso dell’Uccellaia 2006.


Prima di entrare nel merito della degustazione e svelarvi le emozioni gustative, una breve nota tecnica per inquadrare il vino: la fermentazione del Rosso dell’Uccellaia, e poi dell’Inventato, avviene con lieviti autoctoni e la macerazione delle uve dura circa un mese, bucce e mosto rimangono a contatto durante e dopo la fermentazione alcolica. In questa fase quotidianamente si rimescola il cappello di vinacce eseguendo rimontaggi e follature, operazioni cruciali per estrarre le sostanze presenti nelle bucce come antociani, polifenoli e tannini. Invecchiamento e maturazione avvengono in barriques di rovere francese di secondo e terzo passaggio per circa 12 mesi.


La scelta di iniziare la rubrica InvecchiatIGP con il Rosso dell’Uccellaia 2006 è dovuta sostanzialmente alla sorpresa di incontrare e degustare un rosso dei Colli Piacentini, cosa non proprio scontata (!!), così vivo, elegante e complesso dopo 15 anni dall’annata di produzione.


La longevità di questo Rosso, che affonda le sue radici all’interno di un mix di struttura e acidità, caratteristiche fornite anche dal terreno di argille rosse dove sono piantate le vigne, è evidente appena si mette il naso nel bicchiere dove si percepisce la vorticosa profondità giocata su due piani diversi, uno pulsante, estroverso, veicolato dall’alcol (rosolio, essenze di rosa e viola, terra rossa, brace) e l’altro di bacche rosse aspre e selvatiche, scolpito dalla vibrante freschezza. 


Il congegno funziona anche al gusto, in cui un tannino abbondante ma ben domato dal tempo accompagna il degustatore verso un’uscita espressiva e lunghissima di aromi fruttati a cui fa eco, in fondo, una vena minerale di abbagliante chiarezza.

Arriva InvecchiatIGP!


 Domani parte una nuova rubrica che abbiamo chiamato InvecchiatIGP



No, non ci riferiamo ai problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile) perché stavolta il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. 

Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe e cercando di non tralasciare nessuna tipologia. All’interno di InvecchiatIGP, infatti, troverete la descrizione di spumanti metodo classico e vini bianchi con almeno 5 anni sulle spalle, i rosati con 3 mentre per i rossi andremo a considerare una gittata temporale di oltre 10 anni. Sarà un bellissimo viaggio nel tempo dell’enologia italiana che speriamo di fare assieme a voi, cari lettori di Garantito IGP!

Cascina Ca’ Rossa – Roero Riserva “Mompissano” 2017


Di Andrea Petrini

Il concetto di vino di Riserva in questo caso non ha i classici connotati di un nebbiolo denso ed impattante ma di un vino brillante che sembra danzare sulle punte donando purezza floreale ed agrumata.


Un vino fatto di luce liquida che fa di noi degli esseri diversi e sospesi (cit.).