L'Enoteca Ristorante Tre Cristi a Siena - Garantito IGP

Lo ammetto e chi mi conosce lo sa bene: amo i ristoranti rassicuranti, dove trovi quella sobrietà familiare, quasi domestica, che solo gli ambienti a lungo frequentati, o contraddistinti da uno stile pacato, poco chiassoso, quasi che una patina d’antico li avvolgesse come un vecchio mobile di casa sopravvissuto a tante generazioni, sanno dare. Senza rinunciare tuttavia alla frusciante, disinvolta, sottaciuta, mai luccicante eleganza che distingue certi locali dalla più spartana trattoria.


Uno di questi è Tullio ai Tre Cristi, storico locale senese nascosto tra i vicoli umbratili del centro storico. E impregnato di una senesità tutta sua, molto novecentesca, neogotica perfino. Non solo e non tanto nello stile architettonico, che con le sue volte e i suoi affreschi pure fa la sua parte, ma soprattutto nell’aria che vi si respira, nei tavoli spargoli, nelle geometrie di certi impiantiti, in certi dettagli.


Ma Tullio ha anche un’altra virtù: pur essendo un ristorante tradizionale in tutti i sensi, e quindi fortemente rispettoso della cucina locale, non cade nella trappola che in città si direbbe – mutuando un gergo usato in storia dell’arte – “da incarto del panforte”. Tradotto, significa che il ristorante propone sì piatti territoriali, a volte diciamo pure tipici, ma mai in versione caricaturale, mai così ovvi da essere prevedibile fino a quell’oleografia che invece, a Siena, purtroppo si riscontra spesso. C’è invece una toscanità misurata, palpabile, meno popolare e più signorile, quasi sempre ingentilita, a sorpresa, da tocchi mediterranei, che stemperano la consistenza delle portate senza indebolirle. Tipo i pici al ragù di maialino con finocchietto e la tagliata col tartufo bianco. Ma soprattutto c’è il capitolo pesce, un verbo che per tradizione ai Tre Cristi coniugano benissimo non solo in carta, con una scelta contenuta ma sempre affidabile. E’ sul pescato del giorno che quasi sempre si va sul sicuro e vale sistematicamente la pena di fidarsi dei consigli del maitre.


Il tutto accompagnato da una cantina profonda e da un servizio puntuale, quasi impercettibile, che ti lascia godere di certi scorci dove immagini di condividere la sala con librai, antiquari, mercanti d’arte, notabili di una Siena signorile che forse non c’è più, ma ci fu. Conto sui 50 euro più i vini.


Tre Cristi
vicolo di Provenzano 1/7, Siena
Telefono: 0577 280608
chiuso domenica

Arpepe - Valtellina Superiore Sassella DOCG “Ultimi raggi” 2009


In montagna il gusto del nebbiolo ci guadagna. Vabbè, battute scontate a parte questo 2009 conquista il palato per la finezza, tanto che parlare di surmaturazione sembra un ossimoro. 


Ma così è per un'annata difficile a quota 600 sotto le Alpi. Finezza, eleganza, una beva fresca, tannini setosi e la voglia di finire la bottiglia. Arpepe è sempre una garanzia!

www.arpepe.com

Rocca del Principe - Fiano di Avellino 2010

Il Fiano di Avellino 2010 di Rocca del Principe rappresenta il bianco di una azienda perfetta di un'annata perfetta nel comune perfetto provato dopo dieci anni. Prima o poi questa bottiglia si doveva stappare e, come capita subito dopo che hai venduto un'azione, ti penti perchè il prezzo continua a salire. 


Siamo a Lapio, un piccolo comune della provincia di Avellino in continuo calo demografico da 70 anni. Un tempo le sue colline a 500 metri sul livello del mare, erano coperte da una coltre di neve in inverno e avvolte dalla nebbia per gran parte dell'anno (le ricordiamo le prime visite negli anni '90 dove ogni curva era un'avventura) mentre adesso, con il riscaldamento globale, le cose sono cambiate progressivamente, e irrimediabilmente, a partire dal nuovo millennio e la 2010 è quella che si può definire un'annata calda, anche se molto ben equilibrata dalle piogge arrivate nei momenti giusti e da una primavera non afosa.
Mariarita, Martina e Simona sono giovani e molto probabilmente avrebbero abbandonato anche loro il paese come hanno fatto tanti loro coetani se ne 2004 i loro genitori, Ettore e Aurelia, non avessero deciso di iniziare ad imbottigliare le uve che prima vendevano a terzi realizzando un guadagnano sempre più magro. Sette ettari sparsi in cinque vigneti nella mitica contrada Arianello, Lenze e Tognano che da il nome al cru aziendale, dai quali escono 35mila bottiglie.

La famiglia al completo

Lapio è terra di confine, qui le vigne sono DOCG sia per il Fiano che per il Taurasi. Lo spettacolare ponte in ferro costruito alla fine dell'800 è il simbolo di una modernità servita soprattutto a portare il vino sulla mitica ferrovia Rocchetta-Avellino negli anni '20 e '30 del secolo scorso durante la fillossera quando l'Irpinia, e l'attiguo Vulture, divennero due impressionanti distretti vinicoli perchè la malattia delle piante non aveva attecchito, decidendo di arrivare tardivamente insieme alla guerra del Duce.
La fortuna e la sfortuna sono spesso due facce della stessa medaglia, per le comunità come per gli uomini si alternano in un lampo e, finita la guerra, queste zone si ritrovarono senza vigne e iniziò la seconda emigrazione: nel 1951 Lapio poteva vantare quasi tremila residenti, poi tutti i contadini diventarono operai del Nord o minatori in Belgio. L'agricoltura rimase per autoconsumo, per i più un reddito integrativo di chi era rimasto riuscendo a trovare un posto pubblico o a crearsi una professione. Dalla terra si fuggiva, ci si vergognava addirittura.


A Lapio si coltivava soprattutto aglianico e furono i fratelli Antonio e Walter Mastroberardino ad intuire le "potenzialità bianche" di questo territorio subito dopo il terremoto del 1980 e a spingere con i bianchi da Fiano custoditi in bottiglie renane che ancora oggi stupiscono per la loro energia quando vengono stappati.
Negli anni '90 cala il prezzo delle uve e alcuni conferitori diventano produttori. Produttori famosi grazie alle guide come Clelia-Romano Colli di Lapio in questo paese, Caggiano e Molettieri per il Taurasi, Benito Ferrara per il Greco di Tufo. Dopo la prima ondata di metà decennio, esattamente dieci anni dopo, complice l'euro, la crisi del mercato americano dopo la tragedia delle Torri Gemelle, una nuova ondata di conferitori decise di iniziare ad etichettare per difendere in qualche modo il proprio reddito. A Lapio si arrivano a contare circa dieci nuove aziende in poco tempo. Il territorio cresce e proprio il Fiano, ma anche in qualche modo il Taurasi qui sempre elegante e fine, diventano l'unico motivo per restare a vivere all'ombra del Castello dei potenti Principi Filangieri che, come tutta l'aristocrazia meridionale, ha succhiato il sangue ai contadini del Sud per costruire i palazzi con i più alti portoni d'Europa a Napoli.


Oggi Simona si è laureata in Enologia e proprio quest'anno ha firmato interamente la sua prima vendemmia. Quella che invece beviamo comodamente seduti nel Buco di Sorrento, lo stellato democratico di Peppe Aversa, è firmato da Carmine Valentino che ha accompagnato la famiglia in questo percorso dalla vigna alla bottiglia.


Non temiamo più il passare del tempo quando stappiamo un bianco campano, Falanghina e Fiano evolvono in maniera straordinaria rivelando alla fine il fumante e irrequieto suolo vulcanico su cui vive il più grande accampamento umano protocapitalista d'Europa. Il Greco sui tempi lunghissimi affanna, ma se mantiene la freschezza diventa una laurea in mineralogia. 


Pensavamo di trovare dopo dieci anni idrocarburi a go go in questa bottiglia, invece escono, perfetti, i frutti bianchi maturi del Fiano, la mela soprattutto, note di zafferano, un piacevole rimando fumè non omologante che esalta invece il fruttato. Un vino carico di energia, in cui l'acidità è ancora scissa e regala una beva veloce e vibrante, fino a un finale lungo, lunghissimo, con una nota amara tipica di questi vini che ripulisce perfettamente il palato. Un bianco tonico e ricco di energia che ci tiene aggrappati al presente senza farci neanche viaggiare nel tempo.
Dieci anni cosa sono nei tempi lunghi della viticultura? Nulla, se non pensare che questo bianco convenzionale è più sincero di tanti "naturali". Non è vino, è un Fiano!!!

Rocca del Principe, Contrada Arianello, 9. Tel. 0825.982435. www.roccadelprincipe.it.

Selvapiana - Chianti Rufina 2018

di Carlo Macchi

Un sangiovese che mostra il garbo vellutato di annate più calde senza derogare al suo carattere austero. Profumi classici, nettissimi e complessi. 


Mi ha fatto esclamare: “Ma come è buono!” Questo Chianti Rufina più che la quadratura del cerchio è la rotondità del quadrato, venduto a prezzo troppo basso.

Monterotondo: il Chianti Classico ha una nuova luce - Garantito IGP

di Carlo Macchi

I confini disegnati dagli uomini sono per definizione soggettivi, mentre quelli tracciati da madre natura risultano invece profondi e reali. In molti casi Quest’ultimi sembrano parlare agli uomini, consigliandoli o sconsigliandoli a superarli. L’uomo può poi decidere come vuole, spesso a suo rischio e pericolo.
Lo pensavo mentre le curve che da Gaiole in Chianti portano, serpeggiando sui monti chiantigiani, verso Monterotondo, non facevano altro che mostrarmi bosco, bosco e ancora bosco. Come può nascere il vino tra boschi secolari, ad altezze che (attorno ai 600 metri) in passato portavano a vendemmiare a novembre o oltre?
Poi la strada ha pensato di darsi e darmi un po’ di respiro, il bosco ha bonariamente ceduto il passo ai prati e, tornato a riveder il cielo, sono approdato tra le soleggiate vigne di Monterotondo.


Soleggiate ma appunto tra i 550 e 570 metri e qui la viticoltura, il sangiovese, il Chianti Classico sono figli non di un dio minore ma un dio diverso, che trasforma le annate calde in una manna dal cielo e quelle fresche o piovose in una prova dura da superare.
Saverio Basagni e sua moglie Fabiana non sembrano certo persone che vogliono contrastare i diktat della natura, ma se ti ritrovi con un podere di famiglia in un posto difficile ma meraviglioso come fai a non farti venir voglia di continuare a fare vino?
Siamo praticamente sul crinale dei monti del Chianti, sulla strada che sta iniziando a scendere verso la valle dell’Arno e quindi, in un certo senso, volta le spalle al territorio chiantigiano ma in realtà lo guarda dall’alto.
I loro pochi ettari di sangiovese e di altre uve autoctone (Saverio non crede nel monovitigno e sinceramente non posso dargli torto) portano a vini che rischiano di vedersi appiccicata l’etichetta di “territoriali”. In realtà li definirei più “di montagna” anche se dal 2015 Saverio sembra aver “abbassato le montagne”.


La doppia degustazione del Chianti Classico Vaggiolata (dal 2010 al 2017) e della Riserva Seretina (dal 2010 al 2016 senza la 2014 non prodotta), entrambi provenienti da singoli vigneti e con uvaggi leggermente diversi, ci ha presentato un quadro preciso ma interpretabile in maniera diversa, in entrambi i casi però con il 2015 come anno spartiacque. Ma prima dello spartiacque gli uvaggi: il chianti classico è 85% sangiovese, 10% canaiolo e 5% malvasia nera, mentre la riserva è praticamente tutto sangiovese con un 5% di malvasia nera. Torniamo alla degustazione durante la quale si sono creati due “fazioni”.


La prima vedeva nei vini fino al 2015 un’espressione “rispettabilmente antica”, magari in qualche caso bonariamente rude nel tannino, ma austera e avvincente, con Chianti Classico espressivi ma non facili, specie nei primi anni in bottiglia; nelle annate successive notava invece uno sviluppo verso complesse rotondità (l’abbassamento delle montagne sopra accennato) più moderne, non certo facili da ottenere e ancora in parte da digerire.
La seconda invece archiviava con rispetto le sottigliezze dei vini fino al 2015 per accogliere le ultime annate come un reale e concreto passo in avanti. In effetti dal 2015 Saverio ha iniziato ad usare legni più grandi (anche se non ha mai usato barrique) dai 20 ai 30 ettolitri e soprattutto a prolungare le macerazioni, “alla piemontese” si potrebbe dire, che oggi ormai si protraggono anche oltre i 100 giorni.
In vigna, gestita in maniera razionale con attrezzature semplici ma perfettamente adatte allo scopo, si punta a ottenere una completa maturazione fenolica, non facile a queste altezze ma con il vantaggio che anche vendemmiando attorno alla metà di ottobre la gradazione alcolica non sfugge mai di mano.


Da un punto di vista personale ho apprezzato molto annata e riserva 2010, dotate di una finezza setosa e profonda, il 2014 annata (da premiare visto l’andamento climatico) la Riserva 2016 rotonda e completa, figlia di una vendemmia come se ne vorrebbe ogni anno. Ma soprattutto mi è piaciuto il 2018 ancora in botte. Il Chianti Classico 2018 è una solare farfalla figlia di varie “annate-bruco”, nasce cioè dall’esperienze delle vendemmie fino alla 2014 e dai cambiamenti maturati nel 2015, 2016 e 2017. E’ dotata di frutto, freschezza e finezza, nonché rotonda, consistente e suadente tannicità. Sul 2018 le due scuole di pensiero si sono trovate completamente d’accordo ma io credo che ancora il meglio di Saverio debba arrivare perché ho percepito in lui una “pericolosa” voglia di migliorarsi che non guarda in faccia a nessuna richiesta o tendenza del mercato.


A proposito di mercato: per proporre oggi un bianco chiantigiano da trebbiano e malvasia ci vuole un coraggio da leoni: lo stesso che occorre per, una volta assaggiato, non berne una bottiglia da soli. Trebbiano e malvasia saranno vitigni poco glamour, ma anche questi nascono dove il Chianti Classico si guarda dall’alto e la differenza si vede.

Masone Mannu - Cannonau di Sardegna Zòjosu 2015

Da un vigneto in Località Su Canale nel comune di Monti (SS), un cannonau da agricoltura biodinamica che matura esclusivamente in acciaio. 


Profumo netto di ciliegia matura, lentisco ed erbe mediterranee; bocca morbida e fresca, succosa, piacevolissima nonostante i 15 gradi. Con dei Maccarones al ragù

L'Orange Wine di Claudio Fenocchio si chiama Anima Arancio - Garantito IGP



di Roberto Giuliani

Siamo in Langa, in uno dei comuni di punta del Barolo, a Monforte d'Alba, dove dimora un'azienda che ha oltre 150 anni di storia. Come spesso accade le generazioni che si susseguono portano idee nuove, cercano di lasciare un segno del loro passaggio attraverso percorsi innovativi.
Claudio Fenocchio non è più un "ragazzo", anche se forse nell'animo mantiene una gran voglia di crescere e migliorare, perseguendo strade che non hanno nulla di azzardato ma segno di una sobrietà che solo anni di esperienza in vigna e cantina ti possono conferire.

Cosa accomuna ad esempio il Barolo Bussia "90 dì" Riserva e l'Anima Arancio? Il lavoro sulla macerazione, che in un certo senso sembra più un ritorno alle origini, ma con le conoscenze di oggi. Tornare a macerare il nebbiolo per un periodo così lungo nasce dalla consapevolezza che questa pratica ha un senso, fornisce una serie di valori estremamente positivi al vino che verrà, in base ovviamente alla qualità dell'annata, non è un vino che si può fare sempre e comunque.


L'Anima Arancio, invece, è sicuramente un passo nuovo in azienda, anche se quella di macerare l'arneis, vitigno a bacca bianca originario del vicino Roero (e infatti il vigneto si trova a Monteu Roero a circa 350 metri slm), è un'esperienza già affrontata da altre aziende, ma nella maggior parte dei casi si tratta di macerazioni brevi e non di tutta la massa, qui invece parliamo di 30 giorni!
Niente legno, solo acciaio, a dimostrazione che lo scopo è quello di estrarre tutto ciò che l'uva può offrire senza altri "aiuti", la fermentazione fra l'altro è spontanea, senza aggiunta di lieviti selezionati né additivi.
Insomma è a tutti gli effetti un "orange wine", il colore lo dimostra chiaramente, arancio caldo tendente all'ambrato, limpido però, pulito. La sensazione olfattiva ha una profondità del tutto particolare, certamente richiama l'albicocca disidratata, la cotogna, l'agrume candito, ma anche toni minerali, quello che colpisce è l'estrema purezza espressiva, si sente che è un vino seguito con attenzione, il risultato non è frutto di un caso ma di una sistematica ricerca per ottenerne la massima espressione.
E all'assaggio conferma queste impressioni, rivelando fra l'altro una freschezza che non era così intuibile dai profumi, segno che l'anima del vitigno si è perfettamente mantenuta, con in più un delicato tocco tannico che accompagna un frutto sì maturo ma per nulla dolce. Non è un vino ruffiano, al contrario si racconta in modo diretto, "langhetto", e fornisce già tutti gli elementi per intuirne tutta la potenzialità evolutiva.

Artico Azienda Agricola – IGP Lazio Trebbiano “Amaltea” 2017


Federico Artico è l’anima rock del vino del Lazio e i suoi vini, come questo trebbiano in purezza, rappresentano quell’assolo di chitarra elettrica territoriale che troppo spesso è mancato in questa Regione. 


Fresco, sapido, beverino, ad avercene di vini così godibili.

Cappella di Sant’Andrea: l’anima rurale della Vernaccia di San Gimignano

Flavia e Francesco stanno assieme da una vita, frequentavano la scuola superiore assieme, e quando nel lontano 2011 li andai a trovare per la prima volta a Casale, frazione di San Gimignano, avevano da pochissimo iniziato la loro avventura di vita, chiamata CappellaSant’Andrea.

Flavia e Francesco

Il loro obiettivo? Portare avanti il sogno agricolo di Giovanni Leoncini, il nonno di Flavia, che nel 1959 acquistò il podere con l’idea, una volta in pensione, di produrre vino di qualità all’interno della storica DOC Vernaccia di San Gimignano grazie alla costruzione di una cantina efficiente e, soprattutto, grazie all’enologo Paolo Salvi e alla collaborazione di Giulio Gambelli. Una sfida importante per entrambi che dopo la morte di nonno Giovanni, che nel frattempo aveva insegnato a Francesco tutto ciò che sapeva sia di agronomia sia di cantina, si sono rimboccati le maniche dando vita alla loro prima vendemmia targata 2006.

Vernaccia

Sono tornato a Casale dopo nove anni e ritrovo Flavia e Francesco in ottima forma, con una bella bambina in più e, fortunatamente, con una azienda che trovo più viva e florida che mai. Già, perché Cappella Sant’Andrea non è solo una impresa vitivinicola ma, soprattutto, un micromondo rurale ed autosufficiente fatto a loro immagine e somiglianza dove vecchie viti, asini, cavalli e capre, utilizzate per ottenere compost da usare nei terreni, convivono in perfetta sinergia tra loro creando una dimensione di assoluta armonia ed artigianalità. Tutto ha un senso presso Cappella Sant’Andrea anche se apparentemente, soprattutto per me che vengo dalla città, non si può cogliere.



L’azienda, grazie anche a recenti acquisizioni, vanta oggi circa 7 ettari e mezzo di vigneti, tutti di proprietà e coltivati secondo pratiche biologiche (certificazione ufficiale dal 2013) dove possiamo trovare piante di sangiovese, merlot, ciliegiolo e, ovviamente, vernaccia, l’uva bianca regina della DOC Vernaccia di San Gimignano (1966).
I terreni variano a seconda delle zone ma, mediamente, sono sabbiosi di origine pleocenica, ricchi di scheletro, anche se non mancano parcelle dove prevale l’argilla e dove, in maniera saggia, si sono piantate viti a bacca rossa.


Con Francesco abbiamo cercato di fare il punto della situazione della Vernaccia di San Gimignano attraverso la degustazione di tre mini verticali di Clara Stella, Rialto e Prima Luce tutti prodotti tramite fermentazioni spontanee, poca aggiunta di solfiti e, come dice spesso lui stesso, moltissima passione.

Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano 2014: prima di diventare ufficialmente Clara Stella (il nome si ispira alla figlia di Flavia e Francesco), è abbastanza palese, degustando tecnicamente il vino, che anche in annate difficili come questa si può dar vita ad una Vernaccia di San Gimignano guizzante, tesa e dalla prorompente spinta sapida. Il segreto di tutto questo? L’amore per la propria Terra e la susseguente capacità di “capire” il vigneto vivendolo 365 giorni all’anno. Nota tecnica: dopo una decantazione a freddo inizia la fermentazione spontanea in acciaio dopo la quale il vino resta sulle fecce fini per tre mesi.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Clara Stella” 2017: figlio di una annata climatica totalmente all’opposto della precedente, è una Vernaccia di San Gimignano pacioccona la cui rotondità gustativa viene fortunatamente smussata da una vena acido/sapida di grande veemenza che regala dinamicità e lunghezza al sorso.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Rialto” 2013: il vino proviene da una selezione di uve dalla vigna più vecchia (circa 50 anni) e, senza giri di parole, possiamo dire che trattasi di un vero e proprio Cru dell’azienda. Francesco ha voluto propormi la 2013 in quanto ultimo anno di utilizzo delle barrique per l’affinamento. Il vino, di conseguenza, risulta ancora leggermente segnato da una sensazione di “tostatura” che non comprimono ma, bensì, forniscono carattere ad una Vernaccia di grande struttura e complessità. Sorso intenso, aromatico, finale sapido. Nota tecnica: la fermentazione è spontanea e il vino ottenuto resta sulle fecce fini per almeno 6 mesi.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Rialto” 2016: sarà l’annata “perfetta” che in Italia sta regalando grandi vini, ma questo Rialto è davvero un vino emozionante sia per la complessità aromatica che riporta a note di ginestra, iodio e sfumature quasi fumè sia per la consistenza palatale caratterizzata da acidità bilanciata e piacevolissima vena sapida a condurre tutto l’assaggio. Chiusura lunghissima su toni salmastri.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Prima Luce” 2014: per capire meglio questo vino bisogna partire dalla sua tecnica di produzione che prevede una fermentazione spontanea in anfora terracotta, sulle bucce, per due settimane. Il vino resta poi sulle fecce per almeno un anno dopodiché passa in legno per alcuni mesi. Il vino in questione, dal colore giallo carico, ha sostanza e struttura, è ricco di ricordi aromatici di frutta secca e spezie gialle, ma la sua carica ossidativa, ricercata dallo stesso Francesco, risulta un po’ troppo coprente andando a vanificare un territorio che andrebbe lasciato più “libero” di esprimersi.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Prima Luce” 2015Francesco, senza troppi giri di parole, ci fa capire che in questo millesimo ha ridotto moltissimo le follature manuali sul vino che, perciò, è stato “lavorato” in maniera estremamente ridotta rispetto alla 2014. Il risultato è evidente sia al naso, dove accanto alle sensazioni di frutta matura e spezie si elevano anche aromi minerali e salmastri, sia soprattutto al sorso ora decisamente più leggiadro e marcato da una decisa spinta di freschezza che tende a stemperare la struttura di una Vernaccia di San Gimignano la cui bottiglia, stavolta, è finita molto prima del previsto.


L’ultimo vino proposto in degustazione è un rosso, una vera e propria chicca tanto che Flavia e Francesco ancora non lo hanno inserito nella gamma dei vini aziendali presenti sul loro sito. Si chiama “Le Maritate”, anno 2017, proveniente da uve sangiovese (meno del 50%), colorino, alicante, ciliegiolo, trebbiano e malvasia (più altre uve locali non ben identificate) provenienti da un vecchissimo vigneto acquistato nel 2016 dove le viti sono ancora maritate, alcune centenarie, all’acero campestre che in Toscana, anticamente, veniva chiamato dai contadini col nome di “chioppo”. Le uve, raccolte tutte lo stesso giorno, sono vinificate in cemento per circa un mese. Dopo la svinatura il vino passa in barrique usate per altri 12 mesi. Il risultato è un vino assolutamente delizioso, per certi versi arcaico, dove le sensazioni di frutta di rovo e pepe sono nitidissime anche se la parte più divertente di questo vino è il sorso, succoso e freschissimo, che invita continuamente alla beva. Vino assolutamente delizioso che rappresenta un affresco di ciò che in passato era la civiltà contadina di San Gimignano

Hermon Golan Heights Winery – Galilee Mount Hermon White 2018


di Lorenzo Colombo

Hermon è un marchio appartenente alla Golan Heights Winery con sede in Galilea.


Le uve per la produzione di questo vino (Sauvignon e Viognier) provengono da vigneti situati sulle alture del Golan settentrionale, la più fredda delle regioni d’Israele, tra i 400 ed i 1.200 metri e questo influisce sulla sua freschezza agrumata.

La magia dello Chablis del Domaine Laroche


Di Lorenzo Colombo

Il Serein è il fiume che attraversa la cittadina di Chablis, affluente dell’Yonne, che a sua volta confluisce nella Senna. Durante il suo percorso sfiora la parte orientale della cittadina di Chablis, e, sulla sua riva destra si trovano i sette Climats che nel loro insieme costituiscono lo Chablis Grand Cru.

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Ma partiamo dall’inizio: lo Chablis, inteso come vino, è in realtà composto da quattro distinte Aoc: Petit Chablis, Chablis, Chablis Premier Cru (suddivisi in quaranta Climats) e Chablis Grand Cru. Nel loro insieme la denominazione s’estende s’una superficie vitata di 5.479 ettari; 1.030 dei quali costituiscono il Petit Chablis, 3.564 lo Chablis, 783 i Premiers Crus e 102 ettari l’unico Grand Cru, composto, come dicevamo, da sette distinti Climats: Vaudésir, Blanchot, Bougros, Les Clos, Grenouilles, Preuses e Valmur. Degli oltre 238.000 ettolitri prodotti (31,7 milioni di bottiglie), il 18% provengono dall’Appellation Petit Chablis, il 66% dallo Chablis, il 15% dai Premiers Crus e solamente l’1% dallo Chablis Grand Cru. L’unico vitigno utilizzato, anche se ci pare superfluo scriverlo, è lo Chardonnay.


All’interno di questo universo, la Domaine Laroche dispone di 90 ettari di vigneti che coinvolgono ben dieci Premiers Crus (cinque sulla sponda sinistra del Serin ed altrettanti sulla più prestigiosa riva destra) per un totale di oltre 21 ettari, inoltre l’azienda possiede vigneti in tre Climats dello Chablis Gran Cru per un totale di 5,99 ettari.
Da questi vigneti ricava ben diciannove diversi Chablis, tra cui dieci Premiers Crud e quattro Grand Crus.


Lo scorso martedì 21 gennaio, il Gruppo Meregalli, distributore dei vini di Domaine Laroche, ha organizzato, presso la sede storica, a Monza, una Masterclass riservata ai loro agenti ed alla stampa, durante la quale si sono potuti degustare sette degli Chablis prodotti, appartenenti a due diverse linee produttive: il Petit Chablis e lo Chablis Les Chanoines, che rientrano nella linea “Les Vins Laroche”, mentre tutti gli altri nella più prestigiosa “Domaine Laroche”.

Petit Chablis Laroche 2018

Dopo la fermentazione il vino sosta sulle proprie fecce per sei mesi, in vasche d’acciaio. Giallo paglierino luminoso di buona intensità. Discretamente intenso al naso, nopte minerali, sentori di pesca. Buona la struttura, bella la vena acida, sapido, verticale, minerale, frutto giallo maturo (pesca gialla), note tropicali, leggeri sentori piccanti di zenzero, buona la persistenza.


Chablis Laroche Les Chanoines 2018

Pressatura tramite pressa pneumatica. Successiva decantazione di 12 ore a 12/15° avviene in botti progettate per accelerare il naturale processo di depurazione e ottenere un succo limpido. Fermentazione a 16° in vasche di acciaio inox per 15 giorni. Invecchiamento per 6 mesi sulle fecce in vasche di acciaio inox. Filtrazione minima per preservare il carattere naturale del vino.
Paglierino intenso, tendente al dorato, luminoso. Mediamente intenso al naso, note minerali, sentori tropicali e di frutto giallo maturo. Di buona struttura, fresco, verticale, sapido, note minerali e leggeri accenni idrocarburici, bel frutto (pesca e ananas), buona la struttura.


Chablis Saint Martin 2018

Per la produzione di questo vino vengono utilizzate unicamente le uve migliori provenienti dai più vocati appezzamenti di proprietà nello Chablis. Fermentazione in vasche di acciaio inox. Invecchiamento in vasche di acciaio inox e in botti di quercia sulle fecce.
Paglierino-dorato luminoso. Bel naso, elegante, frutto giallo ed accenni di nocciole. Di buona struttura, succoso, decisamente sapido, minerale, fresco ed al contempo morbido, frutto giallo, lunga la persistenza.


Chablis Premier Cru Les Montmains 2017

Questo Premier Cru si trova sulla riva sinistra del fiume Serein su un pendio soleggiato, il suolo argilloso e l'eccellente esposizione favoriscono una maturazione precoce in grado di fornire struttura al vino. 1,46 ettari è l’estensione del vigneto di Domaine Laroche in questo Premier Cru. Pressatura tramite pressa pneumatica.  Decantazione di 12 ore a 12/15°. Fermentazione a 17° per 2 settimane in vasche di acciaio inox (77%) e barrique (23%).
Invecchiamento per 9 mesi negli stessi tipi di contenitori.
Filtrazione minima per preservare il carattere naturale del vino. Color paglierino-dorato luminoso. Bel naso, elegante, frutto giallo, accenni floreali, note minerali. Fresco, sapido e minerale, verticale, con spiccata vena acida e lunga persistenza. 


Chablis Premier Cru Les Vaillons Vieilles Vignes 2018

Marne calcaree e calcare del Kimmeridgian sono le componenti dei suoli di questo Premier Cru. Situate sulla sponda sinistra del fiume, le vecchie viti qui impiantate hanno radici profonde ed estraggono molti dei minerali disponibili. In questo Premier Cru l’azienda Domaine Laroche dispone di 2,17 ettari a vigneto. Pressatura pneumatica. Decantazione di 12 ore a 10/12°. Fermentazione a 18° per 21 giorni. Invecchiamento per 9 mesi: 85% in vasche di acciaio e 15% in barrique per 3-4 anni sulle fecce. Filtrazione minima per preservare il carattere naturale del vino.
Paglierino luminoso di buona intensità. Mediamente intenso al naso, fresco, elegante, frutta fresca. Di media struttura, verticale, con spiccata vena acida, accenni vegetali, frutta fresca.


Chablis Premier Cru Les Fourchames Vieilles Vignes 2017

E’ uno dei più prestigiosi Premiers Crus di Chablis, sitato sulla sponda destra del fiume, anche in questo caso si tratta di viti vecchie, collocate su un pendio esposto a Sud ed a Ovest, al riparo dai venti provenienti dal Nord. 3,12 sono gli ettari in proprietà di Domaine Laroche. Pigiatura tramite pressa pneumatica.  Successivamente decantazione di 12 ore a 10/12°. Fermentazione a 18° per 21 giorni. Invecchiamento per 9 mesi: 85% in vasche di acciaio e 15% in barrique per 3-4 anni sulle fecce. Filtrazione minima per preservare il carattere naturale del vino.
Color giallo paglierino luminoso. Fresco, verticale, fruttato, elegante. Sapido e minerale, fresco, verticale, agrumato, lunga la persistenza. Elegante.


Chablis Grand Cru Les Blanchots 2017

Il climat Les Blanchots si trova nella parte più orientale del Grand Cru, il suolo dei suoi 12,39 ettari è costituito da uno strato di argilla bianca che poggia sul calcare del Kimmeridgian. Questa combinazione permette di mantenere la giusta quantità di acqua necessaria alle radici. L'esposizione a sud-est consente una lenta maturazione e favorisce lo sviluppo dei suoi unici aromi.  L’estensione dei vigneti di Domaine Laroche su questo Climat e di 4,56 ettari. La pigiatura viene effettuata tramite pressa pneumatica.  Successivamente il mosto riposa per 12 ore a 12/15° in barili di grandi dimensioni. Fermentazione a 20° per 3 settimane. Il 20% del vino invecchia sulle fecce in barrique, di cui il 25% nuove.
Paglierino luminoso, giallo limone. Mediamente intenso, frutto giallo ed accenni di nocciole. Fresco, di buona struttura, sapido, con accenni vegetali, acidità agrumata, lunga la persistenza su sentori minerali e sassosi.


Sergio Falzari - Tinnari Bianco IGT Toscana 2017

Stappare, versare, assaggiare: sono le tre cose da fare prima di leggere la  (retro)etichetta. 


E capire che tutto ti saresti aspettato in gradevolezza, finezza e equilibrio salvo da un Trebbiano toscano biodinamico, raccolto in fase maturazione diverse e fatto in anfora dalle parti di Vinci. Grande scoperta.