La Visciola: andata e ritorno nel cuore del Cesanese da agricoltura biodinamica

Sarà che Piero e Rosa Macciocca li incontro spesso alle fiere dei vini naturali ma, ridendo e scherzando, tra i loro vigneti e in cantina erano quasi otto anni che mancavo. 
Già, il tempo passa, mi rende i capelli più bianchi e il viso più rugoso  ma, fortunatamente, ha reso i Macciocca sempre più bravi e consapevoli della loro eccellente materia prima, il cesanese, grazie al quale da anni stanno dando vita a vini di memorabile bellezza soprattutto se confrontati all'interno del panorama enologico del Lazio.

Cosa è cambiato rispetto ad otto anni fa? Iniziando dal vigneto, i Macciocca sempre alla ricerca del qualità distintiva oltre ai tre storici vigneti (Ju Quartu, Vignali e Mozzatta) hanno aggiunto un quarto Cru, Jù Lattaro, il cui nome si ispira al precedente proprietario, un vero e proprio personaggio folcloristico della vita pigliese, che oltre a produrre vino a livello amatoriale era anche, e soprattutto, un produttore di latte della zona. 

Con Piero, ospite speciali Valerio Noro, iniziamo come di consueto il tour dei vigneti che parte proprio da Jù Lattaro che è una vigna di recente acquisizione, circa 0,3 ha, con viti di fine anni '50 molte della quali risistemate visto le pessime condizioni in cui erano state lasciate. Il terreno, come vedete, è di argilla rossa.



Dopo un rapido passaggio alla vigna sita in zona Colle del Grano, adiacente a Vignali, arriviamo nei pressi dello storico Cru Jù Quartu che, rispetto a nove anni fa, ha una maggiore estensione (siamo ora a 0,7 ha) visto che Piero ha preso in gestione anche la parte che un tempo era seguita dal cognato. Anche in questo caso siamo di fronte a viti di cesanese, sia comune che di affile, piantate negli anni '60 su un terreno di argilla rossa anche se non mancano zone dove si intravede una maggiore presenza di calcare.


Altri cinque minuti di traversata nella campagne del Piglio ed eccoci arrivati a Vignali, secondo Cru acquistato dai Macciocca dove oltre a viti di cesanese incontriamo anche buona parte della passerina che andrà nel Donna Rosa. Il vigneto è di circa un ettaro di cui più della metà a cesanese da vecchie viti. Terreno argilloso.


Come da tradizione il tour si ferma presso il Cru Mozzatta, circa 0,28 ha, da sempre di proprietà della famiglia e, fortunatamente, condotto in maniera naturale fin dalle sue origini (anni '60). 



La prossima tappa è la cantina che, rispetto al 2011, è rimasta sempre di dimensioni più che artigianali anche se dentro qualcosina è cambiato visto che sono state tolte le tre vasche di cemento per aumentare le presenza dei tini in acciaio che vanno ad affiancarsi alle botti di legno usate per il solo affinamento.




L'occasione di trovarmi con i 2018 ancora in affinamento era troppo ghiotta per non essere sfruttata e così ho chiesto a Piero di farmi degustare, in anteprima, tutti e quattro i Cru di Cesanese complice anche l'annata che, a detta dello stesso Macciocca, si è rivelata davvero promettente in quanto fresca e ben equilibrata.

Cesanese del Piglio "Jù Quartu" 2018: naso con impatto aromatico già ben definito dove si ritrovano le caratteristiche del Cru ovvero la frutta rossa croccante e la solarità. Al gusto sorprende per una piacevolezza e succosità nonostante la gioventù. Il tannino, spesso rude del cesanese, è assolutamente integrato.


Piero Macciocca

Cesanese del Piglio "Vignali" 2018
: non so ancora se è il Cru de La Visciola che preferisco ma, dopo l'esperienza della 2009, è sicuramente il più sorprendente. Anche in questa annata è un esplosione aromatica di fiori rossi e mineralità e al gusto, se chiudiamo gli occhi, questo cesanese in purezza potrebbe essere scambiato benissimo per un grande pinot nero francese. Eleganza assoluta.




Cesanese del Piglio "Jù Lattaro" 2018: ero curioso di degustare per la prima volta questo vino da questo Cru che Macciocca ha vinificato per la prima volta nel 2016 cercando di prendere fin da subito le misure. Da questo vigneto, almeno in questa annata, nasce un cesanese più strutturato dei precedenti, forse un filo più rustico, ma di grande impatto balsamico ed aromatico. Il sorso sembra ad oggi ricco ma al tempo stesso misurato e ben definito. Forse il più giovane dei vini bevuti oggi. Da aspettare.

Cesanese del Piglio "Mozzatta" 2018: da sempre è il vigneto dal quale Piero e Rosa producono il Cesanese del Piglio più complesso e sfaccettato della loro gamma. Anche in questo caso, seppur in affinamento, il Mozzata riesce magicamente a prendere tutto il bello dei Cru precedenti ovvero riesce ad essere polposo, fruttato, floreale e balsamico allo stesso tempo. Una meraviglia già adesso soprattutto al sorso dove la tensione gustativa sembra quella di un vino già in commercio. Top!

Passerina del Frusinate "Donna Rosa" 2018: non so se dipende dall'annata fresca, non so se dipende dalla maggior esperienza in vigna e in cantina con questo vitigno abbastanza ostico, ma a mio modesto parere Piero e Rosa attualmente hanno trovato la quadratura del cerchio con la loro passerina che, seppur campione di vasca, promette di diventare uno dei migliori bianchi del Lazio in circolazione da anni.


Fuori Concorso

La pasta all'Amatriciana "Macciocca Style"


La Stoppa - Ageno 2013


di Roberto Giuliani

Malvasia di Candia aromatica e uno sbuffo di ortrugo e trebbiano, macerato sulle bucce, lieviti indigeni, da un’azienda secolare, punto di riferimento del Piacentino: intenso di cedro, pesca, melagrana, ricordi floreali di fresia. 


Bocca travolgente, succosa, emozionante e dalla persistenza infinita!

Lido di Gozzano: mangiare bene presso il lago d'Orta

di Roberto Giuliani

Agosto 2019. Mese bizzarro, meno rovente di luglio, ma più imprevedibile dal punto di vista meteorologico, chi ha preso ferie in questo mese ha corso bei rischi. Certo, ultimamente, il clima sembra voler creare degli spartiacque tra nord, centro e sud, a volte tra est e ovest, in pratica diventa sempre più importante avere una gran fortuna nel luogo che si sceglie per le vacanze, non ci sono riferimenti né garanzie, bisogna armarsi di speranza e partire già con la consapevolezza che dovremo adattarci a eventuali stravolgimenti.
Così è stato per me e mia moglie, quando abbiamo deciso di passare una settimana di vacanza dal 17 al 24 agosto, periodo praticamente obbligato; l'idea era di andare nei pressi del lago d'Orta, tra Novara e Verbania, abbiamo trovato il B&B Casamariuccia a Massino Visconti, una dimora storica davvero suggestiva con vista sul lago Maggiore, perfetta per muoversi a cavallo dei due laghi. Il tempo non è stato dei migliori, tutta la zona ha visto piogge, a volte anche violente, che ci hanno accompagnato in più di un'occasione.

Lido di Gozzano - Spiaggia

Questo, però, non ci ha impedito di goderci comunque la visita a numerosi luoghi situati a distanze davvero brevi. Fra le mete "mangerecce" che avevamo scritto sul taccuino, c'era il Lido di Gozzano, un ristorante, pizzeria, lounge bar con spiaggia situato in località Buccione nel comune di Gozzano (NO), gestito nientemeno che da Paola Bertinotti e Paolo Moja, coppia nella vita, lei figlia del mitico Piero Bertinotti, chef del Pinocchio a Borgomanero, lui fornitore di attrezzature per la spiaggia e da esterno.

Esterno

Bene, ci siamo andati due volte, una per saggiare gli aperitivi godendoci il bel panorama del lago d'Orta e dell'isola di San Giulio (da non perdere l'Orta Rosa, con menta e lime, davvero rinfrescante e dissetante), l'altro a pranzo, in compagnia nientemeno che di Alfonso Rinaldi con la figlia Antonella. Alfonso, lo dico per coloro che ancora non lo conoscono, a fine anni '90 ha lasciato i negozi di abbigliamento al figlio Riccardo e si è letteralmente buttato anima e corpo alla coltivazione di una piccola vigna situata a Suno, il cui toponimo è "Costa di sera dei Tabacchei". Da quella vigna, nasce l'omonimo vino ottenuto da uva erbaluce in purezza, un bianco delle Colline Novaresi di straordinario fascino divenuto ormai oggetto di culto ben oltre la zona dove nasce.

interno

Ma torniamo al Lido di Gozzano, qui si possono gustare ottimi aperitivi accompagnati da numerose leccornie, pizze farcite, salumi e formaggi di qualità, verdure in pastella, patatine fritte e molto altro, in compagnia di qualche buona birra, di cocktails opportunamente preparati, succhi e bevande, o ancora di un ragguardevole numero di vini del territorio e non solo, da bere anche al calice.
A pranzo ho avuto modo di apprezzare varie portate: spaghetti aglio, olio e peperoncino con bottarga di lavarello del lago, tonno rosso in catalana di verdure e salmoriglio, polpo in salsa "aioli" al lime e guacamole, fino a una goduriosa coscia d'oca, saporitissima e cotta a puntino. Si sente che lo staff in cucina è stato "educato" dal grande Piero, l'esaltazione dei sapori e le cotture perfette ne sono la prova... Ma la cosa che più mi è piaciuta è l'atmosfera che ho respirato, musica di sottofondo in un ambiente sobrio e perfetto per godersi la vista sul lago, servizio preciso e cortese, ragazzi e ragazze giovani, sorridenti e capaci.
tonno rosso in catalana di verdure e salmoriglio

polpo in salsa "aioli" al lime e guacamole

coscia d'oca

Paola ha pensato a tutto, infatti dopo il pranzo c'è una breve chiusura del locale, fino alle 17, ma rimane aperto un chiosco sulla spiaggia che consente di prendersi da bere magari godendosi il sole del primo pomeriggio.
Passare una giornata o perché no, un'intera settimana al Lido, con la possibilità di visitare le tante meraviglie che circondano il lago (l'isola di San Giulio, il bellissimo borgo di Orta, Pella con il suggestivo Santuario della Madonna del Sasso, Omegna, il Sacro Monte di Orta, La Riserva Speciale del Monte Mesma (perfetta per chi ama fare escursioni nei boschi), Pettenasco e molto altro, rappresenta uno splendido modo per godersi una vacanza piacevole e spensierata.

Ristorante Lido di Gozzano

Via alla Colonia, 17 Fraz. Buccione, 28014 - Gozzano (NO)
Tel. +39 0322 913150


Perillo – Irpinia DOC Coda di Volpe 2012


Un vino che avevo dimentica in cantina, una “semplice” Coda di Volpe del 2012 che, contro ogni previsione, regala una bevuta da pelle d’oca grazie ad un naso che sa di agrumi, nocciola tostata, idrocarburo, tarassaco mentre al sorso risplende per nitore, spontaneità e per un finale sapido incrollabile. 


Perillo, sempre una garanzia!

Guido Berlucchi '61 Nature ovvero tutto il fascino del Franciacorta non dosato

Ci sono uomini, famiglie  e storie che cambiano il corso delle cose: Franco Ziliani e Guido Berlucchi sono tra quelli.
In Franciacorta, quel lembo di terra che si stende sulle sinuose colline moreniche a sud del Lago d’Iseo, in provincia di Brescia, queste due figure hanno trasformato il destino di un’intera regione, rendendola una delle zone italiane più pregiate per i vini spumanti metodo classico. Guido Berlucchi e Franco Ziliani, l’uno nobile vignaiolo discendente dalla famiglia dei Lana de’ Terzi e l’altro giovane e talentuoso enologo, unendo i loro destini hanno vinto una sfida che agli albori degli anni ’60 pareva quasi impossibile - quella di creare un modello tutto italiano di eccellenti vini spumanti. La storia narra di un incontro avvenuto nel 1955 a Palazzo Lana – la storica ed attuale sede della Berlucchi - tra Franco Ziliani, giovane e brillante enologo diplomato alla Scuola enologica di Alba e già consulente per alcune cantine e Guido Berlucchi, produttore di vini fermi a base Pinot, in una zona che ancora doveva esprimere tutta la sua straordinaria potenzialità enologica. Guido Berlucchi era alla ricerca di un tecnico che potesse stabilizzare il “Pinot del Castello”, il suo vino bianco prodotto con le uve del vigneto “clos” posto sotto il piccolo maniero di Borgonato da cui si intravede il lago di Iseo.

Guido Berlucchi e Franco Ziliani

Franco Ziliani vide nel terreno morenico ricco di minerali e nel clima peculiare dato dal- l’influsso del bacino idrico del lago d’Iseo le solide basi materiali per il suo progetto enologico e percepì nella raffinata persona di Berlucchi e nell’antica cantina sotterranea quegli elementi, anche “immateriali”, come la cultura del territorio e l’amore per il bello che avrebbero potuto dare corpo al suo ambizioso sogno: creare un metodo classico in Franciacorta che potesse competere con i grandi vini francesi della Champagne.
I due, affiancati dall’amico Giorgio Lanciani, fondano così nel 1955 la Guido Berlucchi & C. prima ed antesignana cantina della zona, aprendo in questo modo la strada alla nascita di un’intera zona enologica.
Nel 1961, dopo una prima messa a punto delle tecniche di cantina – ancora “artigianali” e lungi da essere supportate dalle moderne tecnologie enologiche - ed alcuni infruttuosi tentativi, Ziliani sigilla le prime 3.000 bottiglie di Pinot di Franciacorta. Il risultato è sorprendente: un vino ottimo all’assaggio, ricco di profumi e finezza e con un grande potenziale di crescita organolettica. Con queste premesse, non risulta difficile convincere Guido Berlucchi ad allargare la produzione l’anno seguente, imbottigliando il Max Rosé - metodo classico ideato ad hoc per un amico di famiglia: il raffinato antiquario milanese Max Imbriani - e creando così il primo spumante rosé d’Italia.


L’azienda, attualmente, dispone di 85 Ha di vigneti di proprietà concentrati nella zona di Borgonato oltre agli altri circa 500 ha. di vigneti in conferimento, diffusi tra Borgonato ed i maggiori comuni dell’area Nord della morena della Franciacorta, prospicienti il Lago di Iseo. Tutti i vigneti, in conversione biologica, sono allevati principalmente a cordone speronato e piantati con una densità di 10.000 ceppi per ettaro.


Chi visita Berlucchi non può non rimanere affascinato dalla cantina storica: scavata a dieci metri sotto il livello del suolo la struttura stupisce e affascina, oggi come ieri, il suo visitatore. Un complesso di gallerie e grandi volte, realizzate attorno al suggestivo cuore centrale della fine del 1600. È una visione quasi “teatrale”, fatta di spesse mura vetuste, impreziosite dalle muffe e dal passaggio dei secoli, con allineamenti di pupitre in legno che scandiscono i corridoi. Sul fondo della galleria di ingresso, quasi sacrale, la nicchia privata con la prima bottiglia dell’annata 1961, testimone della primogenitura e ispiratrice della trasformazione virtuosa di questo territorio.

Cantina storica

Ma, in Berlucchi, come si crea un ottimo Franciacorta?

L’agricoltura di precisione permette di stabilire il miglior momento per iniziare la vendemmia, raccogliendo uve con livelli analitici ottimali. I grappoli di chardonnay e pinot nero, rigorosamente raccolti a mano e sistemati in cassette da 18 chilogrammi, arrivano al centro di spremitura dove, divisi per lotti omogenei in base a varietà, a vigneto e caratteristiche analitiche, sono collocati in presse di ultima generazione a piatto inclinato dove avviene la spremitura delicata e progressiva. I mosti, limpidi e fragranti, sono frazionati in quattro selezioni e dopo la decantazione a freddo svolgono la fermentazione alcolica in tini d’acciaio inox o in barrique di rovere. Alcuni vini base, dopo la fermentazione alcolica e, raramente, malolattica, sono sottoposti a bâtonnage, che aggiunge struttura e ricchezza aromatica. Le basi riposano quindi in acciaio o in legno, costantemente analizzate e degustate prima dell’assemblaggio.

Nel Gennaio dell’anno seguente alla vendemmia, lo staff tecnico inizia le prove di assemblaggio: una vera impresa, che coinvolge oltre 150 basi Franciacorta. Segue il tiraggio (imbottigliamento con apposito sciroppo di tiraggio) e la rifermentazione in bottiglia: i lieviti metabolizzano lo zucchero e producono alcol e anidride carbonica – responsabile dell’amato perlage. Terminata la rifermentazione in bottiglia le bottiglie sono accatastate nelle cantine stori- che, a 10 metri sotto il livello del suolo, nelle fondamenta di Palazzo Lana. In questo luogo silenzioso, privo di luce diretta, con temperatura naturale di 10°C gradi centigradi, le bottiglie ma- turano sui lieviti da 18 mesi fino a oltre 8 anni e si arricchiscono di preziosi aromi di crosta di pane e pasticceria.

Il Franciacorta a questo punto è, teoricamente, pronto, ma dovrà essere liberato del residuo dei lieviti prima con il remuage (scuotimento della bottiglia che provoca la discesa dei lievi- ti nel collo) e poi con la sboccatura, (eliminazione del sedimento mediante il congelamento del- lo stesso nel collo della bottiglia).
Prima della chiusura con il sughero - anche questo soggetto ad un accurato controllo qualitativo - ogni bottiglia favorirà del controllo visivo, del rabbocco e del dosaggio, effettuato con vini evoluti e zucchero di canna, fautore del livello di “dolcezza” di ogni Franciacorta, dal Dosaggio Zero, che ne è privo, sino al Demi Sec.

Arturo Ziliani a Roma

Poco tempo fa a Roma, con la presenza di Arturo Ziliani, amministratore delegato ed enologo dell’azieda, è stata presentata la linea “Berlucchi ’61 Nature”, nelle declinazioni Brut Nature, Nature Rosé e Nature Blanc de Blancs, tutti rigorosamente non dosati e disponibili nell’annata 2012.

Berlucchi ‘61 Brut Nature 2012 (70% chardonnay, 30% pinot nero): dai uve provenienti dei vigneti di proprietà Arzelle, Rovere, San Carlo e Ragnoli, questo Franciacorta è dinamico e solare nei ricordi di pesca gialla, mela cotogna, uvaspina, cedro, erba limoncina e gelsomino. Al sorso è tagliente, sapido, fruttato, con un’onda lunga di freschezza agrumata che nasconde una certa tostatura di fondo. 5 anni sui lieviti più successivi 6 mesi dopo la sboccatura.


Berlucchi ‘61 Nature Rosé 2012 (100% pinot nero): da uve provenienti dai vigneti di proprietà Ragnoli, Quindicipiò e Gaspa nasce questo rosato tutt’altro che sbarazzino grazia ad un complesso impatto aromatico dove le sensazioni dolci di lamponi, ciliegie, pan d’uva e melagrana ben sono contrastate da vibranti nuance minerali. Bocca tesa ed elegante, spessa nella trama, sapida e paradossalmente carezzevole nel finale fruttato. 5 anni sui lieviti più successivi 6 mesi dopo la sboccatura.


Berlucchi ‘61 Nature Blanc de Blancs 2012 (100% chardonnay): proveniente esclusivamente dalla porzione centrale del vigneto di proprietà Arzelle, è un Franciacorta che fa della piacevolezza la sua arma migliore grazie al suo perlage sottile e alle note di agrumi dolci, sambuco, frutta secca e leggere note di miele di castagno. Assaggio ricco, rigoroso, scalpitante per acidità e foriero di ritorni di frutta matura e toni sapidi. 5 anni sui lieviti più successivi 6 mesi dopo la sboccatura.


Merumalia - Frascati Superiore Docg “Primo” Riserva 2017

di Lorenzo Colombo

Dall’Azienda Spaziale Europea a produrre vino a Frascati il passo è breve? Questo è il percorso di Luigi Fusco, produttore di questo vino dalle spiccate note vulcaniche, minerale, sulfureo, ampio, con sentori che spaziano dalle erbe officinali al frutto tropicale sino allo zafferano.


Da provare assolutamente

Alla scoperta dei vini di Tenuta Marchini

di Lorenzo Colombo

Caprognano, piccola frazione del comune di Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara, in perenne confine con la Liguria, 275 metri d’altitudine, una manciata di case, una minuscola chiesetta costruita nel 1749, 26 (ventisei) abitanti (dati 2011), buona parte di essi appartengono alla famiglia di Francesca Aliboni: il marito ed i due figli, i genitori, la sorella.
Qui si trova l’agriturismo Vidè, aperto tre anni fa, ventiquattro coperti per una cucina di territorio, dove la maggior parte dei prodotti provengono da produzione propria: verdure, animali da cortile, olio e vini.


Caprognano

Siamo dunque arrivati al motivo della nostra visita, avvenuta una mattina d’agosto, appunto i vini, perché Francesca è l’anima (nel vero senso della parola) della Tenuta Marchini.

Il nome potrebbe far pensare a grandi estensioni, invece si tratta solamente di circa due ettari di vigneti, suddivisi tra Toscana (1,5 ettari) e Liguria (il restante mezzo ettaro), dai quali nel 2018 si sono ricavate poco meno di settemila bottiglie.




La curiosità dei nomi vuole che il vigneto ligure si trovi a Caprignano, appena al di là del confine tra Toscana e Liguria. La cantina è quanto di più semplice possa esserci: alcune vasche d’acciaio, un tonneaux usato, un’imbottigliatrice manuale, un torchio di legno.
Niente pigiadiraspatrice, niente pressa a polmone, niente etichettatrice. Le uve vengono torchiate, come una volta, le etichette incollate a mano.
Detto così si potrebbe pensare ai cosiddetti vini del contadino, pieni di difetti e pressoché imbevibili. Nulla di più sbagliato, provare per credere.

Francesca Aliboni
Francesca inizia ad occuparsi dell’azienda di famiglia nel 2009, subito dopo la laurea in Viticoltura ed Enologia presso l’Università di Pisa, lo stesso giorno della sua laurea muore il nonno, al quale era legatissima, tanto ché sulle etichette dei vini è stampata la sua firma.
Nel frattempo lavora per alcuni anni da Salustri, in Maremma, dove fa esperienza coi vini rossi. Il suo primo imbottigliamento risale al  2012; 417 le bottiglie prodotte, dai 2.500 metri quadri del vitigno di famiglia. Con l’acquisizione e l’impianto di nuovi vigneti (nel 2010 vengono messi a dimora vermentino, merlot e canaiolo) e la loro entrata in produzione il numero sale costantemente, si raddoppia di anno in anno, sino a raggiungere le quasi 7.000 bottiglie dell’annata 2018. “Nel 2019 saranno un poco di meno”, ci dice Francesca.

I vigneti sono gestiti in parte a Guyot ed in parte a pergola e vengono trattati unicamente con rame e zolfo. Dal 2017 la vendemmia si effettua di notte, per preservare la freschezza dei profumi, non avendo celle frigorifere ogni carico che arriva in cantina viene immediatamente lavorato, poi si ritorna in vigna a continuare la raccolta. Questo fa si che nonostante le piccole dimensioni dei vigneti, la vendemmia si protragga per alcuni giorni. La resa è di circa 40 q.li/ettaro. Dall’annata 2018 Francesca ha deciso di non utilizzare più lieviti selezionati, quindi le fermentazioni, soprattutto quelle dei vini bianchi, sono più complicate e lunghe. Francesca ci racconta tutto questo con grande trasporto, dalle sue parole e dal suo atteggiamento traspare tutto l’entusiasmo, dato anche dalla sua giovane età, e la sua passione per il mondo del vino, vino che producevano anche suo nonno e suo padre, pur senza imbottigliarlo.

Vigneti - Foto: terredelvermentino

Dal 2012 al 2015 le etichette, anche queste hanno una loro storia, che ci viene raccontata con fervore da Francesca, sono unicamente due, sino a giungere alle attuali quattro; due Vermentino e due Igt rossi.

Eccoli:

Colli di Luni Doc Vermentino “Vidè” 2018

Il nome (che è il medesimo dell’agriturismo) è quello della nonna (Videa) alla quale il vino è dedicato, prodotto quasi unicamente da uve vermentino (95%) provenienti dai due vigneti aziendali, vinificazione in acciaio dopo una giornata di macerazione sulle bucce. 4.000 le bottiglie prodotte.
Il colore è giallo paglierino di buona intensità. Più elegante che intenso al naso, dove si colgono sentori di fieno e decise note d’erbe aromatiche (timo in primis) oltre che di pesca gialla. Fresco e sapido, tornano le note d’erbe aromatiche, lunga la persistenza, chiude con lunga persistenza su note amaricanti di salvia.


Colli di Luni Doc Vermentino “Ribella” 2018

Il nome deriva dal vigneto, quello storico di 2.500 metri quadri, ma anche dal carattere di Francesca, carattere ribelle come lei stessa ci dice. Si tratta di un vino macerato (sette giorni sulle bucce) –prodotto per la prima volta in quest’annata- però se non ci si fosse stato detto non l’avremmo mai immaginato. Infatti nessuna omologazione di profumi e sapori, niente sentori di mela ossidata. Forse il colore, leggermente più carico del precedente, con riflessi dorati. Anche in questo vino non troviamo esuberanza nell’intensità olfattiva, ma piuttosto ampiezza e complessità nei profumi, si colgono infatti sentori di pesca gialla, fieno maturo, note tropicali e leggeri accenni di mela matura (ecco la macerazione).Strutturato, intenso, complesso, elegante, di buona percezione alcolica, sapido, equilibrato, tornano alla bocca le erbe aromatiche, soprattutto la salvia, lunghissima la persistenza.  Un vino di notevole qualità prodotto in 800 bottiglie.


Dopo i Vermentino passiamo ai vini rossi, entrambi Igt Toscana, prodotti con parti uguali di Merlot e Canaiolo più un 10% di vitigni autoctoni a bacca rossa.

Igt Toscana “Gioà” 2018

Vino dedicato al bisnonno, vinificato in acciaio con macerazione di venticinque giorni, con periodiche follature, ed affinamento di otto mesi, sempre in acciaio. Il colore è rubino-violaceo profondo. Intenso al naso, dove offre una netta vinosità, un sentore di ciliegia matura ed una leggera nota vegetale. Fresco e sapido, con bella vena acida, succoso, fruttato (nuovamente emerge la ciliegia), lunga la persistenza. Un vino dalla piacevolissima beva. La produzione è di 800 bottiglie.


Igt Toscana “Maranto” 2017

Nuovamente una dedica per questo vino, ai genitori questa volta, Mario e Antonella. Dopo la fermentazione -in quest’annata, anziché la follatura si sono utilizzati i rimontaggi- il vino sosta nell’unico tonneaux (acquistato usato), per dieci mesi, ai quali ne seguono altri due di bottiglia. Il colore è rubino luminoso, di buona intensità. Intenso al naso, presenta sentori di ciliegia matura, nate balsamiche, accenni di cioccolato e sfumature vegetali.Di discreta struttura, sapido, leggermente vegetale (accenni di peperone), buona la sua persistenza. 600 le bottiglie prodotte.


Accennavamo anche alla produzione di olio, ci sono infatti 550 piante delle cultivar Moraiolo, Lantesca e Frantoio, dalle quali si ricavano circa 500 litri di ottimo olio, del quale però Francesca si lamenta un poco, si fatica infatti a venderlo a dei prezzi che possano giustificarne fatica e lavoro.

Cesani - Vernaccia di San Gimignano "Clamys" 2017

Sarà la vigna ultratrentennale, saranno le argille su cui prospera, saranno i dodici mesi passati in acciaio sulle sue fecce e i sei in bottiglia, saranno i begli occhi di Letizia Cesani ma a noi questa Vernaccia pulita ma con gran nerbo, verticale e asciutta, lunga e gentile è piaciuta assai.



Domaine Comte Abbatucci - Faustine Vieilles Vignes 2017


Non lo beviamo perché biodinamico, e neanche perché nasce da vigne vecchie. 


No. Questo vermentino corso coltivato una quarantina di chilometri a sud di Ajaccio rilascia precisi ed eleganti sentori di macchia mediterranea esprimendo appagante freschezza.

Il territorio del Vesuvio in tre grandi vini tutti da scoprire


di Luciano Pignataro

Tre vini vesuviani per l’estate. Li abbiamo degustati nel corso del Festival della Dieta Mediterranea organizzato nel Museo di Pioppi, nel cuore del Cilento, il paesino dove visse a lungo il medico Ancel Keys studiando i comportamenti alimentari delle popolazioni meridionali.


Il Vesuvio, come ma non quanto l’Etna, è uno dei territori magici e onirici del nostro Paese. Nel corso della sua storia ha eruttato in continuazione e dunque questo silenzio che mantiene ormai dal 1944 è sicuramente una eccezione. Un territorio pedoclimatico che chiudeva a sud la Campania Felix dei romani con il fertile agro vesuviano. La pressione demografica, iniziata nel ‘600, ha progressivamente ridotto gli spazi agricoli e le costruzioni selvagge degli anni ’60 e ’70 hanno seriamente intaccato la bellezza dei luoghi, un tempo borghi di pescatori o residenze di stile hollywoodiano, come Portici ed Ercolano dove fu costruita la prima ferrovia proprio per collegare i nobili di Chiaia alle loro ville in campagna.
Dal punto di vista enologico, il Vesuvio è stata una delle dispense di Napoli: la corona di vinificatori che circonda la città parte proprio da qui per chiudersi poi al nord della città. Vino, vino e tanto vino per le mille taverne con uva coltivata ma anche comprata ovunque, nel vicino Sannio come in Puglia, finanche in Abruzzo. Poi, appunto, il declino di questo modello a partire dagli anni ’80, la pressione edilizia, lo sbandamento delle aziende tradizionali che si vedevano anno dopo anno ridurre i margini.


A partire dallo scorso decennio però abbiamo potuto registrare una ripresa basata sulla viticoltura di qualità, saldamente legata ai vitigni locali vulcanici, caprettone, catalanesca e piedirosso primi fra tutti, ma anche coda di volpe e, in misura secondaria, falanghina e aglianico. Alcune aziende si sono organizzate per l’accoglienza puntando sull’enorme flusso di turisti che visita Pompei e la Penisola Sorrentina. Certo, ci sono delle contraddizioni incredibili che andrebbero sciolte, prima fra tutte il fatto che il territorio di Pompei, dove l’uva è coltivata persino dentro gli scavi e che serve alla narrazione soprattutto quando si va all’estero, non rientra nella doc.
I vini vesuviani hanno la caratteristica di essere beverini, non impegnativi, sicuramente minerali, sapidi, con il finale amaro. Si accompagnano alla tavola e sono bicchieri della gioia, da bere senza rituali liturgici complessi come la messa ortodossa. Ma riservano anche sorprese inaspettate, come la incredibile longevità di alcuni bianchi che regalano emozioni dopo molti anni. Il Vesuvio insomma è sicuramente la nuova frontiera della piccola ma caratterizzata viticultura campana e questi tre vini che vi segnaliamo lo dimostrano.

LA BOLLICINA

Casa Setaro - Caprettone Spumante Metodo Classico "Pietrafumante"

Questo metodo classico con una sosta sui lieviti di 30 mesi dimostra come sia interessante questa corsa alla spumantizzazione che del resto riflette la mentalità anarchica italiana. 


Un vino che nel 2017 ha vinto il primo Napoli Wine Challenge. Perlage fine e sottile, sensazione di freschezza, chiusura amarognola, beva decisamente intensa.
Circa 18 euro in enoteca.
Casa Setaro è nel comune di Trecase, ha circa 12 ettari di vigna biologica che sul Vesuvio sono una fazenda argentina, piantati nel 1960.

IL BIANCO

Cantine Olivella - Lacrima bianco Lacryma Christi 2018

Ritroviamo il caprettone, stavolta insieme alla catalanesca, uva tipica del territorio a nord del Vesuvio, di tradizione soprattutto nel comune di Somma Vesuviana. Il progetto di Cantine Olivella si basa su queste due uve e sul piedirosso, senza altri vitigni autoctoni campani. Come sappiano la 2018 è stata una vendemmia difficile in Campania per le continue piogge di agosto che hanno messo in difficoltà la sanità delle uve. 


In questa apparizione pubblica il bianco, lavorato solo in acciaio come ormai è tradizione in Campania, si è dimostrato già in ottimo equilibrio, con note floreali di ginestra e di mela al naso e una sostenuta acidità al palato che regala un sorso sottile e compiuto sino alla chiusura amarognola molto precisa.
Circa 10 euro in enoteca
Catrine Olivella è nel comune di Santa Anastasia e lavora in regime biologico sin dal primo anno.

IL ROSSO

Territorio de’ Matroni - Lacryma Christi Rosso 2016

Il giovane Andrea, ultima generazione di una famiglia del territorio, è tornato alle origini laureandosi in enologia a Firenze e facendo esperienza in giro per il mondo, vendemmia dopo vendemmia, dalla Napa Valley all’Australia. E’ tornato con idee molto precise, a cominciare dalla decisione di piantare le viti ad alberello (prima volta sul Vesuvio) per poi passare alla conduzione biologica e in prospettiva biodinamica. Si tratta di un Piedirosso in purezza, fermentato in acciaio ed evoluto in botte grande. 


Un vino elegante, floreale, appena un po’ fruttato, con rimandi fumé a fare da corollario. In bocca essenziale, freschissimo, tannini setosi, chiusura piacevolmente amarognola.
Circa 15 euro in enoteca.
Cantine Matrone si trova a Boscotrecase, ha quasi cinque ettari di vigneto e produce in biologico.

Villa Russiz - Collio Chardonnay "Grǎfin de la Tour" 2014


di Carlo Macchi

Tranquilli, il caldo non mi ha fatto male! Vi parlo di uno chardonnay in legno della “tremenda” vendemmia 2014 perché non ho mai sentito tanto frutto “coprire” così bene il legno, tanta freschezza in un corpo dove la barrique lascia il segno, tanta finezza in una vendemmia tanto difficile. 


Un vino esemplare

Riflessioni guidaiole del primo agosto!


di Carlo Macchi

Con il caldo interrompo la tradizione che mi vede pubblicare nel gruppo IGP una recensione di un locale o di un vino per parlare… di vino. Più in particolare di guide vini, che in questi giorni (almeno per quelle cartacee) stanno chiudendo il lavoro di degustazione con gli assaggi finali.


A proposito di assaggi…

1.       “Non ti ho mandato i vini perché li valuti sempre male e io mi sono rotto! Sei l’unico (magari non è proprio vero ma non importa) che mi da questi voti bassi”. Al produttore in questione non conviene nemmeno ricordare l’altissimo punteggio ad un suo vino dato due anni fa.
2.       “Non le abbiamo mandato i vini perché quest’anno abbiamo deciso di non mandarli a nessuna guida”. Cosa non vera, dimostrata telefonando ad amici che collaborano con un’importante guida cartacea”
3.       “Guarda, siete gli unici a cui mando i vini, perché tutti gli altri mi trattano malissimo”. Ovvero l’altra faccia della medaglia.
4.       “Scusi, a parte il voto non adeguato,  come ha fatto a recensire il nostro xxxx se non glielo abbiamo mandato?”
“Semplice, l’ho comprato in enoteca!”
“Impossibile, il vino è uscito da pochi giorni”. Segue invio scontrino scannerizzato dell’acquisto, fatto appunto da pochi giorni.
5.       “Non vi ho mandato il vino perché è finito!”
“Se è finito in cantina siamo contenti, ma sicuramente non sarà finito in enoteca o a ristorante e quindi è adesso in commercio.”
“E’ vero, ma…”


Questi sono solo alcuni degli esempi che potrei fare delle difficoltà che ogni anno noi di winesurf e , credo, di qualsiasi altra guida vini, incontriamo nel reperire i campioni per gli assaggi. Naturalmente non considerando tutti quelli che si sono scordati di consegnarli, che ti chiedono di passare a prenderli, che ti vogliono far degustare solo e soltanto in cantina da loro, etc.
Tutte queste difficoltà mi portano ad un'unica conclusione, che si trasforma sempre in un megadomandone finale: per chi vengono fatte le guide vini?
Da sempre, in particolare dalla fine degli anni ottanta quando nacque la guida del Gambero Rosso, nell’aria c’è stato un grande fraintendimento: I produttori hanno sempre visto le guide come un modo a buon mercato per farsi pubblicità (e non si può negare che quella “pubblicità a buon mercato” abbia molto spesso mandato avanti il settore) e quindi, anche per i rapporti di amicizia che nel frattempo si erano creati con i degustatori, ricevere un brutto voto non solo era visto come un danno commerciale, ma quasi come il tradimento di un amico.


Dall’altra parte i lettori (preferisco dire consultatori o fruitori) non hanno mai capito perfettamente che tutto quel lavoro (e vi garantisco, era ed è veramente tanto) era ed è fatto per loro. Per questo siamo passati dall’osannare una guida, giudicandola dio in terra (ma magari consultandola facendosela prestare da un amico), al criticarle tutte in quanto prezzolate, non serie, poco credibili, autoreferenziali, elefantiache, inutili etc.
Quindi, da una parte i produttori si sentono i referenti  reali delle guide e le vogliono a loro immagine e somiglianza, i fruitori non credono (o credono poco) al valore delle guide e nel mezzo ci troviamo noi.


Se questa tendenza continuerà ogni guida vini dovrebbe avere come sottotitolo “Dei vini che i produttori ci hanno inviato” e rischierà, per assurdo, di parlare sempre bene di tutti i vini degustati, altrimenti l’anno dopo non arriveranno i campioni.
Qualcuno potrebbe dire “Basta andare a comprarli e il gioco è fatto!”, peccato che, oltre ad essere finanziariamente insostenibile sia anche materialmente impossibile sia perché richiederebbe un’organizzazione capillare per rintracciarli nelle varie enoteche italiane, sia perché molti vini, al momento dell’assaggio, non sono ancora in commercio. Per qualche vino puoi farlo ma certamente non per tutti.
Quindi si ritorna al punto di partenza: o si parla bene di tutti (o quasi)  o non si fa la guida, ma che guida è una fatta con questo criterio?
Personalmente credo che il solo fruitore di una guida sia il consumatore finale e noi “degustisti”, in futuro, dovremo vestire sempre più i panni dei giornalisti, per andare in cerca delle notizie (alias vini) che ci interessano. Tutto questo fregandosene alla grande se i produttori vogliano o meno farci degustare i loro vini.