Percorsi di Vino al Premio Internazionale del Vino

Altro bellissimo articolo di Alessandro Sinibaldi che questa volta ci racconta le sue impressioni sul Premio Internazionale del Vino. Vediamo cosa ci racconta!

Domenica 31 maggio 2009 si è svolto nella splendida cornice dell’Hotel Cavalieri Hilton, alla presenza di star della televisione e con le riprese di RAI 1 il “Premio Internazionale del Vino”, organizzato da AIS Roma.
Tutto di grande effetto, con protagonisti vini e produttori decisamente interessanti. I vincitori sono stati determinati tramite la compilazione di un’apposita scheda anonima fornita con la guida Duemilavini 2009. Quando si partecipa a manifestazioni del genere, ma anche quando, tutti gli anni, escono le classifiche di Wine Spectator o simili, ci si chiede sempre che senso possa avere dichiarare cose del tipo “Il Miglior Vino Rosso” o, “Il Miglior Vino Spumante” o, peggio ancora “Il Miglior Vino del Mondo”. Come si fa a paragonare tra loro vini di vitigni e territori diversi, un Brunello con un Nero d’Avola, un Teroldego o un Syrah, e magari pure di annate diverse, quando in realtà ognuno ha la sua specificità? Ci sono ottimi vini, che per quanto fatti bene ed interessanti non potranno mai competere con la ricchezza aromatica e l’eleganza di un Barolo o di un Pinot Nero ma che, nonostante questo, hanno una loro giusta collocazione, i propri abbinamenti e anche il proprio pubblico.
Eppure è umano classificare. Si fanno i concorsi per il Mister o la Miss, si dichiara l’Auto dell’anno o l’Imprenditore del mese e, quindi, è in quest’ottica che va letta un’iniziativa del genere. E poi...non dimentichiamoci che comunque fa tanto marketing e vuoi mettere un produttore che nella sua bella brochure scrive a proposito dei premi presi dal proprio vino “Miglior vino dell’anno”? E’ con questo spirito e con quest’ottica che, comunque, ci siamo avvicinati al Premio che, a partire da quest’anno ha perso la dicitura di Oscar, da ora legalmente riservato solo all’unico e vero Oscar, quello del cinema, assegnato dall’American Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Un altro appunto che ci sentiamo di fare è che, trattandosi di un premio che si basa sull’opinione di un gran numero di votanti, sarebbe appropriato e significativo riportare il numero di schede valide pervenute e la percentuale di persone che ha votato un determinato vino. Quest’ultimo aspetto è, secondo noi, fondamentale data l’inevitabile dispersione di voto che ci può essere, stanti i motivi detti sopra.
Il fatto di dichiarare queste cose contribuisce sicuramente a una maggiore trasparenza e credibilità n
ei confronti del premio. Resta inoltre il fatto che, proprio a causa di tale dispersione di voto, rischia di vincere non il vino che ha le migliori caratteristiche ma il produttore che riesce a far votare il numero maggiore possibile di amici e parenti. E’ sufficiente, cioè, che un numero di persone appropriatamente istruito voti in modo compatto per falsare il risultato complessivo.
A nostro giudizio sarebbe addirittura preferibile, piuttosto che lasciare la scelta completamente in bianco al lettore e basata su parametri completamente arbitrari, individuare, magari attraverso un “comitato di saggi” una rosa ristretta a priori, indicando di ogni vino quali elementi valutare. Certamente questo renderebbe più complicato al lettore votare ma magari sarebbe più comprensibile capire perchè, all’interno di una certa categoria, un certo vino è stato ritenuto migliore di un altro. Tra l’altro, così messa la cosa, sarebbe anche più interessante per i produttori avere le motivazioni per la propria vittoria o sconfitta, perchè permetterebbe loro di concentrarsi nel migliorare quegli aspetti che il pubblico ha decretato come più deficitari.
Per quanto ci riguarda, la giornata, ottimamente organizzata, è stata un’occasione per degustare vini comunque interessanti, a partire dallo Champagne millesimato blanc de blancs “S” 1997 di Salon, azienda di Le Mesnil-sur-Oger. L’annata è la trentasettesima da quando questo vino ha cominciato ad essere prodotto. Profumi di zenzero, frutta esotica, miele e, in bocca, morbidezza controbilanciata da una buona acidità. Buono, per carità, ma alla fine non sappiamo proprio se possa a ragione essere considerato il “Miglior Vino Straniero”, anche relativamente ad altri Champagnes.
Personalmente abbiamo i nostri dubbi, soprattutto se tra i candidati era presente un Riesling Auslese di J. J. Prum.
Interessante anche la categoria dei vini rossi, con un ottimo Barolo Brunate Le Coste 2004 di Rinaldi. Ci ha molto favorevolmente colpito, vincitore tra i vini rosati, Il Rogito 2006 di Cantine del Notaio, di una persistenza davvero straordinaria.
Molto persistente e anche di intensa mineralità Colli Orientali del Friuli Rosazzo Terre Alte 2006 di Livio Felluga, della categoria vini bianchi.

Più combattuta, secondo noi, è stata la battaglia sul fronte del Miglior Vino dolce, vinta da Diamante d’Almerita 2007 di Tasca d’Almerita, ma contro pretendenti di tutto rispetto, quali Muffo 2006 di Mottura e Recioto di Soave Suavissimus 2005 di Nardello.
Meritatissimo il premio per Il Miglior Rapporto Qualità/Prezzo al Pian del Ciampolo 2006 di Montevertine.
La lista completa dei premiati è visibile al link http://www.bibenda.it/notizie_news.php?id=254.

Qualche notizia dal web: si amplia la Cantina di Terlano

I grandi vini hanno bisogno di spazi. La Cantina di Terlano ha fatto fronte a questa necessità con importanti lavori di ampliamento: nei 18.733 m³ di struttura ampliata, elegantemente ed architettonicamente integrata con i vigneti a poca distanza dal cuore del paese, dall’inizio di giugno vengono lavorate le gocce di Bacco di fama internazionale.

“La filosofia di qualità presuppone delle innovazioni tecnologiche e strutturali che permettono di continuare con successo la propria attività. Per realizzare tutto questo sono necessari più spazi. Cantina Terlano: Più spazio per i viniAl contempo desideriamo offrire ai nostri vini, che notoriamente hanno una lunga fase di sviluppo e maturazione, più spazi per il loro affinamento. Inoltre vogliamo rendere la Cantina un punto d’incontro accattivante per Terlano”, così l’amministratore delegato Walter Eisendle chiarisce i motivi dei lavori. Gli architetti TV TROJER VONMETZ su circa 3.860 m² hanno realizzato un moderato ampliamento del complesso esistente e permesso l’integrazione nella struttura del paese e nella natura. Dall’esterno la nuova ala convince grazie al rivestimento di porfido rosso, la roccia che caratterizza la zona e che contribuisce alla specificità del vino di Terlano. Il tetto è ricoperto di viti per sottolineare il graduale passaggio verso la natura circostante di cui la vite è l’incontrastata protagonista.

“I lavori di ampliamento sono frutto di una scelta avveniristica. Desideriamo ringraziare l’amministrazione comunale di Terlano e tutte le persone coinvolte per il loro sostegno e per la comprensione”, sottolinea Georg Höller presidente della Cantina. “Negli ultimi mesi abbiamo eseguito anche degli adattamenti architettonici, non solo per collocare circa 1,5 ml di bottiglie di Terlano, ma per dare spazio anche le circa 300.000 bottiglie dei vini di Andriano che dal 2008 vengono prodotte a Terlano.” Sotto le vigne appena piantate si nascondono diversi magazzini, l’impianto d’imbottigliamento e il fiore all’occhiello di tutta la struttura rinnovata: la ‘cantina del porfido’. “Con questo gioiello architettonico vogliamo sottolineare ulteriormente l’origine dei nostri vini: il Terroir”, chiarisce l’enologo Rudi Kofler. “Il terreno porfirico, ricco di minerali, contribuisce a rendere unico il carattere dei vini di Terlano. Il porfido ha conquistato adesso il suo posto direttamente in cantina”.

Per maggiori informazioni sulla Cantina Terlano: www.kellerei-terlan.com.
Fonte www.bereilvino.it

Donnardea e Percorsi di Vino dicono NO all'inceneritore di Albano Laziale

Pubblico volentieri la denuncia dell'Azienda Vitivinicola Donnardea che sta lottando insieme alla gente del posto contro la costruzione dell'inceneritore di Albano Laziale. La nostra sarà una goccia nel mare però...ci proviamo!

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Che ci fai con l'amore per il territorio, la passione e l'impegno? Oggi con la genuinità non ci campi, con la passione non ci vivi, con la tenacia non rendi forti le tue posizioni, con l'amore per la natura e per la tua terra non salvaguardi nè paesaggi nè territori. E nè te stesso.

Che ci fai con il BLOG se non esponi la tua anima, i tuoi successi e le tue battaglie, le tue difficoltà in vigna in cantina e non racconti nel bene e nel male il tuo territorio?

Che ci fai con internet se non diventa mezzo oltre che di comunicazione anche di RETE e di supporto, amplificando la tua voce e i tuoi propositi?

Tutto vano?

"L'Italia è bella tutta è vero, nessun luogo merita un inceneritore. "

Auto-denunciando il fatto che tra pochi mesi, SE NESSUNO FARA' NIENTE PER AIUTARCI a bloccare questo scempio, i marchi e i valori BIOLOGICO, BIODINAMICO, DOC di questi luoghi, saranno compromessi! ... non faccio certo l'INTERESSE DELLA NOSTRA AZIENDA .

E ciò la dovrebbe dirla tutta sulla genuinità della mia voce.

Molti mi hanno detto di tacere. Che l'inceneritore si farà lo stesso. Che non serve a nulla alzare polveroni...nè discuterne.

Tutto ciò tralasciando il fatto che qui oltre alle produzioni agricole, ci sono tantissime famiglie che ci vivono e bambini che vanno a scuola e all'asilo in quelle strutture che si troveranno a 200 mt dall'inceneritore!

Situazioni come la nostra la stanno vivendo e l'hanno vissuta in molti in Italia.

Valorizzare i nostri prodotti agricoli, i nostri Vini, vuol dire valorizzare la nostra campagna, i nostri panorami. Ma c'è chi non capisce e non vede chiudersi "il cerchio". Profeti in patria qui non se ne trovano.

Certo chi ha scelto i Castelli Romani come luogo preposto alla costruzione del più grande inceneritore d'Europa, non deve essere qualcuno che ha grande conoscenza e stima delle nostre DOC.

Forse è per lo stesso motivo che anni fa un'inceneritore era stato proposto a Montalcino e più di "qualcuno" si è mosso per evitarlo...

Ma post dopo post, lettera dopo lettera, incontro dopo incontro, riunione dopo riunione...tante belle parole e pochi FATTI.

L'unico FATTO è che a 500 mt in linea d'aria dalle nostre vigne, in un luogo da anni preposto alla salvaguardia della Natura e dell'Ambiente, oltre che alla valorizzazione dei nostri prodotti, sarà (?) costruito l'inceneritore.

Tutti dispiaciuti, tante pacche sulle spalle, nessun sostegno concreto, nè dalla gente. nè dagli amici, nè dalle istituzioni.

Soli si nasce e soli si muore?

"Paolo e Francesca tra i dannati, Dante non può fare a meno di provare un senso di profonda ed umana pietà e di compiangerne la sorte. "

E tu? Ho bisogno della tua voce e del tuo sostegno. Qui sul blog e oltre.

www.noinceneritorealbano.it

Il grande Verdicchio di Garofoli

Garofoli vuol dire Verdicchio dei Castelli di Jesi, il vino Doc piu' famoso e storicamente conosciuto delle Marche (la denominazione quest’anno compie 40 anni).
Le grandi virtù del Verdicchio erano conosciute fin dall’antichità: attorno al 200 d.C. a Cupramontana, città nata attorno ad un tempio eretto in onore della dea Cupra, i romani tenevano riti propiziatori con sacre bevute di vino, probabile antenato del Verdicchio, in onore, appunto, di Cupra, dea della ricchezza e dell'opulenza. Qualche secolo dopo Pietro Aretino, noto poeta toscano del '500, nonostante la fama di denigratore di tutto e tutti, per il Verdicchio spese parole soavi per esaltarne le virtù dietetiche e gustative. Oggi, il Verdicchio rappresenta uno dei grandi vini bianchi del panorama mondiale per il fatto che riesce a coniugare allo stesso tempo una assoluta complessità strutturale con una grande finezza ed eleganza. Il Verdicchio viene anche definito “un vino rosso vestito di bianco”, proprio per questo le migliori etichette reggono bene il medio/lungo invecchiamento e sono molto frequenti le vendemmie che esprimono notevoli qualità soltanto oltre il biennio. La Garofoli, così come altri produttori marchigiani, da sempre ha creduto nelle potenzialità di questo vitigno autoctono tanto che negli anni '50 Franco e Dante Garofoli non vendono più il loro vino sfuso nelle osterie ma lo imbottigliano per essere venduto anche nei negozi di generi alimentari sprovvisti di licenza per la mescita. Il successo per l’iniziativa è talmente tale che, alla fine degli anni '50, viene realizzata la cantina di Serra de' Conti, attualmente ancora in uso, per effettuare in zona di produzione la vinificazione delle uve di Verdicchio. Durante la mia incursione al Vinitaly 2009 allo stand Garofoli ho potuto apprezzare tre grandi vini prodotti da questo vitigno autoctono: il Brut Riserva 2004, il Podium 2006 e il Serra Fiorese 2005. Il primo vino rappresenta una delle tante sfide di casa Garofoli perché spumantizzare un Verdicchio non è certo cosa semplice, bisogna essere molto bravi per creare un vino base dalla buona acidità a partire da un’uva che offre il meglio di sé se vendemmiata leggermente surmatura. Una maturazione sui lieviti di circa 48 mesi danno vita ad uno spumante dal colore paglierino carico, quasi dorato, e dal perlage abbastanza fine e persistente. Al naso è soprattutto floreale, biancospino e tiglio accarezzano i nostri sensi, poi esce un delicato aroma di pesca e mela verde. Bocca di bella intensità, cremosa, è un vino che stupisce per freschezza e sapidità. Chiude abbastanza persistente. Lo abbinerei a tutto pasto senza problemi! Il Podium 2006 è un vino potente, complesso ed elegante allo stesso tempo, caratteristiche tutte che derivano dalle basse rese per ettaro, dalla raccolta posticipata delle uve e dall’affinamento in bottiglia di almeno un anno. Questo millesimo si caratterizza per un bouquet aromatico di tutto rispetto, il naso è tutto di fiori bianchi, pesca, pompelmo rosa, mandarino, litchi, a cui si sommano, man mano che il vino si apre, intensi sbuffi minerali e intriganti effluvi di erbe di campo. La bocca è polposa ed ampia, per fortuna i 14 gradi alcolici sono ben supportati dalla grande acidità e sapidità del vino. Buona la persistenza finale. Servitelo fresco in una notte d’estate! Il Serra Fiorese 2005 è un Verdicchio caratterizzato dalla grande struttura e longevità visto che fermenta e matura in piccoli fusti di rovere per almeno un anno ed affina in bottiglia per almeno 15 mesi. Al bicchiere rivela subito le sue grandi potenzialità, è molto più complesso e maturo del Podium aprendosi fin da subito a sentori di ginestra, fiori di tiglio, agrumi canditi, fieno, pesca matura, mela golden, erbe officinali e una leggera nota tostata che tradisce il passaggio in legno. E’ ancora giovane e questa sua caratteristica la rivela soprattutto al palato dove è ancora “troppo” grasso, cremoso, con le note burrose e vanigliate che forse coprono un po’ il resto. Buona la persistenza per un vino che deve essere solo lasciato in cantina, tra qualche anno riapritelo e vedrete che meraviglia…..

Tra Go Wine e l’Amarone ha vinto….il caldo

Qualche tempo fa Go Wine ha organizzato a Roma una interessante rassegna sull’Amarone della Valpolicella. L’Hotel Quirinale ha ospitato più di venti aziende vitivinicole e, fortunatamente, la maggior parte dei produttori era presente all’evento, tutti composti dietro i loro banchetti. Tutto perfetto allora? Assolutamente no, c’era una grande, grandissima nota stonata rappresentata dal clima tropicale che si è creato all’interno della grande sala di degustazione. Tantissime persone sudate fino ai calzini che giravano barcollanti, produttori che consumavano fazzoletti per asciugarsi la fronte e un unico grande sconfitto, proprio quell’Amarone che, per le sue caratteristiche organolettiche, fa a cazzotti con le alte temperature che, quella sera, sfioravano i 30°. Ma dico, te produttore che vai in giro per tutta Italia a promuovere il tuo vino perché non ti incavoli e non reagisci a questa pessima organizzazione? Ma te pensi veramente che la gente, con un clima equatoriale, possa realmente apprezzare il tuo Amarone? Boh io questi a volte non li capisco…
Lasciando da parte le polemiche, durante la serata ho degustato circa venti Amarone della Valpolicella con questi risultati:

Michele Castellani – Amarone Classico “I Castei” 2003: iniziamo veramente male, il caldo esalta molto la nota calda e alcolica del vino che risulta troppo squilibrato. Peccato che l’annata non dia una mano;

Corte S. Benedetto – Amarone Classico 2003: azienda molto giovane ma che parte subito col piede giusto. Il loro Amarone, nonostante fosse del 2003, non presenta i problemi del precedente vino. Ciliegia matura, ribes e un bel floreale sono le caratteristiche olfattive di questo vino che in bocca incanta per equilibrio ed eleganza. Nota di merito;

Cesari – Amarone “Bosan” 2001: l’unico produttore ad aver “osato” portare un’annata non troppo recente. Vino di bell’impatto che seduce con le sue delicate note di sottobosco, spezie e cacao. Bocca calda, vellutata ed elegante dove morbidezza, acidità e tannini nobili tengono il vino in grande equilibrio;

Manara - Amarone Classico 2005: naso scuro, selvatico, humus e frutta di rovo. Bocca interessante, poco aggressiva nonostante la giovane età. Buona la persistenza aromatica;

Nicolis - Amarone Classico 2004: l’alcol presente forse in eccesso veicolava note si frutta rossa sotto spirito e qualche nota di viola appassita. Bocca caratterizzata da un tannino ancora troppo aggressivo. Ancora scomposto ha bisogno di molto affinamento in bottiglia;

Santa Sofia - Amarone Classico 2004: quadro aromatico contraddistinto da frutta rossa matura, note ematiche e un tocco di balsamicità. Potente e molto fruttato in bocca, mostra buona tensione. Bella persistenza;

Tenuta S. Antonio – Amarone “Campo dei Gigli” 2003: nota alcolica in evidenza, poi esce la frutta sottospirito e interessanti effluvi di erbe medicinali e rabarbaro. Bocca calda, tanta polpa ma, purtroppo, anche tanto alcol che disturba la deglutizione;

Tinazzi - Amarone Classico 2005: Naso marcato da confettura di more, ciliegia matura, ribes e mora di rovo. Col tempo esce anche la grafite e un leggero speziato. Bocca giovane, non ancora equilibrata anche se l’allungo finale fa sperare in un vino dalle grandi prospettive;

Accordini Gino – Amarone Classico “Le Bessole” 2004: naso molto profondo, aristocratico, giocato su aromi di frutta matura, spezie, cuoio e humus. Bocca molto coerente al naso, esaltante per integrità, è un vino che non ci stanchiamo di bere. Nota di merito;

Zenato – Amarone Classico 2004: chiudo le degustazione con un bel vino, spezie, frutta di rovo e frutta secca sono i principali descrittori olfattivi. Alla gustativa è equilibrato, di sostanza e di bella persistenza.

Complessivamente buono ma non il migliore della batteria. Gli preferisco Accordini e Corte S. Benedetto, a Zenato la medaglia di bronzo insieme a Cesari.

Tra i Colli Tortonesi alla ricerca del Timorasso

Trenta e trentuno maggio sono stati due giorni importanti, finalmente dopo tante promesse ce l'abbiam fatta, siamo riusciti a partire alla volta dei Colli Tortonesi per scoprire tutti i segreti del Timorasso.
Accompagnati da Paolo Ghislandi di "Cascina I Carpini" (di cui vi parlerò in seguito) abbiamo partecipato alla rassegna enogastronomica "Assaggia Tortona" che poteva vantare tra i partecipanti (quasi) tutti i principali produttori di Timorasso. Quale migliore occasione per cogliere tanti piccioni con un fava?
Ma perché mi sono spinto fin lassù? Perchè dietro questo vitigno c’è tutta una storia, una storia che riguarda i vignaioli di quelle valli, il loro lavoro, la loro cultura e, soprattutto, le loro speranze.
Il Timorasso è un vitigno autoctono del comprensorio tortonese. In tale area è coltivato dal Medioevo e se ne hanno notizie già dalla prima enciclopedia agraria redatta nel XIV secolo dal bolognese Pier de Crescenzi. L’ampelografia descritta dallo stesso autore non lascia praticamente dubbi sull’originalità del vitigno. La sua diffusione ha riguardato soprattutto la parte medio alta delle principali valli tortonesi; da est verso ovest la Val Curone, la Val Grue e la valle Ossona. Contemporaneamente se ne allarga la coltivazione anche in Val Borbera, nel Novese e in Oltrepò pavese. Nel corso dei secoli conferma le proprie attitudini tanto da divenire il più importante vitigno bianco piemontese relativamente alla superficie e alle quantità prodotte. Esistono infatti, a riprova di ciò, presso l’archivio di stato a Torino, i documenti che, nel periodo compreso fra le due guerre, testimoniano gli acquisti di prodotto giovane e semilavorato che i sensali promuovevano verso l’Europa del nord e che chiamavano “torbolino”.
Il successivo dramma della fillossera e la malattia dei bachi da seta rivoluzionano tutto, si annienta in poco tempo l’economia contadina tortonese che, in quel periodo, era basata sul mercato tessile (i gelsi venivano venduti ai francesi) e sulla viticoltura (il vino è un prodotto pregiato da vendere ai négociant milanesi e pavesi). Risultato: annientamento dell’economia contadina che spinge all’abbandono delle campagne e all’emigrazione. Il timorasso, allora diffusissimo, è la prima vittima di questa rivoluzione forzata. Quando, dopo qualche decennio, si riprende la coltivazione dell’uva su piede americano, si preferiscono viti più produttive: barbera, croatina e cortese. Il timorasso sopravvive come presenza endemica in pochi filari o piante sparse, soprattutto nella zona del Tortonese orientale. E così rimane a lungo fino a quando qualcuno, dotato di intraprendenza, caparbietà e passione per la propria terra, non decide di riproporlo in grande stile. Quel qualcuno è Walter Massa, l’indiscusso autore della rinascita del timorasso.
Il primo raccolto di timorasso vinificato in purezza, risale alla vendemmia del 1987 e, da allora, l’esperienza nella lavorazione di questa varietà autoctona ha portato a capire, con il raccolto del 1995, che il vino ottenuto con il timorasso si esprime al meglio SOLO alcuni anni dopo la vinificazione che, secondo lo stesso vignaiolo, deve avvenire in acciaio e seguita da una lunga (di solito 12 mesi) permanenza sulle fecce nobili che in tale ambito cedono preziose componenti aromatiche e hanno una funzione antiossidante che predispone a invecchiamenti medio-lunghi.
Tornando ad “Assaggia Tortona” con Paolo ci siamo girati un po’ di banchetti e l’idea che mi son fatto è che tanti produttori di Timorasso ci stanno provando ma pochi riescono davvero a cogliere l’essenza di questo vitigno. Tra i vari vignaioli presenti vorrei segnalare:

Colli tortonesi bianco Derthona Timorasso Stato 2005 Az. Agr. Stefano Daffonchio
Daffonchio è uno dei pochi produttori che ha posto in degustazione un Timorasso con qualche anno sulle spalle e già questo è un merito. Il vino, il cui nome si ispira ad una canzone di Carmen Consoli, al naso rappresenta splendidamente i caratteri del Timorasso: dapprima è fruttato, soprattutto esce la pera matura e la mela cotogna, poi entra in gioco una splendida mineralità che oltre al territorio e dovuta anche al vitigno (il timorasso ha circa 20 geni in comune con il sauvignon blanc della Loira e del Graves). In bocca entra dritto, di una austera eleganza ed incanta per un garbato equilibrio tra morbidezza ed acidità/sapidità. Chiude molto lungo, potente, su note di roccia.

Colli tortonesi bianco Annozero Az. Agr. Vigneti Pernigotti 2007
Questa piccola azienda biologica del tortonese produce un Timorasso molto interessante, più fresco e delicato del precedente data la sua maggiore gioventù, esprime netti sentori di melone, pesca, mela cotogna, ginestra a cui fanno eco forti richiami minerali di selce. Di grande equilibrio in bocca, ha nella freschezza e nella conseguente bevibilità il suo punto di forza. Finale di buona persistenza. Provato col Montebore dovrebbe dare grandi soddisfazioni…

I turisti del vino secondo Donatella Cinelli Colombini

Da Donatella Cinelli Colombini, ideatrice di ''Cantine aperte'' e autore di due manuali sul turismo del vino arrivano le informazioni piu' specifiche sulla nuova segmentazione dell'offerta e della domanda di enoturismo. I 4 target in cui e' possibile dividere i turisti del vino: amanti del lusso, super esteri, turisti del vino e turisti per caso danno origine a tre tipologie di cantine aperte al pubblico. Ci sono le cattedrali di cui fanno parte le cantine d'autore che in Italia portano la firma di Renzo Piano, Gae Aulenti e Piero Sartogo, le cantine con identita' forte cioe' gli scrigni dei grandi produttori dove bussano i super esperti, le cantine classiche che proliferano imitandosi una con l'altra e le funzionali, dove domina la tecnica. L'analisi porta a 4 identikit di turisti del vino: l'amante del lusso e' quasi sempre straniero e adora le cantine famose e aristocratiche, il super esperto aspira a un numero illimitato di degustazioni in anteprima o di antiquariato. Meno ossessionato dal bisogno di collezionare cantine, il normale turista del vino coltiva il suo interesse con corsi, letture e assaggi, infine il turista per caso vede la tecnologia enologica come un elemento fortemente negativo. Ha un'esperienza diretta degli amanti del vino e del lusso Gelasio Gaetani Lovatelli d'Aragona un aristocratico che gira il mondo dando consulenze proprio ai miliardari wine lovers. Accanto alla sua testimonianza arriva quella del massimo esperto bel business enologico Nicola Dante Basile del ''Sole 24 ore'' e, a conclusione dei lavori, Eugenio Magnani Direttore Generale Enit (agenzia nazionale del turismo) ha disegnando il quadro d'insieme dell'enoturismo. E' un comparto che accresce la sua importanza ogni anno e prende caratteri propri staccandosi dagli altri turismi, soprattutto e' un segmento che tiene nonostante la crisi e anzi accetta la sfida con i competitori esteri rinnovandosi e qualificandosi costantemente.

Fonte Adnkronos

Tutta la Franciacorta di Ricci Curbastro

Ospite all’AIS di Roma qualche settimana fa, questa storica Azienda Agricola della Franciacorta, con sede a Capriolo (BS) e capitanata oggi da Riccardo Ricci Curbastro, è oggi una importante realtà vitivinicola che, con i suoi 26 ettari vitati, produce circa 200.000 bottiglia l’anno.
Interessantissimi i vini proposti in degustazione, una vera sorpresa Ricci Curbastro che ha incantato la folla presente proponendo una piccola verticale sia del suo Franciacorta Satén Brut (annate 2002, 2003, 2004, 2005), sia dell’Extra Brut (annate 2000, 2002, 2003, 2004) per poi terminare con il Franciacorta Rosè Brut e il Franciacorta non dosato “Gualberto”. Il Franciacorta Satén Brut (100% Chardonnay), a prescindere dai millesimi che analizzeremo successivamente, si è mostrato un vino estremamente elegante e sempre contraddistinto da un bel connubio tra note agrumate e minerali, caratteri tutti che ritroveremo all’interno dei vari bicchieri degustati anche se le singole annate influenzeranno non poco la percezione della loro complessità/intensità.
Iniziamo la verticale con il Franciacorta Satén Brut 2002, fresco, delicato, che al naso si caratterizza per eleganti sentori di
agrumi canditi, frutta tropicale, pera, mela e una grande mineralità che contribuisce a fornire profondità al quadro aromatico globale. Bocca che, nonostante gli anni, è ancora dotata di grande acidità e sapidità. Chiude lungo e piacevole su una bella scia minerale. Fermenta in legno per otto mesi prima del tiraggio in bottiglia.
Il Franciacorta Satén Brut 2003, figlio di un’annata calda, riprende tutti i caratteri del millesimo ed in bocca è più rotondo del precedente, la frutta è ancora più candita e più “cotta”, ritorna il minerale, troviamo una interessante nota fumè seguita da sensazioni di mandorla amara. Alla gustativa ritroviamo le stesse sensazioni olfattive anche se, rispetto l’annata precedente, la freschezza tende un minimo ad essere sovrastata dalla sensazione pseudo calorica portata dall’annata. Ottimo se abbinato a piatti con tendenza acida che, in questo caso, viene bilanciata dalla morbidezza del vino.
Con il Franciacorta Satén Brut 2004 il naso presenta una intensa dolcezza sfaccettata con note floreali ancora vive di biancospino, muschio, sambuco, agrumi, erbe aromatiche e la “classica”nota minerale di sottofondo. Bocca dove tornano tutte le componenti olfattive. Buon equilibrio tra acidità e morbidezza e grande persistenza.
Il Franciacorta Satén Brut 2005 è ancora un bimbo in fasce, non troviamo più le note dorate del colore, i riflessi tendono ancora al verdolino così come poco maturo ci appare il quadro aromatico dove troviamo l’erba limoncella, la pesca bianca, la mela golden, il mandarino, mentre una lieve nota burrosa tradisce un legno non ancora totalmente assorbito dal vino. Al palato il Franciacorta è gradevolmente fresco, intenso, morbido con una suadente scia sapida a chiudere la deglutizione. Di grande avvenire.
Passiamo ora al Franciacorta Extra
Brut (50% Chardonnay e 50% Pinot Nero), un vino per palati raffinati, un vino da prendere o lasciare che fa 48 mesi sui lieviti ed un vino che Ricci Curbastro fa uscire sempre millesimato. In tal caso, a differenza degli Champagne, le uve sono provenienti sempre tutte dalla stessa annata a prescindere dalla sua “grandezza”.
Il primo Franciacorta Extra Brut presentato è del 2000. Di uno splendido colore oro rosso al naso si apre con una iniziale note salina che poi viene seguita da
sapori di cotogna, miele, ciliegia (durone di vignola), agrumi canditi, susina, pera, pan grillè, nocciola e un intenso soffio minerale. Che naso fantastico! Bocca più minerale che fresca che chiude con un leggero amaricante finale che ci invita a berne un altro sorso. Peccato sia finito anche in azienda.
L’annata 2002 porta al naso un ventata di freschezza con i suoi intensi effluvi di pompelmo, camomilla, acacia, susina, nocciola e una lieve nota di pasticceria da forno. Gran millesimo questo 2002 anche in bocca dove il Franciacorta è ricco, intenso, minerale lasciando una bocca fresca delicatamente agrumata. E poi dicono che i vini di quest’anno son da buttare….
Il 2003 si conferma come il Brut, intenso al naso dove lime, pompelmo, mandarino, pesca matura e frutta tropicale candita dipingono un quadro aromatico mediterraneo. Bocca importante e voluminosa, l'aspetto fruttato dolce e maturo, causa annata calda, non è accompagnato da un'acidità fervida che potrebbe bilanciare a dovere il palato. Sicuramente un vino più di potenza che di finezza.
Il 2004, ancora una volta, lascia intravedere la sua bella gioventù con sensazioni agrumate, di pan grillè e mela golden. In bocca è molto fresco, frutto sottile accarezzato da un'acidità molto ben bilanciata. Bella la persistenza. Chiude su note di crosta di pane e frutta. Attendiamo una maggiore complessità dal vino.
Chiusura della degustazione con due interessanti Franciacorta: il Brut Rosè e il “Gualberto” Pas Dosè 2003. Il primo, di uno splendido colore corallo, al naso è molto immediato aprendosi su note intense e pulite di lampone, ciliegia, ribes, rosa, caramella all’amarena ed erbe di campo. In bocca una garbata astringenza e una delicata effervescenza lo rende di grande beva ed abbinabile anche ad una bella tagliata al rosmarino.
Il “Gualberto” Pas Dosè 2003 presenta un uvaggio insolito (Pinot Nero 70% e Chardonnay 30%) per un Franciacorta e matura in bottiglia almeno 60 mesi. Vino di grande morbidezza nonostante l’assenza di zuccheri, si caratterizza per una fusione di aromi agrumati, minerali e floreali. La bocca è rotonda e asciutta, tornano le note olfattive ben amalgamate con l'acidità che rinfresca un corpo importante ma non ingombrante. Buona persistenza.

E oggi parliamo di birra artigianale.....e vino.....

Circa un mese e mezzo fa qua a Roma si è svolto l'Italia Beer Festival (IBF) ovvero il festival italiano delle birre artigianali. Tanta la gente, tante le birre interessanti grazie anche alla selezione e alla preziosa collaborazione dei storici locali di Roma dedicati alla birra, ovvero il Ma che siete venuti a fà di Manuele Colonna e Fabio Zaniol, il 4:20 di Alex Liberati, il Mama Tequila di Stefano Battaglia coadiuvati dalla collaborazione gastronomica del Bir & Fud di via Benedetta a Roma.
All’interno dell’IBF si è svolta un’interessante degustazione, condotta dal bravissimo Paolo Mazzola (Domozimurghi), sulle birre artigianali prodotte con la frutta. Tra le tante degustate, per un appassionato di vino come me, interessantissima è risultata la BB10, grande birra prodotto dal birrificio sardo Barley. Che cosa c’entra questa birra col vino? Semplice, la BB10 ha tra i suoi ingredienti (tra cui sei malti inglesi di primissima qualità) la sapa, ovvero il mosto cotto d’uva che, trovandoci in Sardegna, non poteva che essere il Cannonau.
La BB10 è una birra dal colore scuro e presenta un naso estremamente ricco e complesso, frutto di quella fusione tra malto e mosto di Cannonau che conferiscono un bouquet aromatico caratterizzato da prugna matura, mirtillo, confettura di ciliegia, caramello, cioccolato fondente, chiodi di garofano, uva passa. Sembra davvero il quadro olfattivo di un grande vino, un grande Cannonau.
Alla gustativa la BB10 esprime ancora di più i caratteri del vitigno, la birra presenta una certa tannicità che asciuga dolcemente il palato lasciando comunque la bocca in grande equilibrio. Bella ed intensa la persistenza su ricordi di cioccolato amaro e frutta rossa matura. Per molti una birra da meditazione, per me una bella Chianina in abbinamento non ci starebbe male per niente. Per il resto che dire, una birra che a me, ma anche al resto della platea presente alla degustazione, è piaciuta molto, soprattutto perché nel bicchiere si fondono alla grande i caratteri della grande birra artigiana italiana e le peculiarità e la territorialità del vino utilizzato. Ben vengano questi esperimenti soprattutto da una Regione, la Sardegna, da troppe persone sottovalutata sia a livello enologico che a livello birrario. Ah, la BB10 viene venduta in serie limitata per cui prenotatela in tempo!

Il Wine Tasting Experience della Collezione Faber-Castell

Girovagando per via Ottaviano a Roma entro nel negozio Stilograph e chi ti vedo? Un collega, un sommelier AIS tutto intento a spiegare ad ignari avventori le qualità del Riesling della Franconia. Dopo qualche minuto capisco, sono appena entrato in uno dei tanti negozi di articoli stilografici di Roma che organizzano il Wine Tasting Experience della Collezione Faber-Castell. Che cosa? La più importane azienda di matite al mondo che produce anche vino? E' un scherzo? Pare di no, sembra infatti che i Principi Castell, oltre a gomme, matite, mine e stilografiche sia anche impegnata in altre attività tra cui l'azienda vitivinicola di famiglia che Ferdinand Castell-Castell porta avanti assieme al cugino Johann-Friedrich.
La Tenuta Castell è situata in Franconia, regione del centro Germania e può contare su 65 ettari di vigneti di cui il 70% sono disposti su colline ed il restante 30% su pendii scoscesi. Sei degli otto più conosciuti vigneti Castell sono nella proprietà del dominio Furstlich Castell'sches.

I vini in degustazione era:
  • Casteller Hohnar Silvaner Kabinett Trocken 2007: colore giallo paglierino con evidenti riflessi verdolini, il naso, causa temperatura di servizio troppo bassa, parte un pò muto anche se dopo qualche minuto si apre evidenziando delicati aromi di frutta gialla matura, glicine, gelsomino. Bocca di bella acidità, minerale, cremosa, anche se dopo la deglutizione il vino chiude con un leggero amarognolo che rovina un pò l'armonia complessiva della bevuta;
  • Casteller Bausch Muller-Thurgau Kabinett Trocken 2007: paglierino con riflessi dorati, il vino non fa impazzire per complessità olfattiva, qualche tocco di frutta matura e fiori bianchi chiudono il quadro aromatico. Gustativa che si conferma simile al Silvaner. Voto complessivo: MAH!;
  • Honart Riesling Trocken 2007 - Edition Graf Ferdinand: paglierino intenso, la "punta di diamante" della produzione vitivinicola della Faber-Castell, forse per la premesse che mi son state fatte dal sommelier, mi delude ampiamente: il Riesling è decente, di facile beva sicuramente, ma è privo di ogni complessità e anche la persistenza lascia molto a desiderare. Sarò abituato male con i Riesling della Mosella? Beh anche là non è tutto oro quello che luccica però difficilmente mi è capitato di bere un Riesling così modesto, privo di anima.
E se tornaste solo a produrre matite e stilografiche?

Marramiero: verticale mistica di Inferi

Oggi mi riposo, oggi Percorsi di Vino ha un graditissimo ospite, Alessandro Sinibaldi (Master sommelier AIS di Roma) che scrive per il blog un interessantissimo articolo su un grande Montepulciano d'Abruzzo. Grazie Alessandro e spero di rileggerti ancora nel futuro!

“Guarda il calor del sol che si fa vino giunto all’umor che della vite cola”.

E’ con questa citazione di Dante (Alighieri) che desideriamo parlare dell’azienda creata da Dante (Marramiero), e ora gestita dai figli Enrico e Patrizia, e non a caso, visto che i vini prodotti hanno nomi come “Inferi”, “Altare”, “Incanto”, “Anima” o “L’eleusi”.

L’azienda, in provincia di Pescara, posta tra il mare abruzzese davanti e il Gran Sasso e la Maiella dietro, su un cocuzzolo a 270 m di altezza e su terreni prevalentemente argillosi, possiede un totale di 30 ha in cui troviamo Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo, Pecorino e altri vitigni per un totale di quasi 500.000 bottiglie. Il direttore commerciale è Antonio Chiavaroli, che milita lì da 25 anni, e l’enologo Romeo Taraborrelli.
Il vino di punta dell’azienda è il “Dante Marramiero”, un Montepulciano da uve selezionate e da vigne di 40 anni di età. Viene prodotto solo in annate particolarmente favorevoli e, in particolare, sono uscite sul mercato la 1998, ’99 e la 2001. Il vino esce dopo una maturazione in tini e in acciaio di 24 mesi, un invecchiamento in piccolo legno nuovo di 24 mesi e in bottiglia di 18 mesi.

L’oggetto del nostro interesse, però, è l’ ”Inferi”, Montepulciano d’Abruzzo DOC, che abbiamo avuto occasione di assaggiare in una verticale delle annate dispari dal 1993 fino al 2003 organizzata dall’AIS di Roma.

Anche qui Montepulciano quindi, in una delle sue vesti migliori come solo produttori di gran classe di queste zone (oltre a Marramiero citiamo, per limitarci ai famosi, Valentini e Masciarelli) ci hanno abituato.

Il vigneto da cui proviene il vino è stato piantato negli anni ’70 a pergola abruzzese e con circa 1600 ceppi/ha (sesto d’impianto di 2,5 m x 2,5 m) per una resa complessiva di 60-80 q/ha. La pergola riduce l’irraggiamento solare sui grappoli favorendo lo sviluppo dei polifenoli e degli aromi ed è rimasta come forma di allevamento solo nei vigneti storici, per essere surclassata nelle vigne più recenti dalle classiche forme a spalliera, come guyot e cordone speronato, che presentano, rispetto al tendone, una minore dipendenza da annate cattive.

Le piante, ormai in piena maturità, godono di un impianto radicale profondo che permette loro di superare i periodi più siccitosi e di estrarre dal terreno tutto il meglio delle sostanze minerali. Ed è proprio questo uno dei marcatori più caratteristici di questo vino: una sapidità in bocca veramente eccezionale, quasi rugginosa ed ematica in certe annate, abbinata ad una freschezza propria del vitigno.

La maturazione delle uve è tardiva e viene effettuata intorno alla metà di ottobre.

La fermentazione, in acciaio, avviene in circa 10-12 giorni con il metodo Ganimede ad una temperatura di 24-28 °C. Durante il processo di fermentazione, si sviluppano grandi quantità di anidride carbonica: dai 40 ai 50 litri di gas per ogni litro di mosto. Il fermentatore Ganimede consente di raccogliere il gas, concentrarlo e riutilizzarlo per poter rompere il cappello delle vinacce ed effettuare il rimescolamento in modo uniforme e naturale, senza dover utilizzare pompe o energia elettrica e con una migliore cessione di aromi e colore. Dopo, il mosto viene lasciato a macerare con le bucce cui segue la pressatura soffice e la sosta in acciaio per quasi un anno, e quindi la maturazione in barriques di primo passaggio e di 5 legni diversi (4 francesi e 1 di Slavonia) di varia capienza per 12 mesi. Il passaggio degli antociani dalle bucce al mosto è praticamente completo, come testimonia il colore delle vinacce esauste sostanzialmente chiaro. Completa una sosta in bottiglia per circa 6 mesi. La malolattica viene effettuata in acciaio. Il risultato sono circa 3500 bottiglie che escono, franco cantina, a circa 10 euro (prezzo per distributori e ristoratori).

Il colore è rosso rubino abbastanza trasparente ma con bella carica antocianica e unghia granata. La gradazione alcolica è sui 14%.

Passiamo ora alle annate in degustazione:

1993 colore granato abbastanza trasparente e leggera unghia aranciata. Naso molto interessante di spezie dolci, prugna, rabarbaro, china, etereo, con accenni di caffè e cioccolato ed una leggera foglia bagnata. In bocca si notano subito freschezza e notevolissima sapidità. I tannini sono morbidi ed eleganti. Nel retrobocca è ematico, con ritorni di prugna e fiori secchi. Lunghissimo.

1995 Al naso si presenta diverso rispetto al 1993, con note di salamoia d’olive evidenti, scorzetta d’arancio in rabarbaro, prugna e leggero fumé. Lasciato nel bicchiere ha una permanenza maggiore delle altre annate in degustazione. In bocca fresco, estremamente sapido con note di fico secco. Tannino leggermente più avvertibile dell’annata precedente, ma sempre con trama molto fitta. Lunghissimo.

1997 Ancora naso diverso, più simile alla ’93, con netta prevalenza di note minerali e quasi di cenere. Un leggero goudron e ancora rabarbaro, prugna e erbe aromatiche. Compare anche un leggero balsamico. In bocca è saporito, fresco, bel tannino. Scalpitante. Lunghissimo.

1999 Ancora una leggera salamoia, Stavolta, però, compaiono le note vinose. Ciliegia, erbe aromatiche e spezie dolci, chiodi di garofano in primis. In bocca fresco e sapido con retrogusto di liquirizia. Tannino di qualità. L’annata è stata più fresca e piovosa rispetto al 1997, che ha causato un ritardo nella vendemmia alla seconda metà di ottobre

2001 rubino più concentrato rispetto alle annate precedenti con buona carica antocianica. Naso simile al ’99, con fruttato di ciliegia nera, spezie, rabarbaro e erbe aromatiche (ginepro e mirto). Ancora mineralità e balsamicità. In bocca fresco e sapido con retrogusto di liquirizia. Tannino ancora un pò irruento ma ben fatto. Molto persistente.

2003 Colore rubino. Profumi di macchia mediterranea, spezie dolci, viola. Discreta balsamicità. In bocca fresco e sapido ma meno complesso degli altri. Un pò corto. Tannino ancora indomito ma di buona qualità.


“Vi invito a non tradire mai il Lavoro, ma, da qualunque parte esso venga, a desiderarlo ed amarlo, perché in esso si trova, e se si perde si ritrova, Fiducia, Serenità e Benessere” (Dante Marramiero)

Possibile che ogni volta che mangio in enoteca.....

....mi incazzo da morire?
Questo è un post volto a sfogare la mia ennesima arrabbiatura, possibile che ormai ogni volta che vado in qualche wine bar/enoteca a cenare devo uscire sempre deluso ed incavolato nero per l'ennesimo "furto" compiuto alle mie tasche?
Con Stefania decidiamo di combattere il caldo di questi giorni uscendo per una passeggiata in pieno centro di Roma. Passiamo davanti un'enoteca, decidiamo di entrare per uno spuntino vista l'ora di cena. Non c'è nessuno dentro, possibile campanello di allarme? Beh non detto.
Ci sediamo e ci viene consegnato il menù e la carta dei vini. Come al solito da rompipalle come sono mi metto a sfogliare quest'ultima cercando qualche chicca da poter bere ma il mio entusiasmo si placa all'istante. Prezzi assurdi, un Solaia 2002, che posso trovare al supermercato a 70 euro, viene prezzato in carta a 292 euro. Non vi dico quanto poteva costare un Gaja di annata, roba da mutuo o da ipoteca.
Decidiamo per un misto di salumi, un misto di formaggi, un barbera base di Oddero e un Franciacorta Rosè di una cantina che ora non ricordo ma che non era così famosa.
Arrivano i piatti, sia i salumi che i formaggi, di ottima qualità non c'è dubbio, sono messi su due piatti grandi e faccio fatica a trovarli vista la quantità veramente risibile: se c'era un etto e mezzo di roba era tanto....
Il Franciacorta ci è stato servito in maniera impeccabile anche se all'interno di un bicchiere da spumante molto piccolo mentre il Barbera Oddero ci è stato servito a temperatura ambiente, quindi circa a 25/26°. Non vi dico la nota alcolica che usciva fuori rendendo il vino al limite della bevibilità. Il pasto è stato poi accompagnato da una bottiglia di acqua liscia e un cestino di pane (non fatto in casa).
Beh, alla fine sapete quanto è stato il conto? Ben 54 euro ripartiti in questo modo:
  • vino rosso 6 euro (e qui ci posso anche stare);
  • spumante 5 euro (e pure qua....);
  • misto salumi 20 euro (qua mi incavolo perchè, mio caro ladrone, nonostante la qualità indiscussa dei salumi, calcolando circa un etto di affettato sul piatto, mi ha fatto pagare questi salumi circa 200 euro/Kg, prezzo inaccettabile qualunque sia la provenienza della merce e il servizio reso;
  • misto formaggi 15 euro (vedi sopra);
  • acqua 4 euro (prezzo inaccettabile per me, parliamo sempre di acqua, nemmeno fosse del ghiacciaio dell'Everest);
  • coperto 4 euro (no comment, ste cose si vedono nei ristoranti turistici di dubbio livello).
Che tristezza ragazzi, non tanto per il conto che ritengo eccessivo, ma perchè locali come questo, che dovrebbero essere un punto di riferimento per gli appassionati di vino romani, sono gestiti solo con la mission di spennare il prossimo pollo. Capisco i ricarichi, ma farli del 300/400%, e parlo solo dei vini in carta, è ridicolo e controproducente per tutti, per noi che vogliamo un buon bicchiere di vino, per i produttori che vengono danneggiati da politiche di prezzo assassine, e per te gestore che avrai il locale vuoto (la gente non è scema).
A Roma, pur essendo pochissime, ci sono fortunatamente altre realtà dove bere e mangiare alla grande senza umilare troppo il portafoglio, possibile che tutto ciò sia solo un'eccezione alla regola?

Del sauvignon, della pipì di gatto e delle stronzate che si scrivono sul vino..

Di vaccate sul vino se ne scrivono tante, sicuramente anche io ne scrivo qualche volta, però a questi livelli secondo me è difficile arrivare a meno che non scrivi su un argomento totalmente estraneo a te e non verifichi le fonti da cui attingi la notizia.
L'antefatto è questo: in Nuova Zelanda, paese famoso per il Sauvignon, un gruppo di scienziati ha studiato per sei anni le principali componenti aromatiche di questo vitigno. Sono stati spesi ben 12$ di dollari (alla faccia della crisi!) per definire le principali note olfattive del Sauvignon e i risultati hanno stabilito che quando mettiamo il naso nel bicchiere sentiremo un mix di sedici compomenti aromatici tra cui spiccano le note di asparago, mela, frutto della passione e pipì di gatto che tutto noi amanti del vino sappiamo essere un descrittore tipico del Sauvignon. In particolare il team di scienziati ha notato che il vino proveniente dalla regione del Wairarapa, nei pressi di Wellington, è risultato essere al primo posto per l'influenza di pipì di gatto nel Sauvignon. Se uno scrive di vino e ha fatto un minimo di studi sa perfettamente che il sentore di urina di gatto altro non è che un aroma varietale che si trova all'interno dell'uva e, in particolare, il sentore è legato alla presenza di pirazina che è una molecola eterociclica dell'azoto ed i suoi derivati metile, etile, metossile, isopropile e isobutile costituiscono i principali composti aromatici di numerosi frutti e vegetali (asparago). Detto questo che scrive il sitoTiscali nella sua rubrica strano ma vero? Leggete bene: 3 maggio 2009 - "Colore chiaro, gusto unico...", era slogan che il popolare Michele diceva nello spot del Glen Grant. Chissà se sarebbe riuscito a dire la stessa cosa dei vini bianchi neozelandesi del vitigno sauvignon blanc. Infatti secondo quanto riportato dal tabloid Daily Mail il successo commerciale e di gusto di questi vini dipenderebbe dalla "pipì di gatto" che sarebbe l'addittivo segreto. Certo che se fosse così non sarebbe una bella notizia per gli appassionati di questo vino. Eppure è quanto emerge da una ricerca commissionata dal Governo neozelandese sulla produzione vitivinicola nazionale. La Dr.ssa Sue Blackmore, un’esperta enologa della Lincoln University, ha comunque precisato che le sostanze responsabili sono presenti “in moderazione” e che “stiamo parlando di quantità estremamente limitate che rendono il vino più complesso e interessante”. Volendo forse far buon viso a cattivo gioco, il produttore Cooper’s Creek, di Kumeu, Nuova Zelanda, ha già lanciato un bianco etichettato per l’appunto “Cat’s Pee”.

Quindi, secondo la Redazione di Tiscali, il buon produttore neozelandese prenderebbe della pipì di gatto e la mischierebbe al vino attribuendogli così il "classico" aroma animale. Ah vedi quanto imparo da Tiscali, allora se sento in un rosso il sentore di humus devo pensare che l'enologo ha messo nel vino un pò di terra umida, delle foglie secche e magari una manciata di lombrichi che fanno tanto terroir?? MA VAF@@@@

Le eccellenze di Franco Bernabei: Azienda Agricola Cecchetto

Giorgio Cecchetto è un altro di quei produttori profondamente legati al proprio territorio, la Terra del Piave, tanto da credere fermamente da anni nel rilancio di un vino che fino ad allora era considerato un po’ da serie B, il Raboso del Piave, un vino di territorio dove il retaggio storico lo voleva/vuole "rabbioso", duro, aspro, a volte imbevibile.
E c’è riuscito, e sapete quando il signor Cecchetto ha capito che ce l’aveva fatta? Quando Luigi Veronelli (Corriere della Sera del 14 aprile 2002) ha descritto il suo Raboso come una "fascinosa realtà, per acidità profumi e struttura".
Durante la serata dedicata alle eccellenze di Franco Bernabei, di cui Cecchetto si avvale ormai da qualche anno, ho dedicati i miei assaggi al Sante Rosso 2006 e al Gelsaia 2005.
Il primo, 100% Merlot, si presenta di un colore rosso rubino intenso e già dal naso capiamo che ci troviamo di fronte ad un vino dove la morbidezza, a causa anche di una surmaturazione voluta delle uve, la fa da padrone: note di mora e ciliegia in confettura, prugna, leggera vaniglia data dal passaggio in barrique, bouquet di fiori rossi macerati. In bocca conferma il suo carattere un po’ “ruffiano” anche se acidità e tannino in discreta quantità smorzano leggermente questa morbidezza. Buona persistenza per un vino dalla grande beva. Per gli appassionati del genere.
Il Gelsaia, nome derivante da Gelso, pianta che all'inizio del secolo scorso nel Trevigiano veniva utilizzata come tutore o sostegno della vite, è un vino che nasce, come detto in precedenza, dal grande Amore di Cecchetto per il vitigno Raboso del Piave che in questa versione viene appassito per il 25% in fruttaio.
Il millesimo 2005, dalla bellissima cromaticità rubino intenso, presenta un naso anch’esso molto morbido anche se, a differenza del Sante Rosso, qua il quadro olfattivo risulta molto più complesso e terziarizzato: confettura di ciliegie, frutti di bosco, viola appassita, pepe, humus e cioccolato amaro. In bocca è rotondo, equilibrato e fine, forse un lontano parente del Raboso “rabbioso” che ti mordeva le gengive tanto erano aggressivi i tannini. Il Raboso ha solo cambiato anima, l’ha ingentilita, che l’abbia davvero venduta per sempre a quel “diavolo” di Cecchetto?

Lieviti autoctoni o lieviti selezionati? Il dibattito è iniziato

La scorsa settimana girovagando in internet mi sono imbattuto nel sito internet del Gruppo Vason, azienda tra le più importanti nella fornitura di prodotti e servizi per l'enologia. Esaminando la parte relativa ai lieviti selezionati, le mie budella si sono contorte un pochino leggendo le varie opportunità che un enologo ha di creare un vino. Esistono lieviti che forniranno al vino sentori marcati di banana, altri che aiutano ad avere un rosso dallo stile internazionale, altri che forniranno ampiezza e morbidezza al prodotto finale. Tralasciando per ora tutte gli altri prodotti enologici, perfettamente legali, che la Vason fornisce, la lettura di tutto ciò mi fa tornare un pò con i piedi per terra e mi toglie ogni romanticismo: il concetto di terroir e di sudore in vigna sembrano perdere ogni significato. Posso avere anche mosti terrificanti, tanto c'è la Vason (e aziende analoghe) che ti aiuta!
Allora penso ai lieviti indigeni, forse chi li usa, i c.d. biologici/biodinamici, sono costretti a lavorare bene, non possono barare. Domande che mi pongo e che ho posto su Vinix dove ne è nato un dibattito interessante soprattutto grazie al contributo di vari produttori. I punti salienti della discussione, per ora, sono questi:
  • i lieviti selezionati garantiscono qualità del vino elevata e costante. E allora chi usa quello autoctoni come fa a garantire tutto ciò?
  • se parti da uve Bio puoi usare lieviti indigeni purchè il produttore li conosca benissimo. Eventuali problemi di fermentazione si hanno solo con uve NON Bio;
  • meglio fermentare spontaneamente all'interno di vasche piccole, grandi tank consentono di raggiungere risultati apprezzabili;
  • pensare che si costruisca un vino solo con i lieviti è affermare un falso, ci sono tante altre variabili che bisogna considerare;
  • se si usano i lieviti autoctoni è meglio selezionarli tramite l'ausilio degli istituti di ricerca grazie ai quali si otterranno solo i ceppi migliori. Ma se li seleziono allora non sono più selvaggi! Mi sembra un paradosso;
  • Sempre in tema di "selezione" di lieviti indigeni, Luca Risso scrive che " quello che succede in una fermentazione spontanea è che all'inteno del tino arriva una massa di uva pigiata che nel suo cammino dalla vigna alla cantina ha raccolto una variegata carica microbica proveniente dagli acini di uva, dalle mani del vendemmiatore, dal contatto con le attrezzature (ceste, cassette, pigiadirspatrice, piedi dei biodinamici, pompe sporche,ecc.). Tutta questa flora comprendente ovviamente anche lieviti apiculati, batteri lattici ecc. ecc., si sviluppa in un brodo di coltura (il mosto) che senza interventi esterni (SO2 ad es.) seleziona naturalmente dei ceppi "momentaneamente" dominanti: apiculati all'inizio, ellittici dopo, se tutto va bene. Se va male possono prendere il sopravvento lieviti veramente deleterei (Brettanomyces, Schizzosaccaromyces, Hanseniaspora ecc. Non sono accademia, sono cose reali che soprattutto in passato capitavano spesso). Vorrei far notare anche una "ipocrisia" di fondo che c'è nel ragionamento seguente. Io sono per il vino naturale quindi non uso lieviti selezionati. Poi con la SO2 mi tolgo dalle scatole gli apiculati, con la temperatura alta o bassa mi tengo solo i lieviti termotolleranti o criotolleranti. Senza aver fatto nulla che non sia ammesso da ogni disciplinare biologico o biodinamico, DE FACTO ho realizzato una selezione di lieviti, magari senza saperlo";
  • utilizzare è lieviti indigeni significa effettuare un processo di sperimentazione precedente che può richiedere molti anni prima che si possa applicare ad un mosto che possa portare ad un vino da commercializzare;
  • per avere una fermentazione spontanea, con lieviti indigeni o autoctoni, c'è bisogno che in cantina non ci siano inoculi di lieviti selezionati ad altre vasche altrimenti quella fermentazione spontanea al 90% è fatta dal lievito selezionato e,cosa più importante, tutte le fermentazioni sponatenee in cantina sono date da lieviti che abbiamo introdotto noi quando abbiamo usato lieviti selezionati, anche dopo 3,4,5 anni che non lo usiamo.
E voi che ne pensate?

(foto prese da www.diwinetaste.it e www.tigulliovino.it)