Bencò, l’Osteria Calabrese che sta conquistando Roma


La Calabria, Regione dalle tradizioni millenarie, negli ultimi tempi sta finalmente ottenendo il giusto riconoscimento come cuore pulsante di una enogastronomia autentica e ricca di sapori, capace di conquistare anche i palati più esigenti. Manifestazione come, ad esempio, Beviamoci Sud Roma hanno sempre di più valorizzato il ruolo crescente del vino calabrese che, grazie soprattutto a vitigni autoctoni come il Gaglioppo, il Greco e il Magliocco, sono tornati a farsi conoscere e apprezzare per la loro unicità e per la capacità di esprimere la storia e il territorio di questa regione. Un altro elemento fondamentale della rinascita delle tradizioni culinarie locali è rappresentato dai giovani cuochi calabresi, molti dei quali hanno studiato e lavorato in prestigiosi ristoranti esteri, che sono tornati nella loro terra per reinterpretare la cucina tradizionale in chiave moderna mescolando ingredienti locali, stagionali e freschi con tecniche innovative al fine di creare piatti che raccontano la Calabria attraverso sapori intensi e sorprendenti.


Di questo è più che consapevole Manuel Bennardo che a Roma, a partire dallo scorso anno, ha rafforzato l’identità calabrese trasformando Bencò da ristorante di fine dining a vera e propria osteria calabrese dotata di circa 40 coperti (a cui si aggiungono i 25 nel dehors esterno e la saletta privata da dieci posti) dove, come sostiene lo stesso Bennardo, le ricette della nonna, quelle più veraci e con le quali è cresciuto, non sono una formula da storytelling ma una realtà culinaria autentica dove ogni vero calabrese ci si riconosce.

Manuel Bennardo

Il menù dell’osteria si basa su di una cucina semplice, immediata, che nasce da una serie di materie prime di eccellenza che sono vere ambasciatrici di un territorio. È lo stesso Manuel a ideare la proposta gastronomica, come lui stesso racconta: “sono un grande appassionato di cucina oltre che di Calabria, mi piace andare alla ricerca delle materie prime migliori e più iconiche, come la nduja di Spilinga, l’olio extra vergine d’oliva, il baccalà, i salumi di suino nero o i formaggi pecorini dei nostri altipiani. Ogni piatto prende spunto dalla cucina di casa, quella di nonna soprattutto che a modo suo è stata la mia diretta consulente. Ogni ricetta è stata messa a punto con la brigata, riadattata in chiave contemporanea, ma senza far perdere ai piatti la loro tipicità e il loro carattere. Perché è proprio il carattere di questa cucina contadina che voglio trasmettere a chi si siede qui da noi”.

Alici scattiate

Un menù di terra e di mare, dove dagli antipasti ai dolci fatti in casa si vive un vero viaggio nei sapori calabresi, dal nord al sud della regione. Non mancano le polpette di melanzane, rivisitate in formato stecco, le bruschette con la sardella crucolese servita con un giro di olio extra vergine d’oliva dei Fratelli Renzo o la nduja di Spilinga calda da spalmare sui crostini di pane. Ci sono le patate della Sila, le immancabili polpette della nonna e le tipiche alici scattiate.

Stroncatura con alici capperi e olive

Arriviamo ai primi e qui il gioco si fa serio. Da provare assolutamente è la stroncatura con alici, capperi e olive, ricetta tradizionale, che arriva dalla zona di Gioia Tauro e che riporta in vita un formato di pasta contadina, fatto alle origini con gli scarti della molitura – crusca, semola, sfarinati di segale e farro, farina di orzo. Da qui si otteneva una pasta più scura rispetto a quella di grano duro e più acida. Oggi si fa con la segale e il grano saraceno, ma il condimento è rimasto lo stesso. Un piatto dal sapore intenso e di gran carattere. Sempre per rimanere legati alla tradizione pura in menu troviamo anche lo spaghettone “alla corte d’assise” tipica ricetta di Gerace, semplicissima e a base di pomodoro, pecorino e peperoncino o lagana e ceci. C’è anche il riso, anche questo ovviamente calabrese e coltivato nella Piana di Sibari.

Il Baccalà

Tra i secondi c’è il baccalà pomodori e olive servito in un piatto di coccio tradizionale, la salsiccia di maialino nero calabrese, la costata di podolica dell’Azienda Bioagricola La Sulla. Da provare anche la versione panino calabrese con salsiccia, caciocavallo silano, fette di patate della Sila, maionese alla nduja e cipolla caramellata o quello con trancio di pesce spada pomodoro insalata e maionese al basilico. Ovviamente ci sono le celebri “patate e pipi” contorno perfetto e iconico, che conquistano il commensale al primo boccone.


Tartufo di Pizzo e Cullurielli tra i dolci in carta che meritano menzione. Il primo gelato e prodotto tipico della pasticceria calabrese nato a Pizzo Calabro, i secondi delle ciambelle fritte a base di patate e farine servite con una crema di nocciola.


Anche la carta dei vini parla calabrese. Bencò è tra i pochi ristoranti di Roma, se non l’unico, ad aver costruito una carta dei vini interamente dedicata alla Calabria con l’obiettivo di far conoscere e valorizzare l’enologia calabrese, che negli ultimi anni sta facendo parlare molto di sé ed è cresciuta in qualità. “Abbiamo voluto una carta dei vini che parlasse calabrese a 100% e rappresentasse tutte le zone di produzione della Calabria, dal Cirò che è quella più conosciuta, alla Costa degli Dei terra di Zibibbo e Magliocco Canino, passando per l’area grecanica con il suo Mantonico o il Greco di Bianco, toccando poi la zona del Savuto e l’area della doc Terra di Cosenza con il Magliocco dolce, il Pecorello” spiega Manuel Bennardo. Una carta dei vini che esplora l’intera regione, la rappresenta e la racconta in modo puntuale, dando la possibilità di bere calabrese e avvicinarsi ai vini di questa terra ancora troppo poco conosciuti. Una carta coraggiosa a Roma, che vuole essere un primo capitolo, un momento di avvicinamento a quei vignaioli che stanno crescendo in produzione e qualità. Vini suddivisi per zona, sempre diversi in base alle stagioni e al menu, in carta anche il vino del mese, una rubrica speciale, che darà occasione di ospitare i produttori e organizzare dei momenti di degustazione dedicati. Inoltre, Manuel Bennardo ha pensato di creare una piccola enoteca, dove tutti i vini in carta saranno anche presenti a scaffale per essere acquistati. “Un’idea in più per far bere sempre di più i vini di Calabria”.

Bencò, Osteria Calabrese - via Fabio Massimo 101 Roma. Tel. 06 3972 8933

Aperto tutti i giorni (eccetto il lunedì) a pranzo e a cena

Villa Po' del Vento - Colli del Trasimento Doc “Rosso del Duca” 1990


di Lorenzo Colombo

Anche questa volta è stata un’impresa ardua arrivare a scegliere un vino per la rubrica del sabato InvecchiatIGP; abbiamo infatti scartato dapprima un Pinot Nero Umbro dell’annata 1999 e successivamente un Valtellina Superiore del 2000 prima di giungere al Colli del Trasimeno Doc “Rosso del Duca” di Villa Po’ del Vento.


Azienda e vino dei quali abbiamo faticato molto a trovare traccia, le uniche informazioni disponibili sul Web sono infatti quelle del sito www.cantine del vino.it dove possiamo leggere “Villa Po' del Vento è una cantina che si trova a Città delle Pieve nella provincia di Perugia. L'indirizzo completo è Loc. Pò del Vento, 6 - 06062 Città delle Pieve (Perugia).” Mentre maggiori informazioni le abbiamo reperite dal sito www.lavinium.it dell’amico Roberto Giuliani che ne ha scritto nel lontano settembre 2002 e che in quell’occasione ha degustato anche il Rosso del Duca dell’annata 1994, tra l’altro valutandolo assai bene (vedi). Dal sito di Giuliani apprendiamo che si tratta di un blend tra Sangiovese, Ciliegiolo e Gamay, null’altro.
Tornando alla nostra bottiglia dobbiamo dire che l’inizio non è stato promettente, 35 anni per un vino sono tanti, soprattutto se quel vino non è stato progettato per un lungo invecchiamento.


Le difficoltà sono sorte già al momento della stappatura con il tappo di sughero che si è letteralmente sbriciolato e a nulla è valso il tentativo di usare un cavatappi a lamelle, tanto che alla fine abbiamo dovuto filtrare il contenuto della bottiglia nella quale erano finite numerose briciole di sughero.
Alla vista si è presentato come d’altronde ci aspettavamo, ovvero con un colore tendente al mattone e con un’unghia tra l’aranciato ed il giallo scuro, in pratica nulla di buono. All’olfatto però nessuna nota stonata d’ossidazione ma unicamente sentori terziari dati dall’evoluzione che ci hanno ricordato le radici e le prugne cotte, le noci e la china, il tutto con una media intensità.


Alla bocca il tannino è netto, deciso, quasi astringente, da qui probabilmente la tenuta nel tempo del vino che però appare un poco vuoto, i sentori percepiti rimandano nuovamente alle radici ed alle prugne cotte mentre la sua persistenza è ancora buona. Nulla di eclatante alla fine ma non dimentichiamo che sono trascorsi 35 anni dalla sua vendemmia.

Pietro Torti - Vino Bianco “Italico” 2023


di Lorenzo Colombo

Prodotto con uve Riesling Italico provenienti da un vigneto situato a 310 metri d’altitudine su suolo limoso e argilloso.


Parte delle uve vengono appassite e parte surmaturate in pianta, ne risulta un vino di buona struttura, morbido, leggermente abboccato, assai persistente e dalla piacevolissima beva.

Abbiamo scoperto un posto gustoso in Franciacorta: l'Antica Trattoria Piè del Dos


di Lorenzo Colombo

Siamo a Gussago, grosso paesotto situato nella zona Est della Franciacorta sul cui territorio sussistono tre vini a denominazione controllata, la Docg Franciacorta e le Doc Curtefranca e Cellatica. Gussago è inoltre uno dei due comuni – l’altro è Serle - dove il piatto principe dell’autunno bresciano, ovvero lo spiedo, ha ottenuto la De.Co., ovvero la denominazione comunale d’origine voluta da Veronelli. Ci siamo venuti il primo sabato del nuovo anno e la nostra meta è l’Antica Trattoria Piè del Dos.


La trattoria si trova in frazione Piedeldosso dalla quale deriva il suo nome, ci si arriva da una stretta viuzza, una doppia insegna, la prima in alto sul muro esterno dello stabile e la seconda sopra il portone di un cortile ci indica che siamo arrivati alla nostra meta. Entrando nel cortile si nota sulla sinistra un grande porticato pergolato dove presumiamo che nella bella stagione sia estremamente piacevole pranzare o cenare.


E’ mezzogiorno ed è il primo giorno d’apertura dopo la chiusura di una settimana avvenuta dopo Natale; fa un poco freddo nella lunga sala nella quale siamo stati messi, ci sono solamente un paio di coppie mentre dalla sala adiacente sentiamo provenire un vocio che ci indica che è decisamente più affollata. Pian piano anche la nostra sala si riempie, arrivano altre coppie e un gruppo di giovani di ritorno da una visita in qualche cantina del territorio come traspare dai loro discorsi.
Una gentile ragazza ci porge i menù e la carta dei vini e ci informa inoltre sui piatti fuori menù. Curata ed interessante la carta dei vini con notevole presenza di etichette lombarde e del territorio bresciano, oltre ai numerosi vini di Franciacorta troviamo infatti anche prodotti di denominazioni considerate (a torto) minori come Botticino e Capriano del Colle, ma curiosamente non ne abbiamo trovato nessuno della zona in cui siamo, ovvero della Doc Cellatica.

Gnudi di patate e farina di castagne

Tra i fuori menù ci colpiscono gli gnudi di patate viola e farina di castagne conditi con ciccioli ed una crema di Bagòss, formaggio quest’ultimo prodotto nel comune di Bagolino e caratterizzato dalla presenza di zafferano.
Oltre a questo piatto decisamente molto buono (siamo in due) la scelta cade sui curiosi spaghetti cacio e pesce, una rivisitazione - assai azzeccata - del tipico piatto romano con l’aggiunta di agoni, le sarde del vicino lago d’Iseo, sia essiccate - come s’usa a Montisola - che fresche ed anche questo piatto ci risulta assai gradito.

Cacio e Pesce

Nell’attesa dei primi piatti ci viene servito un piccolo Tortino di verdure la cui qualità ci predispone bene al pranzo che seguirà.

Pancia di maialino

Come secondi piatti optiamo per la pancia di maialino cotta a bassa temperatura (altra preparazione fuori menù) e la frittura di 5/4, ovvero frittura d’interiora. Quest’ultima risulta composta da lingua, cervello e trippa, piatto curioso e molto interessante anche se la trippa ci è parsa leggermente secca ed un poco salata.


Accompagniamo il tutto con un vino altoatesino, ovvero la Schiava Sonntaler della Cantina di Cortaccia e troviamo l’abbinamento coi piatti più che azzeccato.


Chiudiamo il nostro pranzo con il caffè, servito accompagnato da piccola pasticceria. Onesto il prezzo pagato tanto che pensiamo di tornarci in futuro per assaggiare qualche altra specialità del territorio.

InvecchiatIGP: Vietti - Barolo Riserva "Villero" 2004


di Stefano Tesi

Bisogna sempre andarci cauti con le vecchie annate. Non solo perché, è normale, col passare del tempo crescono le possibilità che qualche bottiglia sia andata, ma soprattutto perché l’età del vino ingolosisce la curiosità e gonfia le aspettative. Col risultato che, poi, anche le eventuali delusioni arrivano col botto.
Non è il caso del Barolo Riserva Villero 2004 recentemente assaggiato durante una verticale organizzata a Firenze da Vietti che, a quel millesimo, affiancava oltretutto anche le 2007, 2010, 2013 e 2016. Tutte, ve lo dico subito, più che buone.


Inevitabile però che per questa rubrica la scelta cadesse sul più vecchio dei campioni in degustazione: gli oltre vent’anni di un’annata considerata molto importante costituivano quasi una sorta di obbligo morale e pure un’opportunità di racconto non così scontata. Si tratta oltretutto di uno dei più rappresentativi, se non il più rappresentativo vino della celebre casa vinicola oggi di proprietà degli americani Kraus (padroni tra l’altro del Parma Calcio), che nel 2016 la acquistarono dalle famiglie Currado e Cordero, proprietarie dal 1985, per via matrimoniale, della cantina storica fondata a fine ‘800 da Carlo Vietti a Castiglion Falletto, nel cuore delle Langhe.


Il nome del vino viene ovviamente dal nome del vigneto, Villero, tra i più prestigiosi della denominazione, piantato su un terreno argilloso e calcareo esposto a ovest sul fianco della collina e, con una scelta coraggiosa per l’epoca, selezionato nel 1982 dal comproprietario ed enologo Alfredo Currado in persona proprio per produrre una riserva di grande longevità.

Nel bicchiere il vino non delude.

Se all’occhio un’unghia appena aranciata denuncia l’età non più verdissima, al naso prevalgono le cangianti note balsamiche e un’eleganza lineare, piena, severa e asciutta, che lascia appena trapelare sentori di frutti scuri e quelli terziari di cuoio e sottobosco. In bocca un’ampiezza quasi suadente regala echi di freschezza e si mantiene etera, molto composta, con una finezza che sfuma in un finale lungo e senza sbavature.


Nessun dubbio che un sorso sia piaciuto anche alla lepre col calice tra le zampe che l’artista russo Leonid Sokov schizzò all’epoca per abbellire l’etichetta di questo sontuoso 2004.

Cave Mont Blanc - Valle d'Aosta DOC Blanc de Morgex et de La Salle Metodo Classico Brut "Blanc du Blanc" 2020


di Stefano Tesi

Uno dei migliori assaggi di Proposta Vini 2025 è stato questo Metodo Classico da uva Priè Blanc a piede franco coltivata a oltre quota 1.200, nella “terra delle valanghe” all’ombra del Monte Bianco: sobria ma ricca fragranza floreale e il paradosso di un retrogusto salmastro e torbato.


Da provare!

Piccoli ma con buon vino: i vignaioli della Val di Mezzane si uniscono in un “movimento” e si presentano al pubblico


di Stefano Tesi

Che cos’è, socialmente parlando, un “movimento”? Senza dubbio qualcosa di fluido, ma che induce ad aggregarsi più di una semplice corrente di pensiero. E che unisce non solo in base a un’idea condivisa, ma spinge le persone a conoscersi e a frequentarsi, senza tuttavia dar vita a un’organizzazione stabile o una struttura formale. Insomma, un movimento è qualcosa di popolare e concreto, ma non ancora un’associazione. Né tantomeno un partito.


Interrogati in proposito, i tredici vignaioli della Valle di Mezzane che dal 2022 si sono (come altro dire?) “messi insieme” si autodefiniscono infatti così, per sottrazione, sottolineando innanzitutto ciò che non sono: “Non siamo un’associazione, non c’è un presidente”. Il che è abbastanza singolare. Hanno però uno scopo preciso e grazie ad esso fanno gruppo, quindi li definirei un movimento. O anche una lobby, se poi, incontrandoli de visu, tutto potresti dire di loro tranne che siano lobbysti. Due invece gli obbiettivi: far conoscere, ovviamente, le peculiarità della valle con i suoi vini e “sostenere e sollecitare il Consorzio di Tutela nella definizione delle Sottozone per i vini Valpolicella, oggetto di studio della ‘Commissione Vallate’, in attesa di conoscere i passi che l’organo consortile sta facendo su questo percorso (il Consorzio del Soave ha già individuato 33 UGA, ndr)”.


Sono solo piccolissimi, piccoli e medi produttori (circa 130 ettari in totale per appena 700mila bottiglia prodotte all’anno) attivi in quest’amena vallata rimasta ancora quasi totalmente rurale a est di Verona, dove le doc Valpolicella e Soave si sovrappongono. Un paesaggio di quelli belli e un tessuto sociale campagnolo altrove scomparso. Li divide in realtà quasi tutto il resto: storie, origini, strategie, ambizioni. Orientamenti differenti anche nella conduzione del vigneto tra biologici, biodinamici e integrati. Segni particolari: vinificano esclusivamente uve dei vigneti che coltivano.


Nel 2023 hanno però commissionato al pedologo Giuseppe Benciolini la realizzazione di una Carta dei Suoli che ha messo graficamente in luce ciò che già si sapeva e loro volevano evidenziare: in Val di Mezzane convivono terreni vulcanici e calcarei. “Nero su bianco”, appunto, come i viticoltori valmezzanini hanno deciso di battezzare gli appuntamenti per la degustazione dei loro vini, puntando a rimarcare soprattutto le sensazioni tattili che essi sono capaci di offrire: “Una sorta di matrice territoriale che rimane pressoché costante anche al variare delle percezioni aromatiche e delle tecniche di vinificazione e di affinamento, con sapidità più o meno accentuata, freschezza acida e la piacevole piccantezza della speziatura. Non è certo un punto di arrivo – chiariscono - ma uno stimolo a dare avvio a una ricerca e dare corpo scientifico a quanto rilevato sensorialmente”.


Con tali premesse, la prova dell’assaggio e di verifica a cui, a margine di Amarone Opera Prima 2025, ci siamo (volentieri) sottoposti, non poteva che essere impegnativa. E ha previsto infatti una carrellata selettiva su tutte le tipologie di vino prodotte dalle aziende (Soave, Valpolicella, Ripasso e Amarone nelle varie declinazioni) in annate diverse, mettendo in luce stili, filosofie e personalità dei vini - nonché dei vignaioli - effettivamente diverse. Anche molto diverse. O forse troppo, se si fosse puntato a individuare un’impronta comune in grado di omologare davvero le etichette. Ma non era il caso, anzi. Ci hanno colpito invece l’elevata qualità media dei prodotti e la coerenza di indirizzo intrapresa dai singoli produttori, che hanno proposto vini di forte individualità, frutto di progetti spesso coraggiosi anche nelle versioni meno riuscite e comunque connotati da un’impronta identitaria condivisa che, al di là delle strette questioni critiche, ci è parsa il reale e più evidente segno distintivo del territorio, nonché un modello incoraggiante di aggregazione, capace di aprirsi a ombrello dalla produzione vinicola al paesaggio, dalle singole comunità alla gastronomia e ai rapporti sociali.


Se quindi lo scopo di offrirsi ai giornalisti era di sottolineare le differenze della valle in sé dal resto e dei produttori tra di loro, bisogna ammettere che Alessandro Benini, Marinella Camerani, Falezze di Luca Anselmi, Grotta del Ninfeo, Tamasotti, Monte Caro, ILatium Morini, Le Guaite di Noemi, Talestri, Massimago, Carlo Alberto Negri, Roccolo Grassi e Giovanni Ruffo (il decano del gruppo coi suoi 84 anni e appena 3mila bottiglie) l’obbiettivo l’hanno perfettamente raggiunto.

Dei 36 campioni degustati ecco, cantina per cantina, i vini che ci sono piaciuti di più e perché.

1. Benini, Amarone Spincristo 2020: intenso al naso ma non saturante, bocca asciutta e diretta, anomalo nella tipolgoa ma godibile.

2. Talestri, Valpolicella Superiore 2021: al naso un bel frutto fresco, pulito e fragrante, al palato è asciutto e gastronomico.

3. Monte Caro, Valpolicella Superiore Solaria 2020: un vino biologico, dal naso intenso e cangiante, sorso amarognolo e molto vivo, piacevole.

4. ILatium, Amarone Leon 2018: se al naso ha tutta la tipicità che ti aspetti, in bocca lo trovi agile, rotondo, equilibrato e di gran bevibilità.

5. Massimago, Valpolicella Ripasso Marchesa Mariabella 2022: bouquet pulito ed elegantissimo, al palato è pieno e godibilissimo.

6. Le Guaite di Noemi, Valpolicella Superiore 2014: l‘invecchiamento non nuoce al frutto e alla freschezza, che grazie all’acidità in bocca risulta sapido e verticale.

7. Roccolo Grassi, Soave Broia 2022: al naso ha note pungenti e vive di pietra focaia, in bocca è asciutto, salino, diretto.

8. Le Falezze, Valpolicella Superiore 2018: naso intenso ma preciso e composto, al palato è lungo, gastronomico e con buona vena acida.

9. Carlo Alberto Negri, Amarone 2019: all’olfatto è gentile, fruttato e agile e si ripete anche in bocca con una struttura non invasiva e un accenno di vaniglia.

10. Corte Sant’Alda, Mithas Valpolicella Superiore 2018: vino biodinamico vivissimo e fruttato al naso, franco e rassicurante al sorso, bene!

11. I Tamasotti, Valpolicella Superiore 2018: naso tipico e rotondo, in bocca è severo e tosto, con note di legno.

12.Giovanni Ruffo, Le Caselle Valpolicella Superiore 2016: al naso è maturo, vigoroso e un po’ ostico, ma in bocca ha grande personalità.

13.Grotta del Ninfeo, Valpolicella Superiore 2020: molto concentrato al naso, in bocca è invece semplice, sapido, gradevole.

InvecchiatIGP: Librandi - Val di Neto IGT "Gravello" 2008


di Luciano Pignataro

Ci sono vini didattici, nel senso che sono utili a capire la tendenza del momento in cui sono stati pensati e proposti al mercato. A distanza di tempo, l’aspetto più interessante oltre al profilo gustativo, è capire perché alcuni sono finiti su un binario morto e altri no. Soprattutto sul piano della comunicazione. Gli appassionati più anziani ricorderanno il Gravello, primo Tre Bicchieri in Calabria quando questo riconoscimento cambiava lo stoccaggio di una cantina. Un’era geologica fa, quando internet non era ancora diffuso, non esistevamo siti, blog e tantomeno social. Il riconoscimento del Gambero era il segnale preciso per ristoratori ed enotecari su cosa comprare subito. Dovremmo ricordare questi meccanismi quando oggi ci lamentiamo degli influencer, cambiano gli strumenti, la capacità di approfondimento, ma alla fine la velocità porta sempre e comunque all’ipse dixit. Parlo della grande massa ovviamente, non di tutti.


Ma torniamo al Gravello: fu pensato da Severino Garofano, l’enologo irpino naturalizzato pugliese che ha creato alcuni grandi vini che hanno fatto epoca in Puglia. Un vino che mette insieme il Gaglioppo e il Cabernet Sauvignon, prima annata 1988 di cui abbiamo avuto l’opportunità di parlare ormai sette anni fa proprio nella nostra rubrica quando eravamo giovani e forti.
Era una moda dell’epoca, unire il vitigno locale a quello internazionale. Le ragioni erano diverse, la prima partiva dalla conoscenza decisamente maggiore sul comportamento dei vari Cabernet, Merlot e Chardonnay. Il secondo ragionamento riguardava la leggibilità del vino sui mercati stranieri dell’epoca, ossia spiegare il proprio prodotto partendo dal vitigno internazionale. Questa moda partì dalla Toscana e fu adottata soprattutto dai produttori del Sud che allora si affacciavano sui mercati. L’idea alla base era che il vitigno caratterizzasse l’origine di un territorio tenuto conto della diversità ampelografica del nostro Paese che riflette l’anarchia italiana rispetto alla precisione cartesiana e commerciale dei francesi, sempre portati ad esempio ma mai seguiti nella realtà fattuale.


Severino insieme ai fratelli Antonio Nicodemo Librandi diedero un grande impulso in questa direzione, ricordiamo anche lo Chardonnay, stavolta in purezza, del Critone sul modello di quello di Tasca che, se aspettato, regala belle sensazioni negli anni. Le verticali di Gravello hanno dato sempre belle soddisfazioni, il vino ha tenuto nel corso degli anni anche se la sua esuberanza alcolica e la sua concentrazione, rimasta sostanzialmente immutata negli anni anche quando c’è statio il cambio di enologo in cantina, lo rendono decisamente age rispetto ai gusti degli ultimi anni che puntano a rossi più leggeri e bevibili.


Ma la tenuta di questo Gravello 2008, speso su un robusto piatto di agnello lucano passato al forno, non solo ci riporta a quell’epoca, ma ribadisce che ogni stile in realtà ha una sua ragion d’essere se si abbina al cibo. Al naso profumi fruttati con un corredo leggermente fumé, al palato questo rosso di 17 anni mantiene una grande energia, occupa il palato supportato da una bella freschezza facilitato dai tannini ben levigati. Il finale è lungo, preciso, pulito. Un vino integro e perfetto.

Boccella Rosa - Taurasi DOCG 2017


di Luciano Pignataro

Il Taurasi dei fratelli Soccorso e Luigi Molettieri racconta la campagna irpina di Montemarano, di conferitori che per difendere le viti vinificano in proprio, di operai che tornano alla terra. 


Un sorso tradizionale, legno e frutto ben fusi, lungo, imponente, sulla cucina di territorio è indimenticabile.

Cecchi lancia il nuovo Coevo: con il 2021 si cambia passo (con mini verticale)


di Luciano Pignataro

Viviamo tempi di grandi cambiamenti e il mondo del vino non fa eccezione. Ma senza voler affrontare i massimi sistemi che potrebbero annoiare i nostri lettori, possiamo segnalare il cambio di passo del Coevo, vino iconico di Cecchi, una delle aziende più antiche e conosciute anche dal grande pubblico. Con l’annata 2021 si è infatti deciso di semplificare il blend e restringerlo al Sangiovese della tenuta aziendale Villa Rosa a Castellina in Chianti e al Merlot della Tenuta Val delle Rose in Maremma.


La presentazione è stata fatta all’Enoteca Pinchiorri dallo stesso Andrea Cecchi, che nel 2006 volle questo vino in onore di Luigi, fondatore della azienda nel 1893, accompagnato dalla responsabile di produzione, l’enologa Miria Bracali, e dal direttore commerciale Luca Stortolani. Una occasione anche per fare una mini verticale di questa etichetta in uno dei templi del vino italiano analizzando oltre la prima annata, anche la 2013 e la 2015.

Andrea Cecchi

Il Coevo è un fine che testimonia con la sua esistenza gran parte della storia del vino toscano degli ultimi due cenni, quasi un supertuscan fuori tempo massimo perché unisce i luoghi tradizionali della viticultura regionale alla nuova frontiera maremmana che ha spinto con le grandi uve internazionali, cabernet sauvignon e merlot in primis, ma anche petit verdot e cabernet franc regalando grandi classici famosi in tutto il mondo. Fu anche un modo per l’azienda storica di mettersi al passo con i tempi e il passare degli anni costituisce la cartina di tornasole per misurare la validità di queste etichette.

Miria Bracali

A questo proposito dobbiamo dire che la 2006 ha colpito per la sua freschezza assoluta, regalando al naso sentori di frutta rossa per alcuni versi ancora fresca con leggeri rimandi fumé. Un vino compatto, solido, in cui non è facile distinguere il ruolo dei diversi vitigni perché era concepito non solo come la sintesi di due territori cos’ diversi ma anche come fusione di ben quattro uve diverse, oltre al sangiovese e al merlot, anche il cabernet sauvignon e il petit verdot, questi ultimi due eliminati nell’ultima versione presentata da Pinchiorri. La fermentazione e la macerazione sono state fatte in acciaio, seguite da un affinamento di 18 mesi in tonneaux di rovere francese, poi 10 mesi di riposo in bottiglia. «Coevo 2021 – ha detto Miria Bracali illustra Bracali - è figlio di una stagione che nel suo complesso potremmo annoverare tra le migliori di sempre».


Naturalmente la 2021 apre un mondo nuovo rispetto alle precedenti versioni di Coevo, una svolta emersa con molta chiarezza non solo nel raffronto con la 2006, ma anche con le altre due annate. Appare infatti un rosso maggiormente equilibrato, con i tannini molto ben risolti, al naso note speziate e di frutto ancora scisse, l’acidità decisa ma non scissa, il finale lungo, piacevole dopo un sorso dissetante. Sicuramente quel che colpisce del Coevo, e che mette insieme annate così diverse da ogni punto di vista, è la propensione ad un invecchiamento senza limiti. I quasi vent’anni della 2006 non si avvertivano nemmeno scrutando il colore, rosso rubino vivo. Crediamo che sarà così anche per il 2021, decisamente solido, ma che va aspettato ancora un poco prima di stapparlo.
Del resto l’annata 2021 ha registrato condizioni climatiche favorevoli con un inverno mite e piovoso che ha garantito una buona riserva idrica, sia una primavera fresca che ha supportato una fioritura regolare. L'estate asciutta e le piogge di fine agosto hanno contribuito a una buona maturazione, con la vendemmia fatta tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre. Del resto, questa annata è l’ultima veramente regolare che ci possiamo ricordare se pensiamo alle successive passate fra peronospora, siccità e gran caldo.


I piatti di Riccardo Monco e la sala di Alessandro Tomberli sono stati la degna cornice ad una presentazione elegante e non ostentata, una chiacchierata che è andata in profondità su tutti i temi: il modo migliore per presentare un grande vino di una storica azienda.

InvecchiatIGP: Vigneti Massa - Costa del vento Timorasso 2013


di Carlo Macchi

Ho una teoria che spesso fa sorridere e alzare un dubbioso sopracciglio ma che altrettante volte ci azzecca: i vini assomigliano ai produttori che li fanno (realmente!) e viceversa.
Questa teoria applicata al Costa del Vento 2013 di Walter Massa (nonché a tutti gli altri suoi vini) mi porta inizialmente a non parlare molto bene, dal punto di vista estetico, del mio amico Walter. Diciamoci la verità, se uno incrocia Walter per la strada certamente non si gira a guardarlo, non è un adone, non colpisce l’occhio da un punto di vista puramente estetico, e se specialmente sta parlando con qualcuno il suo modo di esprimersi e di gesticolare non lo mette certo nel mirino di donne in cerca dell’anima gemella.


Il Costa del Vento 2013, scoperto in cantina sotto cartoni pieni di tutto è, all’inizio, proprio così. Non colpisce l’occhio in maniera favorevole perché ha un colore dorato solo un po’ brillante, inoltre il naso sembra tra l’ossidato e il maturo.
Ma prima di proseguire su questa strada due parole su questo vino che oggi si porta in dote 12 primavere. Si parla naturalmente di timorasso, cioè il "Walterigno" ovvero il vitigno che Walter ha riesumato dal niente o quasi circa 30 anni fa e che oggi non è solo il fiore all’occhiello dei produttori del Tortonese, non è solo l’oggetto del desiderio di tanti consumatori, ma lo è anche di qualsiasi azienda langarola di alto lignaggio che ha comprato, compra e comprerà terre nei Colli Tortonesi per produrre questo bianco, la cui storia coincide inopinatamente col suo presente e col suo futuro.


Comunque, la storia di Walter e del Timorasso è stata scritta e riscritta e quindi è inutile tornarci sopra, meglio tornare sopra al Costa del vento 2013, figlio di un’annata fresca/fredda, forse l’ultima che c’è stata in Piemonte fino ad oggi. Mentre sproloquiavo è successo quello che succede quando Walter non solo lo guardi per strada ma ci parli: come Walter ti incanta con la sua profonda conoscenza del vino e del mondo e ti stupisce con le sue idee che spesso sono avanti anni rispetto agli altri, così il Costa del Vento 2013 mi ha incantato perché non solo la pseudo-ossidazione è svanita ma ha tirato fuori aromi in primis di frutta, poi di miele e al massimo dell’espressività note minerali e di idrocarburo di grande finezza e profondità.


L’ho assaggiato e, proprio come Walter, ha stupito me e i commensali perché ha unito a un equilibrio incredibile una profondità di beva che parte dalla grassezza del vino ma si sviluppa grazie alla sua colonna vertebrale acida, che ancora oggi lo sorregge perfettamente. Aprirla, ma soprattutto finirla è stata un vero onore e un grande piacere.


A proposito di aprire, Walter è in prima linea da sempre per quanto riguarda i tappi da usare ed è ormai convinto sostenitore del tappo a vite, però questo vino venne tappato con un Diam 30 (addirittura!) e forse la sua “chiusura” iniziale è dovuta proprio a questo. La morale è che Walter Massa e i suoi vini hanno sempre belle sorprese in serbo (anche in croato… ops!): l’ultima la troviamo sull’etichetta del Costa del vento, che è scritta anche in alfabeto braille. Del resto, anche ad occhi chiusi si capisce che è un grande vino.

Villa Bucher - Umbria Rosso IGT "Auro" 2021


di Carlo Macchi

Orami il cabernet franc in Italia ha assunto il ruolo che merita e quindi chapeau a chi l’ha piantato da 25 anni e in un territorio “secondario”. 


Questo 2021 è balsamico, molto fresco al naso, mentre in bocca c’è setosità tannica, equilibrio, buon corpo. Un vino da scoprire in un territorio da scoprire.

Ma perché avercela con il vino dealcolato?


di Carlo Macchi

Un fantasma si aggira per l’Europa, più in particolare in Italia: il suo nome è vino dealcolato. Da quest’anno il fantasma ha preso forma giuridica ma la discussione tra gli amanti del vino è sempre viva e frizzante, assumendo spesso toni apocalittici
Ora, da storico amante del vino, mi domando che problemi può creare il vino dealcolato a chi non lo vuole bere. Al massimo potrà far storcere il naso se trovato in una carta dei vini o far arrabbiare perché si usa il termine “vino” per definirlo, ma altri motivi non ne vedo.


Vedo invece una serie di vantaggi, in primis per tanti produttori che potranno buttarsi su questo segmento di mercato, attualmente quasi inesistente ma con grosse possibilità di crescita (parlarne male è sempre parlarne e crea interesse) e subito dopo dal punto di vista della politica europea. Come ho già scritto il mondo del vino, italiano e non, nella sua globalità è miope: non vede e non vuole vedere alcuni grossi rischi all’orizzonte, come il grave problema dell’alcolismo in tanti paesi del nord Europa, che li ha portati più volte a chiedere(anche ad ottenere) sanzioni sull’esportazione di alcolici da parte dei paesi produttori di vino.
Pensate che questo braccio di ferro possa continuare in eterno e se ne esca sempre senza conseguenze, oppure è probabile che qualche piccola o grossa restrizione sulla commercializzazione e il consumo del vino possa essere in futuro introdotta?


Il vino dealcolato potrebbe essere la risposta giusta, anche politica, a un mondo che vuole (a torto o a ragione) eliminare o circoscrivere al massimo la voce alcol dalla sua società e questo togliendo poco mercato al vino come l’abbiamo sempre conosciuto. Quelli che sostengono “l’innaturalità” del vino senza alcol li rimando al regolamento comunitario per la produzione del vino, nel quale sono presenti procedimenti e uso di prodotti che possono far impallidire il dealcolare un vino.


Inoltre mi domando perché i detrattori del vino dealcolato non si lanciano con la stessa veemenza contro i vini da 1-2 euro al supermercato, non innalzano barricate contro il commercio internazionale di enormi partite di vino sfuso, di bulk wine, che muove interessi enormi, ha una fiera dedicata a Rotterdam https://worldbulkwine.com/newfront (noto centro vinicolo mondiale…) e sposta letteralmente navi di vino che possono realmente incidere sul consumo di vini di qualità. Detto questo domandiamoci quanto vino dealcolato si può produrre oggi in italia. Esistono pochissimi impianti e per costruirne altri ci vorrà tempo e investimenti importanti. Quindi siamo all’anno zero in tutti i sensi.


Consideriamo comunque che se è stata varato un regolamento a livello nazionale lo si deve alle spinte dei produttori, UIV in prima fila, che lasciano parlare e sparlare gli appassionati e intanto mettono le mani avanti per il futuro, perché nel futuro, per buona pace di tanti accaniti “talevinebani” il vino dealcolato ci sarà e forse sarà anche il minore dei mali. Se avete assaggiato qualche volta vini da 1 euro sapete bene di cosa sto parlando.

InvecchiatIGP: Montevertine - Le Pergole Torte 1997


di Roberto Giuliani

Sono passati 23 anni da quando Sergio Manetti se n’è andato dopo una lunga malattia, il suo Pergole Torte è stato indubbiamente uno dei simboli della “resistenza”; a Radda nel cuore del Chianti Classico, negli anni ’90 era un punto di riferimento per tutti coloro che credevano nel sangiovese come massimo rappresentante di quel territorio, ma direi di gran parte della Toscana. Proprio nell’aprile del 2002, quando morì, scrissi queste parole: “In un’epoca dove la rivoluzione enologica significa uvaggi con vitigni internazionali, uso smodato di barrique, spinta quasi ossessiva verso il “gusto internazionale”, al punto di rinunciare alla denominazione di origine pur di accaparrarsi una fetta di mercato, Sergio Manetti ha dato a tutti una lezione di coraggio, di saggezza e di indipendenza, dimostrando a ragione di che cosa è capace il Sangiovese, quando è vinificato da mani esperte che sanno coglierne ogni piccola sfumatura. Il suo Pergole Torte è il simbolo di questa sua passione, tutt’altro che cieca, che lo ha spesso esposto ad assurde critiche, anche da parte del Consorzio del Chianti Classico, del quale faceva parte, che non gli concesse la DOC perché il suo vino mancava di “tipicità”.”


Il tempo ha confermato che la visione di Manetti era giustissima, tanto che negli anni la denominazione ha rivisto almeno in parte l’apertura ai vitigni internazionali, per giungere al Chianti Classico Gran Selezione, che impone almeno il 90% di sangiovese. Resta il fatto che quell’approccio determinato aveva le sue buone ragioni, dimostrate chiaramente da Le Pergole Torte 1997 che ho estratto dalla cantina, non senza dolore essendo l’ultima bottiglia.


Tappo praticamente perfetto, estratto senza difficoltà, la foto del calice è un po’ ingannevole, il colore è un granato trasparente ancora molto luminoso, vivo, segno che il contenuto deve avere ancora qualcosa di buono da offrire. Lo lascio respirare perché, al netto dei 2 anni in botte, 25 abbondanti è rimasto in bottiglia, chiede disperatamente un po’ di aria pulita.


Si apre, si apre, si libera, spariscono tutte quelle sensazioni di chiuso che lo fanno sembrare sulla via del declino. Invece sorprende per i profumi ancora fruttati che sa esprimere, una ciliegia limpida e succosa, uno stupefacente afflato di arancia sanguinella, ma soprattutto scarseggiano quelle note terziarie spinte che ci si aspetterebbe dopo tutto questo tempo; in realtà si manifestano in modo fugace, di funghi, fogliame, felce, sottobosco, poi tabacco, liquirizia, cuoio, tutto in modo accennato, non definitivo, in un contesto dinamico e stratificato.


L’assaggio conferma un vino che ha ancora una notevole forza, grazie a una bella vena acida che dà impulso al sorso, nascondendo molto bene i segni dell’età e non c’è quell’opulenza che in molti casi contraddistingueva l’annata 1997. Qui la storia è diversa, l’eleganza di Radda vince alla grande, restituendo un vino emozionante e per nulla stanco. Chapeau!

Palazzo Tronconi - Frusinate IGT Fregellae Capolongo 2023


di Roberto Giuliani

Iscritto nel 2009 nel Registro della vite, il Capolongo è tra i vitigni autoctoni recuperati nel comune di Arce (FR). 


Marco Marrocco ne propone una versione di grande impatto, macerato sulle bucce 20 giorni in botti di acacia, profuma di arance gialle e agrumi canditi, elegante e piacevolissimo.