di Roberto Giuliani
Per quanto mi riguarda
ho speso sempre molte parole per tentare di sfatare l’idea che i vini bianchi
italiani non siano in grado di competere con i rossi per longevità. Non ci
provate nemmeno a dire “ma mica tutti i vini bianchi!”, perché tutti i vini rossi
sì? Scremate le numerose tipologie di vino che nascono già senza la pretesa di
saper invecchiare, possiamo dire con certezza quasi matematica che nel
variegato mondo dei bianchi italiani c’è molta roba seria con quelle
caratteristiche di cui stiamo parlando, non esiste una sola regione italiana
che non possa offrire dei bianchi longevi, credetemi, dal Timorasso piemontese
al Fiano campano, dal trebbiano abruzzese al verdicchio marchigiano, dalla
ribolla friulana al vermentino ligure, potrei andare avanti a lungo. Ma forse, quello che
meno vi aspettereste, è trovare bianchi dalla longevità sorprendente in una
regione rossista per eccellenza come la Toscana.
Ebbene, anche in questo
caso sbagliereste, alla grande! Non c’è bisogno di finire su qualche famoso Chardonnay
della terra di Dante e Leonardo, sarebbe troppo facile. Andiamo invece
dall’unica DOCG bianca toscana, la Vernaccia di San Gimignano, che la maggior
parte dei comuni mortali beve appena uscita o poco dopo. E no, non ci siamo! Quei
poveracci come me e gli altri IGP che ogni anno devono spupazzarsi le nuove
annate di Vernaccia, trovando vini prevalentemente acidi e citrini, scomposti e
sgomitanti, sanno bene che ci vogliono almeno un paio d’anni per cominciare a
sentire cosa ha da raccontare questo vino. Minimo.
E se vi dicessi che,
invece, si può andare indietro nel tempo in maniera inimmaginabile e scoprire
che quel bianco in terra di rossi è uno che non sente le rughe nemmeno dopo 44
anni? Qualcuno potrebbe dire che giusto da Montenidoli può esserci un vino
così. Sbagliato ancora una volta!
E continua a spiegarmi:
“La vendemmia della ’78 fu fatta nel mese di ottobre, le giornate erano fredde
e spesso piovose, oggi si vendemmia vernaccia nel mese di settembre, spesso in
maglietta a mezze maniche. Le uve venivano portate in cantina, diraspate e
messe in serbatoi di cemento e dopo circa 24 ore di macerazione, per gravità si
separavano le bucce (più leggere in alto) e mosto (più pesante in basso), la
cosiddetta alzata di cappello. Il mosto di sgrondo, ovvero il fiore, destinato
a finire in bottiglia, veniva spostato in un serbatoio, mentre la restante
parte era destinata alla vendita in damigiane a privati, molto richieste in
quegli anni”.
Federico mi fa notare
anche che le gradazioni erano ben diverse da quelle attuali, infatti questa ’78
riporta in etichetta 12 gradi, ma arrotondati per difetto, l’esatto contrario
di ciò che accade ora per via delle annate sempre più calde. Eppure questa
gradazione così modesta non sembra avere minimamente condizionato l’evoluzione
del vino, forse perché la vigna da cui veniva prodotta era recente, innestata
in campo da babbo e nonno con quel clone di vernaccia che ancora oggi è
utilizzato per la produzione dell’Assola, la riserva aziendale.
La bottiglia stappata
da Federico in occasione di una visita proprio il giorno della degustazione
delle nuove annate, a detta sua non era neanche la migliore, ne aveva aperta
un’altra in precedenza ancora più viva ed espressiva. Tanto di cappello, visto
che questa mi ha mandato in brodo di giuggiole, soprattutto lasciata respirare
a lungo nel calice, rivelando note di miele di castagno, un’affumicatura
invitante, frutta bianca e agrumata in confettura, erbe aromatiche. Temevo di
trovarla più che ossidata, soprattutto al naso, invece non è andata così,
l’ossidazione è apparsa solo all’inizio, poi con l’ossigenazione il vino si è
rinvigorito, un po’ come avviene alle piante in vaso quando gli manca l’acqua.
E che vigore! L’acidità era ancora lì a dire la sua, il sorso non era debole e
spento, al contrario succoso e vitale, sapido, davvero bello e complesso.
Ora sapete cosa vi
siete persi in tutti questi anni che avete voluto stappare sempre bianchi
giovani. Donna e uomo avvisati…
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