Ha riposato davvero a lungo in cantina, dieci anni. E avrebbe potuto restarci per almeno altri dieci tanto è uscita viva, profumata, energica, questa magnum stappata per una occasione speciale.
Terre del Principe - Le Serole Pallagrello Bianco 2015
La stragrande
maggioranza dei bianchi è pensata per essere stappata nell'arco di un
anno, massimo due. Nonostante questo, la maggioranza dei vini bianchi italiani
presenta straordinarie evoluzioni nel tempo a cui pochi, pochissimi produttori
si sono dedicati con cura e con passione, soprattutto nell'areale del
Verdicchio e del Fiano di Avellino.
Gli esempi sono
innumerevoli, potremmo citare un incredibile Priè Blanc 2008 bevuto di recente,
o un Efeso di Librandi da uve mantonico, o un grecanico di Cantina Marilina
2006 provato in Sicilia, e ancora tanti, tanti vini in tutte le regioni. Un altro esempio, calzante, è sicuramente questo Pallagrello Bianco pensato da Luigi Moio per Terre del Principe,
l'azienda fondata nel 2003 da Manuela Piancastelli e Peppe Mancini.
credit: ima festival |
Giornalista
lei, avvocato lui, si incrociano nell'Alto Casertano nella vecchia azienda
familiare di lui e iniziano un'avventura straordinaria, raccontata mille volte
ma sempre bella da ripetere: con Moio avviano il rilancio di tre uve sino a
quel momento praticamente sconosciute ovvero casavecchia, pallagrello nero e
pallagrello bianco, spesso confuse dai contadini e dagli stessi produttori di zona
rispettivamente con l'aglianico e la coda di volpe, altro bianco campano
diffuso lungo la dorsale appenninica.
Nasce una
avventura straordinaria che porta alla fondazione di questa azienda, ben presto
seguita da altre, che punta alla valorizzazione di un territorio puro e libero
nel nord della Campania, ricco di biodiversità e di personaggi che lo hanno
fatto grande.
Le Serole è uno
dei due bianchi aziendali, quello affinato in barrique. L'altro, lavorato in
acciaio, è il Fontanavigna. Nel corso degli anni il protocollo de Le Serole
cambia sino alla decisione di farlo uscire con un anno di ritardo rispetto alla
vendemmia e riducendo l'influenza del legno che, comunque, a nostro giudizio,
ha regalato grandi bianchi da meditazione nel primo decennio di questo vino.
Le Serole resta la migliore espressione mai raggiunta da questa uve figlia di
un Bacco minore come si diceva qualche anno fa per i vini ottenuti da uve poco
conosciute. Una assoluta verità del territorio di cui è figlio, con vini che riescono
ad evolvere in maniera molto interessante conservando intatta la freschezza.
Come
questo millesimo 2015, aperto, pensate un po', dopo il Taurasi Campoceraso 2001
di Struzziero. Il bianco esprime subito al naso sentori di albicocca e
zafferano, piacevoli note balsamiche e un lieve accenno fumé tipico dei vini da
terre vulcaniche (qui l'influenza del vulcano spento di Roccamonfina si fa
sentire molto precisamente).
Al palato colpisce per la sua verve, la sua
vivacità quasi giovanile, con rimandi ai sentori olfattivi impreziositi dalle
note speziate, frutto e legno in ottimo e convincente equilibrio. Finale lungo,
interessante. leggermente amaro. Il palato resta pulito e la voglia di ripete
la beva è comune a tutti. Un bianco di
alto lignaggio, elegante, affidabile, incapace di tradire le aspettative perchè
si va a colpo sicuro.
Un piccolo
grande miracolo di una viticultura italiana ancora troppo legata esclusivamente
alle performance dei rossi e che invece nei bianchi e nei loro tempi di
maturazione ha potenzialità assolutamente infinite e tute da scoprire ancora.
Credo che sia questa la nuova frontiera di un movimento iniziato dopo la crisi
del metanolo e che adesso ha bisogno di nuovi stimoli, che non sia solo la
spumantizzazione.
La Vigna di San Martino ad Argiano - Vin Santo del Chianti Classico DOC 2012
Giampaolo Chiettini, enologo toscano, da qualche anno ha
creato La Vigna di San Martino ad Argiano,
da dove viene questo Vinsanto da salto sulla sedia.
Trebbiano e malvasia, classicissimo,
con quasi 300 gr. di zuccheri residui mostra un’armonia e una freschezza
impressionanti. Non buonissimo, di più!
Lo Scoglietto a Rosignano: un posto del cuore adatto anche ai nonni come Carlo Macchi!
di Carlo Macchi
Fare il nonno è una cosa meravigliosa, farlo allo Scoglietto a
Rosignano, in una calda (ma non troppo) giornata d’estate ti porta direttamente
nel Nirvana gastronomico del nonno.
Non penso di dire niente di nuovo se affermo che Claudio Corrieri
abbia creato non un locale ma uno dei posti più goduriosi della costa toscana.
Siamo circondati da una località di mare anni ‘60 del secolo scorso ma Lo
Scoglietto sembra (forse lo è) un’astronave che guarda verso il mare e si
lascia alle spalle ogni cosa.
Credo che il locale, aperto solo nei mesi primaverili e estivi, abbia
avuto milioni di recensioni, ma nessuna dal punto di vista del nonno fornito di
nipotina di 21 mesi e qui cercherò di rimediare.
Per prima cosa l’ingresso con il passeggino è comodo e agevole, c’è
tanto spazio, sia nella sala “classica” quella coperta dalle stuoie che è
sempre benedetta da un vento fresco, che in quella a sinistra, leggermente più
“in muratura” ma con grandi finestroni che permettono all’aria di mare di fare
il suo lavoro. Tavoli, larghi, ben spaziati e ben apparecchiati ti aspettano,
ma riesci appena ad arrivarci perché la nipotina, che ha adocchiato il mare,
vuole provarlo.
Nessun problema: lasci tutto al tavolo, prendi la belvetta scatenata e
vai in spiaggia, che è tutt’uno col ristorante (non per niente si chiama Lo
Scoglietto). Ci sono tanti begli ombrelloni e potresti anche sederti all’ombra
ma la nipote punta dritta verso l’acqua e tu devi, nell’arco di un millesimo di
secondo toglierle scarpine, maglietta,
pantaloncini e pannolino per poi farle incontrare la prima onda. Nel frattempo
c’è chi lavora per te: Claudio ti porta un calice di bianco, la nonna e la
figlia ordinano il pranzo e tutto si svolge con una calma che ti apre il cuore
(in realtà anche lo stomaco visti i buoni odori che girano).
La Spiaggia |
Espletato il “ciaf-ciaf in mare” il tavolo, immerso in una brezza
piacevolissima, ti attende. La cucina è puntata sul pesce, con cotture semplici
e saporite. Visto che la bambina mangia tutto quello che mangiano mamma e nonni
ci buttiamo su piatti classici: spaghetti alle vongole (ma è in questi piatti che
si vede la maestria dello chef), calamarata, sauté di cozze e vongole, e per
secondo frittura mista. Il servizio è “veloce nella lentezza” nel senso che ha
atteso il ritorno dalla spiaggia per far arrivare i primi piatti in tavola. La
nipotina agguanta gli spaghetti e, modello idrovora, li succhia che è un
piacere, mentre io mi tolgo il cibo di bocca (siete autorizzati a piangere) per
dare tutte le vongole del mio sauté alla nipote, che gradisce.
Interno |
Il piacevole rumore del mare e delle persone in spiaggia (che giunge
attutito) permette a Clara di esternare il suo gradimento con una serie di paroda (fusione artigianale tra “parole
e grida”) che in qualche locale più attento alla forma sarebbero stati
stigmatizzati da occhiate taglienti. Ma qui tutto scorre sui giusti binari,
grazie anche ai consigli enoici (non per la nipote, almeno per adesso) che
Claudio ti mette in tavola. In effetti allo Scoglietto non solo si beve bene ma
si riesce sempre a degustare qualche novità o, ancor meglio, qualche chicca a
prezzi veramente convenienti. Del resto quando Lo Scoglietto è chiuso il
compito principale di Claudio è girare per cantine, in particolare estere, alla
ricerca di vini da proporre.
Nel frattempo il pranzo è andato avanti, infatti la nipotina ci
ricorda che a quest’ora lei fa il riposino e quindi, munito di passeggino esco
per addormentarla: sarà l’aria di mare, saranno le vongole o le buonissime
alici fritte che non ha per niente disprezzato ma l’operazione si svolge
nell’arco di un amen e quindi rientriamo al tavolo in pochi minuti, con la
bella addormentata che ci lascia concludere in santa pace, grazie a una
cassatina e a un buon gelato.
Ormai si sono fatte le 15 e, visto che la dormiente insiste nel
dormire, noi ci lasciamo cullare dal venticello e dall’ultimo calice di vino.
Il bello dello Scoglietto è proprio questo! L’ospite può stare a
tavola quanto vuole, rilassarsi in spiaggia o in tutti e due i luoghi, senza
alcun problema. L’uovo di Colombo dell’ospitalità. Il conto sarà tranquillo, anzi tranquillissimo: diciamo sui 35/40 euro
per due piatti e naturalmente il vino. Da andarci, con o senza nipote!
Lo scoglietto
Via Lungomare Monte Alla Rena 13-15 - 57013 Rosignano Solvay
- Rosignano Marittimo (LI)
Tel. 0586 767962 - Cell. 333 7502256 / 335 6653080
info@loscogliettorosignano.it
Podere Conca - Bolgheri Rosso Agapanto 2018
Ha fatto bene Silvia Ricci, medico di professione, a
insediarsi a Bolgheri e lavorare in biologico vigne e vini con totale
dedizione.
I risultati sono eccellenti, questo rosso da cabernet e ciliegiolo ha
profumi ammalianti di prugna, ciliegia, liquirizia e cacao e una bocca intensa
ma scorrevolissima, succosa, di puro godimento.
Giovanni Scarfone: 10 anni d'amore tra Bonavita e Faro DOC
di Roberto Giuliani
Ho conosciuto Giovanni Scarfone nel 2008, allora la doc
Faro era salita alla ribalta grazie a Salvatore Geraci, che ha indubbiamente contribuito
a evitare che venisse cancellata per assenza di aziende vinicole attive. Quando
ho assaggiato il Faro 2006 di Bonavita sono rimasto folgorato, amore al primo
naso, tanto che decisi di andare a trovare la famiglia Scarfone insieme al mio
amico e collega Alessandro Franceschini. Fu un’esperienza bellissima che
porterò sempre nel cuore, Carmelo ed Emanuela, genitori di Giovanni e Francesco
(che è un bravissimo pittore), furono deliziosi, un’accoglienza garbata e allo
stesso tempo calorosa, diretta; il paesaggio intorno era bellissimo, si poteva
vedere lo stretto di Messina, Faro Superiore si trova sulla punta a nord-est
dell’isola, a un’altitudine sufficiente per poter ammirare il paesaggio marino
circostante. Ricordo le fantastiche marmellate di Emanuela, fatte con la loro
frutta, qualcosa di sublime che non può che darti una piacevolissima
dipendenza!
Papà Carmelo e Giovanni. |
Purtroppo papà Carmelo è recentemente scomparso, ho un
grande rimorso di non essere più tornato negli anni successivi, mi sarebbe
piaciuto conoscerlo più a fondo.
Giovanni mi dette alcune bottiglie di quel 2006, ogni tanto
ne ho aperta una, questa è l’ultima e devo dire che una parte di me vorrebbe
custodirla come una reliquia, ma il vino va bevuto, la vita è troppo breve
perché abbia senso accumulare bottiglie in cantina e rischiare di andarsene
prima di averle bevute.
Così ho preso una decisione, se devo aprirla voglio almeno
confrontarla con la 2016, può essere interessante, visto che si tratta di due
annate con caratteristiche diverse sia per l’andamento stagionale, sia per l’età
delle viti, sia per l’esperienza maturata in vigna e cantina. Un’esperienza che
ha portato Giovanni a non utilizzare concimi chimici, erbicidi e insetticidi, e
nutrire il terreno con il classico sovescio di leguminose e graminacee. Solo
rame e zolfo quando strettamente necessario e in dosi molto moderate, puntando
principalmente su una potatura verde molto attenta.
Faro 2006 (nerello
mascalese, nerello cappuccio, nocera) – 12,5%: come riporta il sito aziendale
l’anno è iniziato con un inverno piuttosto freddo e molto piovoso nei primi
mesi, di conseguenza il germogliamento è partito a fine marzo per il nerello
mascalese e nella prima decade di aprile per nerello cappuccio e nocera. Primavera
fresca con precipitazioni regolari, estate asciutta ma senza eccessi di
temperatura. A settembre si è avuto un periodo piovoso che ha rallentato la
maturazione delle uve, portando la raccolta al 13 di ottobre, che ha garantito
uve sane con una buona acidità (5,80 g/l) e una gradazione zuccherina non
elevata, che si è tradotta in 12,5 gradi di alcol nel vino.
Nei vari assaggi effettuati con il passare degli anni ho
visto questo vino continuare a crescere, mantenendo quelle promesse che avevo
previsto nel 2008, questa volta sembra voler ingannare l’olfatto, poco dopo
averlo versato nel calice spara con decisione un terziario marcato di funghi,
polvere da sparo, cuoio conciato, caffè, sottobosco, fumo di pipa. Passano i
minuti e l’ossigenazione lo risveglia sempre più, tornando a raccontare di
frutti, maturi certo ma non ossidati, c’è anche il cacao, l’arancia rossa, il
fico, il cardamomo, la menta e la liquirizia, segno che il vino è ancora molto
vivo, sebbene abbia ormai superato la vetta, ma il manto odoroso è ancora
magnifico e complesso.
All’assaggio conferma quell’impressione, c’è ancora tanta
poesia e fascino, una profondità non comune, ma viaggia su toni più scuri e
austeri, meno articolati, unico segnale di iniziale discesa di un grande vino,
che credo fosse integralmente lavorato da papà Carmelo. Tanto di cappello…
Faro 2016 (nerello mascalese, nerello cappuccio, nocera) –
12,5%: in questo caso l’inverno è stato più mite, sebbene decisamente generoso
nella piovosità; anche in primavera è piovuto ma in modo più regolare e non
dannoso, mentre l’estate è stata fresca fino ai primi di settembre, quando ha
ripreso a piovere in maniera insistente, mettendo in difficoltà la scelta
vendemmiale. Alla fine si è raccolto prima il nerello cappuccio, intorno alla
fine del mese, mentre il mascalese e il nocera sono stati vendemmiati nella
prima decade di ottobre. Anche in questo caso l’alcol svolto ha portato la
gradazione a livelli pressoché identici di quella del 2006.
Il colore del vino appare ovviamente più giovane ma con
maggiore trasparenza, al naso i profumi ci portano verso la frutta rossa fresca
e leggermente in caramella, ciliegia e lampone in primis, a cui fa seguito la
susina rossa, piacevoli sfumature di rosa accompagnano un bouquet di bella
finezza e pulizia, con uno sguardo verso l’agrume, l’alloro e altre erbe
aromatiche.
Al palato c’è energia, freschezza e una materia misurata a
tutto vantaggio di un’eleganza d’insieme tutt’altro che trascurabile. Il
tannino sta integrandosi già molto bene, il sorso è piacevolissimo e
l’alcolicità moderata lo rende davvero godibile. Non so se avrà la longevità
del 2006, ma forse in eleganza gli è superiore, c’è una più raffinata
precisione, segno di quell’esperienza maturata di vendemmia in vendemmia a cui
accennavo prima.
Bravo Giovanni!
Tenuta di Artimino – Vin Ruspo “Barco Reale di Carmignano” Rosato 2019
Un perfetto blend di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot dà
origine a questo rosato dal DNA toscano ma che strizza l’occhio alla Provenza
per eleganza e leggerezza.
Vino diretto, non da competizione, che finisce in un amen a
tavola. Provatelo sul crudo di gamberi. Slurp!!
Santus, un sogno di Franciacorta diventato realtà!!
Non mi
nascondo dietro un dito, per chi come me cerca di comunicare il vino in maniera
libera ed appassionata è decisamente stimolante scrivere di piccole realtà che
spesso non trovano la giusta valorizzazione in un mondo, come quello dell’enogastronomia,
dove per mille motivi magari ti ritrovi a parlare sempre delle stesse cantine
Oggi,
perciò, vi vorrei parlare di Santus, una piccola azienda il cui progetto
è stato elaborato, pensate un po’, tra i banchi universitari della facoltà di
Agraria di Piacenza dove si sono conosciuti Maria Luisa Santus e Gianfranco
Pagano, oggi marito e moglie e genitori di tre bambini, che duranti i loro studi
universitari avevano maturato un sogno di vita ovvero dedicarsi alla
viticoltura rispettando, nel contempo, la natura e i ritmi della terra in cui
viene praticata.
Il progetto è tutt’altro che utopistico ed inizia a prendere
forma agli inizi degli anni 2000 quando vengono piantate circa 60.000
barbatelle, sia chardonnay che pinot nero, su 10 ettari di terreno, localizzati
a Paderno Franciacorta, suddivisi su tre appezzamenti:
Tre Cortili - 1,5 ettari coltivati a chardonnay. La forma di allevamento è
il cordone speronato;
Colombaia - 3,5 ettari coltivati a Chardonnay. La forma di allevamento è
il guyot;
Albarello – 5 ettari totali di cui 3 coltivati a Chardonnay e 2 a Pinot
Nero. La forma di allevamento è il cordone speronato.
Fatto
questo, è tempo di pensare a come dar vita al loro primo vino! Maria Luisa e
Gianfranco vogliono che il loro Franciacorta manifesti la sua espressività fin
dalla prima uscita, pertanto l’uva dei primi quattro anni di produzione non
viene vinificata. Finalmente, nel 2005, decidono che è arrivato il momento di dar
luce alla loro prima annata producendo quasi in via sperimentale un
Franciacorta Brut, tiratura 4.300 bottiglie, che vedrà la luce solo tre anni
dopo.
Siccome alla
base della filosofia Santus c’è la convinzione che il compito dei piccoli
viticoltori sia quello di essere una avanguardia a difesa delle biodiversità,
Maria Luisa e Gianfranco nel 2016 fanno ancora un passo avanti, decisivo, ed
iniziano il percorso di certificazione biologica delle uve in modo che, a
partire dalla fine del 2021, tutti i Franciacorta Santus siano certificati
biologici e vinificati nella nuova cantina che dovrebbe essere pronta per la
fine di quest’anno.
Santus oggi
produce mediamente 50.000 bottiglie così suddivise:
Franciacorta
Brut – 25.000 bottiglie
Franciacorta
Satèn Brut Millesimato – 10.000 bottiglie
Franciacorta
Rosè Zero Millesimato – 8.000
bottiglie
Franciacorta
Dosaggiozero Millesimato – 5.000 bottiglie
Franciacorta
“Essenza” Millesimato – 2.000 bottiglie (prodotto solo in alcune
annate).
Io,
ovviamente, me li sono degustati tutti e vi porto la mia esperienza!
Santus –
Franciacorta Brut (80% chardonnay, 20% pinot nero):
paglierino luminoso e dal perlage fine. Ricco nel bagaglio aromatico di fiori
bianchi, crosta di pane, agrumi e lieve mineralità. Strutturato, composto,
piacevole al sorso che chiude con ritorni agrumati.
Maturazione:
6 mesi in acciaio inox e piccola parte in barriques di rovere francese.
Affinamento in bottiglia sui lieviti: minimo 21 mesi.
Santus -
Franciacorta Satèn Brut 2015 (100%
chardonnay): paglierino luminoso e dal perlage fine. Impatto olfattivo molto
diretto e senza fronzoli dove si percepisce la pesca bianca, il pompelmo rosa,
l’erba cedrina a cui fa da sfondo una inconfondibile nota di gesso. Ottima
coerenza al palato, invitante e sapido, che chiude su una scia agrumata davvero
ragguardevole.
Maturazione:
6 mesi in barriques in rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti:
minimo 30 mesi
Santus –
Franciacorta Rosè Zero 2015 (100% pinot nero): è la
novità di questo anno in quanto questa tipologia ha preso il posto dell’extra
brut prodotto fino allo scorso anno. Colore rosa antico, brillante e dal
perlage fine e persistente. Si esprime deciso su sensazioni di lampone acerbo,
rosa, freisa, arancia sanguinella, pompelmo rosa. Il sorso è decisamente secco,
austero e coinvolgente per avvolgenza, equilibrio e lunghissima persistenza che
in questo caso, rispetto agli altri Franciacorta bevuti in precedenza, ha una
progressione minerale di grandissimo impatto.
Maturazione:
6 mesi in acciaio inox. Affinamento in bottiglia sui lieviti: minimo 40 mesi
Santus –
Dosaggiozero 2015 (70% chardonnay, 30% pinot nero): giallo
paglierino arricchito da un perlage numeroso, elegante e persistente. Approccio
olfattivo austero dove affiorano immediati i sentori freschi di mela verde, uva
spina, biancospino, scorsa di pompelmo che col tempo virano decisi su una nota
profondamente minerale, quasi di allume. Al gusto è tutto classe, consistenza,
slancio e sapidità. Da bere a secchi!
Maturazione:
6 mesi in barriques in rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti:
minimo 30 mesi.
Santus -
Franciacorta “Essenza” 2012: ottenuto da uve
Chardonnay 100% del vigneto aziendale Tre Cortili, raccolte a maturazione molto
avanzata ed attaccate da Botrytis Cynerea. Il risultato? Un Franciacorta fuori
dagli schemi, destabilizzante e di grande impatto, soprattutto olfattivo, che
si esprime su un bouquet composto da effluvi di frutta secca, bergamotto, pesca
sciroppata, nocciola e marzapane. Assaggio ricco, goloso e coerente con i
ritorni aromatici di pasticceria e frutta matura. Tra i cinque, per lo stile, è
quello che mi ha convinto di meno ma se amate l’avvolgenza e la morbidezza di
uno vino questo non potrà non essere il vostro Franciacorta di riferimento.
Maturazione:
6 mesi in barriques in rovere francese. Affinamento in bottiglia sui lieviti:
60 mesi
La Scolca - Soldati La Scolca Brut Millesimato 2003
di Lorenzo Colombo
Tra i
tanti luoghi comuni che ruotano attorno al mondo del vino uno sostiene che dopo
la sboccatura gli spumanti abbiano vita breve.
Ebbene questo Metodo Classico da
uve Cortese della vendemmia 2003, sboccato nel 2011 (quindi nove anni fa) è la
prova vivente di quanto sia falsa questa credenza. Ve lo possiamo garantire!!
Cantina Pizzolato - Malanotte del Piave DOCG “Il Barbarossa” 2015
di Lorenzo Colombo
Iniziamo
dal curioso nome, che in realtà non è altro che quello del Borgo
Malanotte, borgo medievale la cui esistenza è attestata sin dal 1400, situato a
Tezze di Piave, frazione del comune di Vazzola, in provincia di Treviso (TV),
cuore della produzione del vino. Il riconoscimento della Docg al vino Piave
Malanotte è del dicembre 2010, la zona di produzione è molto ampia e situata
lungo il fiume Piave, comprende numerosi comuni della provincia di Treviso ed
alcuni in quella di Venezia. Le uve utilizzabili sono il Raboso Piave (min.70%)
ed il Raboso veronese (max.30%), parte di queste uve (min.15% e max.30%)
debbono obbligatoriamente essere sottoposte ad appassimento. La messa in
commercio non può essere effettuata prima dei trentasei mesi dalla vendemmia.
La Cantina |
Il Raboso
Piave era un vitigno molto diffuso nel passato (oltre 7.000 ettari secondo il
censimento agricolo del 1970) che però nel corso degli anni ha visto sempre più
contrarsi la sua superficie vitata, tanto che, quarant’anni dopo (censimento
del 2010) ne rimanevano poco più di 700 ettari, confinati in alcune province
del Veneto orientale ed in provincia di Pordenone, in Friuli. Oltre che per la
produzione del Piave Malanotte il vitigno entra a far parte di un altro vino a
Docg (Bagnoli Fiularo), di sette vini a Doc e di otto ad Igt.
Anche il
Raboso Veronese (comunque non utilizzato nel vino frutto della nostra
degustazione) ha subito un’analoga –se non peggiore- sorte, i poco meno di
6.000 ettari del 1970, s’erano ridotti nel 2010 (ultimo censimento agricolo) a
meno di 300 ettari e questo nonostante la sua teorica area di produzione sia
nettamente più vasta, potendo essere coltivato anche in altre regioni
(Lombardia ed Emilia-Romagna).
Il Raboso
e l’appassimento delle uve
L’appassimento
delle uve Raboso non è una trovata dei nostri tempi, ma una pratica già in uso sin
dal ‘700, con lo scopo di smussare la tannicità e l’acidità dei vini derivati
da questo vitigno, caratteristiche che comunque ne facevano un vino longevo. Una
simpatica descrizione di un vino prodotto con uve Raboso – in questo caso si
tratta del Friularo di Bagnoli, ci viene data da Ludovico Pastò -medico e poeta
dialettale veneziano- nel suo ditirambo “El vin friulano de Bagnoli”. Abbandonata nel corso degli anni la pratica di fare
appassire, seppur parzialmente quest’uva, vine ripresa negli anni ’90 e da qui
nasce l’attuale Malanotte del Piave (risulta interessantissima a tal proposito
la lettura del libro “Il Vino nella storia di Venezia – Vigneti e cantine nelle
terre dei Dogi tra XIII e XXI secolo).
Il vino
Il Malanotte del Piave Docg “Il Barbarossa” della
Cantina Pizzolato, l’annata è la 2015 è prodotto con uve
Raboso Piave provenienti da vigneti situati a nord di Treviso, il 30% delle uve
subisce un appassimento in cassetta per circa tre mesi, dopo la fermentazione
alcolica il vino s’affina per ventiquattro mesi in botti e barriques, seguono
ulteriori sei mesi di bottiglia prima della messa in commercio. L’etichetta
riporta il ritratto di Settimo Pizzolato, autore del vino, che è certificato
Biologico e Vegan.
Alla vista
su presenta granato profondo con ricordi color prugna sull’unghia. Intenso, con
ampio spettro olfattivo, si colgono note surmature, sentori di prugne secche,
confettura di prugne e marasche, note speziate di vaniglia e cannella,
sottobosco, radici, liquirizia, accenni di salamoia. Strutturato, con tannini
decisi ma vellutati, bella vena acida, liquirizia forte, prugne secche,
confettura di marasche, accenni di spezie piccanti (pepe), tornano le note di
salamoia su una lunga persistenza.
Girolamo Russo - Etna Rosso A' Rina 2017
di Stefano Tesi
Sono confesso (ma non reo!): amo i rossi dell’Etna e il Nerello Mascalese.
E questo (con anche un 5% di Nerello Cappuccio) ha tutte le caratteristiche per farsi amare: è bio, ha un bel colore rubino appena scarico, il profumo fresco, fruttato ed esplosivo delle ciliegie precoci, una bocca generosa, succosa, lunga e mai noiosa.
Enzo Signorelli, dalla fotografia all'olio extravergine di oliva dell'Etna!
di Stefano Tesi
Se le vie del Signore sono infinite, quelle del Signorelli lo sono quasi. E siccome per l’olivicoltura sono sempre tortuose e spesso parecchio acclivi, a praticarle ci vuole fede. O almeno molta fiducia.
Del resto, e di contro, chi può trovarle praticabili se non un fotogiornalista abituato a confrontarsi tutti i giorni sugli accidentati sentieri della libera professione, roba al cospetto della quale perfino i tormenti olivicoli possono apparire sopportabili?
E’ il caso appunto di Enzo Signorelli da Catania, qualche decennio alle spalle passato dietro a un obiettivo a documentare la cronaca del mondo (incluso lo scoop per il glorioso quotidiano "L'Ora" di Giovanni Falcone al lavoro), che alcuni anni fa si è trovato di fronte al classico bivio: una “campagna” che nessuno voleva o poteva più seguire, tra il dispiacere della prospettiva di disfarsene e le difficoltà oggettive di condurla.
Lui ha scelto la seconda opportunità. Con una meritevole aggiunta: dopo aver cominciato non ha rinunciato, come di solito fanno i quattro quinti di chi si trova in quella situazioni.
Ipse dixit: “Era una piccola proprietà di famiglia a Ragalna, uno dei comuni del parco dell’Etna, zona dop Monte Etna, due ettari con poco più un centinaio olivi, molti secolari e sopravvissuti a varie traversie, incendi compresi. Ambiente incontaminato ma difficile da coltivare tra rocce laviche, vegetazione selvaggia e luoghi non proprio accessibili. Lavorare qui richiede molta fatica, senza contare i pericoli. Bisogna fare tutto a mano spostandosi a piedi e portando in spalla gli attrezzi: una faticaccia. Ripagati però da un paesaggio abbellito dai bulbi colorati lungo i sentieri, i ciclamini, le verdure di campo: mai assaggiati i caliceddi? Ci sono conigli, un paio di donnole, un falchetto che ci sorvola come un drone, qualche serpentello e qualche tartaruga. In febbraio fioriscono le rare orchidee spontanee come la Barlia robertiana, colore viola screziato. E poi c’è l’olio, naturalmente”.
Varietà utilizzate: Nocellara Etnea (la maggior parte) e varietà autoctone come la Murghitana o Moresca, Pizzutella, Minnedda, Ugghiara, con altre capitate lì chissà come, ma ormai acclimatate.
“Cominciai con una scala di legno artigianale lunga oltre cinque metri e pesante come un cristiano. La sera mi sdraiavo sul divano e quasi sempre mi addormentavo lì, vestito e con le luci accese, dimenticandomi di cenare”, racconta. Nel 2015 aveva fatto diverse prove e il risultato era piaciuto molto a Gualtiero Marchesi, che lo aveva assaggiato grazie ad amici comuni. “L’episodio mi motivò moltissimo e mi spinse a continuare sulla via della qualità assoluta. Oggi l’olio viene conservato in acciaio, sotto azoto e a temperatura controllata. La raccolta è precoce, per estrarre un olio il più profumato possibile, gustoso e con notevole contenuto naturale di biofenoli, fino a 400mg/kg, che ne fanno un prodotto con qualità nutraceutiche”.
Ecco le mie note di degustazione.
Contrada Mancusa – Nocellara dell’Etna.
Extravergine monocultivar di Nocellara dell'Etna, da un oliveto tra i comuni di Santa Maria di Licodia e Ragalna, a 600 metri di quota. Acidità 0,18%.
L’olio ha al naso un piacevole e netto sentore erbaceo di media intensità, cui seguono accenni di foglia di pomodoro e una sensazione generale di fruttato maturo.
L’ingresso in bocca è gentile e denso, con un accenno dolce che si muta lentamente in amaro lieve, composto e leggermente piccante, molto lungo e senza inflessioni.
Prodotto equilibrato che per sapidità e intensità si presta a soddisfare molti palati.
Contrada Difesa – Antica Proprietà Tomaselli – Igp Sicilia.
Extravergine ottenuto da olive di Nocellara dell’Etna e di altre cultivar da un oliveto in territorio di Ragalna, a circa 400 metri di quota. Acidità 0,18%. Solo 450 bottiglie numerate e firmate destinate alla commercializzazione di alta gamma.
Al naso entra quasi in punta di piedi, delicatissimo ed elegante, sviluppando poi una sensazione di freschezza che richiama profumi di erba tagliata, di radicchio verde e di scorza tenera.
In bocca è più deciso e persistente, ma rimane composto, con un amaro e un piccante che crescono progressivamente e armonicamente fino a divenire dominanti, senza pregiudicare però l’armonia organolettica generale. Un extravergine di classe, destinato a palati evoluti.
Per informazioni e acquisti potete contattare direttamente il produttore: 335 6889498 o esignorelli@mac.com
Cantine Antonio Mazzella - Villa Campagnano 2018 Epomeo Bianco IGT
Blend ad armi pari di biancolella e forastera, le due grandi uve dell'Isola Verde. Magnum indimenticabile bevuta su una enorme quantità di pesce e pescetti fritti con tanti amici.
Olfatto gentile, floreale, di limone e ginestra, al palato potente ed efficace, assolutamente dissetante. Una bella esecuzione del giovane Nicola Mazzella!
www.ischiavini.it
Passo delle Tortore: una idea giovane e vincente in pieno Sud!
di Luciano Pignataro
Passo delle Tortore a Pietradefusi. Stavolta
voglio parlare di questa nuova azienda che si presenta con la prima vendemmia
in un momento davvero difficile per tutto il mondo del vino. Un segnale di
speranza e di fiducia che, nonostante tutto, e a dispetto delle tante crisi,
chi si occupa di vino deve avere per portare avanti la sua attività.
In primo luogo parliamo del paese, poco più di
duemila anime, che rientra nella docg Taurasi e che è proprio al confine,
impercettibile, tra le province di Avellino e Benevento. Paesi e comunità
silenti appollaiati su colline un tempo innevate o avvolte nella nebbia, quando
l'aglianico veniva raccolto tardi. Siamo infatti comunque su una media di 400
metri sul livello del mare, appena un po' più alti di Taurasi che sta a 300 e
da cui dista 13 chilometri di curve che scollinano in continuazione.
L'azienda |
Qui il compianto Lucio Mastroberardino aveva
individuato il cru del Taurasi Pago de Fusi di Terredora, un rosso monumentale
e imperdibile. E nella frazione Dentecane si registra a più alta concentrazione
di aziende impegnate nella produzione di torrone, marchi famosi che esportano
in tutto il mondo.
Beh, proprio qui, in contrada Vertecchia, è nata
questa nuova azienda che vede impegnate tre socie: Maria Carla Di Gioia,
Francesca De Girolamo e Ilaria Facchiano. Ma i motivi per cui ci piace
soffermarci su questa nuova avventura sono due. Il primo è che il direttore
commerciale è Nicola De Girolamo, papà di Francesca e dell'ex ministro
dell'agricoltura Nunzia. il secondo è l'enologo Francesco De Pierro.
Francesca De Girolamo |
Nicola De Girolamo è stato per oltre un quarto di
secolo direttore della Cantina del Taburno e contribuì, all'inizio degli anni
'90, all'affermazione dei vini autoctoni campani con una linea di bianchi che
ben presto si affermò sul mercato napoletano, sin o a quel momento consumatore
di vini provenienti da altre regioni. Coda di Volpe Greco e Falanghina furono
il tridente che affascinò i consumatori imponendosi con un giusto rapporto
qualità/prezzo sfruttando l'esperienza dell'enologo Angelo Pizzi. In un secondo
momento la Cantina, con l'ingresso di Luigi Moio, lanciò il Buie Apis, uno dei
rossi da Aglianico più importanti della Campania che ha avuto molti riconoscimenti
dalla stampa specializzata.
Il legame con Moio è nella scelta del giovane
enologo che è stato suo allievo al corso di Enologia del Dipartimento di
Agraria e che poi si è fatto le ossa studiando e lavorando per quattro anni in
Francia tra Bordeaux e la Cote du Rhone.
Francesco De Pierro e Ilaria Facchiano |
In simbolico cambio di testimone generazionale in
cui l'energia giovanile si coniuga all'esperienza di una vecchia volpe che ben
conosce il mercato in tutti i suoi risvolti.
L'azienda ha poco più di otto ettari, di cui 5,5
vitati (a cui si aggiunge uno in fitto) mentre il resto è occupato da ulivi. Le
concimazioni sono di natura organizza e già si applica il protocollo regionale
di lotta integrata ma è in programma la conversione biologica.
L'azienda si presenta con i tre bianchi.
Greco di Tufo docg Le Arcaie 2019
Un bianco ottenuto dalle uve coltivate su suolo
tufaceo a Montefusco, paese che rientra nella zona docg del Greco e famoso per
alcune delle sue migliori espressioni. Un bianco ricco, ovviamente ancora
giovane, lavorate in parte in acciaio e in parte in barrique nuove. Decisamente
ampio e complesso, va conservato secondo noi almeno un annetto prima di un
nuovo stappo come sempre avviene per i Greco.
Fiano di Avellino docg Bacio delle
Tortore 2019
In questo caso le uve sono di Lapio, l'unico
paese in cui si incrociano le docg Taurasi e Fiano di Avellino. Siamo a 540
metri sul livello del mare e anche in questo caso si è avuta una lavorazione
parallela tra acciaio e legno. Il Fiano di Lapio esprime sempre una complessità
straordinaria ed è in grado di attraversare il tempo oltre ogni immaginazione
come pure tante verticali hanno ormai dimostrato. Proprio gli studi del
professore Moio hanno rivelato che il Fiano non solo resiste, ma si evolve con
il tempo. Questa interpretazione ha certamente un occhio per la freschezza e la
immediatezza, ma a nostro parere è un piccolo gioiellino che si rivelerà alla
grande fra cinque, sei anni.
Irpinia Falanghina doc Piano del Cardo
2019
A riprova della serietà della impostazione
aziendale, parliamo di uva coltivata proprio a Pietradefusi in provincia di
Avellino in un conteso nel quale la maggioranza delle aziende irpine acquista
uva o vino direttamente a Benevento, la cisterna della campania. Ci è piaciuto
molto l'equilibrio perfetto tra il frutto e il legno che fa solo da spalla.
Come beva è sicuramente più avanti degli altri due bianchi, ma anche in questo
caso conviene attendere almeno l'autunno prima di stapparne altre.
E i rossi? A giugno in arrivo l’Irpinia doc, a
settembre il Campi Taurasini e poi, ovviamente, il Taurasi. Di questi tempi ci è sembrato giusto segnalare
una partenza in salita da parte di una giovane azienda. I presupposti per fare
un grande lavoro secondo noi ci sono tutti e chi vivrà, berrà.
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