News dalla Campania: la Barbera del Sannio diventa Camaiola


di Luciano Pignataro

Da Barbera del Sannio a Camaiola, ecco il cambio all’anagrafe di uno dei vini più moderni, allegri, bevibili, tipici della nostra amata regione. L’areale di cui parliamo è Castelvenere, piccolo paese appollaiato sulla Valle Telesina che ha una caratteristica, quella di essere il centro più vitato della Regione.
Questo vino rosso è il vino della festa, si abbina alla Scarpella, tipica lasagna di Carnevale di cui ogni casa conserva il suo prezioso ingrediente segreto. E’ moderno perché leggero, profumato, abbinabile al cibo, immediatamente riconoscibile anche se non si è esperti di vino. Per anni i produttori hanno dovuto spiegare ai loro interlocutori che non era la Barbera del Piemonte anche se portava lo stesso nome. Come Chiamarsi Maradona e spiegare prima ancora di farsi conoscere, che non sei parente del famoso calciatore e che addirittura non hai mai tirato un calcio a un pallone.


L’operazione è partita da Castelvenere, il «paese più vitato del Sud», dove recenti ricerche hanno portato alla luce la coltivazione, agli inizi del ‘900, di una varietà chiamata camaiola, il cui nome scompare proprio quando prende ad affermarsi – a partire dallo stesso paese – quello di barbera. La storia è lunga, si intreccia con l’emigrazione temporanea nel Nord America di quelli che poi diventarono i primi produttori-imbottigliatori castelveneresi, che Oltreoceano conobbero la grande notorietà del nome barbera, allora il vino più famoso al mondo. Si intreccia con vicende religiose, considerato che proprio in quei decenni era forte l’attivismo in questo paese del Sannio di una cellula valdese (con un forte scambio con il Piemonte). E si intreccia – vuole il caso – con la necessità di quei vignaioli di distinguere il proprio prodotto rispetto al «vino Solopaca», che in quei decenni andava affermandosi con forza, anche grazie al fatto che quella di Solopaca era la stazione ferroviaria da cui partivano i vini diretti al Nord e Oltralpe, dove la fillossera aveva infierito sulle vigne.

Camaiola, riferendosi ad un termine provenzale (la lingua ufficiale dei Valdesi), identificherebbe una varietà capace di «macchiare di nero», un’uva dall’alto potere colorante, proprio come questa barbera che barbera non è, utilizzata nei decenni scorsi per «colorare» i vini, proprietà esaltata anche con tecniche di concentrazione (sul fuoco o infornata secondo l’antica tecnica detta «acinata»). Quest’uva, fino a quando la maggior parte del prodotto dell’area (la «cantina della Campania») veniva smerciato sotto forma di frutto, veniva trasformata esclusivamente in loco, a causa delle caratteristiche della sua buccia che ne rendevano praticamente impossibile il trasporto.


Nel corso del XX secolo c’è stata molta confusione su nomi dei vini, il brutale passaggio dalla civiltà rurale a quella urbana maturato nel corso di due guerre mondiali ha portato ad una sorta di perdita di memoria collettiva sulle cose e sui luoghi. Spesso i nomi venivano dati per vendere più facilmente l’uva quando ancora si ragionava sulla quantità, con i produttori sanniti che esponevano il raccolto nei punti vendita lungo la valle.Ma la viticoltura di qualità e di precisione ha ricostruito lentamente questa storia, quasi un lavoro da archeologici. Dare un nome preciso al vino, magari orecchiabile e facilmente memorizzabile, è il primo passo del suo successo commerciale e per realizzare una operazione simpatia tra gli appassionati. Pensateci bene: non ha più chic dire che “ho bevuto un bicchiere di Camaiola” invece di Barbera del Sannio? Non fosse altro per non sentire la risposta: “e perché non quella del Piemonte, è diversa? E tu lì a spiegare che non si tratta solo di un clone, ma di un vitigno completamente diverso da quello del Nord.
Dunque la svolta è davvero importante anche se realizzata con anni e anni di ritardo, tale da rendere impossibile cogliere l’attimo del grande boom del vino negli anni ’90. Ma tutto sommato, a pensarci bene, non tutto il male viene per nuocere per questa operazione del vino si realizza in un momento in cui tutti cercano la verità nel bicchiere. E in un contesto in cui la maggioranza delle persone che bevono sono stanche di vini pesanti, troppo strutturati ed eccessivamente alcolici e cercano più semplicità in primo luogo perché sono cambiati gli stili di vita, poi perché è profondamente mutato anche il nostro approccio al cibo, decisamente alleggerito e diretto verso l’orto-mare tipicamente campano e mediterraneo.Ben venga allora un operazione verità su un vino tipico, ben circoscritto in un’area di produzione, che corrisponde perfettamente alle nuove esigenze dei consumatori più acculturati e attenti alle novità. Le parole sono importanti urla Nanni Moretti in Palommella Rossa. Sì, soprattutto in un momento storico in cui l’estetica sembra essere tutto e il contenuto niente. Qui l’operazione che si è realizzata grazie all’intelligenza dei produttori è esattamente opposta: si dà un nome giusto ad una storia vera, non inventata. Quella dei bravi viticultori di Castelvenere che hanno tenacemente conservato questa uva nel corso degli ultimi decenni.


I PRODUTTORI

La storia in bottiglia inizia nel 1974, per volontà del castelvenerese Salvatore Venditti, anima di Anna Bosco, azienda oggi curata dai figli Filippo e Mario, che presenta le etichette Don Bosco, Armonico e Ororosso e un rosato.Barbarosa è invece il nome del rosato di Simone Giacomo, una delle ultime cantine nate a Castelvenere, che produce anche la versione rosso.

Vendemmia 2017 in commercio per la Dop Sannio di storici produttori castelveneresi: Barbetta di Venditti, anche nella versione Assenza (senza solfiti, lieviti e tannini aggiunti); Castelle, Torre Venere, Vigne Sannite; Petrare; Foresta; Scompiglio; Mario Pacelli; Thelemako di Fontana delle Selve; Anima Vennerese, prima versione Dop alla Vinicola del Sannio. Igp è Radici di Di Santo, Neropiana e Costa delle viole delle cantine guardiesi Morone e Iannucci e Vianova della paupisana Torre del Pagus. Poi le Dop Sabba della guardiese Grotta delle Janare, de La Vinicola Del Vecchio (Telese) e della Cantina di Solopaca; a La Guardiense le uve vengono utilizzate per il Quid in versione rossa. Non d’annata le etichette Dop di Fattoria Ciabrelli (Rapha’el è 2015) e della Vinicola del Titerno dei fratelli Alfredo e Talio Di Leone attiva a Massa di Faicchio. Lasta but not least, Grotta di Futa de ‘a Cancellera

Di Prisco - Greco di Tufo 2014


Tra qualche giorno parte Campania Stories e allora  parliamo di Irpinia e Greco di Tufo. Annata difficile, vino adesso STRATOSFERICO per austera freschezza, profondità, pienezza gustativa. 


Da genuflessione di fronte a Pasqualino Di Prisco, anche perché sarà costato meno di 5 euro. Vale il viaggio anche a piedi.

www.cantinadiprisco.com

Fulin, ovvero come godere della grande Cucina Cinese a Firenze

C’era un italiano un cinese di Pechino e uno di Hong Kong. Non è l’inizio di una barzelletta ma di una storia vera, che dura da tre anni, si svolge a Firenze e si chiama Fulin.
La mia ignoranza della cucina e della cultura cinese è abissale e a ben poco sono serviti alcuni libri sulla vita dell’ Imperatrice Cixi (che tempra di donna!) per farmi un quadro minimamente sufficiente.


Per questo quando sono entrato da Fulin a Firenze non sapevo proprio cosa aspettarmi, oltre quello che mi era stato detto e cioè che si trattava di un ristorante di cucina cinese di alto livello. Il basso livello lo conoscevo da tempo ma sull’alto potevo riandare con la memoria solo al bellissimo film “Mangiare bere uomo donna” di cui mi ricordavo le lunghissime preparazioni del protagonista, tra cui quella infinita o quasi dell’anatra laccata.
Così entro da Fulin e ad aspettarmi c’è l’italiano, fiorentino purosangue, che si chiama Gianni Ugolini ed è un famoso fotografo ( e stato gentilissimo a far finta di niente mentre provavo a fotografare piatti e locale col cellulare). I due cinesi invece (in realtà uno, l’altro era assente), uno di Pechino e l’altro di Hong Kong erano in una pulitissima e organizzata cucina , dove tra l’altro  facevano bella mostra di sé una serie di anatre pronte per iniziare “il rito” della laccatura.
Io invece, dopo un giro panoramico per il bel locale, arredato con cura e gusto, soprattutto senza eccedere in “cineserie” e dando anche spazi importanti alla voglia di privacy, mi accingo al rito del pranzo, che inizia nel modo più italiano possibile, grazie ad un calice di ottimo sauvignon altoatesino.
Infatti da Fulin si pasteggia col vino e devo dire che quel bianco ha accompagnato perfettamente tutti i piatti.


Piatti, vi garantisco, uno meglio dell’altro, che mi hanno fatto capire in un baleno  cosa voglia dire  cucina cinese di alto livello.
In realtà  è un po’ l’uovo di Colombo: basta utilizzare ottime  materie prime, lavorarle il più possibile sul momento e non vergognarsi assolutamente di “contaminare” la cucina cinese con qualche ingrediente  prettamente italico.
La prima contaminazione è il raviolone al tartufo, cioè  (così recita il menù) un raviolo di pasta di fecola di patate e  amido di frumento di mais, ripieno di carne di fassona piemontese, tofu marinato su una base di crema di zucca profumata al tartufo. Un piatto meraviglioso per gusto e equilibrio, che ti fa scordare in un lampo tutte le precedenti esperienze di cucina pseudocinese e aspettare con gioiosa apprensione i piatti che verranno.


E ne verranno molti altri, perché il menu è ampio e articolato. Non mi metterò a riportarvi per intero tutte le presentazioni dalla carta  di cosa o mangiato altrimenti faremmo notte, però permettetemi di consigliarvi  il godurioso raviolo ripieno di gamberi con brodino al ginseng e  gli imperdibili involtini fritti con ripieno di gamberi, zenzero, erba cipollina e castagna d’acqua ma-ti  e le gustose palline di gamberi fritti con spaghetti cinesi in salsa agrodolce che mi permettono di toccare l’argomento fritture.


Purtroppo nei normali ristoranti cinesi la frittura è un qualcosa che alleggia nell’aria prima di attaccarsi ai tuoi vestiti e di penetrare le difese del tuo stomaco e del tuo fegato. Da Fulin, dove naturalmente si usano solo wok, l’olio viene cambiato 4-5 volte al giorno, in pratica ad ogni frittura, e così il risultato NON si sente nell’aria ma si gusta in quell’involtino meraviglioso e in quella pallina croccante, che resiste anche ad una doverosa immersione nella salsa agrodolce.
Veramente superbi gli spaghetti di riso con carne di maiale, funghi, erba cipollina e germogli di soia, dove la parte del leone la facevano proprio la consistenza e il sapore degli spaghetti stessi, a dimostrazione  del fatto che gli spaghetti non sono figli  solo  del “bel paese là dove 'l sì suona”.


Il suono della forchetta invece (gli altri commensali usavano le tradizionali bacchette, per me impossibili da utilizzare se non voglio trasformare un pranzo in una dieta ferrea ) era attutito dalla  fassona saltata con porro e zenzero, equilibratissima nel gusto piccante, consistente ma soave  al palato. Molto buono anche  il pollo saltato in salsa agro-piccante con peperoni, cipolla e arachidi, che ha rischiato di essere conteso a suon di bacchettine e forchettate.
L’agnello piccante invece era un po’ troppo piccante ma, come si direbbe tra produttori di vino, era una “prova di botte” , cioè un piatto fatto sul momento e  che stavano iniziando a calibrare in vista della  Pasqua.


Sul versante dolci ho purtroppo giocato il jolly, cioè la mia allergia alla fragola non mi ha permesso di gustare il gelato alla fragola  fritto, dirottandomi su un discreto gelato al pistacchio.
Anche il conto sarà “discreto” nel senso che  con 4-5 portate  non spenderete più di 40/45 euro vini esclusi. Un’esperienza che consiglio, soprattutto a me stesso, visto che ho già messo in conto di ritornarci con mia moglie nei prossimi giorni.

Fulin, Via Giampaolo Orsini, 113r,Firenze
Telefono: 055 684931

Tenuta Montagnani - Co’i Botto 2017

di Roberto Giuliani

Il nonno di Federico Montagnani aveva del verdacchio in vigna, ma non lo sapeva. Macerato per 12 ore con il verdicchio e rifermentato in bottiglia, fa davvero il botto per le note di pesca bianca, albicocca, uva pizzutello, agrumi, bergamotto, erbe aromatiche e mandorla. 


Va giù che è una meraviglia.


Scialo Passito 2012 Dionigi: un grande vino passito di Montefalco

La storia del sagrantino viaggia indietro nel tempo fino a quasi mille anni fa. Certo, non esistono documenti di quel periodo che attestino la presenza di questo vitigno a bacca rossa nel territorio di Montefalco, la “Ringhiera dell’Umbria”, ma già nel 1088 ci sono testimonianze scritte che raccontano di terre coltivate a vigneto e nel ‘200 numerosi documenti confermano lo sviluppo della viticoltura in questo lembo di terra. Già allora molte aree erano occupate da viti, persino nel piccolo centro storico, testimoniato ancora oggi dal circuito di viti secolari che si possono osservare percorrendo i numerosi vialetti che digradano dalla piazza del Comune. Sicuramente il sagrantino veniva coltivato dai frati, infatti con tutta probabilità il nome trova origine nei Sacramenti, e furono proprio i frati a utilizzare quest’uva per produrre un passito destinato ai riti religiosi.
Oggi si racconta, come elemento di certezza, che la tradizione di fare il passito dall’uva sagrantino era dovuta alla sua strepitosa mole tannica, un’impalcatura in grado di impallidire qualunque altra varietà esistente e rendere impossibile farne un vino secco apprezzabile. Chiacchierando con un produttore locale, in realtà, mi viene rivelato che negli anni ’20 esisteva già una versione secca, ma con tutta probabilità non aveva avuto diffusione per le ragioni appena spiegate

foto: http://www.riparelais.com

Se, però, il sagrantino avesse continuato nella sua tradizione di vino passito, probabilmente sarebbe rimasto un fenomeno locale assai poco conosciuto.
La ricerca e la sperimentazione, ad opera soprattutto di Marco Caprai, figlio di Arnaldo, attraverso indagini approfondite, selezioni clonali, metodi di allevamento e di vinificazione, hanno portato negli anni ’90 a ottenere una versione secca imponente ma ben lavorata, in grado di smussare quei tanto vituperati tannini.
Come spesso accade, per moda, per cambiamenti sociali e culturali, un fenomeno prende il posto di un altro e, manco a farlo apposta, oggi è più facile che si dimentichi l’esistenza del Sagrantino Passito, o quanto meno che se ne faccia sempre meno uso, anche perché tutti i vini dolci hanno il preciso limite di non poter accompagnare gran parte della nostra cucina.
Per fortuna ci sono ancora moltissime aziende, storiche e non, che continuano a produrlo, una di queste è quella di Roberto Dionigi, situata a Bevagna, l’altro comune coinvolto nella produzione del Sagrantino.

uva sagrantino

A questo punto immagino vi aspettiate che parli del Sagrantino Passito di Roberto, peraltro buonissimo, e invece no! Non sarebbe divertente. Preferisco spiazzarvi, cogliervi di sorpresa con un vino che da queste parti se non è unico poco ci manca. Non vedo perché, essendo rimasto io per primo sconvolto da questo passito, non dovrei parlarvene in barba a quanto raccontato fino ad ora…
Del resto il bello di questo mondo è che ancora oggi ci possono essere sorprese, situazioni imprevedibili che stravolgono il regolare processo della storia.
Insomma, in barba al fondamentale sagrantino, in casa Dionigi c’è una vera chicca, si chiama Scialo ed è ottenuto, indovinate un po’, da uva moscato bianco, che è prevista dal disciplinare IGT Umbria, ma sono in pochi ad allevarla e a investirci tempo e denaro, non essendo questa la zona privilegiata per la sua produzione.
Eppure lo Scialo è un esempio straordinario delle sorprese che può riservare questo territorio, del resto lo stesso sangiovese meriterebbe maggiore entusiasmo di quanto ne suscita da queste parti, ma non è questo il contesto in cui aprire un ulteriore spunto di riflessione.


Per produrre lo Scialo Passito 2012, le uve sono state raccolte a fine agosto e poste sui graticci ad appassire per un paio di mesi. Dopo la diraspatura e la pressatura subisce la fermentazione in acciaio a temperatura controllata di 15 °C, dopodiché permane in vasca per circa 6 mesi, il processo si completa con altri 6 mesi di bottiglia. Le bottiglie prodotte sono un migliaio da 375 ml, del resto si tratta di una chicca, una ciliegina sulla torta, non è che il mercato sia lì ad aspettare un vino del genere, ma localmente funziona molto bene, nonostante il prezzo di ben 50 euro.
Comunque il vino è già conosciuto ben oltre la regione, tanto che l’annata precedente ha ottenuto la corona di Vini Buoni d’Italia. A mio avviso la 2012 è ancora più convincente, ha un colore oro intenso e caldo, un bouquet che richiama i caratteri dell’uva aromatica espandendosi su note di arancia e albicocca candite, pesca sciroppata, uva passa, miele di zagara, croccantino, nocciola tostata.


Ma è all’assaggio che fa sobbalzare dalla sedia, perché nonostante sia un vino dolce ha un’acidità perfetta che lo solleva da qualsiasi stucchevolezza, le sensazioni scorrono lasciando una scia agrumata piacevolissima e sfumature tostate leggere che trovano ulteriore forza espressiva nella base sapida.
Veramente un eccellente vino passito, da apprezzare sia da solo che a fianco di biscotteria alle mandorle e nocciole, di crostate di albicocche, ma anche di formaggi importanti, dal gorgonzola al bettelmatt di almeno 36 mesi.

Langhe Nebbiolo D.O.C. Autin 'd Madama 2007 – Simone Scaletta


Una bottiglia, un ricordo, il mio primo viaggio nella Langhe. Autin 'd Madama 2007 ha subito tre traslochi, è rimasto in cantina per anni, senza troppe coccole. 


Lo apro, a sorpresa è ancora splendido nei suoi terziari appena accennati, puro succo di Monforte d’Alba, la terra dove vive Simone Scaletta, vignaiolo vero, verace e lontano da ogni tipo di sensazionalismi.


Grandi vini italiani: l’Erbaluce di Caluso “13 Mesi” di Benito Favaro alla prova del tempo

Parlare di vino del Canavese, attualmente, non è assolutamente facile sia a causa di una comunicazione che solo da poco tempo sta decollando sia, soprattutto per i vini bianchi, a causa di una qualità media altalenante che spesso e volentieri non riesce a mantenere il passo di una concorrenza sempre più agguerrita anche a livello regionale. Eppure, le potenzialità per produrre grandissimi vini non mancano vista la bellezza e la propensione del territorio alla viticoltura che nel Canavese si pratica fin dai tempi dei salassi, popolo di origine celtica che, come ci tramanda Plinio, conservavano già al tempo il vino in botti di legno.
Ma dove siamo esattamente? Il Canavese è una vasta area che si estende tra laghi, castelli, borghi antichi e boschi fatati, nella provincia di Torino, area Nord e nord-Est, fino alla Valle D’Aosta, comprendendo anche una piccola parte delle provincie di Biella e di Vercelli. Caratteristica fondamentale di questo territorio è l’anfiteatro morenico di Ivrea, risalente al periodo Quaternario, che fu creato durante le glaciazioni dal trasporto dei sedimenti del grande ghiacciaio Balteo che, dall’attuale Svizzera, scendeva fino all’attuale area canavesana di vinificazione caratterizzata oggi da un microclima mite, protetto dalle colline ed equilibrato dalla presenza di numerosi laghi e da terreni poveri di azoto, ricchi di potassio e fosforo e con un ph quasi sempre sub-acido.

Nel Canavese, e in particolar modo sulle colline di Piverone, cuore dell’areale di produzione di Caluso, dove il vitigno erbaluce è il re della DOCG Erbaluce di Caluso, nel 1992 nasce quella che oggi è per me una delle aziende agricole “faro” di tutta la denominazione: Favaro Benito. Il signor Benito, così come racconta suo figlio Camillo, oggi alle redini dell’azienda di famiglia, è un pre-pensionato Olivetti che da sempre ha avuto la passione per il vino del suo territorio e così, a 52 anni, è tornato nel suo paese natale, Piverone, con l’intenzione di acquistare vigne solo ed esclusivamente nelle zone più vocate ovvero in quelle che da giovane gli avevano indicato i vecchi del posto e da cui, senza alcun dubbio, proveniva il vino più buono. La scelta della zona fu abbastanza facile: il neo vignaiolo Benito Favaro scelse senza ombra di dubbio la zona de “Le Chiusure” i cui terreni, circa un ettaro diviso in sette parcelle, furono al tempo quasi regalati visto che, racconta sempre Camillo, la spesa maggiore fu quella per il notaio visto che si dovevano stipulare otto atti notarili.

Area produzione Caluso

Le prime vinificazioni, sperimentali, sono avvenute nel 1996 e 1997 mentre la prima annata uscita in commercio, parliamo sempre di pochissime bottiglie, è stata la 1998. Racconta Camillo:”A quei tempi cercavi di far assaggiare l’Erbaluce, lo regalavi anche, ma non te lo ricompravano per due motivi: c’era, e c’è forse ancora, un retaggio di Erbaluce di Cantine Sociali che davano vita a prodotti di poca qualità per cui, anche se il nostro vino era forse migliore, i potenziali clienti spesso non lo volevano nemmeno assaggiare. Il secondo motivo era che il vino era acido, tanto acido, e in quegli anni la moda era quella dei vini bianchi morbidi e legnosi. L’Erbaluce, come caratteristiche intrinseche, non ha nulla di tutto ciò visto che è duro come il ferro e ha una acidità fissa molto molto alta”.

credit: Camillo Favaro

I primi anni, perciò, oltre ad essere stati difficili a livello di vendite sono stati complicati anche per ciò che concerne la filosofia di produzione visto che, racconta sempre Camillo, all’inizio si cercava di produrre qualcosa di decente ispirandosi al vino di qualche amico produttore e ai protocolli di un enologo, che è ancora lo stesso, i quali venivano seguiti pedissequamente dai Favaro che al tempo poco o nulla sapevano di vinificazione.

Camillo e Benito Favaro

Col tempo e la relativa esperienza Benito e Camillo, che dal 2007 lavora è il deus ex machina della sua azienda, hanno capito che si poteva dar vita ad un Erbaluce di Caluso di grande qualità grazie ad una maggiore attenzione in vigna (abbassamento drastico delle rese per ettaro) ed evitando sovrastrutture enologiche e così, anche grazie ad una moda che pian pian ha virato verso i vini più acidi e meno rotondi, hanno cominciato a vendere sempre più bottiglie diventando oggi come oggi una delle aziende “cult” in Italia soprattutto se, come accade al sottoscritto, si ama bere grandi vini bianchi con qualche anno sulle spalle.

Vigneti. Credit: Camillo Favaro

I Favaro producono due tipologie di Erbaluce: Le Chiusure, forse il vino più famoso, che fa solo acciaio e il 13 Mesi che, a differenza del precedente, dall’annata 2010 è composto da un 70% di erbaluce che fermenta in acciaio e successivamente affina in vasche di cemento non vetrificato da 7hl senza subire in alcun modo bâtonnage. Il restante 30% fermenta in legno e viene successivamente affinato in barriques di rovere francese, mai di primo passaggio dove subisce, se necessario, pochi interventi di bâtonnage. Le due parti vengono assemblate dopo 12/13 mesi di affinamento e imbottigliate dopo 1 mese.


Con Camillo, giunto appositamente a Roma, abbiamo organizzato al Sorì una verticale storica del 13 Mesi. Vediamo come è andata?
Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2017: annata segnata da germogliamento precoce, gelata a fine aprile che ha ridotto del 35% la produzione e siccità nei mesi di luglio e agosto. Vendemmia iniziata il 2 settembre.
Ha solo due anni, si sente nettamente la gioventù di questo erbaluce estremamente vivo e scalpitante che sa di artemisia, sambuco, agrumi salati, erbe campestri e pesca. Bisogna berlo e riberlo per comprendere come l’annata calda, a dispetto delle teorie bislacche da Facebook, quasi non si faccia notare causa vibrazioni intermittenti di luce che rendono questo nettare del Canavese una supernova in attesa di esplosione.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2016: primavera e inizio estate umidi. Il resto dell’estate è stato caratterizzato da fiammate di caldo e frequenti temporali che hanno portato rilevanti escursioni termiche giorno/notte a partire dal 20 agosto. Vendemmia iniziata il 20 settembre.
Quando abbiamo versato questa annata, al di là dei freddi dati tecnici, Camillo è stato abbastanza chiaro ovvero la 2016 è una grandissima annata per l’erbaluce e solo gli stolti potevano sbagliare questo millesimo. In effetti già al naso, rispetto alla precedente annata, si avverte un cambio di passo, questo 13 Mesi risulta completo in ogni sfaccettatura aromatica, inizialmente chiusa ed aristocratica, che col tempo svela una filigrana odorosa che passa dalla pesca alla lavanda per poi virare sul finocchietto selvatico, lo zenzero ed il muschio. Sorso di precisione millimetrica, di riservata eleganza e dannatamente didattico per far capire a tutti i neofiti in cosa dovrebbe consistere l’equilibrio di un grande vino bianco. Finale sapidissimo e lungo come il ricordo che ho ancora di questo erbaluce.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2015: annata simile alla 2017, punte di 40°C a fine giugno/inizio luglio ma con qualche pioggia in più a partire da fine luglio. Vendemmia iniziata l’8 settembre.
Anche in questo caso l’annata calda è stata gestita con sapiente maestria dai Favaro e questo erbaluce ne è la prova provata visto che dopo quattro anni dalla vendemmia il vino non cede di un millimetro a sentori vagamente terziari ed è ancora là, bello dritto, con i suoi stuzzicanti ed esuberanti sentori di cedro, lime, pesca bianca, sambuco e zenzero. Al sorso sfuma lentamente, dopo un assaggio snello e agile, nella suo “classico” finale sapido e fresco ben equilibrato da una struttura la cui spina dorsale cederà il passo, forse, ai miei nipoti.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2014: primavera iniziata in modo regolare e poi, a partire da inizio giugno, si sono avuti continui temporali, anche prolungati. Ciò che ha salvato un po’ l’annata sono stati gli ultimi giorni di agosto dove segnati da sole, ventilazione e caldo. Vendemmia iniziata il 25 settembre.
Sapete cosa è un mantra? Il mantra è una formula verbale che viene ripetuta per un dato numero di volte con lo scopo di ottenere un preciso effetto, spesso un condizionamento mentale o fisico. Quante volte ci hanno ripetuto che in Italia l’annata 2014 è generalmente pessima? Questo mantra, spesso di origine giornalistica, con me non attacca e, soprattutto, non attacca con i vignaioli veri, come ad esempio i Favaro che, nonostante tutti i problemi, indubbi, hanno dato vita ad un 13 Mesi da far strabuzzare gli occhi per purezza e linearità. Non avrà certo le stimmate della 2016 ma questo erbaluce è un inno al vino del nord e, soprattutto, un regalo per chi, come me, ha sempre preferito Audrey Hepburn a Sofia Loren.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2013: estate regolare, molto calda tra metà luglio e metà agosto. Vendemmia iniziata il 16 settembre.
Dopo un’altalena di emozioni abbastanza significative, derivate dagli assaggi precedenti, arriva il vino che durante la verticale, probabilmente, mi ha fatto meno impressione forse perché “schiacciato” tra due annate che, per motivi assolutamente diversi, hanno conquistato il mio cuore di degustatore. Se dovessi berlo da solo, non confrontandolo con gli altri vini, rimarrebbe un’ottima espressione di 13 Mesi, assolutamente integra nei profumi di pesca, mela cotogna, buccia di cedro e toni agrumati che al sorso, sfortunatamente, cedono leggermente il passo ad un ritorno aromatico di legno e vaniglia, assolutamente inaspettato, che rende il finale leggermente più “piacione” rispetto agli altri vini della batteria. Un dettaglio, in un campionato di eccellenza come questo, che fa la differenza.


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2010: estate altalenante, piogge frequenti ma sempre intervallate da caldo mai eccessivo. Agosto regolare, senza umidità e con buone escursioni termiche. Vendemmia iniziata il 19 settembre.
Anche stavolta i freddi dati analitici forniti da Camillo potrebbero celare fortemente, se non si passa rapidamente dalla teoria alla pratica, la grandezza assoluta di questa annata che, degustata rigorosamente alla cieca, potrebbe portare i Favaro virtualmente in Mosella per via di un profilo aromatico e gustativo del loro erbaluce che, dopo quasi 10 anni, si trasforma e prende le sembianze di un grande Riesling. Vino assolutamente caleidoscopico che si schiude su un incantevole ventaglio di pesca matura, cedro, pompelmo candito, mughetto, incenso, fiori alpini, sensazioni minerali e, ancora, toni salmastri. In bocca conferma una finezza non comune, con sapidità minerale e freschezza sublimemente dosate e capaci di regalare un finale equilibratissimo e pregno di richiami olfattivi. Un erbaluce che è un monumento al grande vino bianco italiano. Amen!


Benito Favaro - Erbaluce di Caluso DOCG "13 Mesi" 2009: l’annata è stata piuttosto simile alla 2013 ma la vera differenza di questo vino la troviamo nella vinificazione dove il 70% era affinato in barriques e il 30% in acciaio inox.
E’ chiaro che dopo la 2010 qualsiasi vino avrebbe sofferto ma, con mia sorpresa, devo dire che anche questa 2009 si è comportata bene regalando una successione aromatica composta da melone invernale, mela cotogna, mandorla amara e ginestra su un tappeto di agrumi canditi. Al sorso l’approccio è nettamente sapido e fruttato, l’apporto del legno è già invidiabilmente integrato e il finale, fresco, intenso e pretenzioso, è un invito a ribere il vino che anche in questo caso sembra molto lontano dall’evidenziare la sua parabola discendente.


E ora chi glielo dice ai tanti appassionati di vino che l’Erbaluce di Caluso dà il meglio di sé con qualche anno sulle spalle? Camillo, ci pensi tu, vero?

Inchiesta: Giornalisti Italiani, esteri, blog, influencer: quale categoria preferite e perché?

Grazie all'input di Carlo Macchi, noi del network di Garantito IGP da oggi lanciamo un sondaggio che rivolgiamo espressamente ai produttori di vino. Leggete e, mi raccomando, partecipate!


Caro produttore,

in tempi in cui il giornalismo enogastronomico italiano (cartaceo e sul web) è considerato sempre meno importante e spesso è surclassato da una parte dalla stampa estera e dall’altra edulcorato da un enorme numero di blog personali, di influencer etc, noi del Gruppo IGP (I Giovani Promettenti) crediamo sia giusto chiedere a voi cosa ne pensate della stampa, italica e non.

Naturalmente non si tratta di fare il nome di X o di Y ma semplicemente di rispondere ad un questionario.

I risultati, rigorosamente anonimi, verranno pubblicati su tutti i giornali del Gruppo IGP

Per rispondere vi consigliamo di copiare direttamente le domande su una mail del vostro sistema di posta (outlook o altro), rispondere e poi spedire a  redazione@winesurf.it , oppure evidenziare le domande, copiarle su un foglio word, rispondere e poi spedire il tutto, sempre per mail  a redazione@winesurf.it. Per chiarimenti o informazioni scrivete sempre a redazione@winesurf.it

Questionario


Vi è chiara la differenza tra giornalista e blogger?     SI      NO
Vi è chiara la differenza tra blogger e influencer?     SI       NO

Nel caso rispondiate si ad una o a tutte e due le domande, in poche parole, in cosa consistono le differenze?
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Mediamente quanti giornalisti (cartacei e web) italiani  visitano in una anno la vostra azienda?_______
Mediamente quanti giornalisti (cartacei e web) esteri  visitano in una anno la vostra azienda?_________
Mediamente quanti blogger e/o influencer, italiani visitano in un anno la vostra azienda?__________
Mediamente quanti blogger e/o influencer, esteri visitano in un anno la vostra azienda?________
Vedete delle differenze di approccio fra le categorie?   SI       NO

Se si quali?
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Avete ottenuto maggiori ritorni (pubblicitari, di immagine, di vendite o altro) dalla carta stampata e dal mondo del web estero o dalla  carta stampata e dal mondo del web italiano?________________________________________________________________________________________________________________________________

Avete ottenuto maggiori ritorni (pubblicitari, di immagine, di vendite o altro) dalla carta stampata italiana o dal mondo del web italiano?_________________________________________________________
Sul web avete ottenuto maggiori ritorni ((pubblicitari, di immagine, di vendite o altro) da giornali online, da blog  o da influencer?________________________________________________________________________________________________________________________________

Credete sia più importante dialogare con la stampa estera o con quella italiana?______________________
Credete che i giornalisti esteri siano più preparati di quelli italiani?      SI   NO
Credete che in generale i giornalisti siano più preparati dei blogger?   SI   NO
Credete che in generale i giornalisti siano più preparati degli influencer?  SI  NO
Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei giornalisti italiani?
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei giornalisti esteri
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei blogger italiani
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto dei blogger esteri
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Qual è il maggior pregio e il peggior difetto degli influencer italiani?
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Quale consiglio dareste ai giornalisti italiani?
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Quale consiglio dareste ai giornalisti esteri?
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Quale consiglio dareste ai blogger italiani?
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Quale consiglio dareste ai blogger esteri?
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Quale consiglio dareste agli influencer italiani?
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Vi sentite di aggiungere qualcosa? Vi ricordiamo che i commenti, come il questionario, saranno rigorosamente anonimi.
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Vi ringraziamo per la vostra disponibilità



Fattoria Nittardi - Maremma Toscana Bianco Doc Vermentino “BEN” 2018


di Lorenzo Colombo

BEN, abbreviazione di Beniamino, nome tradizionalmente dato al figlio più giovane e più atteso della famiglia e questo Vermentino della Maremma è il primo, da tempo desiderato, vino bianco di Nittardi.


Fresco, sapido, con sentori di fieno ed erbe officinali e con un fin di bocca piacevolmente amaricante.

                                      www.nittardi.com