La storia del sagrantino viaggia indietro nel tempo fino a quasi mille anni fa. Certo, non esistono documenti di quel periodo che attestino la presenza di questo vitigno a bacca rossa nel territorio di Montefalco, la “Ringhiera dell’Umbria”, ma già nel 1088 ci sono testimonianze scritte che raccontano di terre coltivate a vigneto e nel ‘200 numerosi documenti confermano lo sviluppo della viticoltura in questo lembo di terra. Già allora molte aree erano occupate da viti, persino nel piccolo centro storico, testimoniato ancora oggi dal circuito di viti secolari che si possono osservare percorrendo i numerosi vialetti che digradano dalla piazza del Comune. Sicuramente il sagrantino veniva coltivato dai frati, infatti con tutta probabilità il nome trova origine nei Sacramenti, e furono proprio i frati a utilizzare quest’uva per produrre un passito destinato ai riti religiosi.
Oggi si racconta, come elemento di certezza, che la tradizione di fare il passito dall’uva sagrantino era dovuta alla sua strepitosa mole tannica, un’impalcatura in grado di impallidire qualunque altra varietà esistente e rendere impossibile farne un vino secco apprezzabile. Chiacchierando con un produttore locale, in realtà, mi viene rivelato che negli anni ’20 esisteva già una versione secca, ma con tutta probabilità non aveva avuto diffusione per le ragioni appena spiegate
Se, però, il sagrantino avesse continuato nella sua
tradizione di vino passito, probabilmente sarebbe rimasto un fenomeno locale
assai poco conosciuto.
La ricerca e la sperimentazione, ad opera soprattutto di
Marco Caprai, figlio di Arnaldo, attraverso indagini approfondite, selezioni
clonali, metodi di allevamento e di vinificazione, hanno portato negli anni ’90
a ottenere una versione secca imponente ma ben lavorata, in grado di smussare quei
tanto vituperati tannini.
Come spesso accade, per moda, per cambiamenti sociali e
culturali, un fenomeno prende il posto di un altro e, manco a farlo apposta,
oggi è più facile che si dimentichi l’esistenza del Sagrantino Passito, o
quanto meno che se ne faccia sempre meno uso, anche perché tutti i vini dolci
hanno il preciso limite di non poter accompagnare gran parte della nostra
cucina.
Per fortuna ci sono ancora moltissime aziende, storiche e
non, che continuano a produrlo, una di queste è quella di Roberto Dionigi,
situata a Bevagna, l’altro comune coinvolto nella produzione del Sagrantino.
Insomma, in barba al fondamentale sagrantino, in casa
Dionigi c’è una vera chicca, si chiama Scialo ed è ottenuto, indovinate un po’,
da uva moscato bianco, che è prevista dal disciplinare IGT Umbria, ma sono in
pochi ad allevarla e a investirci tempo e denaro, non essendo questa la zona
privilegiata per la sua produzione.
Eppure lo Scialo è un esempio straordinario delle sorprese
che può riservare questo territorio, del resto lo stesso sangiovese meriterebbe
maggiore entusiasmo di quanto ne suscita da queste parti, ma non è questo il
contesto in cui aprire un ulteriore spunto di riflessione.
Comunque il vino è già conosciuto ben oltre la regione,
tanto che l’annata precedente ha ottenuto la corona di Vini Buoni d’Italia. A
mio avviso la 2012 è ancora più convincente, ha un colore oro intenso e caldo,
un bouquet che richiama i caratteri dell’uva aromatica espandendosi su note di
arancia e albicocca candite, pesca sciroppata, uva passa, miele di zagara,
croccantino, nocciola tostata.
Ma è all’assaggio che fa sobbalzare dalla sedia, perché
nonostante sia un vino dolce ha un’acidità perfetta che lo solleva da qualsiasi
stucchevolezza, le sensazioni scorrono lasciando una scia agrumata
piacevolissima e sfumature tostate leggere che trovano ulteriore forza
espressiva nella base sapida.
Veramente un eccellente vino passito, da apprezzare sia da
solo che a fianco di biscotteria alle mandorle e nocciole, di crostate di albicocche,
ma anche di formaggi importanti, dal gorgonzola al bettelmatt di almeno 36
mesi.
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