InvecchiatIGP: Balgera - Valtellina Sforzato DOC1999


di Lorenzo Colombo

Nel mese d’aprile, dopo una visita in azienda, avevamo scritto in merito alla degustazione di un buon numero di vini dell’azienda Balgera ed avevamo introdotto l’articolo in questo modo: “Quella di Paolo Balgera è un’azienda storica, fondata nel 1885 da Pietro Balgera e giunta, con Luca e Matteo, figli di Paolo, alla quinta generazione. Situata a Chiuro l’azienda possiede sei ettari di vigneti in proprietà nel territorio di tre sottozone, Valgella, Sassella e Grumello e s’avvale inoltre delle uve di alcuni conferitori storici. I vini prodotti da Paolo, che ora ha passato la mano al figlio Luca, sono caratterizzati da un lungo affinamento prima della loro messa in commercio. Sono 50 mila le bottiglie prodotte annualmente, suddivise su una ventina d’etichette.”


Ora per la rubrica del sabato “InvecchiatIGP” andiamo ad assaggiare un vino di 26 anni d’età, uno Sforzato del 1999 quando era ancora un vino a DOC (la DOCG per lo Sforzato arriva nel 2003). Paolo Balgera ha sempre utilizzato per l’affinamento dei suoi vini botti di grandi dimensioni e questo vino ha certamente trascorso numerosi anni in questi contenitori prima d’essere imbottigliato. All’apertura della bottiglia il tappo è fuoriuscito senza sforzo alcuno e si presentava ancora intatto, buon segno. Nel bicchiere abbiamo trovato un vino dal color granato luminoso e limpido, di discreta intensità e con unghia tendente all’aranciato, altro buon inizio.


Ma è al naso che questo vino ha mostrato tutta la sua qualità, intenso ed elegante, con note fruttate ancora in evidenza che virano verso sentori di confettura di prugne, balsamico, ampio e ancora fresco, con note mentolate e accenni di liquirizia dolce e radici, spezie dolci, vaniglia e cannella e fiori appassiti, violetta e petali di rosa completano il quadro olfattivo.


Alla bocca l’abbiamo trovato strutturato ma non massiccio, con trama tannica in perfetto equilibrio e con vena acida ancora vibrante, anche la nota alcolica appare bene integrata (d’altra parte il suo tenore alcolico non è elevatissimo per la tipologia di vino, 14,5% Vol.), i sentori spaziano dal tamarindo al cioccolato alla menta e alla vaniglia, con note fruttate ancora ben presenti, la sua persistenza è decisamente lunghissima.


Si tratta si uno stile di Sforzato che ci piace molto, che non vira verso morbidezze (o dolcezze) eccessiva e stancanti, con una struttura ed un grado alcolico che ne facilitano la beva. Così averne di vini simili con un quarto di secolo sulle spalle.

Citari - Lugana Doc “Torre” 2022


di Lorenzo Colombo

Dei quattro Lugana prodotti dall’azienda Citari questo è quello che viene realizzato con le uve più mature, raccolte a fine ottobre.


Prende il nome dalla Torre di San Marino, situata nelle vicinanze del vigneto ed è caratterizzato da una notevole freschezza e verticalità e da netti sentori agrumati.

Dal dimenticatoio al calice: il ritorno della Turchetta rodigina


di Lorenzo Colombo

Il Veneto è la regione che vanta la più ampia superficie vitata d’Italia, i dati ISTAT relativi al 2024 parlano di 94.600 ettari di vigneto per una produzione di 10.687.000 ettolitri di vino, ovvero oltre il 14% della superficie vitata nazionale ed oltre il 22% della produzione di vino italiano. La provincia che vanta la più ampia superficie vitata è quella di Treviso con il 44% del vigneto Veneto e quasi la metà di tutto il vino regionale. All’opposto troviamo la provincia di Rovigo che con i suoi 190 ettari di vigneto e 21.000 ettolitri di vino prodotti è il fanalino di coda della regione, dietro persino alla provincia di Belluno. Dati forniti da Confagricoltura Rovigo durante un convegno ad inizio gennaio 2024, presso Corte Carezzabella, parlano invece di circa 300 ettari di vigneti situati nel Polesine, prevalentemente nei comuni di Adria, Ariano Polesine, Porto Viro e San Martino di Venezze. In effetti la provincia di Rovigo difficilmente viene annoverata tra quelle viticole ed il Polesine è certamente più conosciuto per la produzione di frutta e cereali. Negli ultimi anni però alcune aziende stanno riscoprendo alcuni vitigni un tempo coltivati il più famoso - si fa per dire - è la Turchetta ma ci sono anche la Mattarella e la Benedina, inserite -le ultime due- nel Registro Nazionale nel luglio 2021.

Il vitigno Turchetta

La Turchetta è un vitigno storico del Veneto, presente in passato nelle province di Padova e Rovigo ma andato via via scomparendo nel corso degli anni, citato dal Marzotto nel 1925 e poi descritto da Cosmo nel 1949 quando rappresentava il 5% delle uve coltivate in provincia di Rovigo. Vitigno che “merita d’essere diffuso” -così scriveva il Cosma- trattandosi di un’uva rustica poco sensibile alla peronospera e ad altre malattie crittogamiche, molto adatta ai terreni di pianura purché ben drenanti. 


La Turchetta è stato iscritta nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite nell’ottobre 2017 e può essere utilizzata per la produzione del vino a Doc Bagnoli e di nove vini ad Igt del Veneto. Sempre dal Catalogo Nazionale apprendiamo che nel 2010 gli ettari vitati con questo vitigno erano unicamente tre, peccato che nel sito non siano ancora stati inseriti i dati dell’ultimo censimento agricolo, avvenuto nel 2021.


Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare questo vitigno e di assaggiarne il vino prodotto a fine luglio quando siamo stati in visita all’azienda Corte Carezzabella, situata a San Martino di Venezze, nel medio Polesine, a poche centinaia di metri dalla riva destra dell’Adige, in provincia di Rovigo. Corte Carezzabella è un’azienda agrituristica situata in un’antica corte risalente ad inizio Novecento che dispone di 16 tra camere ed appartamenti e di un ristorante interno, è inoltre un’azienda biologica con coltivazione di frutta e ortaggi che vengono poi trasformati in succhi di frutta, confetture, passato e polpa di pomodoro, aceto di mele, farina, dalla quale si ricavano poi prodotti da forno.


L’azienda dispone inoltre di 22 ettari di vigneti, 18 dei quali coltivati a Pinot grigio, gli altri vitigni sono Manzoni Bianco, Merlot, Carmenere, Trebbiano e Turchetta, di quest’ultimo vitigno l’azienda Carezzabella dispone di un ettaro. Il Pinot grigio viene nella quasi totalità conferito alla Cantina di Cona, un Cantina Sociale costituitasi nel 1957 che può contare su 150 ettari di vigneti gestiti dai soci conferitori. Sono una piccola parte di questo vitigno viene vinificato in proprio per ricavarne circa 3.300 bottiglie. I suoli aziendali sono prevalentemente sabbiosi con una piccola percentuale di limo ed una ancora più modesta d’argilla.


I vini prodotti erano per lo più destinati al consumo dell’agriturismo sino a che nel 2014 è nato il progetto enologico ed è stata costituita la Carezzabella Winery la cui parte enologica è stata affidata nel 2020 a Francesco Mazzetto. Durante la nostra (breve) visita abbiamo potuto assaggiare buona parte dei vini prodotti, ovvero il Bianco Veneto Igt “Brillo” un vino frizzante rifermentato in bottiglia e prodotto con uve Trebbiano e Pinot grigio, il Bianco Igt Tre Venezie Manzoni bianco, degustato in tre diverse annate, 2023, 2022 e 2021 e due vini prodotti con uva Turchetta sui quali ci vogliamo soffermare.

I vini da Turchetta

La Turchetta è stata messa a dimora nel 2018, sono due i vini prodotti con questo vitigno che abbiamo assaggiato, uno dei quali in due diverse annate.


2021 – Il colore è rubino di media intensità con leggeri accenni che tendono al granato. Media anche la sua intensità olfattiva, vi ritroviamo sentori di frutta rossa selvatica, frutti di bosco, fragole e lamponi e ricordi di sciroppo d’amarena. Fresco e fruttato al palato, mediamente strutturato, asciutto con ciliegia leggermente acerba in evidenza ed accenni vegetali, buona la sua persistenza.

2020 – Si presenta con un color rubino leggermente più intenso del precedente. Al naso la frutta rossa appare più matura, mentre al palato troviamo un vino sempre di media struttura ma con una trama tannica leggermente più asciutta. Si tratta di un vino decisamente curioso che abbiamo maggiormente apprezzato nell’annata più recente. 


La Turchetta entra anche nella composizione dell’IGT Rosso Veneto Temetum, unitamente ad un 10% di Merlot, in questo caso la vendemmia viene ritardata sin quasi alla fine d’ottobre e la resa media s’attesta sui 90 q.li/ettaro. La fermentazione si svolge sempre in acciaio con un minor tempo di macerazione, limitato a due settimane, l’affinamento del vino anche in questo caso s’effettua in vasche di cemento.  Ovviamente si tratta di un vino completamente diverso dal precedente, l’annata che abbiamo degustato è la 2022, caratterizzata da un colore rubino luminoso di buona intensità. Discretamente intenso al naso che s’esprime su sentori di frutta rossa matura. Discreta anche la sua struttura, il vino è asciutto e presenta sentori di frutta a bacca scura, buona la sua persistenza.

InvecchiatIGP: Monte del Frà - Custoza Superiore DOC "Cà del Magro" 2007


di Luciano Pignataro

Sulla cassetta di legno si era formata addirittura un po’ di muffa. Così, avendo in programma una cena di pesce ad Acciaroli, alla Tartana, ho pensato di prenderla: una magnum del 2007 di Ca’ del Magro che stava riposando da tempo immemore, dimenticata.
Parliamo di un Custoza Superiore: siamo appena a sud del Lago di Garda, in provincia di Verona. L’azienda Monte del Frà è di proprietà della famiglia Bonomi, insediata in questo territorio dalla fine degli anni ’50 e dedita all’imbottigliamento del vino dalla fine degli anni ’80. Oggi la proprietà conta circa 200 ettari vitati; la gamma dei vini è molto ampia, ma questo bianco — oggi lavorato in cemento da uve Garganega, Trebbiano Toscano, Cortese, Incrocio Manzoni — resta fra le proposte più importanti, a un prezzo decisamente favorevole per il consumatore: l’ultima magnum in commercio, per dire, non supera i 40 euro.


Quando si parla di bianchi invecchiati — la mia passione più profonda nel mondo del vino — penso di solito al Fiano di Avellino e al Verdicchio, oppure ai bianchi internazionali che, anche in alcune zone d’Italia, offrono spunti molto interessanti. Leggendo la presentazione aziendale, apprendo che questo vino viene indicato come adatto alla lunga conservazione.
La 2007, com’è noto, è stata una vendemmia perfetta per gli enologi: calda, ma ben equilibrata dalle piogge arrivate al momento giusto, con frutta sana e croccante praticamente da Nord a Sud. Insomma, le premesse per rischiare lo stappo in pubblico c’erano tutte. Del resto, ci attendeva una cucina di pesce classica del Tirreno: crudo di luvaro e di gamberi, ricciola al forno, polpi e frutti di mare presentati in modo semplice.


Il tappo ha sofferto un po’: longevità sicuramente, ma un bianco di quasi vent’anni è più che longevo. Alla fine ce l’hanno fatta ad aprirlo, io manco ci ho provato perché sono un disastro — e il vino lo abbiamo potuto provare. Il colore era un giallo paglierino carico, un segno inequivocabile dell’età. Ma quando si passa dalla vista al naso e al palato, possiamo parlare di un vino assolutamente straordinario. I profumi parlano di miele di acacia, pasticceria, piacevoli note mentolate e agrumate di cedro: un profilo olfattivo vivace, di carattere, assolutamente vivo ed energico. Nessun cenno ossidativo — che pure, quando è accennato, a me non dispiace. Il vino andava comunque aperto: lo si capisce dalla perfetta corrispondenza fra naso e palato. 


Al gusto, infatti, il sorso conferma le note descritte; il piacere è motivato da una freschezza marcata, che consente di affrontare anche un buon fritto di alici e totani non previsto. L’alcol, dichiarato a 13 gradi, non si avverte, ma contribuisce a un senso di benessere e di piacere intimo che solo i grandi vini riescono a darmi. Finale lungo, vivo, che lascia la bocca pulita e spinge a ripetere il sorso. Infatti, la magnum finisce subito, perché ha lo stesso effetto sia sugli appassionati sia su persone presenti non introdotte al linguaggio e ai misteri del mondo del vino.


Quando faccio questi incontri mi viene facile una riflessione: l’Italia, complessivamente parlando, tratta i vini bianchi alla stregua di chi usava il petrolio per accendere le candele. Il nostro patrimonio ampelografico ci regala un’infinità di sorprese — a tavola, per esempio, abbiamo parlato anche del Mantonico di Librandi, tanto per fare una citazione colta. Non solo vini da suoli vulcanici, dunque, ma anche queste colline moreniche possono regalare sensazioni uniche. Siamo stati bene, e questo alla fine è ciò che conta. E questo monumentale Custoza DOC Superiore, poco attenzionato dalla critica, conferma che bere il vino fra amici è uno dei piaceri più belli e intensi che la vita ci possa regalare.

Scarbolo - Friuli Grave DOC "Memari" 2022


di Luciano Pignataro

Questa è davvero una chicca inedita e devo citare colui a cui debbo questo assaggio: Federico Spagnolo sommelier del ristorante Ineo a Roma.


Chardonnay friulano da una piccola vigna fresco in Grave, di corpo, di notevole piacevolezza al naso e al palato in piena corrispondenza fra loro. Una vera chicca.

Il coraggio del tempo: la lezione del Fiano di Avellino "Alessandra" secondo Roberto Di Meo


di Luciano Pignataro

Se mai un giorno dovessi smettere di scrivere di vino, mi piacerebbe essere ricordato per l’unica vera battaglia culturale vinta, dopo almeno due decenni in cui abbiamo battuto e ribattuto sempre sullo stesso chiodo.
Quale? Quella sulle virtù del Fiano di Avellino nel lungo periodo, che lo mettono alla pari con qualsiasi altro vitigno a bacca bianca, in Italia e all’estero.
Ci sono voluti esattamente 17 anni per arrivare a inserire la dicitura “Riserva” nella Docg del 2003. Questo risultato, ottenuto nel 2020, è stato possibile grazie a decine di degustazioni, ma soprattutto grazie a quei produttori che ci hanno creduto. Produttori che hanno reso evidente, con i loro vini, l’incredibile forza evolutiva di questo vitigno, capace col tempo di passare da vino gastronomico e dissetante a emozione pura.


Tra questi c’è sicuramente Roberto Di Meo, con il quale – lo racconto spesso – facendo una degustazione a metà anni ’90, compresi le potenzialità dei bianchi irpini e campani. Il Fiano ha una differenza fondamentale rispetto a Greco, Falanghina e Coda di Volpe: non ha bisogno di essere pensato per vivere a lungo, supera i dieci, i venti anni con estrema naturalezza, anche se lavorato con semplicità. Il merito di Roberto Di Meo è quello di aver avviato un progetto coerente, che gli ha permesso di entrare in tutte le carte dei vini che contano. Il Greco “Vittorio”, il Fiano “Per Erminia”, il “Colle dei Cerri” sono bianchi davvero in grado di affrontare qualsiasi batteria.


Negli ultimi giorni mi è capitato di bere il Fiano di Avellino “Alessandra”, dedicato alla figlia, in due annate: 2012 e 2013. Tenete conto che ora è in commercio la 2015, perché questa etichetta esce solo dopo una decina d’anni di affinamento.
Tra le due annate, al di là delle differenze climatiche, c’è una linea di demarcazione per due motivi: con la più recente il “Fiano Alessandra” cambia etichetta e, al tempo stesso, assume la dicitura Riserva.


La vigna è a Salza Irpina, nei pressi dell’azienda, a circa 550 metri di altezza, con una resa di circa 50 quintali per ettaro – meno della metà di quanto previsto dal disciplinare. Per completare le informazioni: il suolo è argilloso-calcareo, la pressatura è soffice, seguono macerazione sulle bucce, fermentazione a temperatura controllata, sosta in acciaio per 8 anni e ulteriore affinamento in bottiglia per 12 mesi.


La 2012 è un po’ più ampia, di corpo; la 2013 è ancora freschissima, fine, elegante.
Abbiamo bevuto questi due bianchi nel modo migliore: a tavola, con amici, accompagnandoli a una buona cucina di mare, in due occasioni diverse ma ravvicinate. Non sono un teorico dell’acciaio a tutti i costi: anzi, penso che un buon legno dosato possa rendere invincibili i grandi vini. Ma il punto è che il binomio Fiano e botte va ancora studiato con attenzione: ci vorrà tempo per trovare la giusta quadra. Ecco perché vi diciamo che questo Fiano non sorprende gli appassionati, perché parla un linguaggio familiare e si affida unicamente alla qualità dell’uva.


Il risultato, in entrambi i casi, è un vino dai sentori di fumé, frutta ancora croccante con rimandi agrumati, note mentolate; al palato, nel 2013 domina la freschezza assoluta, mentre nel 2012 è più importante, vibrante, ma fa da spalla alle altre componenti, lasciando anche spazio al piacere avvolgente dell’alcol. Due grandi vini di un’etichetta posizionata verso l’alto – circa 65 euro in uscita – ma ancora al di sotto di tanti bianchi francesi che costano di più, molto di più, senza avere la stessa complessità. Con questa cuvée, Roberto alza ulteriormente l’asticella dei bianchi in Italia, accanto ai grandi della categoria. Ma – ed è una mia opinione personale – siamo solo all’inizio.

InvecchiatIGP: Gradis’ciutta - Collio DOC Chardonnay 2006


di Carlo Macchi

Non è la prima volta che Robert Princic, deus ex machina di Gradis’ciutta, tira fuori dalla cantina vecchie annate a raffica. Lo fece lo scorso anno con il Pinot Grigio e lo ha rifatto quest’anno con lo Chardonnay, arrivando fino al 1998 passando attraverso 2024, 2020, 2017, 2016, 2014, 2012, 2010, 2008 e 2006. Tra le annate che avevo davanti, ognuna con caratteristiche anche sorprendenti, dopo qualificazioni, semifinali e finale (con un cremoso e dinamico 2012), ho selezionato lo Chardonnay 2006.


Prima di parlare del vino due parole sull’azienda: Gradis’ciutta è a San Floriano del Collio e coltiva la classica e ampia gamma di uve che ogni friulano di collina non può non “mettere in campo”: quindi, Ribolla, Malvasia, Pinot Grigio, Sauvignon, Friulano, Chardonnay tra i bianchi, Cabernet Franc e Merlot tra i rossi, oltre ad una serie di uvaggi e di bollicine molto interessanti. La parte del leone la fanno i monovarietali bianchi, vini d’annata che però dimostrano di poter reggere nel tempo, e alla grande.

Robert Princic

Ne è prova provata questo Chardonnay 2006 “base”, quindi fatto per essere bevuto da giovanissimo. Vinificazione in acciaio e poi subito in bottiglia, senza la minima intenzione di arrivare fino ad oggi, quasi a 20 anni dalla “nascita.
La prima cosa che mi ha colpito e quasi sorpreso è stato il colore, un dorato brillante e vivo che poteva benissimo appartenere ad un vino di 15 anni più giovane. Il naso all’inizio ha un po’ stentato, ma poi si è sistemato su una maturità austera, che portava anche a note di burro e brioche, non nascondendo un accenno di frutto maturo. 


In bocca invece il registro cambiava e dalla maturità si tornava alla giovinezza, con sapidità e freschezza sorprendenti. Un corpo non certo importante ma equilibrato portava ad una insospettata persistenza.
Che dire, lo chardonnay non è mai stato il mio vitigno preferito ma questo 2006, per finezza e complessità degna di un vino di categoria e prezzo molto più elevato, mi ha veramente sorpreso.

Honey GourMet: la bollicina che nasce dal miele


di Carlo Macchi

Non di solo vino vive l’uomo e così eccovi un non vino. Tranquilli, non è dealcolato ma nasce dal miele.
 

La prima cosa che mi ha colpito non è tanto il fine profumo di miele ma la finezza della bollicina, la sua cremosità e persistenza, raggiunta dopo 30 mesi di affinamento in legno e in bottiglia.

I vini bianchi italiani, non solo del 2024, cosa ci stanno dicendo?


di Carlo Macchi

Anche lo scorso anno, in questo periodo, dedicammo un articolo ai bianchi italiani d’annata e non, basandoci sulle degustazioni che stavamo facendo per la guida vini di Winesurf. Quindi mi sembra giusto farlo anche quest’anno sia con l’obiettivo di presentare le caratteristiche dell’annata 2024 trovate nei calici di quasi 1000 bianchi d’annata, ma soprattutto per lanciare alcuni spunti sui bianchi italiani, giovani e non.


Per quanto riguarda l’annata 2024 la prima notizia, cosa che era chiara sin dallo scorso ottobre, è che non siamo di fronte ad una grande annata ma quasi sicuramente (non certo grande consolazione) superiore, in molte parti d’Italia, a quella relativa ai rossi. Se infatti i secondi sono stati spesso vendemmiati negli intervalli tra una serie di piogge i bianchi in generale hanno beneficiato del gran caldo dei mesi estivi pur beccandosi una serie di piogge a fine maturazione che in diversi casi hanno “diluito” la concentrazione ma apportando maggiore finezza ai profumi.


A proposito di profumi: mi spiace dirlo ma in molte parti d’Italia per i vini d’annata non aromatici ormai non si può più parlare di “riconoscibilità del vitigno” ma solo di riconoscibilità dei sistemi di vinificazione e affinamento, almeno per quanto riguarda i primi 8-10 mesi dalla vendemmia, periodo in cui vengono degustati da tutte le guide. Andando verso il secondo anno e oltre le cose cambieranno ma per quanto riguarda appunto tanti vini non aromatici o semiaromatici (e in parte anche per questi) prevale più la mano di cantina che l’uva che vi arriva. Questo, viste anche le annate che si stanno susseguendo non è necessariamente un male, ma in un momento in cui le parole come terroir, unicità, parcella, vanno per la maggiore è abbastanza strano constatare, in generale, l’esatto contrario. Di passaggio un’altra annotazione, oramai bere i bianchi italiani d’annata è un errore madornale, perché i miglioramenti tecnici in vigna e in cantina portano a vini che hanno bisogno di almeno 10-12 mesi per distendersi e assumere le giuste e apprezzabili caratteristiche.


Ma veniamo ai bianchi 2024 e proviamo a dare qualche consiglio, fermo restando che ancora i nostri assaggi non sono completi (mancano nomi importanti come Soave, Vermentino di varie zone, Gavi, Etna Bianco e altri) e che, per fortuna, da qualche anno degustiamo almeno il 40/50% di vini di annate precedenti, cosa che, visto quanto detto sopra, ci fa molto piacere. Una segnalazione particolare va fatta sicuramente per i Verdicchio dei Castelli di Jesi Superiore, vini che riescono nella titanica impresa di essere buoni sin da subito e dopo diversi anni. Forse non è l’annata migliore ma comunque abbiamo trovato buone strutture e aromi che quasi sempre riportano al vitigno. Visti anche i prezzi abbordabili è un consiglio che diamo senza se e senza ma. Di seguito ci piace segnalare anche, in ordine sparso, Arneis, Vernaccia di San Gimignano, Sauvignon altoatesini, Custoza, Greco di Tufo, Pinot Bianco del Trentino, Friulano sia del Collio che dei Colli Orientali. Naturalmente non facciamo nomi e cognomi, perché quelli potrete trovarli sulla nostra guida online ma crediamo che in questo ampio spettro troverete sicuramente buone cose da bere.


Torniamo un attimo ai bianchi italiani in generale per confermare quanto avevamo scritto lo scorso anno. Oramai la qualità media è salita moltissimo ma, anche andando in annate precedenti, mancano quelli che potremmo definire grandi bianchi. Questo è strano perché una bella fetta di bianchi italiani non solo, come detto, deve invecchiare almeno 1-2 anni per esprimersi bene ma può invecchiare almeno 5-8 anni migliorandosi anno dopo anno. Nonostante questo, mancano quelle punte che ti fanno sobbalzare e che 10-15 anni fa erano presenti come fari nella nebbia. Inoltre, il fatto che sempre più aziende propongono bianchi di 2-3-4 anni agli assaggi denota che la voglia per puntare al grande bianco c’è. Quindi è un bel dilemma e non si tratta di uso o non uso del legno ma forse di un cambiamento climatico che da una parte crea incertezze e problemi, e dall’altra innalza Ph, abbassa acidità e quindi crea situazioni diverse rispetto al passato. Però queste sono, come diceva la canzone, “solo parole” e aspettiamo con grande piacere contributi in tal senso. A proposito di legno e non legno: dopo anni di utilizzi inferiori e meglio mirati ci ha fatto pensare trovare molti bianchi altoatesini, in particolare Chardonnay e Pinot Bianco di annate precedenti al 2024, con dosi di legno indubbiamente eccessive e ridondanti. È forse un segnale di “ritorno al passato?”
E di segnali ve ne abbiamo lasciati tanti così, ripetiamo, aspettiamo i vostri pareri perché se c’è una certezza è che noi, sul vino e oltre, di certezze ne abbiamo pochissime.

InvecchiatIGP: Barone Ricasoli - Casalferro 1997


di Roberto Giuliani

Per l’Invecchiato IGP ho scelto un vino che rappresenta fortemente la nuova visione che negli anni ’90 aveva preso piede soprattutto in Toscana, a Montalcino come in Chianti Classico. Ma la millenaria storia dei Ricasoli, proprio qui al Castello di Brolio a Gaiole in Chianti, ha vissuto un periodo del tutto particolare, infatti tra gli anni ’70 e ’90, la storica cantina e il noto marchio erano stati ceduti a terzi, che purtroppo non ne hanno fatto tesoro, anzi, l’hanno quasi ridotta in rovina, vini compresi. Per fortuna nel 1993 il barone Francesco Ricasoli, che investendo tutto quello che aveva e, forse, anche qualcosa in più, ha ripreso possesso dell’azienda e riacquistato il marchio, riuscendo in pochi anni a darle nuovo lustro, grazie al coinvolgimento di Filippo Mazzei di Castello di Fonterutoli, dell’enologo Carlo Ferrini e dell’ex direttore marketing della Duca di Salaparuta Maurizio Ghiori.


Il Casalferro è indubbiamente il simbolo di questa rinascita, prima annata 1993, sangiovese in purezza, ma la ’97 rappresenta anche il cambio di nome aziendale da “Castello di Brolio” a “Barone Ricasoli” (oggi semplicemente “Ricasoli”) e una piccola modifica nell’uvaggio con l’ingresso di una quota di merlot (oggi ormai solo merlot). Ora, per onestà devo dire che i vini firmati da Ferrini, soprattutto in quegli anni, non mi entusiasmavano, la sua mano a mio avviso si sentiva troppo, era più facile capire che un vino era di Carlo Ferrini che la sua provenienza, almeno per me. Del resto era un’epoca in cui il lavoro in cantina era fondamentale, tanta innovazione in macchinari e legni e, forse, non ancora abbastanza esperienza nell’utilizzarli, finivano a volte per indirizzare troppo il carattere dei vini verso il mercato del momento, penalizzandone le caratteristiche più intrinseche e distintive.


Detto ciò, è sempre un’emozione stappare una vecchia bottiglia, in questo caso di 28 anni. Nessun problema nell’estrazione del tappo, che risulta umido fino a un terzo dei suoi 5 cm. di lunghezza, con la parte a contatto con il vino tendente al viola-nerastro. Come da prassi, lo verso con delicatezza e lo lascio ossigenare a lungo, ascoltandone i profumi di tanto in tanto. 


Il colore è un granato ancora di buona intensità e luminosità, al naso appare un po’ statico, nonostante si stia ripulendo della prevedibile riduzione, non trapela una gamma ampia di profumi, sembra piuttosto stabilizzato su confettura di frutta, mallo di noce, tabacco, fumo, cuoio, leggero sottobosco e poco altro, non si muove da lì, non è cangiante e l’ossigeno non rivela nuovi sentori se non qualche cenno ossidativo.


Il sorso però mette in mostra una notevole freschezza, sembra molto meno “anziano”, non ha raggiunto l’armonia e a questo punto non credo ci arriverà mai, ma ha spinta e non mostra alcuna fatica, il tannino ha grana fine e un assetto preciso e ben inserito nella. Il tempo lo ha reso un vino meno voluminoso, per certi versi più apprezzabile, indubbiamente ha tenuto piuttosto bene, peccato per qualche limite sul piano olfattivo.

I Garagisti di Sorgono - Rosato Mandrolisai Doc "Garage" 2023


di Roberto Giuliani

Alla mitica Enopizzeria Avenida Calò: Monica, Cannonau e Muristeddu allevati ad alberello, un piccolo capolavoro che ti trascina in quella terra magnifica che è la Sardegna. 


Colpisce per le note affumicate, agrumi intensi e maturi, verve minerale; in bocca è un'esplosione di sapore. Finito in un baleno!

La Locanda del Poeta a Collalto Sabino: mangiare bene in un luogo incantato


di Roberto Giuliani

Abitando da più di vent’anni a Fiano Romano, alle porte della Sabina - rinomato territorio che si estende a nord-est di Roma, i cui confini anticamente valicavano Umbria e Abruzzo, ma che oggi ha il cuore nella Provincia di Rieti – posso dire di averlo approfondito sia dal punto di vista storico-paesaggistico che da quello enogastronomico. Ho perso il conto dei numerosi borghi che ho visitato e rivisitato, ormai scoprirne altri è diventato quasi impossibile. Così le mie gite serali o nei fine settimana, diventano più selettive, scelgo i luoghi che più mi hanno colpito o, come in questo caso, quelli più alti e freschi. Sul percorso che porta al ridente Comune di Collalto Sabino (uno dei più alti del Lazio, infatti sfiora i 1000 m. s.l.m.) mi piace fermarmi a mangiare alla Locanda del Poeta, sia per la posizione in cui è collocata, all’interno di un parco lontano da qualsiasi rumore, sia per la cucina davvero gustosa.


Erano un po’ di anni che non ci andavo, ho trovato i locali ingranditi e una gastronomia ancora più stimolante. Qui si lavora quasi esclusivamente con i prodotti del territorio e dell’orto bio, la tradizione sabina viene reinterpretata con un tocco di originalità, senza però stravolgimenti o voli pindarici, i piatti sono concepiti per dare piacere, soddisfazione, e ci riescono piuttosto bene. La cucina sabina è sorprendente per varietà e per influenze storiche, basti pensare che qui sin dall’800 si fanno risotti, chi lo avrebbe mai pensato? C’è poi una forte tradizione della pasta fatta in casa, con nomi spesso originali e curiosi come “cecamariti”, “falloni”, “frascarelli”, “fregnacce”, “ciufulitti”, “gnucchitti pilusi”, “curioli”, “mafriculi”, “jacculi” e tanti altri. La Sabina è fortemente collinare, tappezzata di ulivi, frutteti, boschi di querce, faggi, cerri, prati e pascoli; nonostante la vicinanza con la capitale è riuscita a preservare un territorio stupendo, ricco di fauna, tant’è che è bene percorrerne le vie con molta attenzione, capita spesso di incontrare volpi, tassi, istrici, cinghiali e persino mucche, quindi massima cautela, soprattutto di sera!


Ma tornando alla Locanda del Poeta, che la famiglia Lattanzio porta avanti dal 2006, il luogo in cui è collocata è uno dei più suggestivi che si possano trovare, circondata da boschi, vi si affaccia un piccolo lago dove si possono vedere numerose tartarughe acquatiche, gli unici suoni che si ascoltano sono quelli degli uccellini, delle rane e degli animali da cortile. Si può mangiare nell’ampia sala interna, circondata da vetrate che consentono di ammirare il panorama da ogni lato, oppure sotto un altrettanto spazioso gazebo in legno nelle serate fresche.

Fazzoletto di primo sale in pasta fillo

Il menu offre una scelta abbastanza ampia, tra gli “Sfizi della Valle” abbiamo scelto il “Fazzoletto di primo sale in pasta fillo con mele, noci e miele di castagno” e “Gazpacho di pomodoro, baccalà cotto al vapore, mayo al basilico e frutti rossi”. Due antipasti molti diversi ma ugualmente vincenti, almeno per il nostro palato; temevo che i Fazzoletti (ben quattro!) fossero un po’ pesanti, invece li ho trovati perfetti, asciutti e con un sapore equilibrato, piacevolmente accompagnati dalle sensazioni agro-dolci offerte dai frutti e dal miele. Gustosissimo il gazpacho, che mi ha veramente sorpreso (purtroppo ho dimenticato di fotografarlo…), un piatto altamente rinfrescante e balsamico, perfetto per il periodo estivo.

Maltagliati con baccalà, capperi ed olive

Non essendo dei gran mangioni né io né mia moglie, abbiamo scelto di passare ai primi e lasciare i secondi alla prossima occasione: “Tagliolini con ragù di cortile a modo nostro” e “Maltagliati con baccalà, capperi e olive”. I tagliolini erano veramente saporiti, cottura perfetta, le carni deliziose e ben amalgamate con la pasta; i maltagliati altrettanto buoni, unico neo una presenza un po’ esigua del baccalà.

Tagliolini con ragù di cortile

Ci siamo concessi di chiudere con un “Tiramisù della Locanda con savoiardo fatto in casa”, che ho apprezzato molto per la dolcezza contenuta.
La carta dei vini tocca varie regioni, forse manca un po’ di originalità nella scelta dei produttori, ma c’è ampio spazio per trovare vini più che adeguati a ricarichi onesti, noi abbiamo scelto il Cerasuolo d’Abruzzo di Marramiero che si è comportato benissimo con tutte le portate. Un pasto completo (antipasto, primo e secondo) viene a costare dai 40 ai 50 euro vini esclusi. La prossima volta non mancheremo di provare i secondi a base di carne.

La Locanda del Poeta
Via Turanense, km. 39,400 Collalto Sabino (RI)
Tel: 329 2428900
Aperto a pranzo e cena tutti i giorni

InvecchiatIGP: La Guardiense – Sannio DOP Fiano “Janare” 2016


Nel mondo del vino italiano, spesso aleggia un pregiudizio difficile da estirpare: quello secondo cui le cooperative sarebbero sinonimo di produzione industriale e qualità mediocre. Una visione ormai superata dai fatti, soprattutto quando si osservano realtà come La Guardiense, che da oltre sessant’anni rappresenta una delle eccellenze più virtuose del Sud Italia. Fondata nel 1960 a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, grazie all’iniziativa di 33 viticoltori lungimiranti, La Guardiense è diventata oggi una delle cooperative vitivinicole più importanti del Paese, sia per dimensioni che per visione strategica. Conta circa 1000 soci che coltivano oltre 1500 ettari di vigneti, situati in una zona collinare dal grande valore ambientale e viticolo, incastonata tra i monti del Matese e il Taburno, nel cuore della Valle Telesina. Ogni anno produce 150.000 ettolitri di vino e circa 6 milioni di bottiglie, distribuite in Italia e nel mondo.


A fare la differenza, oltre ai numeri, è la scelta di puntare con forza sulla qualità, sulla sostenibilità e sull’innovazione, mantenendo però saldo il legame con la tradizione contadina del Sannio. Sotto la guida del presidente Domizio Pigna, e grazie anche alla collaborazione con Riccardo Cotarella, la cooperativa ha avviato un profondo processo di modernizzazione, investendo in tecnologie all’avanguardia, ricerca agronomica e valorizzazione delle varietà autoctone come la Falanghina, il Greco, il Fiano e l’Aglianico.

Domizio Pigna e Riccardo Cotarella - Ph: Matesenews.it

Questa cooperativa dimostra che fare vino in forma associativa non significa rinunciare all’eccellenza, anzi. Prova ne è questo Fiano 2016 che ho degustato recentemente facente parte del progetto Janare che rappresenta una scommessa nella sperimentazione di tecniche agronomiche, finalizzate a valorizzare i vitigni principi del territorio. Il nome del progetto è tutt’altro che casuale.


Le Janare, nella tradizione popolare sannita, erano le seguaci di Diana, dea della luna e degli incantesimi notturni, custode delle selve, dell’agricoltura e delle donne. Secondo il mito, queste donne del Sannio erano indomite al punto da essere ritenute streghe, le cui pratiche rituali erano legate ai cicli della natura e alla magia ancestrale del territorio. Il progetto Janare non è solo un tributo alla forza femminile e alla cultura contadina del luogo, ma anche una dichiarazione di intenti: fare vino che esprima l’anima più autentica e mistica del Sannio.


Tornando a questo Fiano, ciò che colpisce immediatamente — prima alla vista, poi al naso e al palato — è l’integrità sorprendente del vino, che conserva energia e vitalità nonostante siano trascorsi quasi dieci anni dalla vendemmia. Al naso non cede nulla alla stanchezza dell’evoluzione terziaria: si apre invece su note fresche e nitide di mela, pera, fiori di campo e fieno, in un bouquet ancora integro e vibrante. Al sorso è pieno, perfettamente equilibrato, con una struttura che unisce eleganza e spinta acido-sapida. Nessuna concessione alla morbidezza fine a sé stessa: qui è la grinta minerale a guidare la beva, rendendo questo Fiano non solo longevo, ma profondamente espressivo del territorio meraviglioso come il Sannio.

Castello di Torre In Pietra – Lazio Fiano IGT “Macchia Sacra” 2023


Versione mediterranea del Fiano laziale, il Macchia Sacra, che prende il nome dall’antico bosco mitologico che protegge il Castello, profuma di agrumi e timo, con tocchi salmastri. 


Al palato è ricco, con vertiginosi ritorni iodati che stanno a ricordare il vicino Mar Tirreno verso cui affacciano le viti.

Clos Regain e il Jurançon che non ti aspetti


Il Jurançon, situato nel sud-ovest della Francia, ai piedi dei Pirenei, nella regione della Nouvelle-Aquitaine, è una delle zone vinicole più suggestive e al tempo stesso meno conosciute del Paese. La coltivazione della vite risale all’epoca romana, ma fu nel Medioevo, grazie al lavoro dei monaci benedettini, che la produzione vinicola assunse maggiore rilevanza. La fama del Jurançon si consolidò nel 1553, quando il vino fu usato per bagnare le labbra del neonato Enrico di Navarra, futuro Enrico IV di Francia, durante il battesimo: un gesto simbolico che gli valse l’appellativo di “vin royal”. Da allora, il Jurançon divenne simbolo di prestigio, molto apprezzato nelle corti nobiliari francesi.


Oggi il Jurançon è una zona vinicola che continua a distinguersi per la qualità dei suoi vini, grazie all’unicità del suo territorio situato attorno alla città di Pau, favorito da un microclima ideale dovuto alla protezione dei Pirenei e all’influenza del fiume Gave de Pau. I suoli variegati — marne, argille e calcari — donano ai vini una marcata mineralità, mentre le forti escursioni termiche tra giorno e notte favoriscono una perfetta maturazione delle uve.


La maggiore particolarità del Jurançon è la sua capacità di produrre sia vini secchi che dolci, sebbene la denominazione sia maggiormente conosciuta per questi ultimi. Il segreto della sua unicità risiede nei vitigni impiegati, tra i quali spiccano senza dubbio il Petit Manseng e il Gros Manseng (in misura minore troviamo anche Courbu Blanc, Petit Courbu, Camaralet de Lasseube e Lauzet), tutti caratterizzati da una spiccata aromaticità e da un’acidità che dona freschezza al vino.

Petit Manseng

Il Petit Manseng, in particolare, è il vitigno che meglio rappresenta l’identità della denominazione, ed è utilizzato per la produzione di grandi vini da vendemmia tardiva grazie al suo grappolo spargolo e alle particolarissime condizioni climatiche della zona, che impediscono lo sviluppo di muffe sugli acini. I forti venti che soffiano dai Pirenei fino alla valle permettono infatti un lento appassimento in pianta (passerillage), un fenomeno raro in altre aree vitivinicole.

Michel Boutin

Qualche tempo fa ho scoperto, grazie all’enologo Julien Seigneurie e alle dritte del mitico Guido Invernizzi, i vini della cantina Clos Regain, fondata da Michel Boutin, un canadese originario del Quebec che, innamoratosi del territorio, decise di trasferirsi nel Jurançon con l’intenzione di creare una cantina capace di produrre vini tanto tradizionali quanto contemporanei.


Se da una parte sono rimasto sbalordito per l’equilibrio sopraffino dei vini dolci di Clos Regain – cosa tutt’altro che scontata quando c’è una bella percentuale di zucchero residuo in gioco – il mio coup de cœur è andato senza dubbio al Clos Regain Sec 2022, che, grazie a un sapiente assemblaggio tra Petit Manseng e Gros Manseng, dona al vino un sorprendente equilibrio di sapori e una personalità davvero travolgente. Il naso, infatti, è di straordinaria territorialità ed esprime una girandola di profumi che spaziano dal tiglio alla pesca percoca, fino ad arrivare alle erbe aromatiche, agli agrumi e alla pietra focaia, il tutto in un quadro di leggiadra armonia. 


Al sorso è sostanzioso ma, al tempo stesso, ha una trama perfettamente bilanciata, espressa da una pingue morbidezza sostenuta da un’acidità affilatissima. Chiude il quadro gustativo un finale minerale decisamente interessante, così come il rapporto qualità/prezzo di questo vino che, se riuscirete a trovarlo, vi lascerà senza parole.

Nota tecnica: vino vinificato in acciaio inox. Dopo la fermentazione, il vino viene lasciato a riposare sulle fecce fini per qualche mese e sottoposto a regolari bâtonnage.