InvecchiatIGP: Eubea - Aglianico del Vulture DOC "Riparossa" 2002


di Luciano Pignataro

I vini parlano al palato e all’anima. Dipende dalla suggestione, dai ricordi, dal momento, dal luogo in cui vengono bevuti. Ci può essere qualcosa di più commovente di bere un aglianico di 22 anni nel cuore dei Sassi di Matera? Man mano che gli anni passano sono sempre più alla ricerca di occasioni speciali da raccontare e il viaggio al Sud resta una delle esperienze ancora lontana dalle narrazioni commerciali che partono dal nonno e finiscono in euro. E la Basilicata forse è la regione che ha meno cambiato pelle da quando mi occupo di vino: per molti questo sarebbe uno svantaggio, per me è un elemento che dovrebbe trascinare qualsiasi narratore a precipitarsi fra castelli federiciani, boschi, pastori e sassi varcando i campi di grano lungo il Basento, il trampolino ideale per tuffarsi nello Jonio, a Metaponto.


In uno di questi trasferimenti, necessariamente in auto, ci fermiamo insieme alle care amiche e colleghe Antonella Amodio e Fabiola Pulieri nel ristorante di Vitantonio Lombardo, eroica stella che ha resistito nel cuore della città ancestrale e che troviamo in magnifica forma. La giornata è tiepida, l’inverno è ormai alle spalle ma l’estate ancora non ha cominciato a rompere i coglioni e cambiamo il programma che doveva portarci nella magnifica Taranto per Ego Festival decidendo di fermarci a pranzo da Batman e Robin, ossia Vitantonio e Donato Addesso, suo fido maitre e sommelier ormai da 12 anni che lo ha seguito dai tempi eroici di Locanda Severino a Caggiano.

Vitantonio Lombardi

Si parla, si assaggia, si sta bene, chiediamo qualcosa di vecchio per godere sull’agnello che lo chef prepara in maniera eccezionale. Ed è così che Donato ci porta un fuori carta, il Riparossa 2002 dell’azienda Eubea a Ripacandida nel Vulture, la storica cantina oggi diretta da Eugenia Sasso, nipote del fondatore che la creò nel 1922 e che noi seguiamo dai tempi in cui il comando era del papà Francesco., detto Il professore, protagonista dell’aglianico vulturino da mezzo secolo. Eugenia, come il padre, è una persona riservata, concentrata sulla famiglia e sul lavoro, di altri tempi insomma. Come quest’aglianico che ci apre Donato superando la difficoltà di un tappo ormai compromesso.

Eugenia Sasso - Eubea

Ci sono due elementi che rendono straordinaria questa bevuta, a parte le circostanze descritte, ossia il momento, la compagnia, il cibo. Il primo è che l’annata 2002, qualcuno lo ricorderà, non è stata particolarmente favorevole per i rossi, anche al Sud. Fu l’anno, ad esempio, in cui Biondi Santi decise di non produrre Brunello e Mastroberardino di seguirlo saltando il Taurasi. Il secondo elemento è che il Riparossa era considerato un vino di ingresso, lavorato solo in acciaio, il più basso di una gamma che arrivava sino al Roinos, che il professore Sasso concepì con l’enologo sannita Angelo Pizzi. Tanto che nella mia guida dedicata ai vini della Basilicata del 2005 l’etichetta non era neanche citata.

L'areale dell'Aglianico del Vulture DOC

Bene, in questo caso bisogna avere pazienza e saper attendere, superare l’odore di ridotto lasciando all’Aglianico il tempo di ossigenarsi e di riprendersi. Piano piano il rosso ha iniziato a prendere fiato e a restituire al naso quelle sensazioni di foglia secca, carruba, cenere, persino rimandi di conserva di amarena e note di macchia mediterranea. Come sempre quando si tratta di Aglianico, è al palato che si gode di un ritmo energico e vivo, con una freschezza sicuramente domata dal tempo ma che mantiene il vino e ne fa una ragione per proseguire. In questa versione, spicca anche una complessiva eleganza e un colore che “gaglioppeggia”, segno di una estrazione non prolungata.


A dirla tutta, in un momento in cui l’Aglianico del Vulture procedeva a tappe spedite verso gli eccessi di estrazione e di surmaturazione, la sopravvivenza di questa versione la dice lunga su quale sarebbe stata, ed è ancora, la strada da imboccare quando si affronta questo vitigno così ostico, del resto non è un caso che proprio in questa direzione, a cominciare dal 2004, è andata Elena Fucci con il suo Titolo pluripremiato. Sorso dopo sorso la bottiglia finisce e ci mettiamo leggeri e contenti in auto verso la città dei due mare, un’ora di viaggio confortata da una esperienza perfetta.

Cantina di Santadi - Carignano del Sulcis Superiore 'Terre Brune' 2019


di Luciano Pignataro

Diceva Giacomo Tachis che quelli sardi sono vini della luce. Vero, il rosso vivo di questo grande classico che ha fatto storia è indescrivibile. 


Godiamo la fusione perfetta fra il frutto e il legno e ammiriamo l’eleganza e la finezza che rende questa beva assolutamente godibile e contemporanea dopo tanti anni.

Approfondimento sui bianchi vulcanici campani invecchiati degustati a Vitigno Italia


di Luciano Pignataro

Le tendenze di mercato parlano chiaro, almeno nell’emisfero occidentali: cresce il consumo di bianchi e di spumanti (e anche di rosati), in calo il consumo dei rossi. Calano altresì i vini economici, crescono quelli con valore aggiunto. E’ venuto così spontaneo sviluppare questo sillogismo aristotelico davanti alla nutrita platea di buyers stranieri di Vitigno Italia presentando loro il volto bianco della Campania, che supera ormai la metà del totale della produzione e sl tempo stesso puntare su vini ricchi di storia e di anni per dimostrare un assunto che noi già ben conosciamo e di cui abbiamo scritto numerose volte: il tempo è un grande alleato dei vini campani, soprattutto di quelli di aree vulcaniche.


La tendenza e la tentazione, di presentare vini evoluti negli anni sta crescendo anche a livello commerciale oltre che culturale e non sono poche le aziende che puntano sul tempo come elemento qualificante dell’offerta.
Sono ancora pochi ad avere questa consapevolezza, ma questa prova generale ha saputo indicare in quale direzione definitiva devono andare gli sforzi dei produttori regionali che rappresentano una piccola nicchia nel panorama nazionale ma che al tempo stesso sono espressione di una biodiversità e di una qualità assolutamente interessante.
i bianchi di questa degustazione che ha aperto la terza e ultima giornata di Vitigno Italia hanno due segni che li caratterizzano: la longevità e l’essere il risultato di vitigni autoctoni, elemento che coinvolge la quasi totalità della produzione regionale campana grazie alla ricchezza di uve locali in commercio da sempre.

La Sibilla - Campi Flegrei Doc Cruna del Lago 2015 

I primi due vini sono dei Campi Flegrei e appartengono alla terza generazione di viticoltori al lavoro, quelli che hanno rivoluzionato la percezione della Falanghina, un tempo ritenuta vino di pronta beva. Più esperimenti hanno dimostrato invece la straordinaria mineralità di questi bianchi e i produttori più accorti hanno iniziato ad aspettare. Cruna Delago è un bianco che resta in cantina due anni prima di uscire, le note fumé e di zolfo sono preponderanti, perfetta la freschezza, integro il vino, lunghissimo e piacevole.

Cantina Astroni -  Falanghina Campi Flegrei Doc Vigna Astroni 2015 

Siamo nel cratere di un vulcano spento dello stesso areale, stavolta dentro il perimetro del comune di Napoli. Anche qui tiene banco la terza generazione con la quarta già impegnata. Gerardo Vernazzaro ha studiato a fondo la Falaghina arrivando a proporne una base, una territoriale, un cru (questo) e una da sperimentazione e invecchiamento. In questa versione il tipico vitigno flegreo si esprime al massimo valorizzando il frutto ben maturo attraverso le note evolute di idrocarburi e rimandi balsamici.

Villa Dora - Lacryma Christi del Vesuvio DOC Vigna del Vulcano

Rimaniamo in provincia di Napoli ma stavolta ci spostiamo sul Vesuvio. L’azienda della famiglia Ambrosio è stata la prima a credere fortemente sui tempi lunghi del bianco commercializzando anche diverse annate vecchie in una stessa cassetta e diventando così un mito per la sommellerie dei ristoranti stellati. Frutto e note minerali meno esuberanti dei due vini precedenti, ma eccezionale tenuta della beva che poggia su freschezza autentica e capacità di reggere un equilibrio elegante in maniera decisa sia al naso che all’olfatto.

Fattoria La Rivolta - Sannio Greco Doc 2016

Sono semplicemente strepitosi i bianchi di questa azienda di Torrecuso fondata da paolo Cotroneo. In questo caso non siamo in presenza di un vino che ha aspettato per uscire in commercio, ma semplicemente di un bianco che ha resistito al tempo guadagnando in complessità. Il Greco in genere ha un naso timido, marcato dallo zolfo solo se di Tufo, di frutta gialla in altri casi. Al palato invece esprime la sua freschezza e al tempo stesso di una struttura potente, quasi da rosso cviene da dire, una sensazione confermata da un estratto secco a quota 26 in questo caso. Vino nel pieno della maturità da esprimere su piatti decisamente strutturati

Tenuta Scuotto - Campania Fiano Oi Nì 2015 

L’enologo Angelo Valentino ci ha provato con un legno alsaziano e devo dire che all’inizio ero abbastanza perplesso non per la qualità ma per l’eccesso di note dolci al naso, a cui comunque faceva da contrappeso una buona beva scattante e agile, sapida e fresca. Nel corso degli anni è stata trovata la giusta quadra e adesso la sosta in legno, uno dei pochi casi per quanto riguarda i vini della Campania in generale e per il Fiano in particolare, fa da trampolino di lancio ad un vino che potrebbe benissimo fare il pirata in una batteria di Mersault

Di Meo -  Fiano di Avellino DOCG Alessandra 2013 

Un Fiano di undici anni, da poco in commercio che esprime la freschezza capace di esaltare la complessità olfattiva e gustativa. Note piacevolmente agrumate e di mela matura, primi sbuffi fumé, al palato una bocca piena, lunghissima, con una chiusura assolutamente affascinante. Il protocollo è decisamente semplice, lavorazione solo in acciaio. Sosta sulle fecce nobili sino all’imbottigliamento. Un piccolo grande capolavoro che, ne sono sicuro, potremo bere per i prossimi decenni godendo come i pazzi.

Villa Matilde - Falerno del Massico Doc Vigna Caracci 2008 

Non finisce di stupire questa annata del Caracci, uno dei bianchi più eleganti della Campania, in questo caso passato in legno. La riproviamo nel pieno della sua maturità espressiva, dotata ancora di una freschezza incontenibile ma soprattutto di grande complessità olfattiva: dal miele alla pasticceria, alla frutta sciroppata sino ad un piacevole rimando fumé. Il vino è in una fase in cui deve essere accompagnato, non accompagnare il cibo. Ha sicuramente raggiunto il suo nadir, è al massimo delle sue potenzialità, quando cioè il tempo è un prezioso alleato e non un elemento al quale bisogna resistere. Il sorso è sapido, il finale lungo e potente, assolutamente amaro rivelando così la sua origine vulcanica. Insomma, un piccolo grande capolavoro.

Da Roma a Capri: Vico, la pizzeria di Enzo Coccia, sbarca all’hotel “La Residenza”


VICO è l’incontro tra la contemporaneità della pizza di Enzo Coccia e l’eleganza, la discrezione e la raffinatezza insita alla famiglia De Angelis, proprietaria di hotel di lusso in Italia e all’estero. Da questo incontro, nel luglio del 2023 è nata la pizzeria VICO di Roma, un progetto di grande successo tanto che, a partire dall’8 di Giugno, questo binomio tra lusso e cultura mediterranea verrà “esportato” anche a Capri dove i De Angelis posseggono il loro boutique hotel “La Residenza”, il secondo complesso alberghiero più grande dell’isola dell’arcipelago Campano.


A differenza di Roma che sorge in un palazzo storico, la pizzeria Vico Capri, condotta dal Maestro Enzo Coccia assieme ai figli Andrea e Marco, si svilupperà totalmente all’esterno, nel giardino superiore dell’hotel, dove l’ospite verrà accolto e coccolato tra archi di bouganville, aiuole fiorite e comode sedute nei toni del bianco e verde.


Capri – spiega Enzo Coccia - sarà per noi una grande bella sfida, in termine di esperienza, lavoro e gratificazioni. È un piccolo sogno che si avvera, avremo la possibilità di far conoscere la pizza napoletana a una platea internazionale. E questo ci riempie di gioia e di orgoglio. Sicuramente incontreremo delle difficoltà anche perché si tratta di una prima esperienza di tipo stagionale su un’isola con tutte le problematiche connesse a esempio all’approvvigionamento, ai collegamenti, etc. Ma siamo certi che il nostro know-how sia proprio il valore aggiunto grazie al quale supereremo ogni cosa”.

LA PROPOSTA GASTRONOMICA DI VICO CAPRI

Il menu avrà un filo conduttore che lo lega al progetto di Roma. Per stuzzicare l’appetito i Piscitielli, piccoli calzoncini fritti, dal classico con salame napoletano alla provola e pepe, dalla versione con cuore di baccalà, pomodoro corbarino, olive nere di Gaeta, provola a quella con ricotta, fiori di zucca, pancetta, pecorino, e le Montanarine, come la Faraglioni con zucchine marinate, tonno affumicato e zest di arancia, la Centrella con stracciata di bufala, ‘nduja di spigola, foglia di limone o La Violetta con crema di melanzane, melenzane a funghetto, pecorino e basilico. Ci saranno le pizze tradizionali, dalla Marinara alla Margherita, dalla Rucola e Crudo alla Vegetariana, dalla 4 Formaggi alla Diavola ma anche un must di VICO Roma, la pizza Nerano, oltre ad alcune pizze inedite che utilizzeranno i prodotti dell’isola.


Per esempio ci sarà la Jovis con provola di bufala campana D.O.P., alici fresche, peperoncino, menta, zest di limone grattugiato, origano e olio extravergine d’oliva D.O.P Penisola Sorrentina, la Il Cunto del Mediterraneo con fior di latte di Agerola, pomodorini del Piennolo del Vesuvio D.O.P., melanzane a funghetto e ventresca di pesce spada, la Monte Solaro con cipolla rossa di Tropea marinata al finocchietto, mozzarella di bufala campana D.O.P., ventresca di tonno, pesto di prezzemolo e limone, la Focaccia Caprese con pomodori di Sorrento, mozzarella di bufala campana D.O.P., origano, olio extravergine d’oliva e basilico, La Certosa con stracciata di bufala, prosciutto crudo e grissini e, ovviamente, la Grotta Azzurra con pesto di basilico, pomodori arrostiti, ‘nduja di spigola, mozzarella di bufala campana D.O.P.


COCKTAIL E CARTA VINI

VICO Capri apre le sue porte agli appassionati della mixology. Sarà possibile, infatti, scoprire e miscelare due esperienze diverse: le pizze di Coccia e i cocktail, fatti con miscele e ingredienti particolari, del Salotto 42 di Roma. Presente una piccola ma interessante carta dei vini di circa 120 referenze, grandi etichette come piccole cantine, selezionate per sottolineare la versatilità della proposta gastronomica.

InvecchiatIGP : Lis Neris - Friuli Isonzo Pinot Grigio Gris 2008


di Carlo Macchi

Se c’è un vitigno bianco di nobili natali che in Italia non viene considerato mai o quasi mai adatto per l’invecchiamento questo è il pinot grigio. I motivi sono molteplici ma quasi tutti riconducibili all’uso commerciale (indubbiamente positivo, visti i risultati numerici) che viene fatto di questo vino/vitigno, utilizzato al 99% per vini facili da bere giovanissimi. Per questo ogni tanto è bene sfatare delle credenze, come quella appunto che il pinot grigio non è adatto per fare vini da lungo invecchiamento.


Il Gris di Lis Neris è uno dei vini più adatti per questo nobile scopo. Siamo in Isonzo, terra di pianura o al massimo ondulata ma con caratteristiche particolari, sia per il terreno che in qualche punto sembra il letto ciottoloso di un torrente, che per i venti e le escursioni termiche che la contraddistinguono. Il Gris è da molti anni un riferimento per chi vuol vedere come può maturare un pinot grigio, ma ammetto che andare fino al 2008 poteva essere un azzardo.

Alvaro Pecorari

L’annata viene presentata così sul sito dell’azienda di Alvaro Pecorari: “La prima parte della stagione è stata più piovosa del solito; ma dalla fine di luglio sole, ventilazione e sbalzo termico si sono fatti sentire. Il frutto e il carattere dei vini sono di buon livello. In generale l’annata è superiore alla precedente.”
Leggendo queste righe non è che si facciano salti di gioia: la 2008 non è certo stata una grande annata, forse abbastanza fresca ma sicuramente migliore della canicolare 2007. Comunque quando una cantina, sul suo sito, ti fa un piccolo report delle ultime 25/30 vendemmie bisogna solo ringraziare e fare tanto di cappello perché vuol dire che ha storia e non ha paura a presentarla.


Il Gris matura in tonneau per quasi un anno ed è un vino, se penso ad alcune annate recenti ancora molto inespresse, fatto per essere invecchiato. Una cosa mi ha subito colpito, l’utilizzo un tappo tecnico (nel 2008!!!) per un vino del genere, che è stata una bella scommessa e, dopo aver gustato il vino, posso dire scommessa vincente.


Colore dorato brillante molto giovanile. Naso all’inizio chiuso ma già si pregustano note che vanno dalle erbe officinali , alla paglia, a lievi sentori tostati. Poi vengono fuori note minerali a fianco di sentori agrumati, ma è proprio la pietra focaia che “marca il territorio” in maniera importante.


Avete presente i vini verticali? Questo non lo è! E largo, pieno, elegante. Non mostra potenza ma riempie il palato e lo rende “cicciuto” per tanto tempo. Lascia una bocca pulita, equilibrata e fin dal primo sorso si capisce perfettamente che non è in fase calante ma ha ancora molto da dire. Sicuramente ai 16 anni attuali ce ne aggiungerei altri 5 come momento perfetto per la beva.
Quindi il Pinot grigio è un vitigno da vini giovani? Certo! Se lo pianti per produrre 200 quintali e rotti a ettaro, ma nel momento in cui qualche produttore avesse più coraggio e abbandonasse la voluta semplicità l’Italia avrebbe un vitigno da grande invecchiamento invece che da grande produzione. Alvaro Pecorari è sempre lì per confermarlo.

Silvia Zucchi - Lambrusco di Sorbara DOC Metodo Classico 2018


di Carlo Macchi

E’ già scritto tutto in etichetta! Non dovete far altro che stappare questo Sorbara profumatissimo, straordinariamente sapido e constatare che quegli aggettivi non sono messi a caso.
 

Lo produce Silvia Zucchi, il futuro del Lambrusco al femminile. Seguitela con attenzione e bevete i suoi vini con gusto!

Intervista a Giovanna Morganti: in tempi brevi si farà molta fatica a fare il vignaiolo


di Carlo Macchi

Abbiamo fatto una bella chiacchierata a 360° con Giovanna Morganti, nota produttrice chiantigiana (Podere Le Bonce), fautrice dei vini naturali e in prima fila quando nacquero le prime sigle di quello che poi è diventato un vero e proprio settore del vino italiano. Con lei abbiamo toccato sia il tema vini naturali che il cambio climatico, passando attraverso riflessioni profonde sul ruolo di un produttore di vino.

Winesurf: “Partiamo da tuo padre Enzo Morganti, che ha fatto un bel pezzo di storia non solo di San Felice ma del Chianti Classico. Dal punto di vista del fare vino ti ha insegnato qualcosa, e cosa in particolare?”


Giovanna Morganti “Mi ha insegnato la sacralità della cantina. Era bello da piccola stare con lui in cantina, magari aspettando Giulio Gambelli. Capire che il nostro lavoro non finiva alla vendemmia ma ce n’era un altro pezzo da fare dopo. Da un punto di vista enologico invece non siamo mai andati molto d’accordo perché lui era figlio di un’epoca anche un po’ troppo interventista e lavorava in aziende dove c’erano dinamiche diverse da quelle che poi ho seguito io. Più che aspetti tecnici babbo mi ha insegnato un’etica.”

W. “Da quanti anni produci vino?”

G.M. “Le Trame (il suo vino più famoso) è nato nel 1990 ma ho iniziato a lavorare nel 1984.”

W. “Ottima annata per iniziare…”

G.M. “Sai che mi ricordo ben poco di quell’anno?”

W. “In Toscana Fu una delle vendemmie più tragiche del secolo scorso.”

G.M. “Mi ricordo solo che far maturare le uve nelle zone alte del Chianti Classico era un vero problema.”

W. “Come ti definiresti come produttrice di vino?”

G.M. “Coraggiosa, rigorosa, curiosa, e sempre con tante domande che non hanno risposte certe.”

W. “Qual è la cosa che in vigna ti dà più gioi e quella che ti fa più arrabbiare?”

G.M. “Forse sembrerò un po’ troppo romantica però mi dà gioia lo starci: a me toccare le viti e vederle sane piace tantissimo. Quello che mi fa arrabbiare sono le “incomprensioni”: cioè vedere che siamo in un momento di passaggio che è epocale, specie nel mio caso dato che ho vigne di trent’anni e quindi in un momento delicato, e non capire, con sicurezza, cosa fare.

W. “Credi che il Chianti Classico, con le UGA e la Gran Selezione, stia seguendo la strada giusta?”

G.M. “No!”

W. “Mi immaginavo questa risposta. Perché?”

G.M. “Perché è una cosa fatta a tavolino, di testa, non fa crescere il territorio, non fa crescere il Chianti Classico d’annata che a sua volta è quello che dovrebbe far crescere il territorio e allontana ancora di più le aziende dal fare buona agricoltura.”

W. “Ce la fai, il più brevemente possibile, a tracciarmi le evoluzioni nel mondo dei vini cosiddetti naturali negli ultimi 20-25 anni?”

G.M. “Il movimento dei vini naturali è nato alla fine del secolo scorso da un impulso venuto dalla Francia. Riuniva i biodinamici italiani insieme a tante altre realtà: all’inizio era molto bello perché metteva insieme situazioni di rispetto ecologico, cioè di voler fare una viticoltura e un’enologia sana e metteva assieme anche ideologie più sociali o se vuoi politiche. C’era un filone piemontese, uno friulano, uno toscano. Realtà e persone molto diverse, per esempio Angiolino Maule e Teobaldo Cappellano. Poi quando è nato l’interesse sono arrivati i protagonismi e si è perso un po’ il senso comune. L’evoluzione attuale è autoreferenziale, moltissimi pensano di essere già arrivati.”

W. “Arrivando a oggi le varie associazioni di vini naturali riescono ad andare d’accordo?”

G.M. “Non credo. Nel mio caso io ne sono fuori ma ho tanti amici all’interno e ho abbastanza il polso della situazione. Secondo me non c’è più nemmeno l’energia del disaccordo e mi sembra che un po’ tutti si siamo chiusi nel loro piccolo mondo e alla fine le associazioni si rianimano solo un mese prima di andare al Vinitaly e questo fa tristezza. Naturalmente non puoi non considerare la parte commerciale ma mi pare che alla fine tutto finisca lì. Anche il fatto che Vinnatur si faccia certificare mi sconcerta, perché eravamo partiti per essere contro alle imposizioni e certificazioni. Stiamo andando in una direzione contraria rispetto a quella iniziale. Anche i pensieri un po’ più ribelli sono sponsorizzati dalle grandi aziende. C’è una grande passione,a parole, per il mondo green, con ognuno che vede il mondo green in maniera diversa.”


W. “Passiamo oltre: la vendemmia 2023 ha messo a dura prova ogni categoria di produttore: credi che vendemmie del genere portino con sé un messaggio di cambiamento e se si quale?”

G.M. “Certamente, portano un’evidenza di un sistema estremamente fragile e sto parlando del sistema vigneto e del rapporto agricoltore-vigneto. Per essere ottimisti dovremmo fare punto e a capo, poi però queste cose vanno elaborate e purtroppo gli agricoltori hanno spesso una memoria molto corta e magari sono già pronti a partire per la nuova annata sperando non si ripresentino le condizioni passate. Poi non so quanto questa forte incidenza della peronospora lasci delle informazioni così importanti anche se dovrebbe essere così. Il sistema pianta ha mostrato una fragilità incredibile mentre noi produttori mostravamo un’ignoranza mostruosa, non sapevamo proprio a che santo votarci. Poi erano anni che la peronospora non dava molta noia e quindi eravamo tutti rilassati, però siamo stati impreparati rispetto a un cambiamento stesso della malattia e della sua intensità. In testa poi io ho messo in fila tutte le falle del sistema: la non adeguata attenzione ai trattamenti, al periodo di copertura, ai prodotti che si usano, ai quantitativi, ai dosaggi e altro. Alla fine diventa tutto un po’ dogmatico. Non si possono utilizzare più di tot chili di questo o di quello ma alla fine è un modo di fare superficiale. Poi c’è anche la fortuna, il famoso fattore C. che è fondamentale.”

W. Sono passati 10 anni da “resistenza Naturale” il film di Nossiter, credi che sia servito? E a cosa?

G.M. “Credo sia servito di più Mondovino, che fu più un film di rottura, denunciava i limiti evidenti di un certo modo di fare vino. Eravamo all’inizio del movimento dei vini naturali e servi molto tra noi. Resistenza Naturale, anche se in Italia è stato visto di più ha fatto un servizio di divulgazione, ma il suo limite è che si posto in qualche modo in una posizione troppo dualista, troppa differenza tra bene e male. Quando Stefano Bellotti fa vedere le due zolle di terra, dicendo che una è buona e l’altra no è un messaggio deciso ma alla fine non so quanto serva.”

W. “Molti anni fa lessi un racconto di fantascienza ambientato in un pianeta estremamente ostile alla vita umana. L’unica base umana era circondata da ogni tipo di pericolo mortale: piante, animali, l’aria che si respirava, tutto. Poi un gruppo di umani riesce ad andare in missione fuori dalla base e si accorge che mano a mano si allontanava dalla base il pianeta non mostrava più l’aggressività di animali e piante ma anzi era molto ospitale. Secondo te noi esseri umani oggi, siamo quelli dentro la base attaccati da ogni parte, siamo il pianeta che si difende da attacchi esterni o cosa?”

G.M. “Abbiamo la presunzione di determinare tante cose poi invece chissà qual è il disegno. poi però penso che come risposta non è sufficiente anche se il disegno va quasi certamente verso una sorta di distruzione e noi dobbiamo uscire dall’idea che noi siamo i protagonisti di questo mondo. Forse partecipiamo all’esistenza dell’universo per un piccolissimo spazio.”

W. “Marie Curie disse che nella vita non c’è niente da temere, solo da capire. Tu credi di aver capito i processi naturali all’interno del tuo microcosmo o hai ancora molto da capire. Inoltre c’è qualcosa che ti fa veramente paura?”

G.M. “Ho paura che questi processi siano molto veloci e che in tempi brevi si farà molta fatica a fare il nostro lavoro. Nel mio caso sono maggiormente esposta perché ho un’azienda piccola con i vigneti tutti assieme, ad alta densità, con quella che un tempo definivamo “bellissima esposizione” e in una zona poco piovosa.”

W. “In borsa direbbero che non hai diversificato abbastanza.”

G.M. “Esatto. Diciamo che ho diversificato tanto ma in un unico luogo e questo mi rende molto fragile.”

W. “Ma hai mai pensato di mollare qui, nel Chianti Classico e andare a produrre da altre parti?”

G.M. “Tante volte, quasi tutti i giorni. Se potessi avere il teletrasporto porterei questa vigna e questo luogo sicuramente al sud. Mi sono impallinata da tempo del Molise perché sono una nostalgica e quindi voglio cercare dei luoghi dove ancora esistono paesi dove c’è una struttura sociale, dove ci sono agricoltori.”

W. “Dove si ricrea il mondo che c’era al tempo di tuo padre nel borgo di San Felice.”

G.M. “Esatto. E’ un’idea estremamente emotiva e non credo che alla fine sia così facile. Nel sud sono attratta anche dalla Sicilia.”

W. “Attratta dall’Etna?”

G.M. “Dall’etna no perché c’è già andata un sacco di gente: è ovvio che gli alberelli etnei mi appassionino, però sono attratta dalla parte più a sud dell’Isola. Poi per me l’Etna è un luogo da visitare, da frequentare per prendere un po’ di energia vulcanica ma non ci starei. Ogni tanto ho pensato a Pantelleria, ma forse è più un’idea di fuga perché poi i luoghi per fare questo lavoro li devi proprio vivere. Ogni tanto mi viene anche la passione e la voglia di misurami con un vino bianco, perché è proprio un’altra cosa.”


W. “A questo punto ti mancherebbe solo la bollicina.”

G.M. “Di quella non me ne importerebbe niente, non mi è mai venuta voglia di farla.”

W. “Ma ormai la bollicina rosé da sangiovese in Chianti Classico la fanno in tanti.”

G.M. “Se devo arrivare a quel punto mi trasferisco veramente in Molise o magari potrei fare altre forme di agricoltura. Noi viticoltori siamo molto concentrati sulla vigna, siamo monotematici e quando vedo dei bei campi di grano mi viene voglia di uscire da quella che potrei definire ossessione di coltivare una sola specie.”

W. “Un altro , non ricordo chi, disse che la vita è come uno specchio, ti sorride se stai sorridendo. Quando ci entro la tua vigna di sorride?”

G.M. “Mmmmmm non sempre e devo dire che anch’io le sorrido poco.”

W. “Vi guardate un po’ in cagnesco…”

G.M. “Ma mai in opposizione, diciamo come compagne di viaggio, però preoccupate, tutte e due. Non la vivo assolutamente come una nemica. Siamo compartecipi di una serie di problematiche da affrontare. Poi dopo ogni vendemmia la guardo con grandissima gratitudine comunque sia andata.”

W. “Cosa pensi dei vitigni PIWI?”

G.M. “Ne penso malissimo, perché credo sia una grandissima scorciatoia. Non sono contraria agli incroci perché gli uomini li hanno sempre fatti per risolvere problematiche di selezione. Non sono oscurantista ma sono contraria perché credo porti verso un mondo di specializzazione, mentre noi bisogna abbracciare la complessità e la diversità. Certo, fai meno trattamenti contro la peronospora però poi ci possono essere altre malattie che te non conosci e che possono arrivare successivamente: inoltre li vogliono inserire anche in zone che non hanno grandi problemi con la peronospora. Forse sarebbe meglio studiare e fare degli atti agricoli che ci proteggano di più da queste malattie. Credo anche che ci sia un modo di arrivare ai PIWI lungo e corretto, come in Germania dove ci hanno studiato molto, ma in Italia penso sia solo una scorciatoia.”

W. “Parliamo di un tema che tocca di lato il mondo dei vini naturali, Il vetro leggero. Quanto pesano le bottiglie che usi? Come vedi questa lotta contro lo spreco e l’inquinamento inutile e cosa pensi dei produttori naturali che usano bottiglie di 700-800 grammi?”

G.M. “Ci sono contraddizioni strane. Bisogna capire il senso del vetro pesante: se mi serve perché devo invecchiare un vino e quindi mi va a salvaguardare dalla luce etc può anche andare, ma spesso viene scelto il vetro pesante per motivi commerciali, che rappresentano in maniera statica e vecchia la qualità di un vino. Bisogna anche dire che spesso nelle bottiglie molto leggere la qualità del vetro è scarsa.”

W. “Da diverse parti, anche direttamente da produttori chiantigiani, si afferma che il Chianti Classico si sta spopolando: chi ci vive e ci lavora vuole andarsene e viene sostituito da turisti mordi e fuggi.”

G.M. “La vedo come una cosa preannunciata e fa tristezza vedere paesi diventati luoghi che ospitano un turismo nemmeno così ricco, e non parlo solo dal punto di vista economico. Un turismo che si accontenta di piatti e cibi non certo di livello, che non entra in relazione con la produzione locale. Come detto mi fa molta tristezza. Sono molto sensibile a questo tema perché il borgo di San Felice è stato uno dei primi ad essere stato svuotato per trasformarlo in un relais chateau. In passato è stata una delle mie grandi battaglie e volevo coinvolgere tutti gli operai di san Felice che ci vivevano.”

W. “Che anni erano?”

G.M. “Poco prima che morisse mio padre, quindi fine anni ottanta e io addirittura volevo fare l’occupazione del borgo. Babbo allora mi disse di non rompere le scatole, che occupando un borgo non si cambiano le sorti del mondo. In quegli anni si pensava che il turismo avrebbe risolto un’infinità di problemi, dando lavoro e prospettive future, ma poi questa cosa non si è avverata e ha provocato anche uno svuotamento dei luoghi. Pensa che oggi un problema veramente serio delle aziende agricole è quello di trovare manodopera e se alle persone non crei una situazione possibile e vivibile la manodopera non la trovi.”

W. “Allora devi ricorrere alle squadre esterne”

G.M. “Le squadre hanno un loro senso, io non sono contraria. Ma anche quelli che lavorano in questi gruppi poi vanno ad abitare nel Valdarno o comunque fuori dal Chianti Classico, dove possono pagare affitti umani e spendere meno per tutto. Occorrerebbe ripensare profondamente a tante cose perché quando si parla di rispetto per un territorio c’è anche questo aspetto da mettere in prima fila.

Invecchiato IGP: Guicciardini Strozzi - Vin Santo 1968


di Roberto Giuliani

Il nostro è un mondo strano, certamente in declino, del resto tutti ne siamo corresponsabili, ogni nostra azione, ogni nostra “scelta” o rinuncia, a volte per puro disinteresse o per semplice pigrizia, produce un’inevitabile e non sempre prevedibile conseguenza. Nessuno ci ha imposto di fare acquisti nei centri commerciali, dove girano sempre gli stessi marchi internazionali, che spesso delocalizzano la produzione per guadagnare di più mantenendo gli stessi prezzi di vendita e proponendoci gli stessi prodotti in qualunque città abitiamo, con la conseguente, disastrosa, morte dell’artigianato di cui, a buon diritto, avremmo dovuto andare fieri e contribuire a mantenere vivo e laborioso.
No, la scusa della poca disponibilità economica non regge, perché basta scendere nei sotterranei parcheggi per notare SUV costosi, coupé dai 50mila in su, che non sono certo dimostrazione di grandi difficoltà economiche. Inoltre i capi e gli oggetti acquistati non hanno neanche lontanamente la qualità e la durata di un buon prodotto d’artigianato, con conseguente spesa più frequente e, quindi, risparmi solo immaginari.


Poi ci sono le mode, anche queste non dettate da noi, ma sicuramente subite senza batter ciglio, così ti rendi conto che anche nel mondo del vino il processo è lo stesso: per quanto ci siano i resistenti (no, non parlo dei piwi ma di persone), la maggioranza segue l’andamento del mercato. Lo abbiamo visto con le barrique e i vitigni internazionali prima, con le anfore e gli “orange” poi, con i vini potenti, grassi, ricchi, concentrati prima e con i vini meno alcolici, più serbevoli oggi. Abbiamo visto tipologie vivere tempi di gloria, altre scomparire. Una di queste è indubbiamente il Vin Santo, che in Toscana è da tempi antichi prodotto in moltissime zone, ma oggi fatica a trovare estimatori, appassionati, ristoratori disposti a metterlo in carta
.

Eppure, quando è fatto con la cura che gli è dovuta, è in grado di competere con i più famosi vini dolci al mondo. Come nel caso di questo straordinario 1968, proveniente dalle cantine della millenaria famiglia Guicciardini Strozzi in quel di San Gimignano. Un Vin Santo che ti mette in crisi seria, che ti fa prendere coscienza di quanto possa essere folle lasciar morire questa tipologia di vino; perché non è fatto per essere bevuto distrattamente, in fretta pensando già al conto, ma in realtà chiede orgogliosamente e a buon diritto attenzione, parla ai sensi più reconditi, va ben oltre il naso e il palato, ti tornisce e ti rapisce, creando un’atmosfera del tutto particolare, fra te e lui, nessun altro.

Irina Guicciardini Strozzi 

A 56 anni dalla vendemmia ti spiazza subito con un’acidità ancora vibrante e una dolcezza davvero ben mascherata, perché se da una parte puoi cogliere il fico in confettura (non secco), dall’altra c’è un’arancia candita che porta il contributo citrino, passando per la noce, il miele di castagno e mille altre sfumature fino al tabacco da pipa e al cioccolato, sempre in movimento e trasformazione. Un sorso che ti accoglie ma con mano ferma ti mostra tutte le sue sfumature, rendendo quel momento semplicemente unico e indimenticabile.


Non seguite la corrente, andate a caccia di questi vini, di cui lo Stivale è ancora ricco, e godeteveli nel modo che preferite, ma sempre con la consapevolezza che dietro c’è un lavoro meticoloso, fatto di produzioni minime e lunghe attese in caratelli che forniranno l’impalcatura per uno dei tanti, magnifici, prodotti artigianali di cui dobbiamo andare fieri.

Cantine di Marzo - Fiano di Avellino 2020


di Roberto Giuliani

Da questa cantina fondata da Scipione Di Marzo nel 1647, un Fiano proveniente da Lapio dall’impatto deciso e profondo di erbe aromatiche come mentuccia e timo, slanci agrumati di mapo, poi pesca e susina; palato salino, quasi salato, intenso.


Beva davvero trascinante, lunghissimo.

Casa Lucii - Verticale Vernaccia di San Gimignano Riserva Mareterra 2019-2013


di Roberto Giuliani

Reduce da quattro giorni passati a San Gimignano, in occasione di Regina Ribelle, la nuova versione dell’Anteprima della Vernaccia che si svolgeva nel mese di febbraio e, finalmente è stata spostata alla seconda metà di maggio, permettendo alla stampa di degustare dei vini con qualche mese di bottiglia, decisamente più leggibili e apprezzabili, ho avuto modo di fare visita all’azienda Casa Lucii.


Prima di raccontarvi della verticale, ci tengo a dire che Regina Ribelle è in un certo senso un evento rivisitato, poiché non si svolge più in una sola giornata, ma ha ampliato il proprio raggio d’azione permettendoci di fare visite programmate ad alcune delle aziende partecipanti (quest’anno 37). Degustare un vino senza conoscere chi lo fa e il territorio dove nasce, secondo me è come comporre un puzzle privo di alcuni pezzi fondamentali, a meno che non si pensi che l’assaggio di un vino sia esclusivamente un fatto tecnico, in un certo senso asettico. Beh, la cosa stona e molto, perché non si può negare che il vino sia anche cultura, storia, tradizioni, non a caso il termine “terroir” unisce l’uomo, il vigneto, il clima e la zona geografica che contribuiscono a dare una precisa identità al vino.


Conoscendo il territorio, i suoli, le altitudini, i portinnesti, l’età delle viti, dialogando con il produttore, vengono alla luce una serie di aspetti che spiegano certe caratteristiche che troviamo nel vino, la sua diversità da altri, portandoci a valutarlo con più consapevolezza, a capire le ragioni di certe percezioni che altrimenti potremmo considerare a priori negative, solo perché non corrispondono alle nostre aspettative. Insomma, conoscevo la Vernaccia di San Gimignano Riserva di Lorenzo Lucii, ma solo nella sua veste giovane, anche se c’è da dire che da tempo lui ha scelto di proporre il vino dopo quasi quattro anni dalla vendemmia.

Famiglia Lucii

Fatto sta che alla cena di gala del 17 maggio nel bellissimo Chiostro di S. Agostino, me lo trovo seduto a fianco, così si chiacchiera un po’, gli dico che la 2019 mi è piaciuta molto, anche se il legno deve ancora assorbirsi e la strada che intraprenderà sembra ancora incerta.
Lorenzo, senza se e senza ma, mi propone di passare da lui la mattina dopo per fare una bella verticale, così mi rendo meglio conto delle potenzialità e caratteristiche di questo vino.


Non me lo sono fatto ripetere due volte, alla 9.30 del 18 mi sono presentato, prima ho fatto un giro dell’azienda, ho visto la vinsantaia, la cantina, le vigne intorno. Poi sono stato lasciato in religioso silenzio a degustare, prima la 2023 e 2022 della Vernaccia annata, poi sei annate della Riserva Mareterra, dalla 2019 alla 2013.

Ed ecco cosa è emerso:

2019 - un inciso: tutte le annate che ho degustato hanno un filo conduttore, già dal colore, che ha una tonalità verdolina sempre presente, molto particolare. Degustata in batteria, la ritrovo altrettanto convincente, caratterizzata da note di frutta esotica, zenzero, miele di acacia, venature speziate, ma anche richiami floreali. Il legno c’è ma non disturba perché non nasconde il carattere della vernaccia (le cui uve provengono da un vigneto in località Cellole). Al palato ha già un discreto equilibrio, l’acidità si sta integrando, così come il legno, emerge anche una piacevole espressione agrumata.

2018 – ecco che già con questo millesimo l’equilibrio è stato raggiunto, tra agrumi e gelso bianco, fieno, una bella finezza espressiva. Al gusto mostra profondità e ampiezza, acidità ben integrata, sembra avere trovato la misura in ogni sua componente, mostrando un corredo di notevole fascino.

2016 – mi è piaciuta molto anche questa versione, dove il frutto non è poi così diretto verso il tropicale, ma sembra più mantenersi legato alle caratteristiche del vitigno, dove l’agrume – qui maturo – ha sempre un ruolo importante. Bocca piena, avvolgente, senza spigoli, progressiva e di notevole persistenza, con un finale decisamente sapido.

2015 – inizialmente mi è parso avere un carattere più diritto, quasi austero, ma questo non è affatto un limite, solo un tratto della sua personalità; al palato ha ancora verve ed energia, elegante, a tratti affiora una nota di mango, la traccia sapida sembra un timbro per questa riserva.


2014 – al contrario di quanto è accaduto con i vini rossi, l’annata piovosa non sembra avere creato particolari problemi a questa Riserva che ha un incedere garbato e a tratti commovente, dalla sua una bevibilità davvero invidiabile che lo rende un vino davvero godibile.

2013 – decisamente diverso da tutti gli altri, Lorenzo mi riferisce che probabilmente quell’anno le uve non le ha prese da Cellole, fatto sta che ha dei profumi importanti, che per la neutra vernaccia sono un bel biglietto d’ingresso. Molto floreale, boschivo, a tratti si coglie la resina. L’assaggio esprime una notevole armonia, ma questo non sottrae nulla alla spinta fresca che riesce a mantenere anche a 11 anni dalla vendemmia. Forse il finale è appena più corto, ma nel complesso davvero un’ottima Riserva.

InvecchiatIGP – Abbazia di Novacella, Alto Adige Valle Isarco DOC Sylvaner Praepositus 2011


Abbazia di Novacella sorge in una frazione di Varna, a poca distanza da Bressanone, in Alto Adige, ed è annoverata tra le più antiche cantine attive al mondo visto che fin dalla sua fondazione, risalente al 1142, il monastero agostiniano, grazie alle generose alle iniziali donazioni del burgravio Reginbert di Säben e di sua moglie Cristina, ha potuto contare su di un cospicuo patrimonio di vigneti nel mezzo dei quali è tuttora immersa.


Oggi Abbazia di Novacella gestisce due aziende agricole: la prima si trova a Novacella e dispone di 6 ettari di vigneti, 12 ettari di frutteti e 0,2 ettari di erbari; la seconda, Tenuta Marklhof, sempre di proprietà del convento, si trova invece a Cornaiano e può contare su 22 ettari a vigneto, 13 ettari a frutteto e 24 ettari a bosco. All'Abbazia fanno inoltre capo 700 ettari di bosco e 400 ettari di pascoli d'altura destinati in parte a riserva di caccia.
La conca di Bressanone, dove si trovano i vigneti posizionati più a nord d’Italia, caratterizzati da grande escursione termica, rappresenta da sempre per l’azienda il terroir d’elezione per la coltivazione di vitigni a bacca bianca come Sylvaner, Müller-Thurgau, Kerner, Grüner Veltliner, Pinot Grigio, Riesling, Gewürztraminer e Sauvignon Blanc.


Per l’odierno InvecchiatIGP vorrei proprio parlarvi di un Sylvaner in purezza figlio di quello storico areale di produzione e appartenente alla linea Praepositus che, come filosofia produttiva, rappresenta le doti di eccellenza e longevità dei vini di Abbazia di Novacella, grazie alla valorizzazione dei migliori cru a disposizione e delle uve che qui riescono ad esprimersi totalmente nella loro complessità aromatica.


Diciamolo subito, così come tanti vitigni a bacca bianca piantati in Italia, anche il Sylvaner non gode di una grande nomea in termini di capacità evolutive per cui trovare una 2011 in stato di grazia non può che non farmi piacere avvalorando la tesi che, probabilmente, nel nostro Paese ci vorrebbe uno sforzo comunicativo importante per far capire che spesso e volentieri beviamo vini bianchi troppo giovani a cui non si fornisce il giusto tempo uscire fuori in tutta la loro bellezza.


La “prova provata” di quanto appena scritto si concretizza senza dubbio in questo “vecchio” Sylvaner che, dopo 13 anni di riposo in bottiglia, come una bellissima farfalla, spiega le sue ali donando ricchezza aromatica che svela ricordi di giglio, spezie orientali, frutta esotica e ritorni minerali. In bocca ha ancora tantissima polpa e trama perfettamente bilanciata espressa in pingue morbidezza sostenuta da sferzante acidità. Completa il quadro gustativo un finale su toni floreali.

Cantine Brugnano - Zibibbo Terre Siciliane IGT 2023


I fratelli Francesco e Giuseppe Brugnano, giovani vignaioli di Partinico (PA), producono vini dalla forte identità territoriale come questo zibibbo secco, floreale e dal sapore iodato, che da ora in poi sarà la mia risposta, in salsa sicula, al più noto abbinamento tra frutti di mare e Muscadet francese.

Almatò, il ristorante romano dove vige la regola del tre


Almatò, nato a gennaio 2020 quando la pandemia era appena alle porte, è un progetto ristorativo che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, oggi sta diventando sempre più punto di riferimento nel panorama ristorativo della Capitale grazie ad un giusto connubio tra sperimentazione culinaria, rispetto della tradizione e buona dose di entusiasmo, misto ad incoscienza, visto che il locale è gestito da tre amici poco più che trentenni.

Alberto, Tommaso e Manfredi

La sala

Situato nel tranquillo quartiere Delle Vittorie, a metà strada tra il centro storico e la movida di Roma Nord, Almatò devo il suo nome dall’unione dei nomi di Alberto Martelli (socio ristoratore), Manfredi Custoreri (restaurant manager) e Tommaso Venuti che, conosciutesi sui campi di rugby, hanno deciso di dar sfogo alla loro passione per la buona cucina dato vita a un locale che sin dagli inizi ha saputo distinguersi per l’originalità della proposta culinaria, in uno spazio curato nel dettaglio per risultare elegante e accogliente.


La nostra cucina è cambiata molto nel tempo: puntiamo ora su piatti con la giusta dose di eclettismo, dal gusto intenso e al tempo stesso raffinato, ma senza dimenticare chi siamo, portandoci quindi dietro il valore della tradizione” sottolinea Tommasi Venuti, classe 1992, con un passato tra le cucine di Villa Crespi e con Heinz Beck a La Pergola Rome Cavalieri.


Da Almatò sembra vigere la “Regola del 3” perché oltre i tre volti e le tre anime dei soci fondatori sono tre anche i percorsi di degustazione, rispettivamente da 5, 7 e 9 portare a 75, 100 e 120 euro, e tre opzioni per ogni tipologia di portata che il cliente può scegliere nel menù alla carta. Il motivo? Semplice, rendere snello e dinamico il lavoro in cucina fornendo allo chef tutto il tempo creare i suoi piatti partendo da poche materie prime stagionali di qualità altissima.


La sala, elegante ed essenziale nei suoi caldi colori, è il regno di Riccardo Robbio, maître e sommelier, campano classe 1989, giunto a questa nuova sfida professionale dopo gli importanti trascorsi da Kai Mayfair a Londra, Imàgo all’Hassler, La Pergola e Pipero a Roma. A lui spetta curare i circa 20 coperti del locale proponendo interessanti abbinamenti grazie ad una carta dei vini che, come il menù, è abbastanza snella contando al massimo un centinaio di etichette che fanno riferimento essenzialmente a grandi cantine sia italiane che internazionali come, ad esempio, Bollinger, Mastroberardino e Tasca d’Almerita.

Uno degli Appetizer

Durante la mia ultima visita al locale ho optato per il percorso di degustazione da cinque portate con abbinamento vini incluso, che è iniziato con tanti deliziosi piccoli appetizer tra cui spiccano un ottimo calvofiore in tre consistenze (arrosto al burro nocciola, in crema alla base, in carpaccio, avvolto in salsa tartara e kefir) e il classico uova di quaglia alla monachina con crema di tuorlo d'uovo, da sempre presente nel menù di Almatò.

Uova di quaglia alla monachina

La tradizione romana e la cucina del recupero, temi cari allo chef, sono esaltati dalla proposta culinaria successiva costituita da un golosissimo maritozzo alla picchiapò di agnello accompagnato da maionese al wasabi e sedano croccante. Da mangiare rigorosamente con le mani! 

Maritozzo alla picchiapò

L’abbinamento perfetto, grazie a Riccardo, mi porta in Franciacorta con un ottimo 61 Rosé di Berlucchi.


Arriva il primo piatto e si inizia ad usare la forchetta con la tagliatella, coniglio, beurre blanc all’arancia e olive, un piatto delicato e bilanciato il cui ragù rimasto nel piatto è vittima, successivamente, di una irrinunciabile scarpetta fatta con la buonissima focaccia calda preparata da Tommaso poco prima il nostro arrivo. 

Tagliatella, coniglio, beurre blanc all’arancia e olive

Il piatto è stato abbinato ad un calice di Ferentano (100% roscetto) prodotto dalla famiglia Cotarella.


Il secondo piatto ci porta invece nella zona di Campagnano di Roma da dove proviene il succulento manzo 30 mesi alla brace con fave, piselli e carciofi, omaggio alla primavera e alla vignarola romana, il tutto accompagnato da una kombucha prodotta con i baccelli dei piselli e le foglie esterne del carciofo. Piatto interessantissimo che sintetizza un po’ la filosofia culinaria di Almatò fondendo in un'unica proposta ricerca, tradizione, leggerezza e attenzione alla cucina del recupero. Chapeau!

Manzo 30 mesi

L’abbinamento al calice proposto dal sommelier è stato un Etna Rosso DOC “Ghiaia Nera” (100% nerello mascalese) di Tasca d’Almerita. Matrimonio perfetto.


Dopo la mousse di melanzane al cioccolato, predessert che strizza l’occhio al sud Italia, arriva Gianni, il dessert che è anche uno dei manifesti gastronomici di Almatò. Presente in menù sin dall’apertura del ristorante, è un omaggio a Manfredi, Gianni per gli amici, e alle sue passioni ovvero al sigaro, che in questo caso è di cioccolato aromatizzato al tabacco, e al gelato che Tommaso interpreta al gusto variegato di nocciola e cacao con fondo di biscotto alla nocciola.

Gianni

Chiusura golosa e per nulla stucchevole, degno finale di una cena che mi ha lasciato grandi speranze per questi tre ragazzi che portano finalmente un po’ di aria fresca all’interno del panorama ristorativo della Capitale. Bravi!

Almatò
Via Augusto Riboty 20/c – Roma
Tel: 06/69401146
www.almato.it