di Luciano Pignataro
Da
Barbera del Sannio a Camaiola, ecco il cambio all’anagrafe di uno dei vini più
moderni, allegri, bevibili, tipici della nostra amata regione. L’areale di cui
parliamo è Castelvenere, piccolo paese appollaiato sulla Valle Telesina che ha
una caratteristica, quella di essere il centro più vitato della Regione.
Questo
vino rosso è il vino della festa, si abbina alla Scarpella, tipica lasagna di
Carnevale di cui ogni casa conserva il suo prezioso ingrediente segreto. E’
moderno perché leggero, profumato, abbinabile al cibo, immediatamente
riconoscibile anche se non si è esperti di vino. Per anni i produttori hanno
dovuto spiegare ai loro interlocutori che non era la Barbera del Piemonte anche
se portava lo stesso nome. Come Chiamarsi Maradona e spiegare prima ancora di
farsi conoscere, che non sei parente del famoso calciatore e che addirittura
non hai mai tirato un calcio a un pallone.
L’operazione
è partita da Castelvenere, il «paese più vitato del Sud», dove recenti ricerche
hanno portato alla luce la coltivazione, agli inizi del ‘900, di una varietà
chiamata camaiola, il cui nome scompare proprio quando prende ad affermarsi – a
partire dallo stesso paese – quello di barbera. La storia è lunga, si intreccia
con l’emigrazione temporanea nel Nord America di quelli che poi diventarono i
primi produttori-imbottigliatori castelveneresi, che Oltreoceano conobbero la
grande notorietà del nome barbera, allora il vino più famoso al mondo. Si
intreccia con vicende religiose, considerato che proprio in quei decenni era
forte l’attivismo in questo paese del Sannio di una cellula valdese (con un
forte scambio con il Piemonte). E si intreccia – vuole il caso – con la
necessità di quei vignaioli di distinguere il proprio prodotto rispetto al
«vino Solopaca», che in quei decenni andava affermandosi con forza, anche
grazie al fatto che quella di Solopaca era la stazione ferroviaria da cui
partivano i vini diretti al Nord e Oltralpe, dove la fillossera aveva infierito
sulle vigne.
Camaiola,
riferendosi ad un termine provenzale (la lingua ufficiale dei Valdesi),
identificherebbe una varietà capace di «macchiare di nero», un’uva dall’alto
potere colorante, proprio come questa barbera che barbera non è, utilizzata nei
decenni scorsi per «colorare» i vini, proprietà esaltata anche con tecniche di
concentrazione (sul fuoco o infornata secondo l’antica tecnica detta
«acinata»). Quest’uva, fino a quando la maggior parte del prodotto dell’area
(la «cantina della Campania») veniva smerciato sotto forma di frutto, veniva
trasformata esclusivamente in loco, a causa delle caratteristiche della sua
buccia che ne rendevano praticamente impossibile il trasporto.
Nel
corso del XX secolo c’è stata molta confusione su nomi dei vini, il brutale passaggio
dalla civiltà rurale a quella urbana maturato nel corso di due guerre mondiali
ha portato ad una sorta di perdita di memoria collettiva sulle cose e sui
luoghi. Spesso i nomi venivano dati per vendere più facilmente l’uva quando
ancora si ragionava sulla quantità, con i produttori sanniti che esponevano il
raccolto nei punti vendita lungo la valle.Ma la viticoltura di qualità e di
precisione ha ricostruito lentamente questa storia, quasi un lavoro da
archeologici. Dare un nome preciso al vino, magari orecchiabile e facilmente
memorizzabile, è il primo passo del suo successo commerciale e per realizzare
una operazione simpatia tra gli appassionati. Pensateci bene: non ha più chic
dire che “ho bevuto un bicchiere di Camaiola” invece di Barbera del Sannio? Non
fosse altro per non sentire la risposta: “e perché non quella del Piemonte, è
diversa? E tu lì a spiegare che non si tratta solo di un clone, ma di un
vitigno completamente diverso da quello del Nord.
Dunque la svolta è davvero
importante anche se realizzata con anni e anni di ritardo, tale da rendere
impossibile cogliere l’attimo del grande boom del vino negli anni ’90. Ma tutto
sommato, a pensarci bene, non tutto il male viene per nuocere per questa
operazione del vino si realizza in un momento in cui tutti cercano la verità
nel bicchiere. E in un contesto in cui la maggioranza delle persone che bevono
sono stanche di vini pesanti, troppo strutturati ed eccessivamente alcolici e
cercano più semplicità in primo luogo perché sono cambiati gli stili di vita,
poi perché è profondamente mutato anche il nostro approccio al cibo,
decisamente alleggerito e diretto verso l’orto-mare tipicamente campano e
mediterraneo.Ben venga allora un operazione verità su un vino tipico, ben
circoscritto in un’area di produzione, che corrisponde perfettamente alle nuove
esigenze dei consumatori più acculturati e attenti alle novità. Le parole sono
importanti urla Nanni Moretti in Palommella Rossa. Sì, soprattutto in un
momento storico in cui l’estetica sembra essere tutto e il contenuto niente.
Qui l’operazione che si è realizzata grazie all’intelligenza dei produttori è
esattamente opposta: si dà un nome giusto ad una storia vera, non inventata.
Quella dei bravi viticultori di Castelvenere che hanno tenacemente conservato
questa uva nel corso degli ultimi decenni.
I PRODUTTORI
La
storia in bottiglia inizia nel 1974, per volontà del castelvenerese Salvatore
Venditti, anima di Anna Bosco, azienda oggi curata dai figli Filippo e Mario,
che presenta le etichette Don
Bosco, Armonico e Ororosso e un rosato.Barbarosa è invece il
nome del rosato di Simone Giacomo, una delle ultime cantine nate a
Castelvenere, che produce anche la versione rosso.
Vendemmia
2017 in commercio per la Dop Sannio di storici produttori castelveneresi: Barbetta di Venditti,
anche nella versione Assenza (senza solfiti, lieviti e tannini aggiunti); Castelle, Torre Venere, Vigne Sannite;
Petrare; Foresta; Scompiglio; Mario Pacelli; Thelemako di Fontana delle Selve;
Anima Vennerese, prima versione Dop alla Vinicola del Sannio.
Igp è Radici di Di Santo, Neropiana
e Costa delle viole delle cantine guardiesi Morone e Iannucci e
Vianova della paupisana Torre
del Pagus. Poi le Dop Sabba della guardiese Grotta delle
Janare, de La Vinicola Del
Vecchio (Telese) e della Cantina
di Solopaca; a La Guardiense le uve vengono utilizzate per il
Quid in versione rossa. Non d’annata le etichette Dop di Fattoria Ciabrelli
(Rapha’el è 2015) e della Vinicola
del Titerno dei fratelli Alfredo e Talio Di Leone attiva a
Massa di Faicchio. Lasta but not least, Grotta di Futa de ‘a Cancellera