Avenida Calò celebra a Roma il matrimonio tra pizza e vino


Negli ultimi anni, l'abbinamento pizza-vino sta diventando una tendenza affermata nelle pizzerie italiane, elevando l'esperienza gastronomica oltre la tradizionale birra.
Antesignani di questa nuova tendenza sono stati sicuramente Francesco Calò e sua moglie Chiara Maggio che, dopo varie peripezie e in cerca di un futuro lavorativo fuori dall’Italia, hanno aperto nel 2016 nel centro di Vienna la loro Via Toledo Enopizzeria, un locale ampio, elegante e accogliente che nel giro di qualche anno riesce ad affermarsi come la migliore pizzeria di tutta l’Austria ottenendo importanti riconoscimenti internazionali. 

Francesco Calò e Chiara Maggio

Inizialmente è stato davvero difficile per noi – sottolinea Francesco Calò – poiché, come facile pensare, in Austria il classico abbinamento con la pizza, per storicità e cultura, è ovviamente con la birra. Aprire una Enopizzeria è stata sicuramente una sfida ardua ma, grazie anche alla caparbietà di mia moglie Chiara, appassionata di vino, pian piano siamo riusciti ad affermarci e da venti coperti al giorno che facevamo siamo arrivati, grazie anche al premio come “Miglior pizzaiolo italiano nel Mondo” per il campionato mondiale Pizza Doc, a sfornare centinaia di pizze al giorno abbinandolo ai grandi vini italiani”.

Sala interna

Spinti dal desiderio di espandersi, Francesco e sua moglie stavano per aprire una nuova pizzeria a Madrid, ma un imprevisto li ha diretti verso Roma. Durante una vacanza in Puglia, entrambi ricevettero contemporaneamente delle telefonate. La moglie apprese della disponibilità del locale a Madrid, ma Francesco la interruppe con una notizia più allettante: un'opportunità si era presentata a Roma, vicino al quartiere Flaminio, per un locale per il quale aveva già fatto un'offerta, lasciando ai proprietari 48 ore per decidere. Il seguito è l'imminente apertura di Avenida Calò a Roma, prevista per metà dicembre 2024 in Viale Pinturicchio 40. L’Enopizzeria Avenida Calò, al cui interno contiamo un massimo di 50 coperti, si presenta luminosa ed accogliente, col colore verde che caratterizza gran parte degli spazi valorizzati anche dalle ceramiche di Vietri con le maioliche realizzate dal ceramista Giovanni De Maio e Cristina Celestino.


Una volta seduti al tavolo, assieme al piccolo benvenuto accompagnato da un calice di metodo classico o da un drink analcolico, il personale di sala, tutte ragazze giovani e bravissime, fornirà al cliente il menù relativo alla proposta gastronomica con relativa carta dei vini.


Senza entrare troppo nel discorso tecnico degli impasti, basta sapere che Francesco usa un blend di farine da lui creato caratterizzato da alta percentuale di crusca (Farina Intensa), Avenida Calò propone in carta 26 tipologie di pizza divise tra classiche, doppia cottura e “revolution” che sono le pizze in cui Francesco Calò dà libero sfogo alla sua creatività. In aggiunta, per chi vorrà, ci sarà anche la possibilità di fare un percorso degustazione, entrando nel vivo della visione creativa di Francesco, che si compone di sette portate (Euro 55) per un massimo di 4 persone per tavolo. Particolarità di questa degustazione è che ogni portata viene servita sul “piatto mano”, fatto in ceramica e realizzato appositamente per Francesco Calò da Vincenzo Del Monaco, porcellanista storico di Grottaglie.

Piatto mano

Al percorso degustazione ma, estendendo il discorso anche alle singole pizze, è possibile aggiungere anche il pacchetto wine pairing (Euro 25 p.p.). In questo ambito il merito è tutto di Chiara Maggio che propone una carta di oltre 130 etichette che, posso dirlo senza piageria, rappresenta una lista di vini affatto scontata e ricca di tante “chicche” anche per i sommelier più smaliziati come me. Il ruolo importante del vino da Avenidà Calò è teorico ma, soprattutto, pratico visto che, sfogliando il menù, di fianco ad ogni piatto, che sia una montanarina, una pizza o un primo piatto, quest’ultimo a cura dello chef Antonio Giugliano, Chiara indica sempre il vino che è possibile prendere in abbinamento, un pairing studiato abilmente che metterà a suo agio anche i neofiti di questa bevanda alcolica.

Montanarina con tartare di Fassona

Il mio percorso di degustazione, scelta che consiglio a tutti coloro che vogliono conoscere la vera anima di Avenida Calò, è iniziato con una Montanarina con tartare di fassona, maionese salata, nocciole del Piemonte e cicoria selvatica, accompagnato egregiamente da un Crémant d’Alsace Blanc de Blanc di Vincent Stoeffer


La prima pizza “Revolution” è l’imperdibile Nero di Marinara con San Marzano DOP datterino rosso, aglio nero di Voghera e origano di montagna (Pizza dell’anno 2024 per la Guida 50 Top Pizza “Latteria Sorrentina Award”).

Nero di marinara

L’abbinamento, anch’esso azzeccatissimo, è col Negramaro Rosato “Tacco Rosa” di Tenute Stefàno


Un’altra pizza strepitosa che mi arriva è la Tre Consistenze di Friarielli (Fiordilatte, provola, salsiccia fresca, crema di friarielli, friarielli spadellati, friarielli croccanti, basilico, Olio EVO) la cui saporosità e persistenza è ben bilanciata dal Franciacorta Pas Dosè di Ca’ dei Ronchi.

Tre consistenze di friarielli


Si cresce di struttura con la Genovese di Coda (Fiordilatte, Genovese di coda, pomodoro confit, pecorino romano, basilico, Olio EVO), chiaro omaggio a Napoli la cui struttura e avvolgenza ben si sposa con la Barbera d’Asti DOCG de La Gironda.

Genovese di coda


L’abbinamento migliore, anche per la qualità delle proposte enogastronomiche, arriva con la pizza successiva ovvero la Takumi No Umai (Tartare di ricciola, zucca Hokkaido, Katsuobushi, cipolla rossa, Olio EVO) il cui gusto, davvero particolare ed intenso, è supportato alla grande dall’Aranzu (Vermentino 80%, Nuragus e Semidano 20%) della cantina Raica, una piccolissima cantina sarda che ho appena scoperto grazie alla bravura di Chiara.

Takumi No Umai


Il vino più importante del pairing, un ottimo Chardonnay borgognone prodotto da Pierre Ponnelle, lo abbiamo abbinato al Sogno di Bottarga (Fiordilatte, Cosacavaddu ibleo stagionato 12 mesi, Bottarga di Tonno Rosso “Testa”, limoni costa d’Amalfi marinati in aceto di mele “Il Tenello”, burro Fattorie Fiandino, Olio EVO), ultima pizza del mio menù di degustazione che avrei preferito meno “spinta” sulle note agrumate che un pochino coprivano la bontà della bottarga che è passata in secondo piano.

Sogno di bottarga


La degustazione si chiude in dolcezza con una montanarina mirtilli e cannella accompagnata da un mini-cannolo di ricotta che ho preferito abbinare ad un Amaro dell’Erborista prodotto da Varnelli.

Montarina dolce e mini cannolo

Alla luce dell’esperienza appena descritta posso tranquillamente sostenere che Avenida Calò è un locale davvero sorprendente e per certi versi unico, rappresenta infatti un nuovo modo di intendere la pizzeria, un luogo dove la passione per la pizza si fonde con la cultura del vino e la ricerca della qualità. Un locale che, grazie alla sua atmosfera accogliente e alla sua proposta gastronomica innovativa, è destinato a diventare un punto di riferimento gourmet di Roma Nord. Prosit!

CONTATTI
Avenida Calò (aperta pranzo e cena)
Viale Pinturicchio 38, 40, 42 - Roma
Tel. 06 89238209
www.avenidacalo.it

"Chef sotto le Stelle": al via la terza stagione al DoubleTree by Hilton Rome Monti


Il DoubleTree by Hilton Rome Monti si prepara ad accogliere una nuova e imperdibile stagione di Chef sotto le Stelle, il format dell’hotel che propone una serie di eventi dedicati alla ristorazione fine dining, ideato e sviluppato in collaborazione con la consulente Giusy Ferraina. Dopo il successo delle precedenti edizioni, Chef sotto le Stelle ritorna con un ciclo di quattro nuovi appuntamenti per offrire ai suoi ospiti esperienze enogastronomiche uniche nel loro genere. A fare da sfondo a queste serate “stellate”, il suggestivo Rooftop del DoubleTree by Hilton Rome Monti, dove il Mùn Rooftop Cocktail Bar all’ottavo piano offre una vista mozzafiato sulla Basilica di Santa Maria Maggiore e il raffinato Mamalia, il ristorante con cucina a vista situato al piano terra, pronto ad accogliere gli ospiti in un’atmosfera elegante e avvolgente.


Si parte lunedì 26 maggio con la prima cena curata dallo chef Paolo Gramaglia del ristorante President di Pompei, che porterà al DoubleTree by Hilton Rome Monti i sapori della sua terra, tra il mare di Napoli e il Vesuvio.

A giugno il secondo appuntamento è con Salvatore Tassa, il cuoco-poeta una stella Michelin nel borgo di Acuto, in provincia di Frosinone, con il suo Colline Ciociare, che propone una cucina lontana da ogni moda e da ogni definizione, amante del mondo vegetale e delle tecniche di estrazione a freddo.

Il terzo appuntamento, previsto nel mese di settembre, vedrà protagonista il bistellato Michelin Moreno Cedroni, del ristorante La Madonnina del Pescatore a Senigallia, con la sua cucina di mare contemporanea e responsabile, capace di stupire ed emozionare.

Il quarto e ultimo appuntamento è in calendario a ottobre e vedrà cimentarsi come ospite il giovane e talentuoso chef Luca Abbruzzino, con la cucina provocatoria e visionaria del suo nuovo ristorante Oltre a Lamezia Terme (CZ), new entry con una stella della Rossa e che si aggiunge alla storica insegna di famiglia “Abbruzzino” a Catanzaro (sempre una stella Michelin).

Il calendario di questa terza edizione riunisce quattro nomi molto eterogenei, che con la loro cucina hanno tracciato nuove rotte sperimentali e rinnovato l’idea dell’alta gastronomia giocando con tecniche, materie prime, identità territoriali e ribaltando in alcuni casi il dogma della tradizione. Quattro appuntamenti che si prospettano tappe di un viaggio non solo di gusto, ma anche di scoperta di quattro territori diversi, con le loro storie e le loro tipicità, che promette di incantare i palati e accendere la magia delle notti romane.

Ogni cena sarà un viaggio culinario unico, con un percorso di degustazione ideato personalmente dallo chef stellato ospite che sarà affiancato dal resident chef Giuseppe Fiorella e dalla sua brigata di cucina. Ad accompagnare ogni piatto, un wine pairing pensato ad hoc in collaborazione con cantine del territorio, per omaggiare lo chef ospite e valorizzare vitigni autoctoni e realtà enologiche d’eccellenza.

Elena Prandelli, direttrice del DoubleTree by Hilton Rome Monti, ha commentato: "Con Chef sotto le Stelle, continuiamo a creare esperienze culinarie uniche, portando l'eccellenza della ristorazione stellata nel cuore di Roma. Siamo entusiasti di ospitare grandi nomi della cucina italiana come Cedroni, Gramaglia, Tassa e Abbruzzino, ambasciatori di quattro differenti regioni e interpreti di una cucina d’avanguardia. Per questa terza stagione abbiamo scelto di esplorare territori ricchi di tradizione e sapore molto particolari come la Ciociaria, il Vesuvio e la Calabria. Prevedo delle esperienze intense sotto molti punti di vista. Come per ogni edizione ci teniamo particolarmente alla presenza del nostro resident chef Giuseppe Fiorella, che vuole essere un punto d’incontro tra il nostro mondo, le atmosfere del Mùn e del Mamalia, con quello degli chef ospiti che sono certa sapranno regalarci grandi emozioni e creatività”.

Il DoubleTree by Hilton Rome Monti: la location di Chef sotto le Stelle

Siamo a Roma, nel quartiere Monti, alle spalle di Santa Maria Maggiore e proprio nel punto di ingresso di uno dei rioni più iconici della capitale. Il DoubleTree by Hilton Rome Monti si affaccia su Piazza dell’Esquilino e dal quartiere prende pienamente ispirazione, un mix di contemporaneità glamour e stile industriale, ma anche una grande scommessa su una variegata offerta ristorativa, aperta sia agli ospiti che al pubblico esterno, con il MiT Food & Coffee Brewery giovane e vivace bistrot con patio sulla piazza; il Mamalia accogliente ristorante con cucina a vista, che propone tradizione italiana e romana rivisitate in chiave moderna dal resident chef, per concludere poi con una ascesa all’ottavo piano dove troviamo il Mùn Rooftop Cocktail Bar con vista sulla cupola della Basilica di Santa Maria Maggiore e un’atmosfera rilassante e lontana dal caos romano.


Per informazioni e prenotazioni:

InvecchiatIGP: Mocaro Terre Cortesi - Castelli di Jesi Riserva Classico “Vigna Novali” 2013


di Lorenzo Colombo

Quando abbiamo prelevato questa bottiglia dalla nostra cantina per redigere l’articolo della rubrica del sabato “InvecchiatIGP” il primo pensiero è andato alla recente vicenda che ha vissuto questa storica azienda, ovvero la sua messa in liquidazione avvenuta solamente pochi mesi fa. Il ciclo di questa azienda si è compiuto tutto in sessant’anni, fondata nel 1964 ad opera di un piccolo gruppi di viticoltori che pochi anni dopo, nel 1970, costruirono la cantina di Montecarotto – da cui il nome dell’azienda- e che già in tempi non sospetti, ovvero nel 1980, sperimentarono la viticoltura biologica, si è appunto concluso il 25 ottobre 2024, quando il Tribunale di Ancona l’ha dichiarata fallita.
Un vero peccato, per una delle più grandi cantine cooperative d’Italia i cui oltre 600 soci gestivano 1.200 ettari di vigneti e la cui produzione annuale era di circa 10 milioni di bottiglie, coprendo circa un quarto di tutto il Verdicchio prodotto in regione.
Azienda i cui vini sono stati spesso premiati dalle più importanti guide enologiche e hanno fatto incetta di medaglie nei più prestigiosi concorsi enologici mondiali.
Nel 2022 Moncaro era stata premiata al Vinitaly come miglior Cantina d’Italia, sempre nello stesso anno il Verdicchio Superiore Fondiglie era stato giudicato il miglior vino bianco d’Italia e nell’ottobre 2023 l’allora vicepresidente Donatella Manetti aveva ricevuto a Firenze il premio “Women Value Company” riservato alle donne e alle imprese “che guardano al futuro”. Ma non vogliamo ulteriormente soffermarci su questa brutta vicenda, sul web sono infatti numerosissimi gli articoli che ne tracciano i motivi della repentina caduta, torniamo quindi all’argomento della nostra rubrica ed andiamo ad assaggiare questo vino che compie 12 anni d’età.


Il Vigna Novali appartiene alla linea Cru, la più prestigiosa linea aziendale e prende il nome dal vigneto sito in Contrada Novali, a Castelpiano. Il vigneto, che ha un’età variabile sdai sette ai 35 anni, è posto tra i 300 ed i 330 metri d’altitudine su un suolo tendente al calcareo composto in prevalenza da sabbie e argille con presenza di pietre, la sua esposizione è a 270° e spazia da nord-ovest a sud-est.
Il sistema d’allevamento è a capovolto ed a Guyot bilaterale, la densità d’impianto varia dai 1.700 ai 3.500 ceppi/ettaro e la resa è di 70 q.li/ha. La vendemmia è tardiva e parte delle uve vengono raccolte in surmaturazione con presenza di botrytis cinerea. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio come pure l’affinamento, sulle fecce per 10 mesi, solo una piccola parte del vino matura in barrique d’Allier, seguono quindi almeno 18 mesi di sosta in bottiglia.


Il vino si presenta con un colore dorato, intenso e luminoso, sembra olio. Mediamente intenso al naso, ampio il suo spettro olfattivo, vi si colgono sentori di frutta gialla matura e frutta tropicale, fiori secchi, fieno, note nocciolate e vanigliate, erbe aromatiche essiccate, leggerissimi accenni idrocarburici, leggere note di legno e d’agrumi maturi. Strutturato e asciutto al palato, ancora buona la sua vena acida, agrumi maturi, pesca e albicocca, accenni nocciolati e di noci e mandorle tostate, ricordi di legno, lunga la sua persistenza.

Locatelli Caffi - Terre del Colleoni Doc Incrocio Manzoni “Ducale” 2023


di Lorenzo Colombo

Frutta tropicale fresca, ananas, note d’agrumi, pompelmo, accenni d’idrocarburi queste le prime sensazioni che ci dona questo vino prodotto sulle colline bergamasche. 


In bocca è sapido e con spiccata vena acida, si colgono inoltre leggeri sentori piccanti di zenzero, lunga infine la sua persistenza.

La Valtellina di Paolo Balgera


di Lorenzo Colombo

Quella di Paolo Balgera è un’azienda storica, fondata nel 1885 da Pietro Balgera e giunta, con Luca e Matteo, figli di Paolo, alla quinta generazione. Situata a Chiuro l’azienda possiede sei ettari di vigneti in proprietà nel territorio di tre sottozone, Valgella, Sassella e Grumello e s’avvale inoltre delle uve di alcuni conferitori storici. I vini prodotti da Paolo, che ora ha passato la mano al figlio Luca, sono caratterizzati da un lungo affinamento prima della loro messa in commercio.
Sono 50 mila le bottiglie prodotte annualmente, suddivise su una ventina d’etichette, durante la nostra visita in azienda Paolo ce ne ha fatte assaggiare alcune, soffermandosi in particolare sui Valgella.


La degustazione è comunque iniziata con un vino spumante, ultimo nato, ovvero il VSQ Metodo Classico Rosé “Gèra”, prodotto con uve nebbiolo e frutto di una maturazione sui lieviti per 18 – 24 mesi, vino non millesimato ma le cui uve sono tutte dell’annata 2022. Il nome del vino deriva dal suolo dov’è stato messo a dimora il nuovo vigneto dedicato alla sua produzione, caratterizzato da sabbia e piccoli ciottoli, detti localmente “Gèra”. Questo vino, voluto da Luca Balgera, è stato prodotto per la prima volta in un numero limitatissimo di bottiglie con l’annata 2020 e ha visto un affinamento in in bottiglia di ben 40 mesi prima d’essere sboccato, successivamente, con la seconda annata di produzione, la 2022 da noi assaggiata, Luca ha ridotto di parecchio la sosta sui lieviti e contemporaneamente ha moltiplicato il numero di bottiglie prodotte che sono 2.614.


Visto il risultato ottenuto e confortato dai risultati riscontrati sul mercato Luca ha deciso di impiantare, nel 2024, uno specifico vigneto dedicato alla produzione di questo vino e l’ha messo a dimora sulla riva sinistra dell’Adda, ovvero sulla sponda orobica, a 400 metri d’altitudine, di conseguenza è esposto a nord, la sua conduzione è a Guyot e la sua densità d’impianto è di 5.210 ceppi/ettaro.
Il vino si presenta con un color tra il rosa cipria luminoso di buona intensità ed il salmone. Pulito al naso, fresco, di buona verticalità, si colgono sentori di frutti di bosco, fragolina e ciliegia e note d’agrumi maturi. Fresco, sapido, succoso, verticale, tornano alla bocca i sentori di frutti di bosco, bella la vena acida-agrumata, pompelmo rosa, buona la persistenza. Un vino fresco e dalla piacevolissima beva.

Rosso di Valtellina Doc “450” 2018

Nebbiolo in purezza proveniente da un’unica vigna messa a dimora nel 1960, sitata nel comune di Chiuro si trova a 450 metri d’altitudine -da cui il nome del vino- su suolo sabbioso-limoso, l’esposizione è sud-est, sud-ovest.
Le vendemmia s’effettua a fine settembre inizio ottobre e la resa è di 70 q.li/ettaro.
La fermentazione s’effettua in vasche d’acciaio mentre l’affinamento avviene per la prima parte in botti di rovere da cinque ettolitri dove sosta per un anno sulle fecce fini, prosegue quindi per 36 mesi in vasche d’acciaio e per altri 12 mesi in bottiglia. Il suo costo in azienda è di 15 euro. Il colore è rubino-granato di media intensità.


Bello il naso, fresco, pulito, di buona intensità, dove si colgono sentori di frutta rossa fresca, di ciliegia matura, zucchero caramellato ed accenni di vaniglia. Fresco, succoso e asciutto alla bocca, con trama tannica importante e buona vena acida, tornano i sentori di ciliegia con leggeri accenni vanigliati e di cioccolato, lunga la sua persistenza su sentori di radice di liquirizia. Un bell’esempio di Rosso di Valtellina.

I tre Valgella

La Valgella è la più estesa delle cinque sottozone del Valtellina Superiore, i suoi 140 ettari di vigneti s’estendono da poco dopo Chiuro sino a Tresenda con i vigneti di Quigna, le altitudini sono comprese tra i 350 ed i 650 metri s.l.m., la Valgella è caratterizzata dalla presenza di molti piccoli torrenti che localmente prendono il nome di “valgel” da cui il nome della sottozona. Ne vengono prodotte annualmente circa 5.000 bottiglie per ciascuna etichetta.

Valtellina Superiore Valgella Docg “Maferìn” 2020

Nebbiolo in purezza provenienza da un’unica vigna che ha visto la sua messa a dimora in diversi anni: 1960, 2019, 2021, 2022, 2024, situata tra i 375 ed i 400 metri d’altitudine su suolo sabbioso ha una densità d’impianto di 5.210 ceppi/ha ed è allevata a Guyot con disposizione in maggior parte a ritocchino ed in minor misura a giropoggio. La vendemmia s’effettua nella prima settimana d’ottobre e la resa è di 80 q.li/ha. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio tramite lieviti indigeni e il suo affinamento avviene in più fasi, i primi 12 mesi sosta in botti di rovere da tre ettolitri sulle fecce fini, viene quindi travasato sempre in botti da tre ettolitri dove rimane per altri 12 mesi ai quali seguono ulteriori 18 mesi in vasche d’acciaio e 12 mesi in bottiglia. In azienda viene venduto a 25 euro.


Color granato scarico. Bel naso, intenso, pulito, balsamico, con un bel frutto rosso, ciliegia fresca, vaniglia e leggere note mentolate. Asciutto ed al contempo succoso alla bocca, con bella trama tannica, sentori di ciliegia e liquirizia, media la sua persistenza.

Valtellina Superiore Riserva Valgella Docg “Quigna” 2016

Il nome del vino è quello del toponimo che deriva probabilmente dal latino aquinea, ovvero terreni ricchi d’acqua, qui ci sono gli ultimi vigneti ad est della Valgella.
Il vigneto, messo a dimora nel 1960, è situato tra i 430 ed i 470 metri d’altitudine su suolo sabbioso con componente rocciosa, l’esposizione è sud-est ed il sistema d’impianto è a rittochino, condotto a Guyot con densità d’impianto di 4.650 ceppi/ettaro. La vendemmia s’effettua nella prima settimana d’ottobre e la resa è di 65 q.li/ha. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio con lieviti autoctoni, l’affinamento prevede 12 mesi sulle fecce fini in botte di rovere da 5hl seguiti da 36 mesi sempre in botte di rovere da 5hl, 24 mesi in vasche d’acciaio ed infine12 mesi in bottiglia. 35 euro il suo costo in azienda.


Color granato scarico. Bel naso, fresco, pulito, di buona eleganza e complessità, note fruttate di ciliegia fresca, accenni floreali e di menta fresca. Discretamente strutturato, fresco e succoso, con bella trama tannica e buona vena acida, leggerissima nota piccante, buono l’equilibrio complessivo e lunga la persistenza.

Valtellina Superiore Riserva Valgella Docg “Pizaméi”

Altro vino da singolo vigneto, posto tra i 440 ed i 490 metri d’altitudine su suolo sabbioso con presenza di roccia, esposto a sud è completamente posizionato a giropoggio Di questo vino abbiamo potuto degustare ben tre annate assai diverse tra loro, la 2015, annata in commercio e le 2016 e 2017 che stanno completando il loro affinamento in bottiglia. Il prezzo del vino in cantina è di 35 euro.


2015 – Granato non molto intenso, luminoso. Intenso al naso, balsamico, elegante e di buona complessità, frutto rosso maturo, fiori appassiti, radici, vaniglia, cannella, tabacco. Dotato di buona struttura, con tannino importante che ricorda la pellicina di castagne e spiccata vena acida, sentori di rabarbaro e radici, lunga la persistenza.

2016 – Color granato scarico. Pulito al naso, di buona intensità, balsamico e vanigliato presenta un buon frutto, ciliegia matura e accenni di legno dolce e cioccolato. Fresco e succoso, di buona eleganza, tannino bel gestito, buona vena acida, speziato, vanigliato, note d’agrumi, accenni mentolati, lunga la persistenza. Un vino che pare più pronto rispetto al 2015 ora in commercio.

2017 – La gioventù del vino si coglie già dal colore (o forse è dovuto all’annata) rubino-granato di discreta intensità. Intenso al naso, balsamico, presenta sentori di frutta rossa matura, ciliegia e amarena, accenni floreali, note mentolate e leggeri accenni pepati. Succoso e strutturato, con accenni piccanti di pepe, buona la trama tannica e bella la vena acida, sentori di radice di liquirizia sulla lunga persistenza.

Chiudiamo la nostra degustazione con due Sforzati assai diversi tra loro, più tradizionale il primo (e più elegante secondo noi) e più moderno e strutturato il Solstizio.

Sforzato di Valtellina Docg 2009

Le uve, nebbiolo in purezza, provengono da vigneti situati su suolo calcareo ciottoloso, posti tra i 200 ed i 500 metri d’altitudine, sono posizionati a ritocchino ed allevati a Guyot modificato per una produzione di circa 70 q.li/ettaro.
La raccolta delle uve avviene a metà ottobre e la loro spremitura dopo il mese di gennaio dopo un appassimento di qualche mese, dopo la fermentazione alcolica il vino riposa in botti di rovere per tre, quattro anni, segue una sosta in bottiglia per circa sei mesi. 65 euro il suo prezzo in azienda. 


Color granato non molto intenso. Intenso al naso, elegante e complesso, balsamico, mentolato, sentori di cioccolatini After Eight e Mon Cheri. Succoso e strutturato con tannino morbido e setoso, spiccata vena acida, cioccolato alla menta, note d’arancio e di liquirizia, lunghissima la sua persistenza. Un vino dalla notevole qualità.

Sforzato di Valtellina Docg “Solstizio” 2016

I vigneti sono posti tra i 400 ed i 480 metri d’altitudine su suolo sabbioso con presenza di rocce, l’esposizione è sud-est, sud-ovest, la vendemmia s’effettua tra fine settembre ed inizio ottobre e la resa è di 38 q.li/ettaro.
La pigiatura delle uve avviene a fine dicembre dopo qualche mese d’appassimento, la fermentazione so svolge in vasche d’acciaio mentre l’affinamento del vino prevede 12 mesi sulle fecce fini in botte di rovere da 15hl, 42 mesi in botte di rovere da 15hl, sei mesi in vasche d’acciaio e infine 12 mesi in bottiglia. Ne sono state prodotte 2.030 bottiglie vendute in azienda a 50 euro. 


Color rubino luminoso di media intensità. Intenso al naso, alcolico, sentori di ciliegia sotto spirito e prugna secca, cioccolato e caffè. Strutturato, succoso, alcolico, con bella vena acida, sentori di prugna e liquirizia forte, note di cioccolato e d’erbe officinali, molto lunga la persistenza.

Eliwine: il progetto di Marco Elisei che fonde tradizione italiana e cultura vinicola romena


Nel cuore del Banato, nel sud-ovest della Romania e a breve distanza dalla città di Arad, si estende la suggestiva regione vinicola di Minis-Măderat, un territorio intriso di storia e con una profonda tradizione vitivinicola. Le prime coltivazioni di vite in quest'area risalgono all'epoca dell'Impero Romano, testimoniando una vocazione enologica antichissima. Nel corso dei secoli, la regione fu soggetta a diverse dominazioni, ma fu soprattutto durante il periodo asburgico che i vini di Minis-Măderat conobbero un notevole salto di qualità. Si racconta che l'aszu, un pregiato vino rosso dolce ottenuto dal vitigno autoctono Cadarcă, fosse il nettare prediletto dalla Corte Imperiale di Vienna per un lungo periodo. Tuttavia, la definitiva affermazione a livello internazionale si concretizzò nel 1862, quando i vini locali trionfarono al primo premio di un prestigioso concorso enologico tenutosi a Londra, proiettando la zona di Minis-Măderat sulla scena vinicola mondiale.


Questa importante denominazione si estende oggi su circa 3000 ettari di vigneti, caratterizzati da una notevole diversità di terreni e da un clima particolarmente favorevole alla viticoltura. Tale eterogeneità permette la coltivazione di un ampio ventaglio di uve, sia locali che internazionali. Tra le varietà autoctone a bacca bianca spiccano la Mustoasa de Măderat e la Fetească Regală, mentre tra le uve rosse un ruolo di primo piano è rivestito dalla Fetească Neagră, da cui si ottengono vini rossi di notevole struttura e personalità. Accanto a queste, Minis-Măderat accoglie con successo anche diverse varietà internazionali, che hanno trovato in questo terroir condizioni ideali per esprimersi al meglio, come lo Chardonnay, il Sauvignon Blanc, il Cabernet Sauvignon e il Merlot.


Questa splendida area della Romania, situata non lontano dal confine ungherese, vanta da qualche anno anche una "voce" italiana grazie a Marco Elisei. Questo imprenditore, attivo nella zona di Arad, sta realizzando significativi investimenti, tra cui spicca il progetto vitivinicolo EliWine, avviato nel 2021. L'ambizioso obiettivo di EliWine è quello di armonizzare la ricchezza della cultura rinascimentale italiana con le profonde tradizioni vinicole locali.

Marco Elisei

Ad oggi questa piccola e recente boutique winery produce quattro tipologie di vini bianchi prodotti prevalentemente da uve Sauvignon Blanc e Fetească Regală che sono vinificati esclusivamente tramite anfore di terracotta realizzate nella zona dell’Impruneta dove Filippo Brunelleschi (da qui il richiamo al rinascimento italiano) prese i mattoni per edificare il Duomo di Firenze. Il successivo affinamento dei vini, a seconda della tipologia, viene poi effettuato o nelle stesse anfore oppure in botti di rovere o di acacia provenienti dalla zona ungherese del Tocaj.


I quattro vini bianchi prodotti da EliWine, tutti annata 2022, la prima in commercio, sono stati presentati a Roma poco tempo fa e, tra tutti, il mio coup de coeur è andato al Terra Mater (92% sauvignon blanc, 8% furmint). Dal punto di vista tecnico le uve, appositamente selezionate da un vigneto di 35 anni di età sito nel Comune di Siria, fermentano e maturano in anfora di terracotta per 18 mesi a cui seguono 6 mesi di affinamento in bottiglia. 


Dal punto di vista organolettico, chi si aspetta il classico Sauvignon Blanc dai tratti fortemente pirazinici rimarrà (piacevolmente) deluso perché questo bianco ti accoglie al naso in maniera elegante ed armonica grazie ad un bouquet aromatico dove il fieno appena tagliato si fonde con la delicatezza delle erbe aromatiche cui seguono intensi effluvi salini ed agrumati. Ottimo l’approccio gustativo, avvolgente per morbidezza, rinfrescante per acidità e stuzzicante per piacevole mineralità che ricorda la pietra focaia. Vino sorprendente che, tolti gli eventuali pregiudizi per i vini della Romania, non potrà non conquistare il pubblico italiano per la sua personalità!

InvecchiatIGP: Poggio di Sotto - Rosso di Montalcino 2009


di Stefano Tesi

Per fortuna non sono il solo a scoprire di avere in cantina roba di cui nemmeno immaginavo l’esistenza. Ed è consolante scoprire che, esattamente come succede a te, nemmeno l’amico che ti invita a cena abbia la più pallida idea delle vie attraverso le quali quella bottiglia sia capitata nella sua, ma solo vaghissimi e sfrangiati ricordi di circostanze molto dilatate, probabilmente inattendibili. La cosa divertente allora – a parte bersela, si capisce – è provare in due o tre commensali con parecchio passato in comune a ricostruire il perché e il percome di quella presenza, risalendo nel tempo a storie, aneddoti, fatti e persone, degustazioni sparse, cesti natalizi e la colpevole sinecura di chi, sguazzando spesso tra troppe etichette, a volte si perde, o sottovaluta o semplicemente dimentica ciò che ha in mano.


Nelle more di questi amarcord potatorii, ovviamente, il vino cala nei bicchieri e suscita le più svariate impressioni. Questo Rosso di Montalcino 2009 di Poggio di Sotto è passato esattamente sotto le forche caudine or ora descritte. Non sto a raccontare l’arcinota storia dell’azienda, una delle più celebri e celebrate di Montalcino. Mi limito a dire che la bottiglia in parola nacque sotto l’egida del compianto e “gambelliano” Piero Palmucci, due anni prima che la cedesse a Collemassari di Claudio Tipa.


La domanda fondamentale che molti si pongono davanti a un Rosso di Montalcino di sedici anni è: avrà retto il tempo? E sarà nato per reggerlo? Io non ho risposte certe, so solo, per un briciolo di esperienza e di assaggi che, sì, la vera o presunta “spalla” del Brunello (per carità non entriamo nel dibattito dei rossi a volte più brunelliani dei brunelli) è in grado eccome di scavalcare i decenni. E che comunque è quel tipo di vino capace di dare le classiche sorprese da longevità inattesa.


Non ho assistito personalmente allo stappamento della bottiglia, ma il mio ospite – degustatore di lungo corso – mi ha assicurato tappo integro, adeguato anticipo e giusta ossigenazione.


L’assaggio gli ha dato ragione: se il colore è un rubino di media intensità, con prevedibile unghia aranciata, il naso ci ha sorpreso per pienezza e pulizia, un’asciuttezza penetrante e una tipicità di Sangiovese del tutto inconfondibile, senza deviazioni o tracce di decadimento. Stesse sensazioni al palato: pienezza, pulizia, freschezza e una profondità quasi neghittosa che mescola ampiezza e agilità, in sostanza invogliando alla ribevuta. Infatti ne abbiamo ribevuto tanto. Peccato non ci sia servito a ricostruire la storia della bottiglia, ma ce ne siamo fatti una ragione.

Nicola Biasi - Renitens 2022


di Stefano Tesi

Anche al di là del progetto in sé (assemblaggio di 6 vini diversi da 6 uve piwi diverse di 6 viticoltori diversi), difficile non cogliere il fascino di questo bianco che al naso sa di pesca sbucciata e frutti tropicali.


In bocca è ricco, denso, con acidità pungente, vena salina e finale amarognolo.

Il Bistrot di Agricola Toscana: a Firenze non troviamo solo "mangifici" per turisti!


di Stefano Tesi

Stefano Frassineti da Rufina (FI) è uno chef di lungo corso e solida esperienza, che da un po’ è divenuto carsico, nel senso che tende ad apparire e scomparire con ciclica facilità. Croce e delizia dei sostenitori della sua cucina di sostanza, profondamente toscana ma sempre ricca di inventiva, esuberante, a tratti allegramente entusiasta, dove i piatti – anche i meno riusciti, pochi in verità – rispecchiano uno stile sì generoso ma mai caricaturale. Un rischio, quest’ultimo, da cui il nostro è (lo conosciamo da parecchio) per natura immune, ma altissimo in una regione ad elevato tasso di oleografia gastronomica. E, a maggior ragione, nel suo dichiarato epicentro: Firenze.


Sparito per qualche tempo dai radar della ristorazione e dedicatosi alla ricerca di una nuova dimensione, Frassineti riappare ora ai fornelli di Agricola Toscana Il Bistrot (uno spin-off dell’omonimo ristorante di via del Corso), spuntato senza preavviso in Borgo Ognissanti, ossia nel cuore del mangificio fiorentino.


La sorpresa è tripla: per l’epifania del cuoco scomparso, per il nuovo locale che a tempo di record ha sostituito il precedente, di tutt’altro stile e, soprattutto, perché il Bistrot – diretto dal patron, il giovane e intraprendente Simone Angerame - sembra appunto volersi discostare con decisione dal mainstream turistico che ormai ha strangolato o quasi (ma, si sa, è la domanda che genera l’offerta, quindi nulla di cui meravigliarsi in una delle patrie nazionali dell’overtourism) la città.

Stefano Frassineti

Il proclama è esplicito: “cucina toscana contemporanea” (aggettivo abusato da cui però prendo le distanze) capace di discostarsi dalla cucina cartolinesca delle bistecche in vetrina e della carbonara col tartufo e proporre i piatti di una toscanità riconoscibile, dedicata prima di tutto ai corregionali e ai fiorentini, gentile e verace, affidabile, gustosa, sostanziosa ma non becera, né scontata.

Naturalmente, alle parole devono seguire i fatti. E noi siamo andati a verificarli.

I risultati sono stati confortanti. A cominciare dall’incontro sul posto con una clientela di placidi e garruli residenti che non è più tanto facile intravedere in certi contesti. L’ambiente è sobrio e luminoso, il servizio amichevole e collaborativo, con molta cortesia e poca ruffianeria.

Poi si passa alla cucina, che è quello che conta davvero.

Cominciamo da ciò che, a modesto parere di chi scrive, è destinato a diventare il piatto-simbolo (direi iconico, se non aborrissi anche quest’aggettivo) del locale: il risotto al piccione, frutto di un lavoro paziente e certosino che prevede la dissossatura, l’utilizzo delle ossa per fare il fondo, la mantecatura con burro acido. Pietanza di gran gusto, consistenza e sostanza quasi irresistibili che riportano il palato a stili e gusti antichi. L’unico suggerimento è di prenderlo in due, perché la preparazione della portata è abbondantissima e sprecarne metà lasciandola in cucina sarebbe un oltraggio.

Risotto al piccione

Più che buono, direi anzi proprio appetitoso, anche l’antipasto di porchetta croccante, tagliata sottile, accompagnato da un sapido segato di verdure altrettanto croccanti. Molto tradizionale e consistente, ma senza le graveolenze domestiche della cucina della nonna, il classico pollo alla cacciatora che, più in là con la stagione, resterà ruspante ma si accompagnerà a una primaverile e fresca salsa allo yogurt. Il menu di primavera preannuncia anche la lingua alla piastra con doppia salsa, il crostino di fegatini battuto al coltello (“…e non frullato!”, precisa lo chef), una parmigiana di melanzane cotta della melanzana medesima e varie altre tentazioni. Garantita l’assenza dal menu, conclude il cuoco, di qualsiasi tipo di burrata…una scelta ineccepibile.

Porchetta croccante

Due parole, infine, sulla carta dei vini, che oltre al servizio al bicchiere propone una buona scelta di etichette sia toscane che italiane, con alcune referenze fuori passo piacevolmente inusuali a queste latitudini. Come il Valpolicella 2020 di Illatium, bevuta tanto gentile quanto solida che mi ha ben accompagnato sul risotto e tutto il resto. Spesa sui 60 euro.

Agricola Toscana – Il Bistrot

Borgo Ognissanti,25r, Firenze FI

Telefono: 055 388 0177

www.agricolatoscana.com


InvecchiatIGP: Agnanum - Falanghina dei Campi Flegrei Doc 2008


di Luciano Pignataro

Come tutti sappiamo, non è certo un buon momento per i Campi Flegrei ma siamo fiduciosi sui tempi lunghi dell’agricoltura che, sicuramente, sopravvive alle scosse meglio dei palazzi spesso costruiti con cemento di scarsa qualità e senza alcun costruiti criterio antisismico. 
Mi è venuta in mente una bella verticale fatta al San Pietro Bistrot di Torre del Greco, patria della cucina di mare, di cuochi e di marinai, con le bottiglie raccolte dall’amico Maurizio Cortese nel corso degli anni. Una verticale fatta nel migliore dei modi possibili, a bordo acqua, godendo della cucina semplice ed efficace voluta dal patron Mariano Panariello e dei vini di Raffaele Moccia, contadino flegreo che ad Agnano, dentro l’area amministrativa del comune di Napoli e ai bordi di quello di Pozzuoli, anno dopo anno ha messo a posto l’intera collina del versante meridionale degli Astroni, uno dei tanti vulcani della zona, per fortuna spento, nel cui cratere, circondato da un muro aragonese e borbonico, sopravvive uno degli ultimi esempi di antica foresta europea.


Raffaele ha continuato a coltivare la vigna, una resilienza su suolo sabbioso di fronte all’assedio del cemento che però ha risparmiato questo terreno agricolo che si raggiunge attraverso un sentiero sterrato proprio all’uscita Agnano della Tangenziale di Napoli. Nel corso di questo vent’anni e passa i vini di Raffaele, realizzati con semplicità e pulizia, non hanno mai smesso di crescere. E così ci godiamo le annate 2008, 2009, 2010, 2011, 2012 e una Vigna del Pino 2006, ossia falanghina con un leggero passaggio in legno grande all’epoca voluto dall’enologo Maurizio De Simone.

Raffaele Moccia - Credit: Falanghina Republic

Parliamo della 2008 perché, essendo la più vecchia della serie, riassume, annata più annata meno, tutte le caratteristiche di questo vino ottenuto da un vitigno perfettamente acclimatato sul suolo sabbioso vulcanico sempre carezzato dalla brezza marina che conserva l’uva tonica anche nei momenti di grande caldo. Del resto la Falanghina, come il Piedirosso, è sostanzialmente indifferente alle alte temperature e regge bene anche in mancanza di eccessive escursioni termiche tipiche delle zone interne della Campania.


Di questo 2008 ci ha colpito anzitutto la freschezza, la tonicità, assolutamente straordinarie per un vito non pensato per un con sumo così lontano nel tempo. I sentori di frutta agrumata che ancora resistono sono esaltati da una nota di idrocarburi tipica dei vini vulcanici, poi vivono ancora piacevoli note balsamiche e di miele. Al palato è scattante, tonica, la freschezza è ancora intatta e regge la beva in maniera magnifica sino al finale lungo e preciso, appagante che invoglia a ripetere il sorso. 


Le altre annate mantengono queste caratteristiche, anche la 2011 che è stata la più calda di tutte con 40 giorni di afa pura a partire dal Ferragosto dopo una estate fresca. Solenni e perfette la 2010 e la 2012 mentre la 2009, abbastanza piovosa nel finale di vendemmia, appare in forma seppur leggermente diluiti rispetto alle altre. Piccolo grande capolavoro di un bravo vigneron nel senso letterale del termine, ancora oggi stupito dal clamore mediatico che lo circonda.

Cantine Menhir - Filo Doc Terra d'Otranto Negroamaro Riserva 2021


di Luciano Pignataro

Una nuova visione di negroamaro in purezza: più bevibile, più fresco, più fruttato provato da Osteria Origano a Minervino di Lecce. 


Menhir rilancia con orgoglio la doc Terre D’Otranto e rilegge l’uva tipica del Salento alleggerendo l’impatto rispetto ai grandi classici del passato. Sull’agnello al forno.

La Cadalora - Majere Casetta Vallagarina IGT 2021


di Luciano Pignataro

Questa bottiglia ha fatto un viaggio di mille chilometri e si è fermata ad Eboli con Gesù perché ha trovato un oste colto, Carmelo Vignes che nell'antro scavato nella pietra, Vico Rua, raccoglie con gusto rarità da bere e conserva piatti in via di estinzione tipico, a cominciare da una pizza realizzata con semola, salsa cotta di pomodoro e pecorino cilentano irrorato come se nevicasse.
Apriamo questa bottiglia, il vitigno si chiama casetta ed è una varietà tipica delle zone collinari della Val Lagarina ad Ala in Trentino e a Dolcé in provincia di Verona.


Questa storica azienda, La Cadalora, ha deciso di vinificarlo in purezza invece di usarlo come uva da taglio curando il vigneto Majere che dà il nome al vino dove il casetta è presente sin dagli anni ’70. Il toponimo ci riporta ad un altro vitigno, stavolta casertano, il casavecchia e ci lascia la curiosità di scoprire la ragione di questo nome che riscalda il cuore. Attenzione, non va confuso con il lambrusco! Ce lo spiega la Fondazione Slow Food: "questo vitigno deriva dalla domesticazione della Vitis vinifera silvestris, varietà d’uva selvatica nata da un incrocio spontaneo. Questa varietà a bacca rossa è nota anche col nome di lambrusco a foglia tonda ma nulla ha in comune con le grandi famiglie di uve Lambrusco. Il suo aspetto è caratterizzato da una foglia tonda, da qui anche il nome dialettale foja tonda; il grappolo è conico e di dimensioni medie, con acino medio-grande mentre la buccia è di norma sottile, di colore scuro, quasi un blu-nero, abbastanza resistente ai freddi sebbene molto sensibile alle gelate invernali. Si adatta bene a terreni calcarei e collinari con una buona esposizione e ventilazione, ad altezze che non superino i quattrocento metri di altitudine”.


La casetta viene lavorata prima in acciaio e poi lasciata per un anno ad affinare in barrique. Il risultato è davvero interessante: non ha grandi profumi ma è molto efficace quando si abbina a piatti robusti. Bevibile grazie a tannini ben risolti, fresca, di buon corpo, assolutamente in forma dopo quattro anni dalla vendemmia, il che lascia supporre una buona longevità, la spendiamo su involtini di trippa di agnello tipici dell’Appennino Meridionale, soffritto di interiora di vitello, stinco di maiale in salsa di cipolle e un bel piatto di trippa con patate. 


Roba da Aglianico, insomma, anche perché tutti piatti pomodorosi. La Casetta, a dispetto del nome delicato e avvolgente, svolge il suo ruolo in modo perfetto nell’abbinamento con questo cibo e non ci siamo sbagliati perché leggendo la scheda per preparare questo articolo leggiamo che è consigliata proprio con piatti robusti. Poco meno di 20 euro, l’ennesima conferma di quanto sia ricca la nostra bella Italia. Diversità, inclusione e movimento costituiscono la ricetta che l’ha fatta grande. E niente di meno potrebbe esser e valido in questo pontile piantato in mezzo al Mediterraneo.

InvecchiatIGP: La Perla - Valtellina Superiore La Mossa 2011


di Carlo Macchi

Dal 2009, con la creazione de La Perla, Marco Triacca e suo padre si sono “messi in proprio” ritagliandosi un’azienda su misura, completamente staccata dal famoso marchio che porta il loro cognome. Siamo in Valtellina, tra Sondrio e Tirano e questa piccola perla produce poche tipologie di vini: un solo Superiore, una Riserva, uno Sforzato e uno spumante classico non da Chiavennasca ma da pignola, uva autoctona pochissimo conosciuta. Marco segue tutto, dalla vigna alla cantina, con un impegno veramente lodevole perché qui portare avanti anche pochi ettari di vigneto non è facile. Inoltre, non lascia niente al caso e ha anzi inserito in vigna alcune interessanti innovazioni che hanno bisogno di tempo e attenzione.


I risultati però di vedono sia nei vini più recenti (premiati anche quest’anno da Winesurf) che in prodotti che potrebbero iniziare a mostrare qualche ruga, come nel Valtellina Superiore La Mossa nato in un’annata non certo “dietro l’angolo” come la 2011. Il nome del vino viene dalla passione di Marco per il Palio di Siena e ce lo ha proposto proprio per dimostrare come la chiavennasca (alias nebbiolo) possa maturare bene e migliorare col tempo anche per vini non fatti per il lungo invecchiamento.

Domenico e Marco Triacca - Credit: Repubblica

Il colore è un rubino chiaro ma ancora molto brillante e il naso, all’inizio incerto, si è aperto su note balsamiche e speziate. Ma è in bocca che ci ha stupito, con una tannicità viva e ferma, un corpo dove la freschezza non è mai fuori quadro e dona da una parte giovinezza e dall’altra l’equilibrio che serve ai vini per durare nel tempo.


Lo abbiamo assaggiato, riassaggiato e poi abbinato ad un ottimo spezzatino con polenta, perché il bello dei vini valtellinesi, e in particolare di quelli di Marco, è che su piatti importanti della nostra tradizione vanno a nozze. E’ scontato dire che l’apertura di questa bottiglia è stata una “buona Mossa”!

Damiano Ciolli - Olevano Romano Cesanese DOC Silene 2023


di Carlo Macchi


L’annata 2023 di Damiano Ciolli, innovatore principe del Cesanese, dal punto di vista quantitativo è stata tragica. 


La peronospora ha distrutto quasi tutto e così questa bottiglia è quasi un unicum. Grandi profumi di spezie e fiori, tannicità viva, dinamicità gustosa e vibrante freschezza. Da provare!