Il vino del Collio Friulano secondo Paraschos

Nel Collio, dove tutte le famiglie del vino hanno origine italiana o slovena, il cognome Paraschos, che tradisce la sua origine greca, è una curiosa eccezione che ha origini lontane ovvero quando negli anni ‘70, il salonicchese Evangelos Paraschos, decide di trasferirsi a Trieste per studiare Farmacia. La sua sembra una carriera abbastanza segnata poi, l’incontro con la moglie Nadia, figlia di ristoratori di Gorizia, crea una svolta inaspettata nella sua vita. Grazie al suocero, infatti, scopre la sua passione per la terra e, in particolare, per la vigna domestica che inizia a lavorare con il solo obiettivo di fornire un po’ di vino al ristorante di famiglia.

Evangelos Paraschos

Gli scherzi del destino per Evangelos non sono finiti perché, se produci vino nel Collio e negli anni ‘90 incontri ed inizi a frequentare Stanko Radikon e Josko Gravner, allora clienti del ristorante, è chiaro che la tua vita da vignaiolo inevitabilmente cambierà. In meglio! E così, nel 1997, Evangelos prende il coraggio a due mani e compie il grande passo acquistando all’asta i primi 4 ettari di vigneto tra San Floriano e Oslavia costruendo, l’anno successivo, la sua prima cantina e uscendo sul mercato, nel 1999, con la sua prima vendemmia mentre bisogna aspettare il 2003 per la sua prima annata "naturale".

La cantina e parte dei vigneti - Foto: L'indovino

La viticoltura, ieri come oggi, ha un solo credo:  zero concimi chimici, diserbanti o antiparassitari nocivi. I vigneti sono tutti inerbiti, il terreno viene mosso solo d'inverno se necessario. Le concimazioni avvengono solo saltuariamente ed esclusivamente con letame animale appropriatamente stagionato. Oggi, grazie anche al prezioso aiuto dei figli Iannis ed Alexis, Evangelos gestisce circa 7 ettari di vigneto dove troviamo maggiormente friulano, pinot grigio, ribolla gialla e merlot. In quantità minore sono presenti anche malvasia, chardonnay, sauvignon e pinot nero. Le parcelle sono localizzate tra i territori di San Floriano, Oslavia, Gradisciutta, Lucinico e Sant’Andrea.

Foto: Winetaste.it

In cantina, ovviamente, si segue una filosofia naturale e non interventista per cui l’uva, una volta vendemmiata manualmente, viene fatta fermentare sulle bucce, in maniera spontanea e senza controllo della temperatura, per circa una settimana usando tini aperti di legno o, preferibilmente, di plastica alimentare o vetroresina. “Ogni tipologia di uva raccolta in vendemmia – racconta Alexis - va all’interno di un solo tino e viene vinificata separatamente. L’assemblaggio avviene solo alla fine. Questo per un discorso di pulizia e per evitare ogni contaminazione di tipo batterico”. 



Una volta sfecciato, il vino viene poi passato all’interno di grandi botti di rovere dove rimane in affinamento per almeno due anni prima di essere imbottigliato e commercializzato.


C
on Alexis, che passo a trovare una mattina di estate, degustiamo i seguenti vini:

Paraschos – Kai 2016 (100% friulano): questo Friulano in purezza, provenienti da vigne di 80 anni localizzate a Gradiscutta e Lucinico, rappresenta un biglietto da visita vincente non solo per i Paraschos ma per tutto il territorio del Collio che non può non essere rappresentato da questo vitigno unico così come il vino che, grazie alle vigne vecchie, risulta straordinariamente complesso e vibrante. Aromi di fiori, erbe aromatiche, e frutta a polpa gialla e salgemma anticipano un sorso pieno, vigoroso, ricco di spunti minerali e, soprattutto, lunghissimo e straripante nel finale.


Paraschos – Kai 2
009 (100% friulano): il friulano di Paraschos evolve ma non invecchia. Anzi, aggiunge carattere e complessità ad un quadro generale già di per sé sontuoso e quasi inscalfibile. Al bouquet olfattivo del precedente vino, questo Kai viene impreziosito da sensazioni di nocciola tostata, humus, caramella all’orzo e bastoncino di liquirizia. Il sorso, con al sua vivacità e la sua prorompente freschezza, è un inno al Collio e ad uno dei suoi vitigni prediletti.


P
araschos – Orange One 2017 (50% ribolla gialla, malvasia e friulano): da questo uvaggio tipico del Collio nasce questo orange wine, dove le uve vengono macerate anche fino a quattro settimane, che i Paraschos hanno voluto produrre come tributo al vino tradizionale che si faceva in zona nel passato. Naso, come tutti i vini di questa tipologia, estremamente sfaccettato e dotato di tridimensionalità grazie a tre assi olfattivi caratterizzati da frutta esotica matura, spezie orientali e sensazioni di tostatura. Sorso affatto pesante ma dotato di leggerezza, equilibrio e una certa briosità tannica che lo rende compagno adatto di carni succulente.


Paraschos – Amphoreus “Malvasia” 2017 (100% malvasia istriana): dalle viti più vecchie di malvasia istriana (90 anni di età) dei vigneti di Lucinico e Sant’Andrea si selezionano i grappoli con le bucce più sane che, dopo una diraspatura, vengono lasciati macerare in anfore terracotta cretesi, incerate internamente con cera d’api del Collio, per tutta la durata della fermentazione e del seguente affinamento
(circa 12 mesi) fino a completo illimpidimento e stabilizzazione naturale del vino. Al naso questa malvasia risulta graffiante ma al tempo stesso armonica, si fa apprezzare per i suoi aromi di albicocca disidratata, agrumi canditi, ginestra passita, erbe di campo e cera d’api. Al sorso si apprezza la grintosa texture del vino che gioca su un teso equlibrio tra acidità quasi salmastra e una morbidezza glicerica che avvolge il palato senza eccessi.


Paraschos -
Amphoreus “Ribolla Gialla” 201
5 (100% ribolla gialla): rispetto al vino precedente, come logico immaginarsi, questa ribolla gialla sembra essere ancora in fase embrionale, il corpo e sopratutto il graffio tannico di questo vino hanno ancora bisogno di tempo per amalgamarsi e svilupparsi. Con il suo respiro aromatico di miele millefiori, tiglio, pesca gialla matura e mandorla amara e la sua vigorosa silhouette gustativa è un vino importante che diventerà a mio giudizio prodigioso se ce lo dimentichiamo in cantina per almeno altri 5 anni.



Paraschos – Merlot 2014 (100% merlot): da viti di merlot abbastanza giovani (circa 15 anni di età) nasce questo rosso davvero interessante con un naso articolato dove ritrovo note di mora, confettura di visciole, tabacco da pipa e lievi sentori di china e grafite. Sapore pieno, armonico, la vendemmia non certo calda dona al vino linearità e rigore ed una splendida verve acida quasi salmastra che accompagna un finale nitido e succosissimo. Piccola curiosità: a casa Paraschos il merlot è stato imbottigliato per la prima volta nel 2004, ovvero, la prima vendemmia delle viti da loro piantate nel 2001 a Sant’Andrea. Gli innesti per le nuove vigne sono stati presi dai tralci delle vecchie viti di merlot coltivate nello stesso paese e vecchie anche più di 80 anni.


Nasce Delivery IGP: il vino al tempo del Covid-19



In tempi di ZOOM, Google Meet, videoconferenze, aggregazioni solo e soltanto sul web ci sembra giusto rimarcare il fatto che qualcuno aveva cominciato a farlo da più di 10 anni! Il gruppo di Garantito IGP (dove IGP sta per I Giovani Promettenti).

Sono ormai dieci anni che ogni settimana c’è un articolo condiviso in più giornali online, firmato Garantito IGP. 

Una prova di longevità non indifferente in un mondo dove quasi tutto dura lo spazio di una giornata. L’idea iniziale non era particolarmente ambiziosa, ma decisamente concreta: provare a creare un polo di aggregazione in una fase in cui si assisteva al progressivo sfaldamento dei gruppi di lavoro e di critica.

Un’idea semplice: tre giornalisti coetanei, allora pimpanti cinquantenni, Nord, Centro e Sud che si alternavano ogni settimana. Carlo Macchi, Luciano Pignataro e Franco Ziliani.

Carlo Macchi

Nel corso di questi dieci anni ci sono stati diversi cambiamenti: uscito Ziliani, che preferì il “Garantito da me”, sono entrati Roberto Giuliani, poi Stefano Tesi e l’indimenticabile Kyle Phillips. Insieme abbiamo fatto tante degustazioni e abbiamo via via scoperto, pur nelle nostre diversità, una profonda stima reciproca e una affinità caratteriale tipica della nostra generazione di Peter Pan, quella capacità di fare lo sberleffo anche nel momento più serio, nel luogo più solenne. A cominciare dal nome che ci siamo dati, I Giovani Promettenti.
Poi ancora altri cambiamenti, l’arrivo di Lorenzo Colombo, la tragica scomparsa di Kyle e il successivo arrivo di Angelo Peretti e Andrea Petrini e la seguente decisione di Angelo di lasciarci.

Da quel momento la squadra è rimasta la stessa. 

In questi giorni particolari ci siamo ritrovati, come esempio di redazione online, e ci è venuta la voglia di raccontare quello che sta succedendo nel mondo del vino e del cibo al di là della solita recensione e degustazione: una sorta di Radio Londra capace di raccontare dall’interno una delle stagioni più strane e difficili per i produttori di vino e il settore della ristorazione, in Italia e nel mondo. Certo, questi due settori hanno attraversato tante crisi, ma questa è sicuramente molto particolare. 

Luciano Pignataro

Ci è venuta voglia di raccontarla chiedendo proprio ai diretti interessati, almeno sino a quando non si vedrà una luce: vogliamo commentare quello che succede con i protagonisti e da protagonisti e offrire così una chiave di lettura agli appassionati. L’abbiamo chiamata Delivery IGP e vi terrà compagnia ogni lunedì, mercoledì e sabato, con interviste a produttori, ristoratori e comunque personaggi chiave del nostro settore. Per essere informati senza perdere il sorriso. 

Naturalmente Garantito IGP e il VINerdì IGP restano fissi al giovedì e al venerdì, così per quasi tutta la settimana sarete in nostra compagnia Buona lettura.

Carlo Macchi e Luciano Pignataro 
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Dieci anni fa tondi tondi – ed ecco lunghi brividi per la schiena – mi chiama il Macchi. M’aspettavo il solito motteggio e invece lui era sorprendentemente serio. Senza girarci troppo intorno, mi chiede se fossi disposto a entrare, in sostituzione del dimissionario Franco Ziliani, nel network Igp fondato da lui, Pignataro e Ziliani medesimo.  All’epoca Alta Fedeltà aveva a malapena un anno di vita, io ero ancora assai acerbo di cose online e la mia diffidenza verso l’ambiente non si era del tutto dissipata. 

Stefano Tesi

Ma un po’ la curiosità, un po’ l’idea di dividere il viaggio con amici e colleghi affidabili e simpatici e un po’ l’opportunità di sperimentare quel mondo a me all’epoca piuttosto sconosciuto mi convinsero presto. E da subito fu tutto molto divertente.  Dopo la rubrica del “Garantito” venne quella del “VINerdì”. Ora arriva il Delivery per raccontare quel che succede a 360° nell’enogastro in tempi di covid, ma nel solo modo che piace a noi: l’informazione indipendente (oltre che promettente, si capisce). 

Stefano Tesi 
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"Caro Roberto, ti va di entrare a far parte di Garantito IGP? Sai del progetto, è nato ad aprile con l'intento di creare un gruppo con qualità ed esperienza in una rete sempre più disgregata e dove non è facile orientarsi". "Ciascuno dei soggetti coinvolti in Garantito IGP, mantiene l'attività che ha sempre svolto, quindi continua a gestire il proprio sito/blog, l'intento non è quello di fare un unico sito, ma di condividere uno spazio nel quale ognuno porta il proprio contributo e la propria esperienza enogastronomica". 

Roberto Giuliani

L’idea mi piacque subito, creare un gruppo che raccontasse di enogastronomia condividendone i contenuti in ciascun sito, ma anche fare esperienze sul campo come degustazioni collettive o promuovere l’ormai noto “Premio Gambelli”, che ogni anno elegge il giovane enologo che nello stile richiama in modo evidente la “visione” del compianto Giulio “Bicchierino” Gambelli, sono stati per me uno stimolo importante. In fondo venivo già da un gruppo composto agli inizi del 2000 con l’Acquabuona, Tigulliovino e sempre Franco Ziliani. 
Sono ormai 9 anni che condivido questa esperienza con gli IGP e sono molto contento di questa nuova avventura, il Delivery IGP, che spero verrà apprezzata dai nostri appassionati lettori, dal canto nostro ce la metteremo tutta! 

Roberto Giuliani 
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Sono entrato a far parte del Gruppo IGP nel giugno 2013, dopo una chiacchierata con Roberto Giuliani, che già ne faceva parte, avvenuta durante l’Anteprima della Vernaccia di San Gimignano nel febbraio di quell’anno.

Lorenzo Colombo

Roberto fece la proposta agli altri membri del Gruppo che allora erano, oltre a lui, Carlo Macchi e Luciano Pignataro (entrambi fondatori, assieme a Franco Ziliani, che dopo pochi mesi ne uscì), Stefano Tesi e il compianto Kyle Phillips, scomparso prematuramente pochi mesi dopo il mio ingresso.
Allora scrivevo per Vinealia, associazione nata nel 1998 che, dopo aver pubblicato 12 numeri su carta (da gennaio 1999 a dicembre 2000), fu tra i primi a trasferire il magazine sul Web, rivista per la quale scrissi centinaia d’articoli a partire dal 2005.
Il 17 dicembre 2018 Vinealia cessò le pubblicazioni ed oscurò il sito, da quel giorno ho aperto un mio blog www.ioeilvino.it e, naturalmente, continuo a far parte del Gruppo IGP.

Lorenzo Colombo 
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Se volete dare una colpa circa la mia presenza all’interno di Garantito IGP la dovete dare al buon Roberto Giuliani che ben sette anni fa ha voluto Lorenzo Colombo e me all’interno della famiglia. Se col primo si è cercato da subito di innalzare ulteriormente la qualità delle pubblicazioni, col sottoscritto l’intento, sottaciuto al grande pubblico, è stato quello di abbassare leggermente l’età media del gruppo che soprattutto nella zona toscana sfiorava livelli di guardia. 

Andrea Petrini

Nonostante ciò sono sette anni sono ancora qua e, a parte gli scherzi, sono grato che col mio piccolo blog di periferia “Percorsi di Vino”, edito dal 2007, sia ancora parte di Garantito IGP i cui fondatori sono da sempre punti di riferimento per un “giovane” wine blogger come me che ha sempre voglia di imparare. Ora, con Delivery IGP cercheremo di raccontare l’Italia enogastronomica, e le sue difficoltà, nella maniera più trasparente e qualificata possibile. Come sempre. 

Andrea Petrini 

Cantina Frentana - Donna Greta Terre di Chieti IGP Pecorino 2018

di Stefano Tesi

Ho avuto la fortuna di assaggiare il sontuoso 2016, ahinoi non più reperibile, e allora ho comprato un cartone di eccellente 2018: un po’ per berlo subito e un po’ per dimenticarlo in cantina. 


Pietroso, ricco, variegato e lunghissimo, è la riprova dell’avvenuto sdoganamento (se ce ne fosse ancora bisogno) del vino “cooperativo”.

L'Appetito, il libro che ti fa venire fame solo leggendolo

di Stefano Tesi

Col lockdown, pieno o leggero che sia, non ha molto senso recensire ristoranti dove per un pezzo nessuno potrà andare. E, quanto alle opportunità di asporto e delivery, ci saranno presto novità su questi schermi. Ma di ciò è presto per parlare.
Viste quindi le prospettive di una lunga costrizione sul divano, cosa di meglio che suggerire letture edificanti? E’ il caso di questo libello che ho letteralmente – il verbo non è scelto a caso – divorato.

L’ha scritto Serena Guidobaldi, un’amica nonchè collega con la quale ho condiviso numerose ed entusiasmanti avventure pedestri, essendo lei, col “garantito” Charlie Macchi e il sottoscritto, uno dei fondatori del “Pellegrinaggio artusiano”, ovvero la zingarata enogastropodistica che abbiamo più volte portato in giro per l’Italia.

Serena Guidobaldi

Ma si diceva del libello. Che poi, formato a parte, tanto libello non è. Anzi, occorre dire che una delle prime cose che si notano immergendosi nella lettura di questo romanzo storico, asciutto per dimensioni ma tutt’altro che asfittico, è proprio il contrasto tra la leggerezza del titolo e del taglio tipografico tascabile da un lato e la densità del racconto dall’altro. Un racconto denso nel tema e pure nel tipo di scrittura, tutta da masticare e quasi da metabolizzare: a suo modo complessa e immaginifica, piena di citazioni, finezze, riferimenti, sottintesi e uno scenografico vernacolo romanesco. Un testo articolato, dunque, ma non privo di crudezza e a volte di un gusto grandguignol tipicamente fumettistico, che infatti non rinuncia a illustrazioni gotiche e a parentesi teatrali. Serena del resto è anche una brava autrice di graphic novel e si vede.


L’opera si intitola “L’Appetito” e già in ciò è tutto un programma. Il titolo suona soavemente provocatorio, considerato che il fil rouge della storia non è certo il borghese – e in fin dei conti perbenista, per non dire eufemistico – appetito, appunto, ma quella sua declinazione popolare, viscerale e spesso dolorosa che si chiama “fame“. La fame atavica del popolino, quella che in certi strati miserabili si succhiava col latte materno e che, anche in caso di un destino fausto, ci si portava dietro tutta la vita, come una canagliesca condizione dello spirito, un cinico riflesso condizionato capace di indurre, in apparenza giustificandoli, ogni bassezza, ogni stratagemma, ogni inganno e, ovviamente, ogni delitto. E’ in questo scenario che si dipana una fosca storia a cavallo tra tante cose: due città, Roma e Parigi; due secoli, il il ‘700 e l’800; la rivoluzione, l’impero, la restaurazione. Dove una lunga striscia di sangue, di sugo, di minestre e di scodelle accompagna le vicende, vivide e sordide, di un’umanità macilenta in ininterrotta relazione col cibo. Gente per la quale, suo malgrado, il mangiare funge da legante quotidiano delle ore della giornata fra tragedie, amori, morti, avventure, beffe e prigioni. 

Non sta bene, recensendolo, rivelare la trama di un libro che anche sulla trama basa la sua forza. E non lo farò certamente io, perchè l’opera è pure agile e la lettura avvincente. Tra graveolenti odori di zuppa, serramanici scintillanti, parroci di malaffare, emigrati d’antan, balordi de noantri, ricchi e poveracci, sembrerà spesso di calarsi nelle atmosfere e perfino nei suoni del Marchese del Grillo. Ma con lo stomaco molto più vuoto e con molta meno voglia di scherzare. Eppure lo spirito se ne gioverà.

“L’Appetito”
di Serena Guidobaldi
Eris Edizioni, 2020, 190 pagine, 13 euro.

Il senso del Carso secondo Matej Skerlij

Sales è un piccolo paesino del Carso, qua i ritmi sono lenti, rurali, e ci passi in auto solo se abiti in queste zone oppure, come me, se hai un indirizzo preciso dove andare scritto su Google Maps.


Agriturismo Skerlj, località Sales 44 (TS) era la mia destinazione quel giorno, il giorno in cui ho incontrato Matej Skerlj, uno dei grandi vignaioli del Carso anche se lui non se lo vuole sentire dire. Matej lo trovo che sta ultimando alcuni lavori in cantina costruita all’interno del podere agricolo che ha ereditato dal nonno e che pian piano ha trasformato in agriturismo ed azienda vinicola che si estende oggi su circa 4 ettari di vigneto, dove troviamo malvasia istriana, vitovska e terrano, suddiviso in 12 parcelle, in parte di proprietà e in parte in affitto, sparse tutte intorno a Sales. 


Alcune vigne sono molto vecchie - racconta Matej - risalgono al dopoguerra, e le ho prese in gestione da anziani del posto che le stavano abbandonando e come si può vedere il filare in questo caso è molto largo perché ovviamente una volta in mezzo ci piantavano piante orticole e più ne mettevi meglio era perché avevi meno da zappare. Qua nel Carso questa attività, che veniva fatta a mano, è molto dura perché come saprai abbiamo nel suolo abbiamo poca terra e tanto strato di roccia molto dura”. 

La terra del Carso

Girando tra i filari mi accorgo anche che le viti sono tutte piegate verso un lato. Mi giro per chiedere ma Matej già mi ha letto nel pensiero: ”Nel Carso conviviamo con roccia e Bora e i vignaioli spesso girano le piante in favore del vento in modo da preservarle il più possibile dalla sua forza che a volte è prorompente….”.

Vecchie vigne

L’approccio agricolo di Matej è assolutamente quello di una volta. “
Per fare un vigneto – racconta Matej – togliamo tutta la (poca) terra che sta sopra, rompiamo con grandi macchine la roccia sottostante che poi rigiriamo perché a noi ci interessa la parte fina di questa massa e infine facciamo un letto di roccia battuta, letame, poi copriamo con 40 cm di terra, il giusto per piantare poi le barbatelle. Tutto ciò aiuta nei periodi siccitosi perché la pietra trattiene umidità. Se non facessimo così l’acqua andrebbe via per il classico fenomeno carsico. L’unica novità, rispetto a ciò che facevano i nostri vecchi, è la forma di allevamento, prediligo l’alberello, e il sesto di impianto che oggi è molto più denso per produrre di meno e meglio. Come trattamenti, invece, facciamo solo gli interventi necessari usando solo minime quantità di rame e zolfo”. 


Dopo un bel giro tra le vigne, alcune nascoste all’interno di suggestivi boschi, torniamo verso l’agriturismo che la famiglia Skerlj ha aperto negli anni ‘90 dopo aver gestito per decenni la tradizionale osmiza
Matej imbottiglia vino dal 2004, prima si produceva solo sfuso, in grandi quantità, perché c’era molta richiesta soprattutto da clienti locali. Col calo dei consumi avvenuto a metà anni 2000, c'è stata la svolta ovvero la decisione di imbottigliare e di puntare sull’alta qualità del vino che, seppure sempre naturale, da quel momento in poi si fa macerare ed invecchiare per puntare al massimo della territorialità e, ovviamente, ad un mercato molto diverso dal passato. 


Oggi tutta la vendemmia viene fatta tutta a mano e l’uva, una volta pigio-diraspata, fermenta in tini di legno aperti per circa tre settimane senza controllo di temperatura e l’uso di lieviti selezionati. Il vino, comprensivo delle sue fecce fini, viene messo poi in botte per un anno, poi dopo un travaso, viene rimesso altri dodici mesi in legno e viene infine imbottigliato, solitamente nel mese di Agosto (luna calante) dopo aver assemblato tutte le varie botti al fine di omogeneizzare la massa. 

Botte in marmo

Dal 2018 in cantina c’è anche la presenza di una botte chiusa di pietra di Marmo di Aurisina, che Matej usa per la vinificazione di una parte della sua Vitovska riprendendo ciò che un tempo era stato già sperimentato da Kante e ripreso successivamente da Zidarich. Dopo un lungo aver assaggiato da botte i Vitovska, Malvasia e Terrano, sia 2018 che 2019, con Matej degustiamo seduti in taverna le ultime annate in commercio a cui si aggiungerà una sorpresa. 


Skerlj – Vitovska 2017: questo vitigno non concede mai moltissimo ai profumi che si mantengono sempre abbastanza compatti ma al contempo di millimetrica precisione. Non puoi infatti non capire che questo vino sa di ginestra, susina, melone bianco, aghi di pino e roccia bagnata dal mare. Al gusto è nervoso, vibrante, espone senza vergognarsene la sua tessitura minerale imponente e la sua chiusura sapida, marina. Vino ancora giovanissimo ma che fa capire come da queste parti la vitovska sia un grande vanto territoriale.


Skerlj – Malvasia 2017
: lo ammetto, non sono un grande fan di questo vitigno, più di una volta ho degustato malvasia di Candia o malvasia puntinata in purezza che ho fatto fatica a deglutire. Ebbene, la malvasia istriana, per me, è un’altra cosa. Il suo carattere esuberante di questo vitigno, nel Carso, è infatti mediato da un territorio dove roccia, vento e mare non lasciano troppi spazi di manovra anche a vini aromatici come questo prodotto da Matej che è un concentrato di agrumi, ferro e sale con lievi accenni di albicocca disidratata e ginestra. Al sorso offre lo stesso stampo, è una carica calibrata di frutta gialla e sale e decisa freschezza. Bottiglia finita in un amen. 


Skerlj – Terrano 2017
: questo vitigno, appartenente alla famiglia dei Refoschi, è considerato da molti una delle espressioni più tradizionali e storiche del Carso tanto che, in passato, si dava come medicina a chi aveva bisogno di ferro. Questo fa capire come questo vino, grazie al DNA territoriale, sia segnato da una matrice minerale di grande impatto tanto che il suo sipario olfattivo si apre su note ematiche e terrose a cui seguono sensazioni di chiodi di garofano, china e muschio. All’assaggio il Terrano di Matej è vibrante di freschezza e sapidità quasi salmastra. Il tannino, come in tutti i Terrano, è garbato, quasi accennato, è questo permette a questo vino di essere un ottimo jolly a tavola. 

BONUS TRACK 

Skerlj – Vitovksa 2006: difficile far capire, a parole, tutto ciò che ho provato mettendo il naso nel bicchiere che esplodeva di aromi di bosso, terra rossa, agrumi canditi, tarassaco, sambuco, zenzero, refoli di erbe aromatiche. In scia morbide sensazioni di cera d’api si fondono a viva mineralità salmastra. Il sorso, di equilibrio smisurato, riunisce avvolgenza e nitore, ricchezza e leggerezza di beva. Si congeda senza fretta, richiamando all’appello, uno a uno, tutti gli aromi percepiti dal naso. Un piccolo grande capolavoro firmato da Matej e dal suo territorio. Grazie! 

Vitovska 2006 nel calice

Laherte Frères - Champagne Brut Blanc de Blancs “Nature”

Quinta generazione al lavoro nella maison fondata nel 1889 Michael Laerte dedica particolare attenzione a questo blanc de blanc ottenuto da un assemblaggio di Chardonnay, alcune da vigne molto vecchie. 


Nessun 
dosaggio, grande freschezza ma anche buon corpo, mineralità e note di pompelmo per una beva dissetante ed efficace. Una volta tanto gli enofighetti non hanno torto, va!

Luigi Tecce e il mito del suo Poliphemo 2006 in Magnum

di Luciano Pignataro

La Cabala nel vino. Se ne parla in genere quando si fa riferimento alle annate, le coppie pari e quelle dispari, oppure la stessa annata di diversi decenni: quante volte vi sarà capitato di sentirlo? La 2014 ricorda proprio la 2004, oppure l'alternanza delle annate piovose e siccitose. C'è in questo ciò che resta di magico nella matematica dei numeri che da sempre hanno avuto un significato esoterico per l'uomo: nonostante vengano usati per dare ordine alla realtà sino a decidere spudoratamente del nostro tempo, spesso e volentieri sono la porta dell'irrealtà. 

Come spiegare allora che mi ritrovo a parlare di Poliphemo 2006 dieci anni dopo? Non c'era premeditazione, ho deciso che era il vino del mio turno dopo aver attinto ad una delle 100 magnum, la numero 28 per la precisione messa generosamente a disposizione da Luigi Iavarone, giovanissimo patron del Trifolaio, una splendida trattoria in quel di Summonte dove vivono e lavorano due signori del Fiano di Avellino, Guido Marsella e Ciro Picariello. 

Luigi Iavarone

Qui abbiamo fatto un pranzo di altri tempi e fra i tanti vini provati e mangiati, avevo proprio deciso di parlare del Taurasi di Tecce, un vino che accompagnammo con entusiasmo sia dalla sua nascita, precisamente un debutto a Rocca san Felice nel marzo 2013, dieci anni fa, poco lontani dalla Mefite, un sfogo di gas letale da cui bisogna stare ben lontani per evitare di fare la fine degli animali che l'anno attraversata improvvidamente trovando morte certa e istantanea. Uno sbocco degli inferi, sicuramente. E, sempre dieci anni fa ne parlammo, proprio della 2006, in questa rubrica che allora oltre me e Carlo vedeva Ziliani come terzo partecipante. Ne è passato di vino nelle botti! 

Prevedemmo mirabilie in quegli articoli 

Ed ecco dunque, dopo dieci anni che torniamo a parlarne. Come tutti i montanari, gli irpini sono sostanzialmente anarcoidi indisciplinati e bastian contrari ma se dovessi individuare due figure che davvero si sono distinte in questa rinascita dell'enologia in queste colline difficili e silenti, non avrei dubbi: Antoine Gaita per il Fiano e Luigi Tecce per il Taurasi. Personalità complesse ma semplici al tempo stessi, che hanno avuto un rapporto con il vino da loro prodotto maniacale, pignolo, ossessivo. Due personalità vere, non costruite, abbastanza rompicoglioni per discettare di tutto a prescindere ma altrettanto colte ed educate da saper accettare il confronto e saper ascoltare. 

Luigi Tecce

L'ultima vendemmia di Antoine è del 2013, mentre per fortuna Luigi Tecce continua a regalarci annate straordinarie. Il suo non è il vino più buono, non è il migliore, ma è quello che ha più carattere. In una parola, si ricorda. Presuppone concentrazione prima di essere affrontato, ogni annata ha una storia a sé stante e la sua capacità di capire il frutto prima ancora del vino è affidata alla sua sensibilità. La sensibilità di chi sa cucinare molto bene e conosce la materia, i prodotti, perché io credo che per fare un grande vino bisogna avere un grande palato, la memoria di cose buone, non solo bevute a anche mangiate. 

Tecce e le sue vigne. Foto: Portovinoitaliano.it

L'edizione 2006 nasce dal suo rapporto stretto con Vinicio Capossela, e, per chi ancora non lo sapesse, il nome Poliphemo è proprio ispirato ad una sua composizione. I due anarchici del vino e della musica ne hanno fatto di zingarate in giro per l'Italia partendo dal Formicoso, un altopiano che ammaglia l'Irpinia alla Daunia in cui lo spirito diventa libero. Di questa 2006, con l'etichetta disegnata dall'artista, si è deciso dunque di fare cento Magnum. 

Ora, fatte queste premesse, cosa volete che vi possa raccontar del vino? 


Partiamo da due elementi che lo caratterizzano:
la strepitosa freschezza, dieci anni per un Aglianico sono un batter di ciglia, non parliamo poi delle vigne a Trinità di Paternopoli coltivate a raggiera che regalano appena una trentina di quintali ad ettaro di resa. Si, avete capito bene, il vino è ancora giovane, a cominciare dal colore rosso rubino.  Il secondo elemento è la mutevolezza del bicchiere, tipica dei grandi vini. 


In uno degli articoli su questa annata ho, felicemente, paragonato questo vino a Cassius Clay, una massa muscolare enorme e tuttavia agile, capace per tutto il tempo di saltellare attorno all'avversario e ogni tanto colpirlo. Ciliegia purissima, carruba, fumè, china, arancia, cuoio fresco. E potremmo continuare ancora per molto con i mirtilli, il fogliame d'autunno, il caffè, il sentore di tostatura, etc etc. 
Un naso che resta ogni volta spiazzata da un nuovo sentore ma dominato, ancora, dalla frutta croccante che immediatamente si ritrova al primo sorso. L'esplosione è immediata, prima l'acidità che ben predispone, disseta, poi la sensazione di calore, poi le note di frutta. Una beva complessa che monta sino a distendersi improvvisamente in un finale lunghissimo, decisamente amaro, preciso, che ripulisce il palato e lo predispone ad una nuova beva. Un vino che non conosce limiti nell'abbinamento ma che adesso, dopo dieci anni, ha finalmente almeno i tannini addomesticati anche se non domi e ancora ficcanti. 

Ritroviamo così, dopo dieci anni, il nostro entusiasmo per queste vigne al confine tra Paternopoli e Castelfranci, sul cocuzzolo dell'areale docg del Taurasi.

Edi Keber: storia di un vignaiolo di confine

Nell’ottocento lo chiamavano Coglio in italiano, Brda in Sloveno e Cuei in friulano. 


Il Collio, come tutti lo conosciamo oggi, è un fazzoletto di terra dove si coltivano circa 1.500 ettari di vigneto e Zegla, una manciata di declivi che salgono verso la Slovenia, è la “tana” di uno dei produttori più rappresentativi della zona ovvero Edi Keber, oggi coadiuvato dai figli Veronika e Kristian che, anche se non ufficialmente, ha ereditato il testimone del papà.

Edi Keber - Foto: ilmangiaweb.it

Vignaioli di confine li chiamano quelli come i Keber e, facendomi raccontare da Kristian la storia della loro famiglia, capisci come questa parola, CONFINE, nel loro territorio rappresenti una mera linea mobile tanto che il Collio, storicamente, ha cambiato i suoi limiti geografici per tre volte in circa settantacinque anni. Come ama raccontare spesso lo  Edi Keber, questi "cambiamenti" sono stati effettuati anche più volte durante la stessa notte così come accadde nel 1947 quando, dopo il trattato di Parigi, i contadini della zona, per ragioni culturali e non politiche, spostarono "furtivamente" i picchetti con i quali i militari delimitarono la separazione tra Italia e Jugoslavia (linea Morgan). 

Veronica e Kristian Keber

Per capire meglio il concetto di vignaioli di confine Kristian ha voluto farmi un esempio assolutamente calzante: ”In questo momento – racconta Keber - ci troviamo a Zegla, frazione di Cormons, Italia, mentre laggiù, a Medana, a circa tre chilometri da qua, sulle colline del Brda sloveno, ho l’altra mia azienda dove gestisco i vigneti ereditati dal nonno. Per comprendere meglio il paradosso, se fossimo ad esempio in Francia, io avrei due aziende, su due Stati diversi, che fanno riferimento allo stesso Cru, Zegla, visto che il comune censuario di questi vigneti, localizzati in Italia, fa ancora riferimento a Medana quando era sotto l’Austria…...”. 


Questa terra, unica, che solo guerre e politica hanno potuto dividere, ha un altro fattore comune che rende speciale il terroir del Brda sloveno e del Collio Friulano: la matrice del suolo. Qua, infatti troviamo la ponca (opoka in sloveno) che altro non è che un impasto di marna (argilla calcarea) e arenaria (sabbia calcificata) stratificatesi nel corso dei millenni. Un terreno, pertanto, ricco di sali e microelementi, dal quale la vite riesce a estrarre sostanze che conferiscono ai vini una intensa mineralità di fondo. 

La ponca

Piove, con Kristian non riusciamo a girare tra i vari terrazzamenti dove sono coltivati, attualmente, circa 12 ettari di vigneto, con piante anche di 80 anni, divisi tra ribolla gialla, malvasia istriana, friulano accanto a pochissime piante di merlot. 


Sulla conduzione agricola della sua azienda Kristian ha pochi dubbi: ”Oggi tutto è gestito secondo i principi biologici e biodinamici ma, col tempo, vorrei gestire tutto secondo il principi della permacoltura e dell'agricoltura del non fare di Masanobu Fukuoka creando un vigneto sinergico i cui principi si basano su quattro pilastri ovvero nessuna lavorazione della terra, nessun concime chimico o compost, nessun uso di diserbanti nè erpici e impiego di prodotti chimici”. L’idea di fondo è far diventare la sua azienda vinicola una vera e propria fattoria agricola, come ai tempi del nonno, dove la vite convive con gli alberi da frutto, gli ortaggi e gli animali formando una sorta di micromondo rurale dove ogni elemento è funzionale all’altro. 


Ci ripariamo dalla pioggia in cantina dove la vinificazione è molto semplice è tradizionale “L’uva – racconta Kristian – viene raccolta viene pressata a grappolo intero per preservare le ossidazioni in pigiatura, di seguito il mosto viene decantato e posto nelle vasche di cemento dove avviene la fermentazione con lieviti non selezionati. In tali contenitori il vino si affina ulteriormente almeno 5 mesi mentre la parte restante evolve in contenitori di rovere da 4 ettolitri tanto per fornirgli un carattere più marcato”.  


Contrariamente a molto altri colleghi dei Keber la cui gamma di vini aziendale prevede tantissime referenze, l’azienda oggi produce un solo, grande, vino ovvero il Collio Bianco, blend di ribolla gialla, malvasia istriana e friuliano, che la famiglia considera una perfetta sintesi del territorio, un vero e proprio Grand Cru del Collio che ha avuto una genesi abbastanza travagliata.


Molto travagliata – sottolinea Kristian – e tutto è iniziato a metà anni ‘80 quando mio papà Edi era a cena con alcuni ospiti uno dei quali, dovendo partire il giorno dopo, richiese un souvenir del Collio. In casa c’erano tanti grandi vini ma nessuno di questi rappresentava al 100% la nostra Terra. Da quel momento in poi mio padre decise che era il momento giusto per portare avanti un progetto che già aveva in mente. Da quattro vini (2 bianchi e due rossi) che si producevano fino al ‘95, l’anno dopo decise di dare un primo taglio dando vita solo a due bianchi, un Tocai in purezza e Collio bianco dove vi era un uvaggio di tocai, ribolla gialla, malvasia con piccole percentuali di pinot grigio e pinot bianco. Poi, nel 2008, la svolta decisiva: Edi Keber produce un unico vino, il Collio Bianco, essenzialmente da uve friulano, con la classica K in etichetta” 


L’unica eccezione a tutto questo riguarda una piccolissima produzione di merlot in purezza, circa tremila bottiglie, che viene prodotto solo bella grandi annate. In commercio attualmente si trova la Riserva 2016.  


Il tempo che mi rimane dopo questa lunga chiaccherata con Kristian non è tantissimo, abbiamo solo il tempi di degustare due vini: 


Edi Keber – Collio 2018
(friulano, malvasia istriana e ribolla gialla): quando un blend come questo sa di territorio c’è poco da fare, emoziona e rizza i peli sulle braccia grazie ad un perfetto mix dove le spezie orientali donate dalla malvasia istriana si fondono con la struttura del friulano e il dinamismo e la personalità della ribolla gialla. Al gusto il vino esalta il palato per la sprizzante sapidità e per un finale dove la polpa della frutta bianca avvolge il cavo orale mantenendosi persistente per molti minuti. Un vino assolutamente giovanissimo che potrà dare soddisfazioni per almeno due lustri. 


Kristian Keber – Brda 2017
(Ribolla Gialla 50%, Friulano 40%, Malvasia Istriana 10%): a Medana, a due passi da Zegla e dalla casa paterna, Kristian gestisce la sua azienda e questo vino può essere definito, anche dal colore giallo intenso, come una sorta di orange wine visto che la  macerazione avviene a uva intera-raspo per 5 mesi durante la fermentazione alcolica spontanea in vasche di cemento. Un affinamento di due anni in grandi botti di rovere ed un altro anno di bottiglia e il vino è pronto per essere degustato e la 2017 è l’ultima annata in commercio. Non pensate a questo vino come uno dei tanti macerati “pesanti” che si trovano in giro, Kristian è un grande talento e un perfetto equilibrista in quanto il vino risulta assolutamente leggiadro esplodendo in note di erbe aromatiche, agrumi e sale. Sorso intenso, dove volume e senso della misura sono dannatamente proporzionati così come il finale di bocca che regala armonie tattile di grande personalità. Bravo Kristian!

Anteprime Toscane rinviate a Maggio 2021

È stata rinviata a maggio 2021 la settimana delle Anteprime di Toscana. L’appuntamento più noto e stimolante con le eccellenze del vino toscano, che tradizionalmente ha luogo nel mese di febbraio, slitta a primavera a causa dell’emergenza sanitaria. 


A dare la notizia è stata la vicepresidente e assessore all’agricoltura Stefania Saccardi, d’intesa coi Consorzi di tutela dei Vini Toscani DOCG/DOC/IGT, riuniti nell’associazione AVITO. “Era impensabile annullare nel 2021 le Anteprime di Toscana, che da sempre rappresentano il momento clou in cui il sistema vitivinicolo toscano, vera spina dorsale dell’intero comparto agricolo regionale, si presenta ai mercati e ai media internazionali con le nuove annate - ha precisato la vicepresidente Saccardi - soprattutto in un momento come questo, in cui la promozione può costituire una leva formidabile, se non per aumentare, almeno per mantenere posizioni sui mercati internazionali”. In particolare, le nuove date fissate per l’evento vanno dal 14 al 21 maggio 2021 e vedranno il susseguirsi delle presentazioni dei vini e dei Consorzi delle principali denominazioni di origine della regione. 

“Non tutto il male viene per nuocere - ha ribadito il presidente di AVITO, Francesco Mazzei - i mesi primaverili sono infatti il periodo ideale, non solo per degustare vini più pronti, ma anche per far vivere e visitare gli splendidi territori del vino nel loro massimo splendore a tutti gli ospiti che auspichiamo di poter accogliere, numerosi, in Toscana”. La kermesse, organizzata dalla Regione Toscana, Camera di Commercio di Firenze e dai Consorzi, vede la partecipazione di molti giornalisti nazionali ed internazionali e coinvolge in modo itinerante un po’ tutti i territori della Toscana. “Con un’annata che in vigna è stata eccezionale, siamo certi che i nostri viticoltori sapranno esprimere vini altrettanto eccellenti - continua l’assessore - e questa sarà la risposta più convincente del mondo del vino toscano a qualche maldestro tentativo di frode a cui le nostre griffe sono ogni tanto soggette, e che proprio grazie alla serrata collaborazione dei Consorzi e degli Organismi di controllo, riusciamo a stanare”. 

Fonte: Regione Toscana - Ufficio stampa


Ormanni - Chianti 2018


di Carlo Macchi

Ormanni è una delle mie cantine del cuore ma questa volta ha sorpreso anche me. Chianti (non Chianti Classico!) 2018: mix di fresca bontà con frutta rossa a fiotti e corpo adeguato dotato di tannini importanti ma rotondi. 


Piacevolissimo e pensate che costa molto meno di 10 euro… siete già in auto?