Sorpasso: a Carema va di scena la viticoltura eroica di Martina e Vittorio


Di Andrea Petrini

I principali problemi del vino di Carema, fino a qualche tempo fa, erano sostanzialmente due: l’estrema frammentazione dei vigneti, spesso suddivisi in piccolissime parcelle sparse per il territorio, e il progressivo abbandono della viticoltura visto che, tranne rare eccezioni, le vigne sono gestite o dagli anziani del paese che conferiscono per la maggior parte alla cantina sociale oppure, per eredità, appartengono a famiglie che non hanno nessuna intenzione di continuare a coltivarle.

Martina e Vittorio

Se è vero che il primo problema, oggi, rimane ancora in piedi, anche perché insito nel DNA di questo territorio, è vero anche che Carema e il suo vino, fortunatamente, stanno vivendo una sorta di seconda giovinezza perché da qualche tempo tanti ragazzi stanno investendo tempo e risorse in questa DOC dando vita a quella che chiamerei senza dubbio la Nouvelle Vague del Carema. E’ il caso, ad esempio, di Vittorio Garda e Martina Ghirardo, nati e cresciuti nel Canavese e nel comune di Carema, che invece di fuggire via dai luoghi natii, come tante coppie della loro età, hanno deciso di rimanere nel loro territorio cercando di costruire proprio là il loro futuro fondando nel 2012 l’azienda Sorpasso il cui nome si ispira ad una favola di Esopo.

La lepre un giorno si vantava con gli altri animali: Nessuno può battermi in velocità – diceva – Sfido chiunque a correre come me.
-La tartaruga, con la sua solita calma, disse: – Accetto la sfida.
-Questa è buona! – esclamò la lepre; e scoppiò a ridere.
-Non vantarti prima di aver vinto replicò la tartaruga. – Vuoi fare questa gara? -Così fu stabilito un percorso e dato il via.
La lepre partì come un fulmine: quasi non si vedeva più, tanto era già lontana. Poi si fermò, e per mostrare il suo disprezzo verso la tartaruga si sdraiò a fare un sonnellino. La tartaruga intanto camminava con fatica, un passo dopo l’altro, e quando la lepre si svegliò, la vide vicina al traguardo. Allora si mise a correre con tutte le sue forze, ma ormai era troppo tardi per vincere la gara.
La tartaruga sorridendo disse: “Non serve correre, bisogna partire in tempo.
Come nella favola di Esopo, noi crediamo che non sia la velocità a dare i risultati. Servono tenacia e forza, le stesse che noi ogni giorno mettiamo nel nostro lavoro.

Vado a trovare Martina (Vittorio era in vendemmia) una mattina di ottobre, durante la festa del vino di Carema. Ci diamo appuntamento ad Airale dove ha parte dei suoi vigneti ed è inoltre situata anche al piccola cantina aziendale ricavata da una vecchia casa dell’800 di recente ristrutturazione. 


Da qua, con grande fatica, cominciamo ad arrampicarci sui ripidi pendi che portano in cima alla collina (siamo più o meno a 500 metri) da dove dominiamo la vallata sottostante. Non stanco mai di ripetermi: solo calpestando queste vigne, incastonate nella roccia, possiamo capire quanta fatica facciano questi ragazzi a gestire le loro bellissime vigne di nebbiolo (si trovano anche varietà autoctone come Neretto e Ner d'Ala) che in totale, sparse in tantissime parcelle, si "estendono" per circa un ettaro. I vigneti, per ora quasi tutti in affitto, sono per 2/3 allevati a pergola tradizionale e 1/3 a spalliera.




Riscendiamo verso la cantina, ultimata nel 2016 per cui, come mi spiega Martina, architetto prestato al mondo del vino, le prime due annate prodotte del loro vino, ovvero 2014 e 2015, sono state vinificate a Montestrutto, fuori dalla DOC Carema, ma comunque appartenenti alla DOC Canavese.
Entriamo, la struttura è piccola ma ordinatissima, tutto sembra fatto su misura per lavorare al meglio anche in un pochi metri quadri. 


"Tutti i vini che produciamo hanno una base al 100% nativa, dalla quale cerchiamo di estrarre quanto più possibile le caratteristiche del nostro territorio" - esordisce così Martina mentre mi spiega la loro filosofia di vinificazione proseguendo che "il vino viene fatto fermentare sempre in acciaio attraverso un pied de cuve dove il lievito proviene direttamente dal nostro vigneto. Dopo la fermentazione, il vino rimane sulle bucce per circa 3 mesi dopodiché, una volta torchiato, rimane per alcuni mesi in acciaio inox, a cui seguono mediamente 12 mesi di affinamento in botti di legno (barrique e tonneau) esauste prima di essere infine imbottigliato, senza filtrazioni né chiarifiche, in nemmeno 2000 unità". 
Nella testa di Vittorio e Martina c’è anche futura produzione di un metodo classico e di un bianco a base riesling ed erbaluce ma tutto è ancora in divenire.


La degustazione parte con alcuni assaggi dalla botte e Martina mi fa:” Andrea, questo è il vino proveniente dalle vigne dove siamo stati prima, è il vino di Airale, che nelle nostre intenzioni, anche se ora non ha senso vista la quantità, potrebbe diventare un Cru di Carema”. Ha ragione, il vino seppure ancora in affinamento, è già espressivo, luminosissimo, più spostato sul floreale che sul fruttato, e con una bocca talmente calibrata che già ora potrebbe incantare più di qualche palato allenato.


Ci sediamo, ancora frastornato per la sorpresa precedente, e mi viene versato il Canavese DOC Nebbiolo "Suflin" 2015 (85% nebbiolo, 15% Neretto e Ner d'Ala) il cui nome, in termini dialettali, significa pignolo, preciso, così come tutto il lavoro dei nostri giovani vignaioli di Carema. Pur essendo la loro seconda vinificazione, capisco che Vittorio e Martina hanno già le idee ben chiare su cosa cercano in un vino ovvero personalità associata a territorialità e questo Suflin ne è l'esempio lampante: fruttato, minerale, fresco, ammalia il palato per ritmo ed intensità sapida.


Il Carema 2016 (85% nebbiolo, 15% Neretto e Ner d'Ala), prima annata vinificata nella nuova cantina, è figlio di un millesimo più equilibrato ed ha un profilo olfattivo inizialmente terroso che poi si apre svelando una freschissima viola a cui seguono sensazioni di lampone e leggera speziatura. La mineralità di fondo spiega la sua longevità che la forza del sorso ribadisce. Finale rigoroso, rigoroso, col senso del tempo che fornirà ancora più sfaccettature al vino.


Seguite Martina e Vittorio, sono giovani, bravi, giustamente ambiziosi e non potranno che migliorare col tempo. Un po' come il loro vino!

Giacomo Borgogno – Barolo Cannubi 2010


di Lorenzo Colombo

E poi ti capita di assaggiare (di bere in realtà) un vino così e ti rendi conto che le 300 battute previste per il VINerdì IGP non possono assolutamente bastare, tante sarebbero le cose da scrivere per poter raccontare la miriade di sensazioni che un simile Barolo ti trasmette.


In realtà non è così, alla fine basta un singolo aggettivo: GRANDIOSO.

Alla scoperta della Malvasia passita dei Colli Piacentini - Garantito IGP

di Lorenzo Colombo

Sono ben 19 le varietà di Malvasia iscritte al Registro Nazionale delle Varietà di Vite e la Malvasia di Candia Aromatica è stata tra le prime ad essere inserita in questo catalogo, nel maggio del 1970. Nel censimento del 2010 se ne contavano poco meno di 900 ettari.
Nonostante il vitigno sia autorizzati in cinque vini a denominazione ed in 21 ad Igt, tra Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Molise ed Emilia Romagna la sua diffusione è prettamente localizzata in quest’ultima regione, dove se ne trova(va)no 716 ettari (sempre in base al censimento del 2010). Nello specifico è localizzata principalmente nella provincia di Piacenza, ed in minor misura in quelle di Parma e Reggio Emilia.


Durante l’ultima edizione del Mercato dei vini FIVI, a Piacenza, abbiamo avuto l’opportunità di partecipare ad una degustazione dal titolo “La Malvasia Passita dei Colli Piacentini”, ovvero la versione nella quale il vitigno dà (probabilmente) il meglio di sé.
La conduzione era affidata a tre produttori, Stefano Pizzamiglio, titolare dell’Azienda La Tosa, un cui vino “L’Ora Felice” era in degustazione, Rita Babini dell’azienda romagnola Ancarani e Mario Pojer dell’azienda trentina Pojer e Sandri. 


La maggior parte dei vini erano classificati come Colli Piacentini Doc Malvasia Passito, frutto quindi di uve Malvasia di Candia Aromatica, che debbono essere utilizzate per almeno l’85%, nei vini degustati (anche in quelli non a denominazione) se non diversamente specificato, il vitigno è utilizzato in purezza. Eccovi le nostre impressioni su quanto assaggiato (i vini sono elencati in ordine si servizio):

Loschi – Colli Piacentini Doc “L’Arte Contadina” 2016

Uve provenienti da vigneti situati nei pressi di Castell’Arquato, su suoli con alta percentuale sabbiosa. 


Color oro antico. Intenso al naso, ciliegia sotto spirito (sembra un vino liquoroso), pesca ed albicocca sciroppata. Strutturato, morbido, sentori di miele, canditi, scorza d’arancio, panettone. Molto mediterraneo.

Valla – Igt Emilia Malvasia Passito “Boccadoro” 2015/2016

I vigneti si trovano nel comune di Ziano Piacentino,il particolare metodo vendemmiale ne fa una via di mezzo tra un vino passito ed uno da vendemmia tardiva. 


Giallo-oro luminoso. Molto intenso al naso, fresco, decisamente agrumato, elegante, alcolico, accenni di botritis. Fresco ed agrumato, erbe officinali, timo, salvia. Decisamente particolare ed interessante. E’ il vino che in assoluto abbiamo preferito.

Terzoni – Colli Piacentini Doc Passito “Sensazioni d’inverno” 2014

Da vigneti situati a Becedasco. 
Color ambra, luminoso. Molto interessante al naso, intenso, alcolico, sentori di Calvados e di liquore d’albicocca. 


Di buona struttura, alcolico, morbido, pesca sciroppata, albicocca, lunghissima la sua persistenza.

Marco Cordani - Colli Piacentini Doc Malvasia Passito “Sulì” 2015

Iniziamo col dire che il vino non è in commercio. Peccato, poiché c’era molto piaciuto.
Infatti la 2015 è stata l’unica annata (sperimentale) di produzione di questo vino, tra l’altro mai messo in vendita. Avrebbe dovuto essere prodotto nuovamente quest’anno, ma un grandinata ha distrutto il 90% delle uve a bacca bianca.
I vigneti sono situati a Celleri, frazione di Carpaneto Piacentino, a 190 metri d’altitudine con esposizione sud-est, allevati a Guyot su suoli argillosi-sassosi. Le uve vengono appassite al sole, in cassette, la fermentazione si svolge in acciaio e l’affinamento in anfora per un anno.


Color topazio. Intenso ed elegante al naso dove presenta leggeri accenni ossidativi, ricorda a tratti uno Sherry. Strutturato, elegante, fresco, con bella vena acida, dolce/non dolce, sentori di fichi secchi e datteri.Vino notevole, e molto mediterraneo.

Lusenti – Colli Piacentini Doc Malvasia Passito “Il Piriolo” 2012

I vigneti si trovano a Ziano, in Località Casa Piccioni a 230 metri d’altitudine, i suoli sono di natura argillosa-limosa, il sistema d’allevamento è in parte a Guyot ed in parte a Casarsa con densità da 3.200 a 3.800 ceppi/ettaro.Ventiquattro i mesi di affinamento in botte ed altrettanti di bottiglia.


Color ambrato luminoso. Bel naso, intenso, sentori di miele, datteri, fichi secchi, ricorda a tratti un distillato. Morbido e pastoso, leggermente pungente, albicocca disidratata, tornano alla bocca i sentori di distillato, buona la persistenza. Elevata la percezione della dolcezza.

Tollara – Colli Piacentini Doc Malvasia Passito “L’Angelico” 2011

Le uve provengono dalle colline di Becedasco, in Val d’Arda, il sistema d’allevamento è il Guyot. Appassimento per circa quattro mesi, affinamento in barriques per dodici mesi.


Color topazio, intenso e luminoso. Mediamente intenso al naso, sentori di fichi secchi, miele di castagno, caramella all’orzo. Buona la struttura e bella la vena acida, leggermente bruciante, ritroviamo la caramella all’orzo, buona la sua persistenza.


La Stoppa – Emilia Igt Malvasia Passito “Vigna del Volta” 2007

Da vigneti gestiti in biologico, allevati a Guyot con densità di 6.000 ceppi/ettaro, su suoli di natura argillosa-limosa. Fermentazione con lieviti indigeni, affinamento in barriques francesi usate.


Color topazio intenso, presenta numerosi sedimenti nel bicchiere. Buona l’intensità olfattiva, elegante, caramella al rabarbaro, frutta secca. Di buona struttura, asciutto, note tanniche, tornano sia la frutta secca che la caramella al rabarbaro, lunga la sua persistenza. 

La Tosa – Colli Piacentini Doc “L’Ora Felice” 2009

Le uve provengono da tre distinti vigneti, situati su suoli argillosi-limosi (terre rosse antiche), ad altitudini variabili tra i 185 ed i 210 metri slm. Sostituita la prima bottiglia che presentava qualche problema (dieci anni sono tanti), la seconda si presentava con un color oro antico, simile a quello dell’olio. 


Fieno di montagna al naso. Fresco e mentolato al palato, con bella vena acida, agrumato, sentori di miele, lunga la sua persistenza.

Barattieri – Vin Santo Doc dei Colli Piacentini “Albarola” 2008

Trattandosi di un Vin Santo la metodologia produttiva e lo stile del vino sono completamente diversi rispetto ai precedenti. Non cambiano le uve, che vengono sempre poste in appassimento, l’affinamento invece si svolge in caratelli di rovere per nove anni.


Color ambra, intenso e luminoso. Intenso al naso, alcolico, sembra un vino liquoroso, ricordi di Rhum. Di buona struttura, pastoso, leggermente pungente, un poco bruciante, miele di castagno su lunga persistenza. 

Cantine Leonardo da Vinci - S.to Ippolito 2016 Igt Toscana

di Stefano Tesi

Temendo il peso del vetro, del vinone e del produttore, ho lasciato la bottiglia a candire in attesa di stagioni freddissime e di cibi tenacissimi. 


Invece questo taglio di Sangiovese, Merlot e Syrah fatto nel cuore delle terre leonardesche mi ha sorpreso per eleganza e piacevolezza: legno sotto controllo, frutti rossi morbidi e beva profonda, ma senza maschere.

Pruneti Extra Gallery a Greve in Chianti è il posto più cool per l'olio della Toscana?

Le sfide sono belle quando sono difficili. Ma sono ancora più belle quando, oltre che difficili, anziché da un accurato piano di battaglia prendono le mosse da un’intuizione che si prova a mettere a fuoco in corso d’opera, con le scariche di adrenalina e gli smarrimenti che ne conseguono.
Facciamo un esempio: che si vuol intendere se si usa l’espressione “Extra Gallery”? Soprattutto se è il nome dato a qualcosa che è a metà strada tra un negozio gourmet, un bar-caffè, una stuzzichineria, uno spaccio aziendale, un cenacolo per appassionati, un ritrovo per gaudenti, un punto di riferimento per amanti della natura, un polo didattico, una bottega, un’accademia, una biblioteca e financo una provocazione?

Accademia

Ecco, quello che i fratelli Gionni (scritto proprio così: Gionni) e Paolo Pruneti, chiantigiani di schiatta chiantigiana che di più non si potrebbe (cru San Polo), hanno aperto a Greve, proprio sul fondovalle e sul lungostrada principale, dove scampare alla vista del viandante, anche per via dell’architettura biancheggiante, è impossibile, è una cosa che si chiama (appunto) Pruneti Extra Gallery: minimalista e di design, come si direbbe oggi.
Ora, è vero che la famiglia è famosa in Toscana come titolare di un ottimo frantoio e per la produzione di molti, eccellenti extravergini. Non a caso, alla Gallery abbondano l’olio novo 2019 e tanti prodotti a base d’olio: dagli ovvi condimenti in nove diverse tipologie a varie cose mangerecce, inclusi accostamenti arditi e sfiziosità non risapute, che si possono sia consumare al banco, sia asportare. Ma fin qui sarebbe tutto molto normale.

Bottega
Già un po’ meno normale e che al bancone del bar si possano assaggiare cocktail fatti a regola d’arte ma sempre “sporcati” creativamente con l’extravergine della casa: il famosissimo Negroni diventa così, con l’aggiunta di un monocultivar di Moraiolo, un piccante “Twist di negroni in EVO”, mentre da quella che i creatori definiscono “la massima espressione delle tecniche della mixology” prende origine un cocktail “Oliveto”, di nuovo a base di monocultivar di Moraiolo della casa. Dal connubio il rum bianco e vino Gallo Nero (Pruneti Bio, è ovvio) ecco infine un inaspettato “Chianti Classico Mojito”.
Sì perché, come si sarà capito, i Pruneti oltre che olio producono pure vino, tutto ovviamente biologico.
Ma se solo così fosse, sarebbe ancora un giochino troppo facile.
Una delle attività storiche della famiglia, anzi quella da cui risale la sua gloria più antica e che naturalmente viene tuttora portata avanti con successo tra le colline chiantigiane è la coltivazione dell’Iris, del Giaggiolo insomma, ovvero di quel fiore simbolo di Firenze che molti scambiano, incomprensibilmente, per un giglio. Gli utilizzatori normali, in tutto il mondo, ne ricavano l’essenza per fare profumi.
Poteva tale fondamentale branca del Pruneti family business restare fuori dalla Gallery?
Nemmeno a pensarci. Ed ecco così, al posto della prevedibile acqua di colonia, saltare fuori una spumeggiante, delicata, invitante birra artigianale stile blanche belga all’aroma, appunto, di Iris. Eccellente, va detto. Con aromi floreali che ben si sposano con l’amarognolo di fondo, rendendo la bevuta oltremodo godibile.
E con questo, sull’allegro buglione della Gallery forse potrebbe bastare. Ma non è ancora tutto.

Biblioteca

Per digerire, o come cordiale, ecco il liquore allo Zafferano, made in Pruneti estate si capisce, che i palati più raffinati riconosceranno anche come ingrediente delle polibibite – per dirla coi futuristi – di cui sopra.
Il tutto in questo grande, luminoso, spigliato ambiente ove si può anche sedere e rilassarsi, oppure fare piccole sessioni didattiche di assaggio e di abbinamento di extravergine. E dove i due fratelli e il loro staff si aggirano accogliendo i clienti, dando spiegazioni, offrendo assaggi.


Il buon cronista a questo punto non può più trattenersi e lancia l’ingenerosa domanda: “Ma il progetto finale qual è? E dove volete arrivare?”.
Paolo Pruneti non si turba. Scrolla le spalle e con un sorriso disarmante ammette: “Non lo sappiamo nemmeno noi. Volevamo creare un posto in cui si potesse andare per parlare dei prodotti della nostra terra e soprattutto si potesse capirli, ma senza annoiarsi né limitarsi a una cosa sola. Il primo obbiettivo era facile da raggiungere, il secondo niente affatto. 

Extra Gallery Experience

A chi viene qui noi vorremmo semplicemente offrire gli strumenti per riuscirci. E il migliore ci sembra quello di assaggiare, ragionando in compagnia. Giornalisti compresi, beninteso”.
Benvenuti alla Pruneti Extra Gallery, la galleria che non si capisce cos’è, ma che per fortuna c’è.

Pruneti Extra Gallery
Piazza Trento 1, Greve in Chianti
Tel. 055 8555091
www.pruneti.it

Tenuta del Cavalier Pepe - "La Loggia del Cavaliere" Taurasi riserva DOCG 2008


Ma quanto tempo bisogna aspettare il Taurasi? Difficile dare una risposta, soprattutto dopo questo riassaggio del cru di Milena Pepe ottenuto sulle colline delle famose località della denominazione del Taurasi: Carazita, Pesano e Brussineta siti nei comuni di Luogosano e Sant’Angelo all’Esca.


Il colore è ancora rubino, la freschezza domina la beva e il palato ancora cerca equilibrio. Che fare? Aspettare ancora o berlo su una carne alla brace senza perdere altro tempo.

La Fortezza ovvero come la Falanghina del Sannio può sfidare il tempo

di Luciano Pignataro

La Falanghina viene vissuta psicologicamente come un bianco di pronta beva, ed è così che finiscono quasi tutti i suoi dodici milioni di bottiglie tra doc Sannio e igt Beneventano: stappate appena possibile sulla cucina di mare dove sono molto efficaci grazie all'agrumata freschezza in bocca, al naso floreale e alla chiusura amarognola che non guasta mai a tavola negli abbinamenti. Abbiamo però avuto molte prove della sua longevità e delle sue capacità evolutive, crescono i produttori che ritardano l'uscita di almeno una etichetta e i risultati sono davvero interessanti.


Ecco perché stavolta voglia parlare di una verticale fatta a La Fortezza di Torrecuso. Si tratta di una azienda relativamente giovane, nata ufficialmente nel 2006 per la volontà di Enzo Rillo, imprenditore figlio di contadini, di tornare ad investire nella terra. Ha così recuperato una bella struttura che è diventata punto di riferimento nel comune principale del Taburno, a cominciare dai mercatini di Natale che attraggono migliaia di visitatori da ogni dove, usata anche per la banchettistica. Insomma un circuito chiuso che sta funzionando e che ha alle spalle ormai 65 ettari di proprietà, tra cui, quelli più recenti, acquistati dall'azienda Ocone nella dirimpettaia Ponte. Il protocollo è quello tipico campano: vitigni autoctoni (aglianico e piedirosso per i rossi, falanghina, fiano e greco per i bianchi), lavorazione in acciaio per i vitigni a bacca bianca. In azienda da sei anni è arrivato Vittorio Festa, enologo abruzzese, figlio d'arte, attento alle tendenze che punta a fare vini minerali, freschi, di carattere. E in effetti le ultime annate hanno davvero stupito e trovato consenso anche tra le guide specializzate.

Enzo Rillo

Ci siamo trovati in azienda, a conduzione biologica certificata, la settimana scorsa in occasione di una verticale di Falanghina e vogliamo darne conto perché davvero interessante.


Falanghina del Sannio 2018 doc
Una bottiglia che conferma le caratteristiche di questo bianco sul Taburno nel Sannio Beneventano. La freschezza è ancora travolgente, sarebbe giudicata eccessiva da ogni commissione di degustazione degli anni '90. Al naso sentori di limone che sono preponderanti sulle note floreali, al palato l'acidità domina la beva e la trascina sino alla fine in velocità verso una conclusione leggermente amarognola. Insomma, un bianco ben lontano dall'equilibrio e che ha una lunga vita davanti.

Falanghina del Sannio 2017 
L'annata siccitosa ha avuto l'effetto di equilibrare in anticipo questo vino che si presenta sempre con una buona acidità, decisamente meno scissa del precedente perché alle note agrumate  aggiunge quelle di albicocca e pesca. Al palato la concentrazione appare evidente, l'impatto è più equilibrato, più pieno. Decisamente piacevole con un finale che conduce la beva verso il tono amarognolo che ripulisce il palato. Un vino insomma da attendere ancora poco prima dello stappo.


Falanghina del Sannio 2016 
Tre anni non sono sufficienti alla falanghina per assorbire completamente la nota acida che resta prima percezione nel sorso si assaggio. Il naso appare ancora fresco, con note di biancospino e ginestra molto piacevoli. Al palato il vino si avvia verso l'equilibrio, con la freschezza che fa da spalla, si avverte una buona nota di calore all'ingresso, finale davvero entusiasmante per una bottiglia che si presenta assolutamente in forma.

Falanghina del Sannio 2014
Saltiamo la 2015, non disponibile perché letteralmente esaurita. Ecco allora che la prima bottiglia dove il fruttato prevale sull'agrumato è questa dopo cinque anni figlia di una stagione tutto sommato equilibrata. Al naso fa capolino anche una piccola nota fumè, tipica di tutti i bianchi invecchiati provenienti da suolo vulcanico. Al palato il sorso è pieno, piacevole, ben equilibrato dall'ingresso sino alla chiusura, decisamente piacevole e convincente. Un vino nella sua piena maturità espressiva. E siamo a cinque anni!

Falanghina del Sannio 2013
Concludiamo con questo bianco di sei anni che conferma la straordinaria energia e longevità della Falanghina. Piacevole ed efficace che al naso riesce a sviluppare una complessità interessante che passa dalla frutta bianca matura a piccole note di miele d'acacia, sbuffo fumè. Al palato c'è piena corrispondenza naso bocca con alcol e acidità in equilibrio. Chiusura vitale, amara, lunghissima.


Ora, per capire di cosa parliamo, vi diciamo che questo bianco viene venduto in azienda sotto i dieci euro. Coltivato sui 400 metri di altezza con una resa che oscilla tra i 90 e i cento quintali per ettaro, è sicuramente un vino di grande rapporto tra qualità e prezzo. Questa verticale esprime le sue potenzialità perché un appassionato dovrebbe farne incetta, conservare per tre o quattro anni e poi iniziare a stappare per godere del massimo che questo vitigno è in grado di regalare.

L'Alto Piemonte racchiuso nel Gattinara 2014 di Franchino

di Carlo Macchi

Appena arrivato in Alto Piemonte mi sono cimentato con un sontuoso bollito. Forse non era l’abbinamento ideale ma il Gattinara 2014 di Franchino mi sfrucugliava troppo. 


Annata tragica ma il vino l’ha superata alla grande, con uno slancio austero e una tannicità ruvida ma “figlia della vendemmia”.  Una certezza!

Tutto sul Cacciucco Day 2019 a Poggibonsi


di Carlo Macchi

I livornesi e tutti quelli che si sentono chiamati in causa sulla primogenitura del Cacciucco stiano tranquilli. In questo articolo non vogliamo ATTENTARE alla maternità cacciucchesca ma solamente prendere atto di uno sviluppo geografico, mooooooooooolto positivo (almeno per me) che questa storica zuppa di pesce ha avuto.
Nessuno infatti nega che abbia natali labronici, che sia stata concepita dai pescatori con il pesce più povero esistente in barca. Siamo di fronte a una zuppa di pesce corposa, un po’ “figlia di buona pesca” (se ci è permesso il termine) non solo nel senso che nasceva dagli esuberi del pescato, ma da tanti pesci e non da un solo padre ittico: nel tempo è assurta a simbolo di zuppa di pesce, con tutte le diversità (labronica, viareggina e via cantando) che possono incunearsi in un piatto testualmente melting pot .


Vi faccio degli esempi per spiazzarvi: ci vuole o non ci vuole una foglia di salvia sotto o sopra al pane? Quali pesci vanno cucinati per il brodetto? Di questi solo la testa o il pesce intero? Quanto pomodoro? Cotture separate o assieme e a scalare? Cicala si o cicala no? Il gamberone è stata una concessione all’opulenza della civiltà dei consumi?
A voi le ardue sentenze, perché in questo articolo non voglio assolutamente ricercare la ricetta ideale o le primogeniture ma solo informarvi e farvi sbavare. Avete letto bene, SBAVARE! Come bambini davanti al negozio di caramelle con la commessa stronza che si gusta un bonbon nel mentre allestisce la vetrina. Ma prima diamo tempo al tempo e partiamo dal termine della Seconda Guerra Mondiale.

Poggibonsi

A Poggibonsi, cittadina al centro del mondo del Chianti nonché dotata di ferrovia importante e quindi di adeguati collegamenti, da tempo esiste un locale che si chiama Alcide. Nato come mescita di vino e poi trattoria, nel tempo si è piano piano convertito a ristorante.
A un certo punto scatta la scintilla: i fratelli Ancillotti, che hanno ottimi collegamenti con la costa, decidono di dedicarsi alla cucina di pesce. La loro fortuna è la sorella, grande cuoca, e il momento economico, che permette al pesce di essere “sdoganato” come consumo non dico giornaliero ma quasi. La ciliegina sulla torta è l’idea di proporre un piatto che più tipico non si può: il Cacciucco. Il resto è storia e una storia molto saporita e gustosa che, alla faccia di labronici invidiosi, ha visto Alcide (a 80 chilometri dal mare) proporre da almeno 70 anni un Cacciucco famoso in tutta Italia.


Veniamo a oggi e quando dico “oggi” intendo proprio le 24 ore che sono appena trascorse. Sono appena passati dieci giorni dal Cacciucco Day, grande sfida annuale a base di cacciucco tra Alcide e, per quest’anno, un grande locale come la Pineta a Marina Bibbona (ciao Luciano, caro amico e grazie di tutto!) che mi sono reso conto di come questo piatto sia entrato nei cromosomi di noi poggibonsesi.
Infatti venerdì 22 novembre mi ero gustato (iniziate a sbavare, please!) le due buonissime maniere di declinare il cacciucco di Alcide e de La Pineta, che Burton Anderson (si proprio lui! Il grande giornalista che ha fatto conoscere il vino italiano al mondo trenta anni prima di qualsiasi Wine Spectator ) mi propone una cacciuccata in un ristorante “terzo”, come La Galleria, sempre a Poggibonsi.

Michele Targi e Burton Anderson

Questo ristorante non solo è famoso per la sua cucina di pesce assolutamente gaudente e solare, ma è un locale dove io sono di casa e dove Burton si sente a casa. Quindi stabiliamo la data (3 dicembre, a pranzo) e Burton invita anche un personaggio che tutti oggi vorrebbero a tavola, quel Francesco Martini di Cigala che assieme ai fratelli firma i vini di San Giusto a Rentennano, compreso il Chianti Classico 2016 valutato da Wine Spectator come terzo miglior vino al mondo.

Francesco Martini di Cigala 

Quindi la formazione a pranzo il 3 dicembre da Michele Targi a la Galleria è la seguente: il sottoscritto, Burton, Francesco , mogli varie, Chianti Classico San Giusto a Rentennano 2016, altri cinque vini di altissimo livello e, come unica punta, un cacciucco stratosferico!
Michele Targi lo conosco da più di venti anni e in tutto questo tempo non mi aveva mai proposto questo piatto, cucinato con una pazienza e una maestria assoluta. Lo perdono solo perché siamo amici e soprattutto perché chi prepara un cacciucco del genere va tenuto buono.
Mentre assaporavo questa squisitezza, gustavo il difficile ma riuscitissimo matrimonio del Chianti Classico San Giusto 2016 con quel “bendiddiodipesce”e chiacchieravo amabilmente con i commensali, mi è venuta in mente una definizione di mia moglie.
Lei divide i ristoranti, al di là di graduatorie stellate vere o presunte, tra quelli che “assemblano” e quelli che “cucinano”. Per preparare un grande cacciucco non basta saper assemblare pezzi di pesce, bisogna conoscere bene il pesce e soprattutto occorre saperlo cucinare! E Michele non solo lo ha CUCINATO in maniera divina, ma ci ha anche spiegato per filo e per segno come ha fatto (ma questo me lo tengo per me).
Mentre lo ascoltavo inviavo mentalmente un ringraziamento a Alcide, che ha permesso a una cittadina dell’entroterra come Poggibonsi di avere ben due locali che CUCINANO un grande cacciucco e soprattutto ha fatto capire come, se si ha maestria e grande materia prima, si possa preparare ovunque un sontuoso cacciucco.
Ma ovunque non è Poggibonsi! Qui da noi ormai il cacciucco è di casa e la dimostrazione è la frase di Burton e di Francesco alla fine del pranzo: “Il miglior Cacciucco della nostra vita!”.


Prossimamente gli farò gustare anche quello di Alcide e sono convinto rimarranno colpiti anche da quella versione.
Per questo ho deciso: sul cartello stradale che recita “Poggibonsi” proporrò al sindaco di far scrivere “Città del cacciucco!”

Provare per credere!