Forse non tutti se ne
ricordano, ma il 1997 è stato in qualche modo uno spartiacque nel mondo del
vino italiano, soprattutto dal punto di vista commerciale. Fu declamata annata
del secolo, partirono gli acquisti “en primeur” (ovvero di annate ancora non in
vendita, da prenotare a scatola chiusa), fu il periodo del trionfo del “nuovo
vino italiano”, grazie alla spinta mediatica ottenuta nel decennio precedente
con i vini ribelli, i cosiddetti “supertuscan”, ovvero quei vini prodotti al di
fuori di DOC e DOCG, come “semplici” IGT o Vini da Tavola, quelli i cui nomi
finivano per “aia”, “ello” e via discorrendo e che trascinarono ben presto dal
Piemonte alla Sicilia in un percorso alternativo alla ricerca di premi e
successi.
Uno degli enologi che
aprì la strada al rinnovamento fu certamente Giacomo Tachis, un rinnovamento
che coinvolse prima di tutto il comparto enologico e che fece presto proseliti
in varie parti d’Italia, non sempre con gli stessi risultati qualitativi.
Oggi, quell’immagine
del super vino si è un po’ sgonfiata, progressivamente si è passati dalle
concentrazioni esasperate e l’abuso di legno piccolo, alla ricerca di un sempre
minore e garbato intervento enologico, ma anche a una maggiore comprensione nei
confronti delle piante: continuare a forzare sulle basse rese, su produzioni
sempre più irrisorie per ceppo, significava anche produrre squilibri non
considerati, soprattutto man mano che il clima andava trasformandosi (vedi una
gradazione alcolica sempre più alta e un’acidità sempre meno adeguata,
correzioni e aggiustamenti che non consentono al vino di trovare i propri
equilibri naturali); inoltre le mode passano, si sa, fare vini potenti
significa che sono prodotti più da guida che da pasto, la richiesta si è poco a
poco spostata su vini meno manipolati e più digeribili, termine ancora troppo
poco considerato per il vino, mentre sul cibo è essenziale.
La crescita
esponenziale nel terzo millennio di vini biologici e biodinamici, la dice lunga
sulle nuove strade che questa bevanda sta prendendo, soprattutto oggi si
vogliono vini che non stancano, più “veri”, eccitanti, magari anche leggeri ma
che abbiano qualcosa da raccontare del luogo dove nascono, la prova del nove è
sempre a tavola: se la bottiglia viene velocemente finita, vuol dire che ha raggiunto
il suo obiettivo principale.
Abbazia Santa Anastasia - Panorama sui vigneti |
E il Litra 1997 dove si
colloca? Beh, il periodo era quello che abbiamo descritto, quindi non può
esimersi da avere certe caratteristiche, però ha dalla sua una tenuta e una
sorprendente vitalità che testimoniano comunque una qualità non comune.
Vado in cantina e
prelevo una delle due bottiglie che conservo dall’anno 2000.
Nonostante sia stata
coricata per quasi vent’anni, il tappo di 5 cm. è in perfette condizioni, solo
circa 1 centimetro è stato raggiunto dal liquido. Odore perfetto, di vino
maturo e null’altro.
Andiamo a vedere il
contenuto: il colore è un granato ancora compattissimo, senza cedimenti; la
tecnica enologica è indubbiamente perfetta, trovare un vino chiuso vent’anni in
bottiglia senza alcuna riduzione evidente è fenomeno davvero raro. Accostato al
naso non si fa fatica a riconoscere i tratti del cabernet sauvignon, non solo,
ma gli anni sembra portarseli molto bene; c’è ancora un frutto vivo e carnoso
che avvolge i sensi odorosi, prugna, ribes nero neanche tanto in confettura (ne
capitano di ben più maturi con meno anni di età), sensazioni di muschio,
leggero catrame, ematite, liquirizia, scatola di sigari, cacao amaro, cenni di
cuoio.
All’assaggio rivela la
sua grassezza, la ricerca di una concentrazione che, però, trova bilanciamento
in un’acidità decisa che richiama il cedro, un elemento che costituisce la
giusta impalcatura per dare slancio al sorso; acidità e cremosità che convivono
senza dare l’impressione di essere arrivati al capolinea.
Questo è un eccellente
risultato, non c’è che dire, anche se, onestamente, l’impressione è di un vino
un po’ “artificiale”, troppo voluto a tavolino, ineccepibile sul piano tecnico
ma che non mi emoziona né mi trasporta nell’amata Sicilia. Lo stesso approccio
che ho sempre ritrovato in vini come il sardo Turriga, sempre opera di Tachis. Erano
altri tempi, altre visioni, probabilmente necessarie per smuovere quella
polvere che, volenti o nolenti, si era depositata sull’immagine del vino
italiano. Del resto lo stesso Tachis in epoca più recente aveva cambiato rotta
in modo evidente, tanto da promuovere il vino “sano”, meno lavorato e
proveniente da vigne trattate il meno possibile.
Come noi (che ne siamo
i creatori) il vino ha un corpo e un’anima; quegli anni furono dedicati al
corpo…
Nessun commento:
Posta un commento