E' passato pochissimo tempo da quando sono tornato dal mio viaggio alla scoperta dei vini dell'Etna e leggere questa notizia mi riempie di dolore ma non sono stupito perchè il malaffare imperversa sempre nei posti dove l'economia gira alla grande.
La mafia però non c'è solo in Sicilia e io che sono di Roma ne so qualcosa.
Se avete due minuti leggete questo articolo tratto da Catania Today per avere un quadro della situazione.
La mafia lucrava sul vino doc dell'Etna imponendo il "pizzo" ad alcune delle principali aziende vitivinicole attive tra Randazzo e Castiglione di Sicilia. E' questo lo scenario tratteggiato dall'indagine dei carabinieri del comando provinciale di Catania culminata la notte scorsa nell'esecuzione di 15 ordini di custodia cautelare in carcere nei confronti di esponenti del clan dei Brunetto, un'articolazione della famiglia Santapaola che operava nella fascia ionica della provincia.
Foto: repubblica.it |
Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, tra le vittime del clan almeno sette aziende vinicole, alcune di fama nazionale, alle quali sarebbe stato chiesto una tangente annua compresa tra mille e 12mila euro, secondo il fatturato della società. I nomi della aziende sono stati resi noti durante la conferenza stampa tenutasi questa mattina: Planeta, Mannino, Valenti, Vagliasindi e Tornatore.
A tal proposito, riceviamo e pubblichiamo la nota di Ettore Vagliasindi, dell’azienda agricola Vagliasindi: “L’azienda agricola Vagliasindi di Ettore Vagliasindi si ritiene estranea ai fatti accaduti”.
Ma anche un "pizzo" di 500 euro mensile legato alla "guardiania" di vigneti e frutteti, o attraverso l'assunzione di personale. Chi non si metteva in "regola" continuava a subire danneggiamenti, come il taglio di alberi da frutto, uliveti e filari di viti. In quel caso, come emerge da un'intercettazione, l'invito era "di cercarsi un amico, ma d'urgenza...". Non tutte le aziende hanno ceduto al ricatto. E la rappresaglia era garantita: "Poi i cavalli - ordinano telefonicamente dai vertici del clan - glieli bruci nella stalla, ci vai e gli dai fuoco...".
Le indagini sono state avviate dai carabinieri della compagnia di Randazzo e del comando provinciale di Catania alla fine del 2012. E nell'aprile del 2013, a Giarre, militari dell'Arma sono riusciti a interrompere un 'summit' di mafia dove, tra gli altri, Lomonaco e Oliveri stavano delineando strategie criminali.
Il gruppo aveva una grande paura di essere intercettato, tanto da essere in possesso di strumentazione all'avanguardia per 'bonificare' locali e auto da 'cimici' e invitava alla cautela preventiva: "Ha i telefoni sotto controllo - dice Lomonaco, ascoltato dai carabinieri suo malgrado - che non si confonda nel parlare...". Il clan aveva in uso anche armi, ma preferiva "quelle tradizionali". "Un fucile automatico a cinque colpi - commentava Lomonaco al telefono - ha la canna lunga, meglio un due colpi, sono di meno, ma sono sicuri...".
Le indagini dei carabinieri sono state coordinate dal procuratore distrettuale Giovanni Salvi e dal sostituto della Dda di Catania, Iole Boscarino.