InvecchiatIGP: Giuseppe Cortese - Barbaresco Rabajà 2005


di Roberto Giuliani

Sono passati vent’anni da quando sono stato la prima volta in cantina da Giuseppe e Pier Carlo, ero già innamorato dei loro vini ma avevo bisogno di capire meglio chi era a farli e di osservare quell’anfiteatro di vigneti dove confluiscono molte tra le migliori aziende produttrici di Barbaresco. Chi l’avrebbe mai detto che un romano (anche se non di famiglia) sarebbe stato conquistato dal popolo langhetto e dalle sue terre! Merito prima di tutto del nebbiolo, vitigno che più di ogni altro riesce a mandarmi in sollucchero, a sciogliermi come un cioccolatino, a farmi fusare come un gatto…


Persino un’annata assai poco celebrata come la 2005, a mio avviso molto classica, certamente non facile – tanto che sul sito della famiglia Cortese è valutata tre stelle su cinque – è riuscita a conquistare il mio cuore. Da subito. E ne ho assaggiate tante, anche di Barolo, Roero e delle altre zone dove il nebbiolo è di casa, come la Valtellina, l’Alto Piemonte e la Valle d’Aosta. Raramente sono rimasto deluso. Annata non per tutti, forse, poco incline a concedere grazia e rotondità, semmai austera, essenziale, ma proprio per questo di un’eleganza che trapela con il passare degli anni.


Il Barbaresco Rabajà 2005 è tutto questo, un vino che mette in evidenza quanto non teme il tempo a dispetto di una valutazione all’epoca non entusiastica.
Sta lì, nel calice da oltre mezz’ora, un colore granato vivo che non cede niente, ogni tanto cerco di afferrarne un velo di fragilità, ma non lo trovo. È maledettamente vivo, assertivo, più passa il tempo e più tira fuori frutto, frutto tosto, non marmellatoso, prugna e ciliegia, addirittura si possono cogliere note di viola e iris, cenni agrumati, potremmo trovarci anche sfumature di tabacco e cuoio, ma vanno davvero cercate, meglio liquirizia, radici, sassi sgretolati.

Vigna Rabajà

In bocca ci ricorda il tannino del nebbiolo, verace e generoso, ma oggi perfettamente in sintonia con la materia, mentre l’acidità ci ricorda che di strada da fare ne ha ancora tanta, intanto si fa balsamico, di erbe aromatiche e spezie finissime, e siamo già al terzo sorso…

San Marzano - Salento IGP Susumaniello Susco


di Roberto Giuliani

Siamo nel cuore del Primitivo di Manduria, ma è il poco produttivo Susumaniello che si erge autore in questo vino di Cantine San Marzano. 


Mi ha colpito per gli accenti floreali, per il perfetto controllo del legno americano, per la beva trascinante, ti riempie la bocca di frutto, succoso, esaltante.

Essenza Trattoria Moderna, pesce e carne di qualità a due passi da Roma


di Roberto Giuliani

C’è chi ha la fortuna di aprire la propria attività di ristorazione in punti ideali per avere un’affluenza più o meno regolare, per garantirsi la pagnotta e poter pagare il personale, non solo, magari non ha neanche il problema di dover far capire ai clienti che il cibo di qualità, una tavola ben apparecchiata, una sala curata, un personale all’altezza, hanno dei costi e non puoi pretendere di mangiare un antipasto, un primo e un secondo, magari anche il dolce, più acqua, caffè, amaro con 25 euro.


Purtroppo c’è una notevole differenza se il tuo ristorante si trova in una città come Roma rispetto ai paesi fuori porta, anche dal punto di vista dell’attenzione. Se nasce una nuova realtà nella capitale si fa presto a darne notizia, prima o poi qualche giornalista, qualche critico esperto ci va e la racconta. Diverso è andare a cercare un locale nei tanti paesi che circondano Roma, diversa è la gente che li abita, quasi sempre chi fa qualità non viene compreso, perché alla fine vince sempre il teorema “mangio tanto e spendo poco”, non solo, ma se si fanno piatti che non rispecchiano le abitudini del posto, nessuno avrà la curiosità di provarli. L’ho verificato personalmente un sacco di volte, sono rarissimi coloro che sanno apprezzare la cucina di livello, non parlo di stellati ma semplicemente di ristoranti che hanno qualcosa da raccontare, persino di pizzerie (Amalia Costantini con il suo Mater a Fiano Romano ne è un perfetto esempio). Non mi stupisce, quindi, sentire da più locali che la clientela faticosamente conquistata non è del posto.


Essenza Trattoria Moderna
si trova a Monterotondo, da Roma ci si arriva in meno di mezz’ora facendo la Salaria, o l’autostrada e prendendo la prima uscita per Castelnuovo di Porto. Monterotondo è ormai una piccola città, con i suoi oltre 40mila abitanti, eppure trovare un locale che metta al centro la qualità è tutt'altro che semplice. Anche qui, dove opera Simone Salamone ormai da tre anni, non è stato facile farsi una clientela, e anche in questo caso è quasi tutta “forestiera”, perché? La sua non è una cucina complessa, incomprensibile, ci sono indubbiamente piatti originali, ma dai sapori chiari, equilibrati, senza inutili eccessi, pochi ingredienti ma centrati.


Simone ha fatto esperienza da Aroma con lo chef Giuseppe Di Iorio, una stella Michelin, ha lavorato con Carlo Cracco, Daniel Canzian, in ristoranti a Bruxelles, Formentera e in Svizzera. Oggi ha un suo stile, mette sempre al centro la materia prima, che sia pesce o carne, ha una carta dei vini ragionata e frutto della sua passione, etichette che abbracciano varie regioni d’Italia, piccole realtà dalla Francia e non solo, con un occhio a chi sa lavorare nel rispetto dell’ambiente. 


Fuori Roma è forse l’unico che ha in carta i vini di Patrick Uccelli, alias Tenuta Dornach, di Quintarelli o di Andrea Pilar, oltre ad avere un’ampia selezione di vini naturali, per un totale che ormai supera le 300 etichette, molte delle quali non mette neanche in carta ma riserva a quei clienti che manifestano un chiaro interesse per il buon vino.
Ci sono stato la settimana scorsa e ho intenzione di tornare per approfondire i piatti di carne, avendo scelto la cucina a base di pesce, che ho decisamente apprezzato.


La prima cosa che ho notato era la qualità dei prodotti ittici, non è mia abitudine prendere crudo di pesce, ma quel sashimi di ricciola frollata lamponi abbattuti olio al lemon grass andava provato, un piatto con pochi ingredienti ma ben abbinati, che non hanno coperto il sapore della ricciola ma l’hanno accompagnata restituendo sensazioni molto fresche e salmastre. Come andavano provate le alici marinate, passion fruit e olio aromatizzato, un piatto che quando è in carta difficilmente rinuncio a provare, trovo che le alici marinate siano immortali, l’accostamento con il passion fruit era decisamente riuscito.

Polpo Croccante

Ottimo anche il Polpo croccante, funghi alla piastra e crema di patate, tentacoli veraci e carnosi con la parte esterna croccante, funghi saporiti che con la crema di patate lo accompagnavano perfettamente. La Spigola al forno con verdure di stagione è un piatto semplice che gioca su pochi elementi, ciascuno cotto alla perfezione, il tutto in ottimo equilibrio.

Spigola al forno con verdure

Infine il dolce, che non viene messo in carta poiché cambia molto spesso: il tortino con cuore caldo di cioccolato fondente, vicino il gelato alla vaniglia, un mio punto debole, molti preferiscono il classico Tiramisù (che prima o poi proverò), ma per me il tortino con il cioccolato fondente è pura goduria e il gelato alla vaniglia esalta il contrasto caldo-freddo in un'atmosfera delicatamente dolce.

Tortino

Per me che abito a meno di 20 minuti sarà molto probabile un mio ritorno, anche perché devo provare i piatti a base di carne…

ESSENZA TRATTORIA MODERNA

Via Giuseppe Mazzini, 29 Monterotondo (RM)

Tel. 348-5860818

InvecchiatIGP: Duca di Salaparuta – Duca Enrico 1985


Duca di Salaparuta è una delle aziende più iconiche della Sicilia e, senza dubbio, il Duca Enrico è il vino più rappresentativo di questa realtà che da oltre 200 anni è impegnata nella ricerca dei migliori terroir vitivinicoli capaci di esprimere al meglio l’essenza enologica della propria isola. 


La genesi di questo vino parte da lontano, esattamente dal 1824, anno in cui Giuseppe Alliata, Duca di Salaparuta, comprendendo il potenziale delle uve provenienti dalle sue tenute in contrada Corvo di Casteldaccia, decise di produrre due vini di stile francese, innovativi per l’epoca: Corvo Bianco e il Corvo Rosso. La conduzione famigliare dell’azienda continuò per altre quattro generazioni fino a quando nel 1961 la famiglia Alliata, in difficoltà economiche, decise di vendere l’azienda alla Regione Sicilia ovvero alla SOFIS – Ente Regionale per lo Sviluppo e Promozione Industriale e successivamente alla ESPI (Ente per lo Sviluppo e la Promozione Industriale). Nonostante il cambio di proprietà, l’azienda mantenne un forte legame con la sua storia e con la tradizione vinicola siciliana, grazie anche all’intuizione di introdurre nello staff tecnico uno degli enologi più promettenti dell'epoca: Franco Giacosa.

Franco Giacosa

Conosciuto per il suo lavoro con le cantine piemontesi, Giacosa fin da subito comprese che il Nero d’Avola, fino ad allora usato per tagliare vini dozzinali, aveva un potenziale straordinario, ma che per esprimerlo al meglio necessitava di una vinificazione più sofisticata, tramite uso di barrique, in grado di valorizzare la ricchezza e la complessità del vitigno. Nasce così, nel 1984, il Duca Enrico, Nasce così, nel 1984, il Duca Enrico, il primo Nero d’Avola in purezza imbottigliato in Sicilia che successivamente, con la consulenza di Giacomo Tachis, è divenuto un vero e proprio Cru aziendale visto che tutte le uve provengono dalla Tenuta di Suor Marchesa, nel comune di Butera.

Tenuta Suor Marchesa

Qualche tempo fa, complice una bellissima verticale storica organizzata dalla stessa azienda e presieduta da Barbara Tamburini, attuale consulente enologo, ho potuto degustare la seconda annata prodotta di Duca Enrico, la 1985. Il vino si presenta con un poco invitante color mattone e, almeno inizialmente, si apre su sensazioni odorose di dattero e povere di caffè per poi aprirsi, con l’ossigenazione, verso spunti aromatici di prugna della California, alloro, timo ed echi marini. 


Ti aspetti un sorso “stanco” ed invece la sorpresa è trovarsi alla gustativa di fronte ad un Nero d’Avola di freschezza inaspettata dove l’impatto agrumato del vino, spiccatissimo, sfocia in una persistenza sapida, quasi salmastra, davvero esaltante.
Un vino che, dopo 38 anni, è ancora perfettamente in piedi e ti racconta una Sicilia diversa dai soliti schemi. Barrique per 18 mesi.

Agricola Giacu – Mandrolisai Doc Rosso 2021


Di Andrea Petrini

Giacu è una delle cantine più rappresentative di questa denominazione di origine della Sardegna centrale. 


Questo vino, nato da una parcella di 2 ettari, sa di sale e macchia mediterranea ma, soprattutto, contiene tutte le speranze di una famiglia di vignaioli che amano profondamente il loro territorio.

Bencò, l’Osteria Calabrese che sta conquistando Roma


La Calabria, Regione dalle tradizioni millenarie, negli ultimi tempi sta finalmente ottenendo il giusto riconoscimento come cuore pulsante di una enogastronomia autentica e ricca di sapori, capace di conquistare anche i palati più esigenti. Manifestazione come, ad esempio, Beviamoci Sud Roma hanno sempre di più valorizzato il ruolo crescente del vino calabrese che, grazie soprattutto a vitigni autoctoni come il Gaglioppo, il Greco e il Magliocco, sono tornati a farsi conoscere e apprezzare per la loro unicità e per la capacità di esprimere la storia e il territorio di questa regione. Un altro elemento fondamentale della rinascita delle tradizioni culinarie locali è rappresentato dai giovani cuochi calabresi, molti dei quali hanno studiato e lavorato in prestigiosi ristoranti esteri, che sono tornati nella loro terra per reinterpretare la cucina tradizionale in chiave moderna mescolando ingredienti locali, stagionali e freschi con tecniche innovative al fine di creare piatti che raccontano la Calabria attraverso sapori intensi e sorprendenti.


Di questo è più che consapevole Manuel Bennardo che a Roma, a partire dallo scorso anno, ha rafforzato l’identità calabrese trasformando Bencò da ristorante di fine dining a vera e propria osteria calabrese dotata di circa 40 coperti (a cui si aggiungono i 25 nel dehors esterno e la saletta privata da dieci posti) dove, come sostiene lo stesso Bennardo, le ricette della nonna, quelle più veraci e con le quali è cresciuto, non sono una formula da storytelling ma una realtà culinaria autentica dove ogni vero calabrese ci si riconosce.

Manuel Bennardo

Il menù dell’osteria si basa su di una cucina semplice, immediata, che nasce da una serie di materie prime di eccellenza che sono vere ambasciatrici di un territorio. È lo stesso Manuel a ideare la proposta gastronomica, come lui stesso racconta: “sono un grande appassionato di cucina oltre che di Calabria, mi piace andare alla ricerca delle materie prime migliori e più iconiche, come la nduja di Spilinga, l’olio extra vergine d’oliva, il baccalà, i salumi di suino nero o i formaggi pecorini dei nostri altipiani. Ogni piatto prende spunto dalla cucina di casa, quella di nonna soprattutto che a modo suo è stata la mia diretta consulente. Ogni ricetta è stata messa a punto con la brigata, riadattata in chiave contemporanea, ma senza far perdere ai piatti la loro tipicità e il loro carattere. Perché è proprio il carattere di questa cucina contadina che voglio trasmettere a chi si siede qui da noi”.

Alici scattiate

Un menù di terra e di mare, dove dagli antipasti ai dolci fatti in casa si vive un vero viaggio nei sapori calabresi, dal nord al sud della regione. Non mancano le polpette di melanzane, rivisitate in formato stecco, le bruschette con la sardella crucolese servita con un giro di olio extra vergine d’oliva dei Fratelli Renzo o la nduja di Spilinga calda da spalmare sui crostini di pane. Ci sono le patate della Sila, le immancabili polpette della nonna e le tipiche alici scattiate.

Stroncatura con alici capperi e olive

Arriviamo ai primi e qui il gioco si fa serio. Da provare assolutamente è la stroncatura con alici, capperi e olive, ricetta tradizionale, che arriva dalla zona di Gioia Tauro e che riporta in vita un formato di pasta contadina, fatto alle origini con gli scarti della molitura – crusca, semola, sfarinati di segale e farro, farina di orzo. Da qui si otteneva una pasta più scura rispetto a quella di grano duro e più acida. Oggi si fa con la segale e il grano saraceno, ma il condimento è rimasto lo stesso. Un piatto dal sapore intenso e di gran carattere. Sempre per rimanere legati alla tradizione pura in menu troviamo anche lo spaghettone “alla corte d’assise” tipica ricetta di Gerace, semplicissima e a base di pomodoro, pecorino e peperoncino o lagana e ceci. C’è anche il riso, anche questo ovviamente calabrese e coltivato nella Piana di Sibari.

Il Baccalà

Tra i secondi c’è il baccalà pomodori e olive servito in un piatto di coccio tradizionale, la salsiccia di maialino nero calabrese, la costata di podolica dell’Azienda Bioagricola La Sulla. Da provare anche la versione panino calabrese con salsiccia, caciocavallo silano, fette di patate della Sila, maionese alla nduja e cipolla caramellata o quello con trancio di pesce spada pomodoro insalata e maionese al basilico. Ovviamente ci sono le celebri “patate e pipi” contorno perfetto e iconico, che conquistano il commensale al primo boccone.


Tartufo di Pizzo e Cullurielli tra i dolci in carta che meritano menzione. Il primo gelato e prodotto tipico della pasticceria calabrese nato a Pizzo Calabro, i secondi delle ciambelle fritte a base di patate e farine servite con una crema di nocciola.


Anche la carta dei vini parla calabrese. Bencò è tra i pochi ristoranti di Roma, se non l’unico, ad aver costruito una carta dei vini interamente dedicata alla Calabria con l’obiettivo di far conoscere e valorizzare l’enologia calabrese, che negli ultimi anni sta facendo parlare molto di sé ed è cresciuta in qualità. “Abbiamo voluto una carta dei vini che parlasse calabrese a 100% e rappresentasse tutte le zone di produzione della Calabria, dal Cirò che è quella più conosciuta, alla Costa degli Dei terra di Zibibbo e Magliocco Canino, passando per l’area grecanica con il suo Mantonico o il Greco di Bianco, toccando poi la zona del Savuto e l’area della doc Terra di Cosenza con il Magliocco dolce, il Pecorello” spiega Manuel Bennardo. Una carta dei vini che esplora l’intera regione, la rappresenta e la racconta in modo puntuale, dando la possibilità di bere calabrese e avvicinarsi ai vini di questa terra ancora troppo poco conosciuti. Una carta coraggiosa a Roma, che vuole essere un primo capitolo, un momento di avvicinamento a quei vignaioli che stanno crescendo in produzione e qualità. Vini suddivisi per zona, sempre diversi in base alle stagioni e al menu, in carta anche il vino del mese, una rubrica speciale, che darà occasione di ospitare i produttori e organizzare dei momenti di degustazione dedicati. Inoltre, Manuel Bennardo ha pensato di creare una piccola enoteca, dove tutti i vini in carta saranno anche presenti a scaffale per essere acquistati. “Un’idea in più per far bere sempre di più i vini di Calabria”.

Bencò, Osteria Calabrese - via Fabio Massimo 101 Roma. Tel. 06 3972 8933

Aperto tutti i giorni (eccetto il lunedì) a pranzo e a cena

Villa Po' del Vento - Colli del Trasimento Doc “Rosso del Duca” 1990


di Lorenzo Colombo

Anche questa volta è stata un’impresa ardua arrivare a scegliere un vino per la rubrica del sabato InvecchiatIGP; abbiamo infatti scartato dapprima un Pinot Nero Umbro dell’annata 1999 e successivamente un Valtellina Superiore del 2000 prima di giungere al Colli del Trasimeno Doc “Rosso del Duca” di Villa Po’ del Vento.


Azienda e vino dei quali abbiamo faticato molto a trovare traccia, le uniche informazioni disponibili sul Web sono infatti quelle del sito www.cantine del vino.it dove possiamo leggere “Villa Po' del Vento è una cantina che si trova a Città delle Pieve nella provincia di Perugia. L'indirizzo completo è Loc. Pò del Vento, 6 - 06062 Città delle Pieve (Perugia).” Mentre maggiori informazioni le abbiamo reperite dal sito www.lavinium.it dell’amico Roberto Giuliani che ne ha scritto nel lontano settembre 2002 e che in quell’occasione ha degustato anche il Rosso del Duca dell’annata 1994, tra l’altro valutandolo assai bene (vedi). Dal sito di Giuliani apprendiamo che si tratta di un blend tra Sangiovese, Ciliegiolo e Gamay, null’altro.
Tornando alla nostra bottiglia dobbiamo dire che l’inizio non è stato promettente, 35 anni per un vino sono tanti, soprattutto se quel vino non è stato progettato per un lungo invecchiamento.


Le difficoltà sono sorte già al momento della stappatura con il tappo di sughero che si è letteralmente sbriciolato e a nulla è valso il tentativo di usare un cavatappi a lamelle, tanto che alla fine abbiamo dovuto filtrare il contenuto della bottiglia nella quale erano finite numerose briciole di sughero.
Alla vista si è presentato come d’altronde ci aspettavamo, ovvero con un colore tendente al mattone e con un’unghia tra l’aranciato ed il giallo scuro, in pratica nulla di buono. All’olfatto però nessuna nota stonata d’ossidazione ma unicamente sentori terziari dati dall’evoluzione che ci hanno ricordato le radici e le prugne cotte, le noci e la china, il tutto con una media intensità.


Alla bocca il tannino è netto, deciso, quasi astringente, da qui probabilmente la tenuta nel tempo del vino che però appare un poco vuoto, i sentori percepiti rimandano nuovamente alle radici ed alle prugne cotte mentre la sua persistenza è ancora buona. Nulla di eclatante alla fine ma non dimentichiamo che sono trascorsi 35 anni dalla sua vendemmia.

Pietro Torti - Vino Bianco “Italico” 2023


di Lorenzo Colombo

Prodotto con uve Riesling Italico provenienti da un vigneto situato a 310 metri d’altitudine su suolo limoso e argilloso.


Parte delle uve vengono appassite e parte surmaturate in pianta, ne risulta un vino di buona struttura, morbido, leggermente abboccato, assai persistente e dalla piacevolissima beva.

Abbiamo scoperto un posto gustoso in Franciacorta: l'Antica Trattoria Piè del Dos


di Lorenzo Colombo

Siamo a Gussago, grosso paesotto situato nella zona Est della Franciacorta sul cui territorio sussistono tre vini a denominazione controllata, la Docg Franciacorta e le Doc Curtefranca e Cellatica. Gussago è inoltre uno dei due comuni – l’altro è Serle - dove il piatto principe dell’autunno bresciano, ovvero lo spiedo, ha ottenuto la De.Co., ovvero la denominazione comunale d’origine voluta da Veronelli. Ci siamo venuti il primo sabato del nuovo anno e la nostra meta è l’Antica Trattoria Piè del Dos.


La trattoria si trova in frazione Piedeldosso dalla quale deriva il suo nome, ci si arriva da una stretta viuzza, una doppia insegna, la prima in alto sul muro esterno dello stabile e la seconda sopra il portone di un cortile ci indica che siamo arrivati alla nostra meta. Entrando nel cortile si nota sulla sinistra un grande porticato pergolato dove presumiamo che nella bella stagione sia estremamente piacevole pranzare o cenare.


E’ mezzogiorno ed è il primo giorno d’apertura dopo la chiusura di una settimana avvenuta dopo Natale; fa un poco freddo nella lunga sala nella quale siamo stati messi, ci sono solamente un paio di coppie mentre dalla sala adiacente sentiamo provenire un vocio che ci indica che è decisamente più affollata. Pian piano anche la nostra sala si riempie, arrivano altre coppie e un gruppo di giovani di ritorno da una visita in qualche cantina del territorio come traspare dai loro discorsi.
Una gentile ragazza ci porge i menù e la carta dei vini e ci informa inoltre sui piatti fuori menù. Curata ed interessante la carta dei vini con notevole presenza di etichette lombarde e del territorio bresciano, oltre ai numerosi vini di Franciacorta troviamo infatti anche prodotti di denominazioni considerate (a torto) minori come Botticino e Capriano del Colle, ma curiosamente non ne abbiamo trovato nessuno della zona in cui siamo, ovvero della Doc Cellatica.

Gnudi di patate e farina di castagne

Tra i fuori menù ci colpiscono gli gnudi di patate viola e farina di castagne conditi con ciccioli ed una crema di Bagòss, formaggio quest’ultimo prodotto nel comune di Bagolino e caratterizzato dalla presenza di zafferano.
Oltre a questo piatto decisamente molto buono (siamo in due) la scelta cade sui curiosi spaghetti cacio e pesce, una rivisitazione - assai azzeccata - del tipico piatto romano con l’aggiunta di agoni, le sarde del vicino lago d’Iseo, sia essiccate - come s’usa a Montisola - che fresche ed anche questo piatto ci risulta assai gradito.

Cacio e Pesce

Nell’attesa dei primi piatti ci viene servito un piccolo Tortino di verdure la cui qualità ci predispone bene al pranzo che seguirà.

Pancia di maialino

Come secondi piatti optiamo per la pancia di maialino cotta a bassa temperatura (altra preparazione fuori menù) e la frittura di 5/4, ovvero frittura d’interiora. Quest’ultima risulta composta da lingua, cervello e trippa, piatto curioso e molto interessante anche se la trippa ci è parsa leggermente secca ed un poco salata.


Accompagniamo il tutto con un vino altoatesino, ovvero la Schiava Sonntaler della Cantina di Cortaccia e troviamo l’abbinamento coi piatti più che azzeccato.


Chiudiamo il nostro pranzo con il caffè, servito accompagnato da piccola pasticceria. Onesto il prezzo pagato tanto che pensiamo di tornarci in futuro per assaggiare qualche altra specialità del territorio.

InvecchiatIGP: Vietti - Barolo Riserva "Villero" 2004


di Stefano Tesi

Bisogna sempre andarci cauti con le vecchie annate. Non solo perché, è normale, col passare del tempo crescono le possibilità che qualche bottiglia sia andata, ma soprattutto perché l’età del vino ingolosisce la curiosità e gonfia le aspettative. Col risultato che, poi, anche le eventuali delusioni arrivano col botto.
Non è il caso del Barolo Riserva Villero 2004 recentemente assaggiato durante una verticale organizzata a Firenze da Vietti che, a quel millesimo, affiancava oltretutto anche le 2007, 2010, 2013 e 2016. Tutte, ve lo dico subito, più che buone.


Inevitabile però che per questa rubrica la scelta cadesse sul più vecchio dei campioni in degustazione: gli oltre vent’anni di un’annata considerata molto importante costituivano quasi una sorta di obbligo morale e pure un’opportunità di racconto non così scontata. Si tratta oltretutto di uno dei più rappresentativi, se non il più rappresentativo vino della celebre casa vinicola oggi di proprietà degli americani Kraus (padroni tra l’altro del Parma Calcio), che nel 2016 la acquistarono dalle famiglie Currado e Cordero, proprietarie dal 1985, per via matrimoniale, della cantina storica fondata a fine ‘800 da Carlo Vietti a Castiglion Falletto, nel cuore delle Langhe.


Il nome del vino viene ovviamente dal nome del vigneto, Villero, tra i più prestigiosi della denominazione, piantato su un terreno argilloso e calcareo esposto a ovest sul fianco della collina e, con una scelta coraggiosa per l’epoca, selezionato nel 1982 dal comproprietario ed enologo Alfredo Currado in persona proprio per produrre una riserva di grande longevità.

Nel bicchiere il vino non delude.

Se all’occhio un’unghia appena aranciata denuncia l’età non più verdissima, al naso prevalgono le cangianti note balsamiche e un’eleganza lineare, piena, severa e asciutta, che lascia appena trapelare sentori di frutti scuri e quelli terziari di cuoio e sottobosco. In bocca un’ampiezza quasi suadente regala echi di freschezza e si mantiene etera, molto composta, con una finezza che sfuma in un finale lungo e senza sbavature.


Nessun dubbio che un sorso sia piaciuto anche alla lepre col calice tra le zampe che l’artista russo Leonid Sokov schizzò all’epoca per abbellire l’etichetta di questo sontuoso 2004.

Cave Mont Blanc - Valle d'Aosta DOC Blanc de Morgex et de La Salle Metodo Classico Brut "Blanc du Blanc" 2020


di Stefano Tesi

Uno dei migliori assaggi di Proposta Vini 2025 è stato questo Metodo Classico da uva Priè Blanc a piede franco coltivata a oltre quota 1.200, nella “terra delle valanghe” all’ombra del Monte Bianco: sobria ma ricca fragranza floreale e il paradosso di un retrogusto salmastro e torbato.


Da provare!

Piccoli ma con buon vino: i vignaioli della Val di Mezzane si uniscono in un “movimento” e si presentano al pubblico


di Stefano Tesi

Che cos’è, socialmente parlando, un “movimento”? Senza dubbio qualcosa di fluido, ma che induce ad aggregarsi più di una semplice corrente di pensiero. E che unisce non solo in base a un’idea condivisa, ma spinge le persone a conoscersi e a frequentarsi, senza tuttavia dar vita a un’organizzazione stabile o una struttura formale. Insomma, un movimento è qualcosa di popolare e concreto, ma non ancora un’associazione. Né tantomeno un partito.


Interrogati in proposito, i tredici vignaioli della Valle di Mezzane che dal 2022 si sono (come altro dire?) “messi insieme” si autodefiniscono infatti così, per sottrazione, sottolineando innanzitutto ciò che non sono: “Non siamo un’associazione, non c’è un presidente”. Il che è abbastanza singolare. Hanno però uno scopo preciso e grazie ad esso fanno gruppo, quindi li definirei un movimento. O anche una lobby, se poi, incontrandoli de visu, tutto potresti dire di loro tranne che siano lobbysti. Due invece gli obbiettivi: far conoscere, ovviamente, le peculiarità della valle con i suoi vini e “sostenere e sollecitare il Consorzio di Tutela nella definizione delle Sottozone per i vini Valpolicella, oggetto di studio della ‘Commissione Vallate’, in attesa di conoscere i passi che l’organo consortile sta facendo su questo percorso (il Consorzio del Soave ha già individuato 33 UGA, ndr)”.


Sono solo piccolissimi, piccoli e medi produttori (circa 130 ettari in totale per appena 700mila bottiglia prodotte all’anno) attivi in quest’amena vallata rimasta ancora quasi totalmente rurale a est di Verona, dove le doc Valpolicella e Soave si sovrappongono. Un paesaggio di quelli belli e un tessuto sociale campagnolo altrove scomparso. Li divide in realtà quasi tutto il resto: storie, origini, strategie, ambizioni. Orientamenti differenti anche nella conduzione del vigneto tra biologici, biodinamici e integrati. Segni particolari: vinificano esclusivamente uve dei vigneti che coltivano.


Nel 2023 hanno però commissionato al pedologo Giuseppe Benciolini la realizzazione di una Carta dei Suoli che ha messo graficamente in luce ciò che già si sapeva e loro volevano evidenziare: in Val di Mezzane convivono terreni vulcanici e calcarei. “Nero su bianco”, appunto, come i viticoltori valmezzanini hanno deciso di battezzare gli appuntamenti per la degustazione dei loro vini, puntando a rimarcare soprattutto le sensazioni tattili che essi sono capaci di offrire: “Una sorta di matrice territoriale che rimane pressoché costante anche al variare delle percezioni aromatiche e delle tecniche di vinificazione e di affinamento, con sapidità più o meno accentuata, freschezza acida e la piacevole piccantezza della speziatura. Non è certo un punto di arrivo – chiariscono - ma uno stimolo a dare avvio a una ricerca e dare corpo scientifico a quanto rilevato sensorialmente”.


Con tali premesse, la prova dell’assaggio e di verifica a cui, a margine di Amarone Opera Prima 2025, ci siamo (volentieri) sottoposti, non poteva che essere impegnativa. E ha previsto infatti una carrellata selettiva su tutte le tipologie di vino prodotte dalle aziende (Soave, Valpolicella, Ripasso e Amarone nelle varie declinazioni) in annate diverse, mettendo in luce stili, filosofie e personalità dei vini - nonché dei vignaioli - effettivamente diverse. Anche molto diverse. O forse troppo, se si fosse puntato a individuare un’impronta comune in grado di omologare davvero le etichette. Ma non era il caso, anzi. Ci hanno colpito invece l’elevata qualità media dei prodotti e la coerenza di indirizzo intrapresa dai singoli produttori, che hanno proposto vini di forte individualità, frutto di progetti spesso coraggiosi anche nelle versioni meno riuscite e comunque connotati da un’impronta identitaria condivisa che, al di là delle strette questioni critiche, ci è parsa il reale e più evidente segno distintivo del territorio, nonché un modello incoraggiante di aggregazione, capace di aprirsi a ombrello dalla produzione vinicola al paesaggio, dalle singole comunità alla gastronomia e ai rapporti sociali.


Se quindi lo scopo di offrirsi ai giornalisti era di sottolineare le differenze della valle in sé dal resto e dei produttori tra di loro, bisogna ammettere che Alessandro Benini, Marinella Camerani, Falezze di Luca Anselmi, Grotta del Ninfeo, Tamasotti, Monte Caro, ILatium Morini, Le Guaite di Noemi, Talestri, Massimago, Carlo Alberto Negri, Roccolo Grassi e Giovanni Ruffo (il decano del gruppo coi suoi 84 anni e appena 3mila bottiglie) l’obbiettivo l’hanno perfettamente raggiunto.

Dei 36 campioni degustati ecco, cantina per cantina, i vini che ci sono piaciuti di più e perché.

1. Benini, Amarone Spincristo 2020: intenso al naso ma non saturante, bocca asciutta e diretta, anomalo nella tipolgoa ma godibile.

2. Talestri, Valpolicella Superiore 2021: al naso un bel frutto fresco, pulito e fragrante, al palato è asciutto e gastronomico.

3. Monte Caro, Valpolicella Superiore Solaria 2020: un vino biologico, dal naso intenso e cangiante, sorso amarognolo e molto vivo, piacevole.

4. ILatium, Amarone Leon 2018: se al naso ha tutta la tipicità che ti aspetti, in bocca lo trovi agile, rotondo, equilibrato e di gran bevibilità.

5. Massimago, Valpolicella Ripasso Marchesa Mariabella 2022: bouquet pulito ed elegantissimo, al palato è pieno e godibilissimo.

6. Le Guaite di Noemi, Valpolicella Superiore 2014: l‘invecchiamento non nuoce al frutto e alla freschezza, che grazie all’acidità in bocca risulta sapido e verticale.

7. Roccolo Grassi, Soave Broia 2022: al naso ha note pungenti e vive di pietra focaia, in bocca è asciutto, salino, diretto.

8. Le Falezze, Valpolicella Superiore 2018: naso intenso ma preciso e composto, al palato è lungo, gastronomico e con buona vena acida.

9. Carlo Alberto Negri, Amarone 2019: all’olfatto è gentile, fruttato e agile e si ripete anche in bocca con una struttura non invasiva e un accenno di vaniglia.

10. Corte Sant’Alda, Mithas Valpolicella Superiore 2018: vino biodinamico vivissimo e fruttato al naso, franco e rassicurante al sorso, bene!

11. I Tamasotti, Valpolicella Superiore 2018: naso tipico e rotondo, in bocca è severo e tosto, con note di legno.

12.Giovanni Ruffo, Le Caselle Valpolicella Superiore 2016: al naso è maturo, vigoroso e un po’ ostico, ma in bocca ha grande personalità.

13.Grotta del Ninfeo, Valpolicella Superiore 2020: molto concentrato al naso, in bocca è invece semplice, sapido, gradevole.

InvecchiatIGP: Librandi - Val di Neto IGT "Gravello" 2008


di Luciano Pignataro

Ci sono vini didattici, nel senso che sono utili a capire la tendenza del momento in cui sono stati pensati e proposti al mercato. A distanza di tempo, l’aspetto più interessante oltre al profilo gustativo, è capire perché alcuni sono finiti su un binario morto e altri no. Soprattutto sul piano della comunicazione. Gli appassionati più anziani ricorderanno il Gravello, primo Tre Bicchieri in Calabria quando questo riconoscimento cambiava lo stoccaggio di una cantina. Un’era geologica fa, quando internet non era ancora diffuso, non esistevamo siti, blog e tantomeno social. Il riconoscimento del Gambero era il segnale preciso per ristoratori ed enotecari su cosa comprare subito. Dovremmo ricordare questi meccanismi quando oggi ci lamentiamo degli influencer, cambiano gli strumenti, la capacità di approfondimento, ma alla fine la velocità porta sempre e comunque all’ipse dixit. Parlo della grande massa ovviamente, non di tutti.


Ma torniamo al Gravello: fu pensato da Severino Garofano, l’enologo irpino naturalizzato pugliese che ha creato alcuni grandi vini che hanno fatto epoca in Puglia. Un vino che mette insieme il Gaglioppo e il Cabernet Sauvignon, prima annata 1988 di cui abbiamo avuto l’opportunità di parlare ormai sette anni fa proprio nella nostra rubrica quando eravamo giovani e forti.
Era una moda dell’epoca, unire il vitigno locale a quello internazionale. Le ragioni erano diverse, la prima partiva dalla conoscenza decisamente maggiore sul comportamento dei vari Cabernet, Merlot e Chardonnay. Il secondo ragionamento riguardava la leggibilità del vino sui mercati stranieri dell’epoca, ossia spiegare il proprio prodotto partendo dal vitigno internazionale. Questa moda partì dalla Toscana e fu adottata soprattutto dai produttori del Sud che allora si affacciavano sui mercati. L’idea alla base era che il vitigno caratterizzasse l’origine di un territorio tenuto conto della diversità ampelografica del nostro Paese che riflette l’anarchia italiana rispetto alla precisione cartesiana e commerciale dei francesi, sempre portati ad esempio ma mai seguiti nella realtà fattuale.


Severino insieme ai fratelli Antonio Nicodemo Librandi diedero un grande impulso in questa direzione, ricordiamo anche lo Chardonnay, stavolta in purezza, del Critone sul modello di quello di Tasca che, se aspettato, regala belle sensazioni negli anni. Le verticali di Gravello hanno dato sempre belle soddisfazioni, il vino ha tenuto nel corso degli anni anche se la sua esuberanza alcolica e la sua concentrazione, rimasta sostanzialmente immutata negli anni anche quando c’è statio il cambio di enologo in cantina, lo rendono decisamente age rispetto ai gusti degli ultimi anni che puntano a rossi più leggeri e bevibili.


Ma la tenuta di questo Gravello 2008, speso su un robusto piatto di agnello lucano passato al forno, non solo ci riporta a quell’epoca, ma ribadisce che ogni stile in realtà ha una sua ragion d’essere se si abbina al cibo. Al naso profumi fruttati con un corredo leggermente fumé, al palato questo rosso di 17 anni mantiene una grande energia, occupa il palato supportato da una bella freschezza facilitato dai tannini ben levigati. Il finale è lungo, preciso, pulito. Un vino integro e perfetto.

Boccella Rosa - Taurasi DOCG 2017


di Luciano Pignataro

Il Taurasi dei fratelli Soccorso e Luigi Molettieri racconta la campagna irpina di Montemarano, di conferitori che per difendere le viti vinificano in proprio, di operai che tornano alla terra. 


Un sorso tradizionale, legno e frutto ben fusi, lungo, imponente, sulla cucina di territorio è indimenticabile.

Cecchi lancia il nuovo Coevo: con il 2021 si cambia passo (con mini verticale)


di Luciano Pignataro

Viviamo tempi di grandi cambiamenti e il mondo del vino non fa eccezione. Ma senza voler affrontare i massimi sistemi che potrebbero annoiare i nostri lettori, possiamo segnalare il cambio di passo del Coevo, vino iconico di Cecchi, una delle aziende più antiche e conosciute anche dal grande pubblico. Con l’annata 2021 si è infatti deciso di semplificare il blend e restringerlo al Sangiovese della tenuta aziendale Villa Rosa a Castellina in Chianti e al Merlot della Tenuta Val delle Rose in Maremma.


La presentazione è stata fatta all’Enoteca Pinchiorri dallo stesso Andrea Cecchi, che nel 2006 volle questo vino in onore di Luigi, fondatore della azienda nel 1893, accompagnato dalla responsabile di produzione, l’enologa Miria Bracali, e dal direttore commerciale Luca Stortolani. Una occasione anche per fare una mini verticale di questa etichetta in uno dei templi del vino italiano analizzando oltre la prima annata, anche la 2013 e la 2015.

Andrea Cecchi

Il Coevo è un fine che testimonia con la sua esistenza gran parte della storia del vino toscano degli ultimi due cenni, quasi un supertuscan fuori tempo massimo perché unisce i luoghi tradizionali della viticultura regionale alla nuova frontiera maremmana che ha spinto con le grandi uve internazionali, cabernet sauvignon e merlot in primis, ma anche petit verdot e cabernet franc regalando grandi classici famosi in tutto il mondo. Fu anche un modo per l’azienda storica di mettersi al passo con i tempi e il passare degli anni costituisce la cartina di tornasole per misurare la validità di queste etichette.

Miria Bracali

A questo proposito dobbiamo dire che la 2006 ha colpito per la sua freschezza assoluta, regalando al naso sentori di frutta rossa per alcuni versi ancora fresca con leggeri rimandi fumé. Un vino compatto, solido, in cui non è facile distinguere il ruolo dei diversi vitigni perché era concepito non solo come la sintesi di due territori cos’ diversi ma anche come fusione di ben quattro uve diverse, oltre al sangiovese e al merlot, anche il cabernet sauvignon e il petit verdot, questi ultimi due eliminati nell’ultima versione presentata da Pinchiorri. La fermentazione e la macerazione sono state fatte in acciaio, seguite da un affinamento di 18 mesi in tonneaux di rovere francese, poi 10 mesi di riposo in bottiglia. «Coevo 2021 – ha detto Miria Bracali illustra Bracali - è figlio di una stagione che nel suo complesso potremmo annoverare tra le migliori di sempre».


Naturalmente la 2021 apre un mondo nuovo rispetto alle precedenti versioni di Coevo, una svolta emersa con molta chiarezza non solo nel raffronto con la 2006, ma anche con le altre due annate. Appare infatti un rosso maggiormente equilibrato, con i tannini molto ben risolti, al naso note speziate e di frutto ancora scisse, l’acidità decisa ma non scissa, il finale lungo, piacevole dopo un sorso dissetante. Sicuramente quel che colpisce del Coevo, e che mette insieme annate così diverse da ogni punto di vista, è la propensione ad un invecchiamento senza limiti. I quasi vent’anni della 2006 non si avvertivano nemmeno scrutando il colore, rosso rubino vivo. Crediamo che sarà così anche per il 2021, decisamente solido, ma che va aspettato ancora un poco prima di stapparlo.
Del resto l’annata 2021 ha registrato condizioni climatiche favorevoli con un inverno mite e piovoso che ha garantito una buona riserva idrica, sia una primavera fresca che ha supportato una fioritura regolare. L'estate asciutta e le piogge di fine agosto hanno contribuito a una buona maturazione, con la vendemmia fatta tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre. Del resto, questa annata è l’ultima veramente regolare che ci possiamo ricordare se pensiamo alle successive passate fra peronospora, siccità e gran caldo.


I piatti di Riccardo Monco e la sala di Alessandro Tomberli sono stati la degna cornice ad una presentazione elegante e non ostentata, una chiacchierata che è andata in profondità su tutti i temi: il modo migliore per presentare un grande vino di una storica azienda.