InvecchiatIGP: Podere Alberese - Sangiovese 100 2012


di Stefano Tesi

Si può discutere a lungo, in dottrina, se un IGT Toscana Rosso di dieci anni possa essere definito vecchio o invecchiato. Quel che è certo che, per una tipologia così ampia, dieci anni possono essere un'età critica, come purtroppo molti assaggi dimostrano. Potrebbe esserlo ancora di più per un vino fatto in una zona che di vigne ne ha poche e dove i vignaioli sembrano quasi mosche bianche, come le Crete Senesi: in pratica casa mia o quasi. 


Invece questo Sangiovese 100% anno 2012 del Podere Alberese, piccola azienda biologica a gestione familiare - sei ettari e mezzo in proprietà con Sangiovese, Fogliatonda, Canaiolo, Trebbiano, Malvasia e 700 piante di olivo sui rilievi a cavallo tra Asciano, Rapolano e Trequanda - ha dalla sua frecce a sufficienza per incuriosire parecchio. Innanzitutto, cosa piuttosto strana, è l'ultima annata in commercio (la 2015 lo sarà solo tra un po'): "Fa quattro anni di legno (un unico tonneau di rovere di Slavonia da 500 litri, ndr) e poi ha bisogno di tanto vetro", spiega con naturalezza la titolare Lucia Bozzano. Ovviamente viene prodotto solo nelle annate ritenute qualitativamente all'altezza, perciò non sempre. 

Podere Alberese

Si può dunque dire, almeno ai sensi di questa rubrica, che è un "invecchiato"? Forse no, o magari sì. Ma è interessante proprio per questo. L'uva, Sangiovese Grosso, viene da un'area ristretta di un vigneto di quasi cinquant'anni a 450 metri sul livello del mare, con rese da 30 quintali per ettaro. Viene diraspata senza pigiatura e lasciata a fermentare spontaneamente, con macerazione sulle bucce per tre o quattro settimane. Produzione: appena 590 bottiglie numerate e 35 magnum. Quando giorni fa l'ho assaggiato ero assai curioso e non sapevo che aspettarmi. Il risultato è confortante. 


Il colore è un bel rubino pieno e caldo, ma non troppo carico. In apertura il naso è un po' chiuso, quasi compatto, ma respirando si apre in un bel frutto maturo, quasi dolce e poi, a ventaglio in ondate di pot pourri, fieno asciutto e pepe, con lievi accenni di cuoio e di foglie. In bocca è ben vivo e ancora bello "tirato", come si dice, di struttura importante ma non invasiva, niente affatto ridondante, con un alcool evidente ma attenuato dal nerbo di un sorso solido. Insomma un vino che definire "impettito" è probabilmente poco ortodosso, ma realistico. 

In vendita diretta costa 35 euro.

Cerulli Spinozzi - Cerasuolo d’Abruzzo Superiore "Cortàlto" 2020


di Stefano Tesi

Si avvicina l’estate e con essa la voglia di bere cose fresche, magari anche non evanescenti e pure abbinate a qualche piatto più impegnativo. 


Ecco la soluzione: un bel Cerasuolo d’Abruzzo come questo, dal naso intenso ma non sfarfalleggiante e un bel corpo, solido e lungo, che rilancia il gusto della melagrana spremuta.

InvecchiatIGP: I Capitani - Fiano di Avellino "Gaudium" 2010


di Luciano Pignataro

Siamo a Torre Le Nocelle, l’azienda di Ciriaco Cefalo, dodici ettari comprati dal nonno cento anni fa è stata completamente ripresa nella seconda metà degli anni ‘90 ed è una delle cantine più belle da visitare perché è, insieme, museo contadino e agriturismo, giù le vigne e gli ulivi, di fronte Taurasi con praticamente tutta l’area della docg. Ma non basta, Ciriaco, ingegnere cultore delle tradizioni di famiglia e del territorio è anche produttore di olio da ravece e ogliarola lavorate al suo frantoio mentre la moglie Assunta cura l’ospitalità: sì, al momento I Capitani è una delle poche aziende vitivinicole e olivicole campane che lavora anche come agriturismo completo. Anzi, Wine resort si dice adesso. 


L’azienda ha sempre prodotto vini eccellenti, poco conosciuta dagli stessi addetti ai lavori, costituisce una piccola e interessante chicca del variegato mondo irpino per la radicata tipicità del proprio Taurasi. Siamo in zona di rosso, appunto, ma quando nella nostra cantina di campagna scoviamo per caso questa bottiglia di Fiano di Avellino decidiamo che è il momento di stapparla. Intendiamoci, dodici anni non sono nulla per questo vitigno a bacca bianca, ormai è acclarato definitivamente. Siamo però curiosi lo stesso di provarlo proprio perché la cantina è a vocazione rossista di nascita. Il protocollo di produzione è quello comune a tutto l’areale, fermentazione e affinamento in acciaio e vetro.
 

Proprio per questo il Fiano non finisce mai di stupire: in questo caso abbiamo infatti una spettacolare evoluzione olfattiva che ci porta sentori di frutta matura e note fumé, anche miele di castagno e pasticceria. 


Un naso suadente, quasi dolce che però ha come contraltare una bocca pulita, secca, ancora vigorosa grazie alla freschezza che regge la beva, una chiusura lunga e precisa. Insomma, la bottiglia, considerato il costo, costituisce uno dei piccoli grandi affari che ancora l’appassionato curioso che gira fuori dai percorsi usuali può fare girando per il Sud. Ce l osiamo goduti fino in fondo, fino all’ultima goccia.

Cantine dell'Angelo - Coda di Volpe "Del Nonno" 2020


di Luciano Pignataro

Non ricorderò il Vinitaly solo perchè mi sono beccato il Covid. Ma soprattutto per questo fantastico, unico, buonissimo, stupefacente bianco di Cantine dell'Angelo. 


Fresco, complesso. Il vino del Vinitaly 2022, appunto.

Pio Cesare e i due grandi Barbaresco 2018


di Luciano Pignataro

Sappiamo dei Barolo Boys ma dei Barbaresco Boys nessuna traccia. Forse il motivo è che questo vino alla fine è sempre restato fedele a se stesso, sicuramente low profile rispetto alle polemiche e agli scontri degli anni passati, e anche rispetto ad un certo rampantismo commerciale.


Pio Cesare (cognome e nome per la precisione e non viceversa come si potrebbe pensare) ha proseguito dritto per la sua strada ormai da cinque generazioni dalla fine dell’800 dimostrando che spesso la modernità non vuol dire accelerare o stupire, ma avere la capacità di creare classici che resistono alle modo e si impongono per l’assoluta superiorità dei contenuti, nel caso del vino delle interpretazioni precedenti. Dopo la morte di Pio Boffa avvenuta lo scorso anno, adesso al timone dell’azienda c’è, appunto, la quinta generazione costituita dalla figlia Federica e dal nipote Cesare Benvenuto Pio.
In questa scaletta di nomi e cognomi che ritornano e rimbalzano da una generazione all’altra c’è l’essenza della filosofia di questa azienda che per molte generazioni fuori dal Piemonte è stata a lungo l’unico riferimento di zona.
Durante una degustazione all’Hotel de La Ville a Roma abbiamo avuto modo di provare il rosato Rosy, la Barbera d’Alba, i due Barolo e i due Barbaresco oltre al finale, un Barolo Ormato 2012 in perfetta forma. Non vi farò tutte le schede, preferisco concentrarmi proprio sui due Barbaresco di solito sempre in secondo piano quando si parla di Pio Cesare. 

Barbaresco DOCG 2018

Non chiamiamolo vino base per favore, perché è il risultato di una vendemmia nelle vigne Il Bricco di Treiso, Bongiovanni e San Stefanetto a Treiso e a San Bocco Seno D’Elvio di Rocche di Massalupo. Al suo risultato gioca la lunga esperienza secolare con le caratteristiche pedoclimatiche del territorio. La vinificazione avviene in acciaio, successivamente il vino riposa e si eleva in botti grandi tradizionali. L’integrazione tra il frutto e il legno nè semplicemente perfetta, elegante il colore che lascia vedere il fondo del bicchiere, complesso l’aspetto olfattivo con rimandi di frutta, agrumato, spezie, china, nota di cenere appena accennata, lunghissimo al naso. Al palato domina la freschezza che rilancia i sentori annunciati dai profumi e che rivelano un vino in perfetto equilibrio, in una velocità di crociere destinata a durare molti anni. Il finale è straordinariamente pulito, preciso, non stucchevole. Buonissimo. Sui 55 euro sul web. 



Barbaresco DOCG "Il Bricco 2018"

Le uve vengono dall’omonimo vigneto, prima acquisizione della cantina di Alba in zona di Barbaresco a Treiso, con un clima più fresco dovuto ad una altitudine maggiore. La prima edizione è del 1990 ed è ottenuto da una selezione di uve. Rispetto al precedente, è leggermente più concentrato già al colore mentre al naso e al palato gioca un ruolo preponderante la frutta rossa croccante. Ha sicuramente una spinta in più rispetto al precedente ma, a nostro modesto avviso, pari complessità. Leggermente più scattante e fresco, con una beva più veloce. Una chicca per appassionati che troviamo sul web a circa 70 euro. 


C’è continuità fra le due etichette, come pure dobbiamo dire che la filosofia aziendale mantiene lo stesso passo tradizionale, classico preferiamo, anche quando si passa ai Barolo. Ma di questo parleremo in altra occasione, per adesso ci godiamo questi due straordinari Barbaresco, acuta ed elegante interpretazione del Nebbiolo a Treiso e dintorni.

Torna Beviamoci Sud Roma con l'edizione 2022


Dopo più di due anni finalmente si riaprono le porte di uno degli eventi enogastronomici più attesi della Capitale: Beviamoci Sud a Roma!


Il 14 e 15 maggio, a Roma, L’agenzia Riserva Grande, in collaborazione con Andrea Petrini, blogger di Percorsi di Vino, e con il giornalista Luciano Pignataro, promuovono la quarta edizione dell’evento dedicato ai grandi vini del Sud Italia.

Una manifestazione volta a promuovere esclusivamente aziende rappresentative delle varie aree vitivinicole del nostro affascinante Sud che, al contempo, vuole mantenere uno standard qualitativo di alto livello. Un’occasione unica, per appassionati wine lovers ed operatori del settore, di poter degustare tutte le eccellenze vinicole di un territorio culla, da tempi immemori, di grandi vini dalla inconfondibile personalità, intrisi di storia, cultura e territorialità unica al mondo.

Beviamoci Sud si propone di diffondere ed evidenziare l’eccezionale valore enoico, storico e culturale di questi territori. A tal fine, quest’anno la grande novità sarà anche la partecipazione straordinaria di Gabriele Gorelli, Master of Wine, che collaborerà con noi andando a curare parte dei seminari della manifestazione.

BANCHI DI ASSAGGIO, SEMINARI E LABORATORI

Attraverso banchi di assaggio e seminari potremo valutare le diverse declinazioni territoriali del nostro Sud. Grande importanza verrà data proprio ai seminari (nostro punto di forza), che avranno l’obiettivo di approfondire, tramite degustazioni orizzontali o verticali, le caratteristiche principali dei vari terroir e dei loro vitigni di elezione.

LA LOCATION

Per questa nuova edizione abbiamo scelto l’Hotel Villa Pamphili quale location più adeguata. La struttura, infatti, è uno storico indirizzo della Capitale che proprio pochi mesi fa ha riaperto dopo un restyling firmato da Dexter Moren Associates che ha trasformato l’hotel, sito nella Valle dei Casali, cuore verde della città, in un lussuoso urban resort dotato di tutti i servizi per gli amanti del vino. L’Hotel Villa Pamphili è sito in via della Nocetta 105 ed è dotato di un ampio parcheggio gratuito.

MEDIA PARTNER

Anche per questa edizione il Media Partner dell’evento sarà Vino.tv di Chiara Giannotti, una grande esperta e comunicatrice enogastronomica, che ha creato ormai più di 7 anni fa il noto blog Vino.tv. Chiara è già pronta ai blocchi di partenza con in suo microfono e dispositivi video per intervistare i produttori presenti alla manifestazione nel suo stile competente, ma anche fresco e spontaneo, capace di arrivare efficacemente sia ad un pubblico di esperti che di semplici appassionati.


IL PROGRAMMA


Sabato 14 Maggio 2022

Ore 14:00 - Apertura banchi di assaggio

Ore 14:15 – Seminario Assovini Sicilia a cura del Master of Wine Gabriele Gorelli (su invito)

Ore 16:30 - Seminario Assovini Sicilia a cura del Master of Wine Gabriele Gorelli (su invito)

Ore 20:00 - Chiusura banchi di assaggio

Domenica 15 Maggio 2022

Ore 11:00 - Apertura banchi di assaggio

Ore 12:00 – “Lectio magistralis sull’uso dei lieviti nella storia del vino italiano” a cura del Prof. Giancarlo Moschetti

Ore 15:00 – Verticale Storica Aglianico del Vulture “La Firma” Cantine del Notaio a cura di Luciano Pignataro

Ore 17:30 – L’eleganza del Cannonau - Presentazione dell’Associazione Mamojá a cura di Luciano Pignataro e Giovanni Ladu

Ore 20:00 - Chiusura banchi di assaggio


TICKET E PRENOTAZIONI

Ingresso alla manifestazione (non occorre prenotazione):

Il biglietto potrà essere acquistato con le seguenti modalità:

-       all’ingresso della manifestazione a 25 €

-        online, al seguente link: https://bit.ly/3qjJfTw, a 20 €

Convenzioni:

-Sommelier: 20€ (Previa dimostrazione con tesserino valido anno corrente)

-Fidelity Card Riserva Grande: 20€

All’ingresso verrà fornita una tasca porta bicchiere e sarà richiesta una cauzione di 5 euro per la consegna del bicchiere da degustazione, che sarà restituita alla riconsegna del bicchiere.


CANALI SOCIAL

Facebook: Beviamoci Sud a Roma

Instagram: @beviamocisud_roma

YouTube: Vino.TV


Beviamoci Sud – Festival dei Vini del Sud Italia

Sabato 14 Maggio 2022 ore 14.00 – 20.00

Domenica 15 Maggio 2002 - ore 11.00 – 19.00

Hotel Villa Pamphili, Via della Nocetta 105 Roma


LISTA AZIENDE PARTECIPANTI

Lazio

Antica Tenuta Palombo

Castel De Paolis

Castelli Romani Food & Wine

Amor Vitae

Artico

Cantina Raparelli

Cifero

Eredi dei Papi

Merumalia

Tenuta Santi Apostoli

Villa Simone

L’avventura

Poggio alla Meta

SanVitis

Vignaioli in Grottaferrata

Vini Raimondo

Campania

Azienda Pietro Moschetti

Consorzio di tutela dei vini del Sannio

A canc'llera

Fontana reale

Cantine iannella

Consorzio agrario

Fontanavecchia

La Fortezza

La Guardiense

La Vinicola del Titerno

Azienda agricola Mustilli

Cantina sociale di Solopaca

Tenuta sant'agostino

Torre del pagus

Euvitis 21

Fattoria La Rivolta

Fattoria Selvanova

Feudi di San Gregorio

Nifo Sarrapocchiello

Passo delle Tortore

Petrillo

San Salvatore 1988

Vadiaperti

Verrone

Tenuta Scuotto

Villa Dora

Villa Matilde

Villa Raiano

Molise

Consorzio di Tutela della Tintilia del Molise

Puglia

Antica Masseria Jorche

Cantina Attanasio

Cantine Spelonga

Cantine Torrevento

Conti Zecca 

Giovanni Aiello – Enologo per Amore

Jorche

Lasorte Cuadra

Menhir Salento

Vini Garofano

Basilicata

Basilisco

Cantine del Notaio

Cantine Taverna

Tenuta I Gelsi

Vitis in Vulture

Calabria

Cantina Masicei

Casa Comerci

Librandi

Ippolito 1845

Marchisa Vini

Origine & Identità

Tenuta del Travale

Sicilia

Banco collettivo Assovini Sicilia

Cantine Gurrieri

Cantine Scudero

Di Mauro

Zumbo

Sardegna

Associazione Mamojà

InvecchiatIGP: Cecchetto - Brut Rosé Rosa Bruna 2010


di Carlo Macchi

Raboso. Una bella fetta di enonauti avrà nominato questo vitigno forse 3-4 volte nella sua vita, ad altri sentendo il nome verrà magari in mente una forma particolare di allevamento come la bellussera. Altri l’avranno assaggiato e porteranno il ricordo di un vino di grande acidità e potenza tannica, che ha bisogno di qualche anno per esprimersi al meglio. In effetti il Raboso (pare che il nome derivi da “rabbioso”) anche nella zona del Piave è considerato duro e aspro, ma Giorgio Cecchetto non si è mai fatto impaurire dalla sua fama. Così negli anni ’90 ne metteva una parte ad appassire per conferirgli un po’ di rotondità e creandone varie versioni, anche affinandolo in legni particolari come acacia, gelso, ciliegio e castagno. 


Ma sempre di Raboso si tratta ed è molto difficile imbrigliare la corsa di un purosangue. Meglio allora proporlo in varie declinazioni: con una parte di appassimento per il vino forse più famoso dell’azienda, il Gelsaia, oppure “nature” per il Raboso Piave DOC , con 150 grammi di zucchero residuo per il Raboso Passito e, scusate se è poco, nella versione spumante metodo classico rosé : qui nasce il Rosa Bruna.

“Ora caro Giorgio, ho capito, anche girando per la tua cantina piena di strane barriques che sei un sognatore, uno sperimentatore, ma proporre un metodo classico da raboso in purezza mi sembra veramente un pugno al cielo.”

Questo pensavo guardando la bottiglia e ho continuato a pensarlo quando ci ha detto “Vi farei assaggiare il 2010: ce lo hanno rimandato anche indietro dei ristoranti perché per loro era troppo acido, dicendoci che forse era anche difettato. Adesso è un po’ freddo: fatelo scaldare un po’ e vedrete che profumi e che grande freschezza”. 


E io l’ho fatto scaldare ma intanto un piccolo sorso l’ho messo in bocca ed ho capito immediatamente che quell’austerità, quel nerbo acido che pareva avesse voglia di scardinarmi qualche dente era non tanto figlio del vitigno ma un combinato/composto tra temperatura bassa e raboso. Allora l’ho fatto scaldare di più e il puledro imbizzarrito di prima è diventato un meraviglioso purosangue che non aspettava altro che essere cavalcato.

Partiamo dal colore, un rosa brillante che a me piace tantissimo e arriviamo ai profumi: vi garantisco che sono stato almeno 40 minuti con il naso nel bicchiere e (in un vino del 2010!!!) e ho trovato ogni tipo di frutta di bosco, la ciliegia matura, la rosa canina, il tutto affiancato da lievi sensazioni di lieviti.

Un naso intenso e complesso, giovanissimo, di cui non riuscivo a capacitarmi. Ad un certo punto, verso la fine della bottiglia mi sono ritrovato a fare confronti con gli aromi del pinot nero. In bocca però non c’è pinot nero che tenga: l’acidità è viva, vibrante ma non amara o scomposta. Traccia una direzione ma è affiancata da una bella ampiezza e la sua profondità è inaspettata, grazie anche ad una bollicina nitida e ben fusa.

Chi se lo sarebbe aspettato dal raboso. Il consiglio è provarla, provarla, provarla!

Per la cronaca mi sono bevuto quasi tutta la bottiglia e una l’ho portata a casa.

Luigi Boveri - Colli Tortonesi Barbera Boccanera 2021


di Carlo Macchi

La Barbera è un vino immediato. Non devi stare a spiegarla tanto, devi berla e goderla specie se è profumata e fresca come questa che Luigi Boveri produce nei Colli Tortonesi. 


Profumi vinosi e fruttati, corpo leggero ma reso “un peperino” dall’acidità, che ti porta a un sorso (uno solo??) appagante.

Alla scoperta del Borgo di Gradis’ciutta e dei grandi vini di Robert Princic


di Carlo Macchi

Prendete un giovane e bravo produttore di vino del Collio, aggiungete un vecchio borgo in collina da ristrutturare, amalgamate con tempo, pazienza (soldi naturalmente), fate mixare il tutto da un architetto che confusionario è dir poco ed ecco a voi la ricetta per l’apertura, estremamente ritardata, di un luogo veramente bello e accogliente: Borgo Gradis’ciutta


Il produttore in oggetto è Robert Princic, del luogo ho già detto il nome e posso solo aggiungere che si trova vicino a san Floriano in Collio, una delle zone del Collio dove le finezze aromatiche e i panorami sono in prima fila, dell’architetto è bene tacere. Non taccio invece sull’accoglienza avuta. Siamo stati infatti, io e i fortunati partecipanti all’ultimo tour friulano di Winesurf, i primi ad inaugurare la cucina e a provare cosa voglia dire “inaugurazione” per Robert Princic. 

Borgo Gradis’ciutta dispone di circa una decina di camere e di un servizio di ristorazione che può variare ma che si baserà soprattutto su ristoratori locali. Noi abbiamo avuto la fortuna di avere DVor, Osteria Enoteca di San Floriano in Collio, che ci ha preparato l’ottimo menù che troverete nella foto qua sopra, ma soprattutto ci ha servito un antipasto talmente buono e composito che, mi voglio rovinare, è stato uno dei più buoni che ho mangiato in vita mia. Mi piace elencarvi cosa abbiamo trovato nel piatto perché così riesco a ricordarne il profumo e il sapore. 

Il Borgo

“Lonza marinata servita con mela verde e cren, panna cotta allo stravecchio con mostarda fatta in casa, tartare ai 14 ingredienti e crostini caldi, frittatina alle erbe di campo.”  Cose se vogliamo semplici, ma equilibrate e saporite, che si abbinavano perfettamente alle nuove annate di Robert. A Borgo Gradis’ciutta si bevono (per adesso) i vini dell’omonima azienda e così Robert ha pensato bene di farci fare una carrellata che è partita dal Sinefinis, un metodo classico di Ribolla Gialla dalla storia molto particolare e dalla profonda finezza, che ti fa capire quanto possa dare questo vitigno se coltivato in collina e non (purtroppo) piantato nelle piane friulane in quantitativi industriali. 


Poi siamo passati ai vini della vendemmia 2020, sicuramente meno succulenta e corposa della 2019, ma precisa nei profumi e di buona lunghezza, e successivamente siamo andati indietro nel tempo, scavando sino a giungere ad una magnum 2007 di Friulano e all’uvaggio tra friulano, malvasia e chardonnay 2005 dallo stranissimo nome di Tùzz, vino da cui dopo anni è nato il suo Collio Bianco Riserva. 


Mi voglio soffermare però sul Friulano 2007, “il base”, fatto non per invecchiare ma per essere bevuto giovane: a parte il colore giallo dorato, che forse la foto accentua, il naso era un mix tra aromi classici (tipo anice) e terziari che partivano da note di pietra focaia, viravano sul minerale e poi chiudevano con lievi sentori di frutta candita. Ma era in bocca che sorprendeva ancor più: grasso, potente, assolutamente giovanile nel dispiegarsi, lungo, armonico. Ripeto, era un vino “base”, per di più di un’annata calduccia e questo può farvi capire sia le potenzialità di invecchiamento dei vini del Collio, sia che certe volte il non voler per forza creare vini più opulenti e concentrati, porti quelli stessi vini a un equilibrio migliore e quindi a un invecchiamento migliore nel tempo. 

Robert Princic

A proposito di tempo: tre ore sono passate veloci e abbiamo dovuto lasciare Borgo Gradis’ciutta a malincuore. Per chi invece volesse andarci basta che telefoni all’azienda Gradis’ciutta, oppure visiti il suo sito internet. 

InvecchiatIGP: quella Vernaccia di San Gimignano del '78 di Dino Monagnani che ci fa sognare!


di Roberto Giuliani

Per quanto mi riguarda ho speso sempre molte parole per tentare di sfatare l’idea che i vini bianchi italiani non siano in grado di competere con i rossi per longevità. Non ci provate nemmeno a dire “ma mica tutti i vini bianchi!”, perché tutti i vini rossi sì? Scremate le numerose tipologie di vino che nascono già senza la pretesa di saper invecchiare, possiamo dire con certezza quasi matematica che nel variegato mondo dei bianchi italiani c’è molta roba seria con quelle caratteristiche di cui stiamo parlando, non esiste una sola regione italiana che non possa offrire dei bianchi longevi, credetemi, dal Timorasso piemontese al Fiano campano, dal trebbiano abruzzese al verdicchio marchigiano, dalla ribolla friulana al vermentino ligure, potrei andare avanti a lungo. Ma forse, quello che meno vi aspettereste, è trovare bianchi dalla longevità sorprendente in una regione rossista per eccellenza come la Toscana.  
Ebbene, anche in questo caso sbagliereste, alla grande! Non c’è bisogno di finire su qualche famoso Chardonnay della terra di Dante e Leonardo, sarebbe troppo facile. Andiamo invece dall’unica DOCG bianca toscana, la Vernaccia di San Gimignano, che la maggior parte dei comuni mortali beve appena uscita o poco dopo. E no, non ci siamo! Quei poveracci come me e gli altri IGP che ogni anno devono spupazzarsi le nuove annate di Vernaccia, trovando vini prevalentemente acidi e citrini, scomposti e sgomitanti, sanno bene che ci vogliono almeno un paio d’anni per cominciare a sentire cosa ha da raccontare questo vino. Minimo. 

E se vi dicessi che, invece, si può andare indietro nel tempo in maniera inimmaginabile e scoprire che quel bianco in terra di rossi è uno che non sente le rughe nemmeno dopo 44 anni? Qualcuno potrebbe dire che giusto da Montenidoli può esserci un vino così. Sbagliato ancora una volta! 


La Vernaccia del ’78 che mi ha fatto ricrescere i capelli è quella di Federico Montagnani, dell’omonima tenuta. 
Ovviamente a quel tempo non era Federico a lavorare in vigna e cantina, ma il suo babbo Pietro, 32 anni non ancora compiuti e suo nonno Dino di 58. Erano già 12 anni che imbottigliavano i loro vini, infatti la prima vendemmia finita nel vetro risale al 1966. Il vino veniva fatto da sempre, ma venduto ad altre cantine, prima degli anni ’60 erano davvero in pochi a imbottigliare. Come dice Federico “La mia famiglia aveva come numero di registro d’imbottigliamento della provincia di Siena il 13. Tanto per fare un paragone, a me nel 2017 hanno assegnato il numero 9861”.
E continua a spiegarmi: “La vendemmia della ’78 fu fatta nel mese di ottobre, le giornate erano fredde e spesso piovose, oggi si vendemmia vernaccia nel mese di settembre, spesso in maglietta a mezze maniche. Le uve venivano portate in cantina, diraspate e messe in serbatoi di cemento e dopo circa 24 ore di macerazione, per gravità si separavano le bucce (più leggere in alto) e mosto (più pesante in basso), la cosiddetta alzata di cappello. Il mosto di sgrondo, ovvero il fiore, destinato a finire in bottiglia, veniva spostato in un serbatoio, mentre la restante parte era destinata alla vendita in damigiane a privati, molto richieste in quegli anni”. 


Federico mi fa notare anche che le gradazioni erano ben diverse da quelle attuali, infatti questa ’78 riporta in etichetta 12 gradi, ma arrotondati per difetto, l’esatto contrario di ciò che accade ora per via delle annate sempre più calde. Eppure questa gradazione così modesta non sembra avere minimamente condizionato l’evoluzione del vino, forse perché la vigna da cui veniva prodotta era recente, innestata in campo da babbo e nonno con quel clone di vernaccia che ancora oggi è utilizzato per la produzione dell’Assola, la riserva aziendale. 


La bottiglia stappata da Federico in occasione di una visita proprio il giorno della degustazione delle nuove annate, a detta sua non era neanche la migliore, ne aveva aperta un’altra in precedenza ancora più viva ed espressiva. Tanto di cappello, visto che questa mi ha mandato in brodo di giuggiole, soprattutto lasciata respirare a lungo nel calice, rivelando note di miele di castagno, un’affumicatura invitante, frutta bianca e agrumata in confettura, erbe aromatiche. Temevo di trovarla più che ossidata, soprattutto al naso, invece non è andata così, l’ossidazione è apparsa solo all’inizio, poi con l’ossigenazione il vino si è rinvigorito, un po’ come avviene alle piante in vaso quando gli manca l’acqua. E che vigore! L’acidità era ancora lì a dire la sua, il sorso non era debole e spento, al contrario succoso e vitale, sapido, davvero bello e complesso.

Ora sapete cosa vi siete persi in tutti questi anni che avete voluto stappare sempre bianchi giovani. Donna e uomo avvisati…

Cantina Sant'Andrea - Moscato di Terracina Amabile "Templum" 2019


di Roberto Giuliani

Quasi 50 anni che viene prodotto, nella veste più tradizionale, amabile, questo moscato dal colore oro caldo regala note di frutta secca, uva passa, albicocca, sfumature di zenzero. 


B
occa generosa, intensa e sapida, con un buon apporto di freschezza, tanto che la nota dolce quasi non si percepisce.

www.cantinasantandrea.it


Col Vetoraz cambia l'idea di longevità del Prosecco Valdobbiadene Superiore Brut DOCG


Di Roberto Giuliani

La forte ascesa, per ora inarrestabile, del Prosecco, ha spinto ad allargare sempre più l’area produttiva, basta farsi un giro in auto per accorgersi che ormai si trovano numerosi vigneti anche a valle, con sistemi di potatura standardizzati e mirati a fare quantità più che qualità. Con una produzione che continua a salire, forte di una richiesta al momento abbondantemente superiore all’offerta, non si può guardare tanto per il sottile e la qualità diventa un fattore secondario. Non è una scoperta il fatto che in gran parte del nostro Paese, l’aperitivo si fa soprattutto con il Prosecco, facile da trovare al bar come al supermercato, grazie a una mole produttiva che ha già abbondantemente superato il mezzo miliardo di bottiglie e a un prezzo medio davvero alla portata di tutti. 


In questo contesto far comprendere al consumatore che questo vino non è tutto uguale, ma esistono fasce qualitative differenti, zone elette e zone meno o quasi per nulla vocate è impresa assai ardua. Potremmo fare un discorso analogo, ad esempio, nel mondo Chianti; anche lì, la zona storica ha rischiato di rimanere completamente schiacciata dal boom economico che ha portato a coinvolgere aree produttive differenti all’interno della denominazione riducendo il territorio classico a sottozona del Chianti. Successivamente le due denominazioni sono state divise, ma il Chianti Classico, per liberarsi dal fardello di sembrare una costola del Chianti, ha dovuto puntare sul simbolo del Gallo Nero, che dal 2005 è diventato il marchio esclusivo della denominazione, che lo accompagnava dal lontano 1924, quando fu fondato il “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca di origine”. Nel caso del Prosecco, il momento del salto definitivo è avvenuto nel 2009, quando le due denominazioni storiche e qualitativamente superiori Conegliano-Valdobbiadene e Asolo, hanno ottenuto la DOCG. 

Ma questo passaggio legislativo è bastato a modificare l’immagine collettiva del Prosecco? Certamente no, anche se la strada in qualche modo è stata spianata affinché si creasse un percorso d’elezione, fra comunicazione e qualità delle aziende trainanti, oggi possiamo dire che anche queste due DOCG stanno riscontrando sempre maggiore successo, in una fascia di prezzo medio-alta per la tipologia. 

E qui si apre un’altra questione, altrettanto spinosa: quanti possono dire di sapere cosa è capace di fare negli anni questo vino, da sempre destinato come gran parte dei bianchi, a essere bevuto appena uscito

Bene, nel caso del Prosecco, possiamo dire che è un’opportunità assai remota, perché non esiste una tradizione di storicizzazione, le aziende più “vecchie” possono avere un po’ di annate conservate, ma magari non hanno mai pensato che potesse interessare a qualcuno stapparle. 


La visita presso l’azienda Col Vetoraz di Santo Stefano di Valdobbiadene, che il nostro gruppo Garantito IGP ha effettuato sabato 23 aprile, su invito della brava Lorella Casagrande dell’agenzia Carry On di Conegliano, ci ha permesso di scoprire, attraverso una straordinaria verticale di ben 16 annate di Valdobbiadene Brut, che non solo è capace di invecchiare, ma addirittura diventa estremamente più stimolante e complesso. Chiacchierando con Loris Dall’Acqua, amministratore delegato ed enologo di Col Vetoraz, abbiamo avuto conferma dei nostri sospetti, una verticale di così tante annate, fra l’altro tutte in condizioni di assoluta bevibilità, al momento non è in grado di offrirla nessun altro. Se ci sbagliamo, saremo ben contenti di scoprire che qualche altro produttore ha uno storico del genere. 


Loris ci ha spiegato che un altro passo per liberarsi di un’immagine che sta un po’ stretta, è stato quello di avere eliminato la parola “Prosecco” dall’etichetta, possibilità che il disciplinare prevede. Si tratta di una decisione non senza qualche controindicazione dal punto di vista commerciale, il termine Prosecco è ormai conosciuto in tutto il mondo, ma l’azienda ha già conquistato un proprio spazio e, con una produzione di 1 milione e 250mila bottiglie annue, possiamo dire che è leader nell’area di Valdobbiadene. Fra l’altro l’azienda ha scelto di produrre esclusivamente Valdobbiadene Docg, un altro modo per comunicare il territorio, elemento cardine della sua filosofia. 


Il fatto di avere a disposizione un 20% di uve provenienti da propri vigneti e un 80% da 72 viticoltori fidelizzati, con visite in campo e quattro riunioni collettive all’anno per ottenere la massima qualità possibile, consente all’azienda di selezionare volta per volta, secondo l’annata, le migliori destinate ai propri vini, prelevate nella fascia pedemontana affinché il patrimonio acido e aromatico siano preservati. I terreni della fascia pedemontana del sistema collinare Conegliano Valdobbiadene si sono formati in era terziaria, periodo miocenico. Sono terreni calcareo-silicei ricchi di scheletro, ideali per ottenere eleganza e sapidità. I pendii molto marcati impongono lavorazioni manuali, vendemmia compresa, certamente più impegnativa ma con il vantaggio di poter fare una selezione accurata dei grappoli migliori senza rischiare di rompere qualche acino. 


Col Vetoraz si è strutturata per poter vinificare separatamente le uve di ogni vigneto. Questo consente di poter valutare le reali potenzialità di ogni singola partita, prima della costituzione delle grandi cuvée. Per questa ragione in cantina si trovano 128 serbatoi inox non di grandi dimensioni e numerose presse. Una volta effettuata la pressatura, il succo decantato viene sottoposto ad analisi organolettica. I vini non subiscono nessun trattamento, nemmeno chiarificante. Questo garantisce il mantenimento dell'integrità aromatica e strutturale del frutto di partenza, sviluppando un naturale indice di rotondità e un'espressione carbonica avvolgente e cremosa. 

Assaggiando quei 16 campioni è emersa evidente la filosofia dell’enologo: lasciar parlare il territorio e le annate, senza fare alcun “aggiustamento”, lasciando che il vino esprima esattamente ciò che la natura gli ha consegnato; per questo motivo nessun millesimo mancava all’appello, dalla 2006 alla 2021. Tutte le annate sono state prodotte con 8 g. litro di zucchero residuo. 

2006 – mostra un colore oro intenso, ma comunque vivo, luminoso, colpisce subito per il grande equilibrio tra profumi e trama gustativa; emergono note di miele di acacia, mango, uva passa, agrumi canditi. In bocca è sapido, ha mantenuto un’ottima freschezza nonostante l’ovvio calo di CO², più passano i minuti e meglio si esprime, rivelando una vitalità e una profondità inimmaginabili per questa tipologia di vino. 

2007 – qui, sulle colline di Valdobbiadene, l’annata è stata piuttosto fredda, ben diversa da gran parte delle zone viticole italiane. Se ne è giovato il vino, che rivela un colore simile al precedente, ma più acceso e profondo, manifesta note di pasticceria, crema, nocciola; c’è maggiore spalla al palato, un equilibrio ancora non pienamente raggiunto e un’acidità sorprendente con 15 anni sulle spalle. 

2008 – siamo sempre su tonalità molto intense, dal punto di vista olfattivo ha più bisogno di ossigenarsi per eliminare qualche venatura gommosa; al gusto esprime ancora una volta una bella sapidità, che è un po’ il marchio del terroir. Il linguaggio è un po’ meno avvincente, non perché sia alla fine del suo percorso, ma probabilmente sono i tratti dell’annata, più severi e meno aperti. 

2009 – il vino più sorprendente, sia perché esprime ancora suggestive note floreali e di pesca, di albicocca e pera, miele; sia perché ha un sorso piacevolissimo, ampio, ancora una volta sapido, profondo, invitante, davvero suggestivo, in qualche modo ci porta oltralpe per eleganza e complessità. 

2010 – Scendiamo di tonalità al paglierino brillante, decisamente più chiaro, ha profumi da annata fresca, floreal-fruttati, un po’ meno ampi ma pur sempre piacevoli. Al gusto appare una sfumatura di nocciola tostata, c’è grande freschezza, altro vino che testimonia un percorso per nulla finito. 


2011 – qui i tratti espressi dalla 2010 sono ancora più marcati, non penseresti mai di avere di fronte un Valdobbiadene di 11 anni, le note primarie sono ancora molto evidenti, perde un po’ in complessità ma è del tutto logico vista l’estrema giovinezza. 

2012 – una versione a mio avviso più austera, ancora piuttosto chiusa al naso, molto meglio in bocca dove esprime un frutto dolce e piacevole, buona freschezza, da seguirne l’evoluzione. 

2013 – altro vino che mi ha molto colpito per intensità e freschezza, dinamico, in continuo movimento, non gli daresti più di un paio d’anni, esprime toni di fiore d’acacia e della vite, agrumi gialli; bocca freschissima, stimolante, ha tutte le carte per evolvere a lungo. 

2014 – anche qui è stata un’annata piovosa e difficile, il vino ha colore paglierino chiaro, naso dagli accenti floreali marcati, richiama la rosa e il biancospino; in bocca si sente un po’ di più l’evoluzione, sicuramente l’annata ha i suoi limiti, a mio avviso è l’unico che è meglio non aspettare ancora per berlo. Va bene ora. 

2015 – si torna a salire come intensità di colore, ma senza eccessi, siam sempre sul paglierino appena più intenso; molto agrumato al naso, ancora piuttosto chiuso e rigido. In bocca si sente un po’ l’annata calda, c’è un buon equilibrio ma gli manca un po’ di slancio che ravvivi il sorso. 

2016 – una bella annata, caratterizzata da intensità sia di profumi che di sapore, c’è energia e materia, lui merita di essere atteso, è solo all’inizio di un lungo percorso. 

2017 – da qui scompaiono i sentori più complessi a vantaggio di grande florealità e un frutto fresco; la freschezza si manifesta in modo evidente anche al palato, sembra un vino d’annata, anche di buona intensità. 

2018 – qui torna l’acacia, la pesca bianca, la susina, sorso fresco ma non pungente, si beve bene, con il vantaggio di non avere la spigolosità del vino appena uscito. 

2019 – attacca con sfumature di cedrata, poi emerge il biancospino, leggero gelsomino; bocca giovane e stimolante, siamo ormai su un vino tutto in formazione. 

2020 – questo millesimo si caratterizza per un’evidente nota di pera Williams, poi pesca e cedro, bocca assolutamente verticale, giovanissima, anche perché la carbonica è ancora integra. 

2021 - guarda caso ha il colore più chiaro in assoluto, quasi con tonalità verdoline, assaggiato per ultimo ha il solo limite di venire da una batteria che ha mostrato molte meraviglie, pertanto sembra solo buono; in realtà ha grande pulizia espressiva e una materia assolutamente coerente, sapido e succoso. 

La Chiosa 

Una verticale sorprendente, che ha ribaltato completamente l’immagine della tipologia, dimostrando che, partendo da una base eccellente, si possono ottenere risultati impensabili, gli anni permettono a questo vino di acquisire complessità senza avere cedimenti né stanchezze. Al momento io berrei con grande piacere la 2009, che ho trovato superba sotto ogni aspetto, e la 2006 che ha raggiunto una maturità e profondità ottimali, un vino intenso e di grande persistenza.

InvecchiatIGP: Villa Matilde – Falerno del Massico DOC Rosso “Vigna Camarato” 2006


Al confine tra Campania e Lazio, nella zona compresa tra il monte Massico, il fiume Savone e le pendici del vulcano spento di Roccamonfina, c’è una fascia di terra conosciuta con il nome di Ager Falernus. Questo territorio particolarmente fertile era già noto nell’antichità principalmente per la produzione dell’omonimo vino Falerno che può essere considerato come la prima vera DOC o il primo Grand Cru della storia. Infatti, già 2000 anni fa, esisteva un suo disciplinare di produzione che prevedeva: un rituale codificato di pigiatura al ritmo di musiche sacre; un’etichettatura, “pittacium”, che indicava luogo di origine e annata; un periodo di invecchiamento di numerosi anni, prima che il vino venisse consumato con aggiunta di acqua di mare, spezie e miele. 


Nonostante la fama ed il successo, con la caduta dell'Impero romano e con l’arrivo della fillossera verso metà ottocento ed inizi del novecento, del pregiato e costoso Falerno si persero le tracce. fino agli anni ’60, quando l’Avv. Francesco Paolo Avallone, appassionato cultore di vini antichi, incuriosito dai racconti di Plinio e dai versi di Virgilio, Marziale e Orazio, decise si riportare in vita la leggendaria bevanda. 


Il fondatore di Villa Matilde, coadiuvato da un gruppo di ricercatori universitari, riuscì ad individuare le varietà di uva con cui si produceva il mitico vino e a rintracciare pochi ceppi di quelle viti, dirette discendenti delle varietà coltivate nell' Ager Falernum oltre 2.500 anni addietro. I vitigni del Falerno, sopravvissuti miracolosamente alla devastazione della filossera di fine ottocento, vennero reimpiantati, con l’aiuto di pochi contadini locali, proprio nel territorio del Massico dove erano prosperati in antichità. 

I Fratelli Avallone - Foto: Italia a Tavola

Il percorso di recupero del Severus, fortis, ardens continua oggi con Maria Ida e Salvatore Avallone che, con dedizione esclusiva, proseguono il sogno ed il progetto del padre portando avanti, dal 2009, anche interventi di sostenibilità ambientale condotti nella direzione del recupero delle acque e del risparmio energetico attraverso una revisione globale degli impianti e il ricorso ad energie alternative di cui tanto si parla oggi. 


Durante un recente pranzo con i fratelli Avallone ho potuto degustare il loro Falerno del Massico DOC Rosso “Vigna Camarato” 2006 (80% aglianico e 20% piedirosso) prodotto esclusivamente nelle migliori annate con uve raccolte nell'omonimo vigneto, uno dei più vecchi e meglio esposti della tenuta collinare di San Castrese. 


Il vino, dal colore leggermente granato, è ancora assolutamente integro nei suoi profumi che richiamano il terroir di appartenenza dove l’influenza del mare e del vulcano spento di Roccamonfina forniscono a questo rosso nuance aromatiche scure che richiamano il rabarbaro, la china, il mirto, la ciliegia matura, per poi vibrare su sensazioni di ferro e iodio. 


L’assaggio non manca di personalità, è ancora perfettamente bilanciato, fresco, con tannini “dolci” e ben estratti. Lunghissimo il finale su toni di erbe mediterranee e salgemma. Chapeau!