Alla scoperta dell'Etna Spumante DOC, il Metodo Classico del Vulcano!

di Carlo Macchi

Vi sono luoghi che uniscono e altri che dividono. L’Etna è sicuramente uno di quelli che più unisce: mette assieme il mare e la montagna, il fuoco e il ghiaccio, la paura del vulcano con la gioia di camminarlo e ammirarlo.


Da anni vi cammino sopra e ammiro non solo lui ma soprattutto i produttori di vino che lo sfidano continuamente e nello stesso tempo ne sfruttano le infinite e millenarie risorse, sparpagliate in luoghi di una bellezza che rende muti. I vini etnei invece non rendono muti anzi, non per niente sono sempre più ricercati dagli appassionati.


Molti conoscono gli Etna Rosso e gli Etna Bianco, non molti magari conoscono gli Etna Rosé ma credo che pochissimi abbiano avuto a che fare con gli Etna Spumante. In realtà si possono fare, per disciplinare, solo da 10 anni: sono dei metodo classico che devono rimanere sui lieviti per almeno 18 mesi e nascono, sempre per disciplinare, da almeno un 70% da nerello mascalese e per il rimanente da altre uve autoctone etnee, sia bianche (carricante e catarratto soprattutto) che rosse.


Nei giorni scorsi ho partecipato ad una degustazione online dove il Consorzio Etna ha presentato questa tipologia, che non solo è agli esordi (anche se è nata 10 anni fa) ma ha anche l’umiltà di ammetterlo. Tanto per capire: ci sono 24 produttori che fanno Etna Doc Spumante e in totale arrivano appena a 150.000 bottiglie. Solo 1400 ettolitri rispetto alla produzione della Doc che è di 32000: nemmeno il 5% del totale.


Ci sono due modi per parlarvi della degustazione: quello dove si osserva una tipologia agli esordi e quello dove si osserva una tipologia.
Il primo permette e vuole che si sia di manica leggermente più larga, che si punti sui fattori positivi sperando che in futuro i punti interrogativi si sciolgano come la neve sull’Etna: il secondo cerca di vedere più lontano e di dare alcune indicazioni che potrebbero servire alla crescita.
Intanto è interessante cercare di capire il perché di una denominazione che in pratica è composta solo da blanc de noir. Infatti, il Nerello Mascalese adesso arriva al 70% dell’uvaggio ma nel prossimo futuro verrà ritoccato ad 80%. La risposta è, se vogliamo, abbastanza semplice: i sei metodo classico degustati provenivano da vari versanti: nord, nord-est e sud-est e tutti da altezze che partivano dai 620-650 metri per arrivare fino a 750, quote a cui il nerello mascalese non sempre riesce a raggiungere perfetta maturità. Così si è pensato di sfruttarne le caratteristiche di acidità e di pH per allargare la gamma dei vini etnei.


L’idea è stata intelligente e i vini degustati hanno mostrato, pur tra logiche diversità, che i produttori si stanno impegnando con serietà e cognizione di causa. Solo un vino aveva una lieve riduzione, che poi è andata stemperandosi durante l’assaggio. I vini erano freschi ma con bollicine un po’ rustiche, che può essere visto come un peccato di gioventù o come una caratteristica. Il corpo era più che sufficiente, con una chiusura leggermente amara, che sinceramente gli dava un tocco particolare.


Adesso cerchiamo di vedere oltre e facciamoci una domanda “Perché dovrei bere un Etna DOC Spumante?” Se è perché sono in zona e mi sembra giusto bere una bollicina locale o perché amo la Sicilia va tutto bene, ma una crescita non si può basare su “voglie” che possono passare come sono venute. Una tipologia deve avere caratteristiche riconoscibili e deve essere ben identificabile anche dal punto di vista merceologico: purtroppo i sei vini degustati erano molto diversi l’uno dall’altro non solo in bocca o al naso ma anche negli zuccheri residui. Considerate che l’Etna Doc spumante può andare da Brut a Extra dry, in teoria quindi da 0 grammi di zucchero (un vino infatti era praticamente secco) a 17 e questo è un range troppo ampio per chi si affaccia oggi sul mercato. Inoltre, non esiste ancora una regolamentazione per i millesimati. Visto che questi spumanti, giustamente, non vengono regalati ma hanno prezzi in enoteca che vanno dai 15-16 ai 25-26 euro a bottiglia e quindi in linea con quelli di altre denominazioni più blasonate, credo che il consumatore abbia diritto di capire fin da subito che cosa sta andando a bere. Inoltre, il disciplinare (per me giustamente) sta per introdurre anche la possibilità di produrlo con uve bianche come carricante e catarratto e quindi si va incontro ad ulteriori diversificazioni.


Credo che a questo punto serva una chiara presa di coscienza da parte dei produttori, sia a livello normativo che a livello produttivo. I vini sono nella media di altre denominazioni più blasonate e almeno uno dei sei era veramente buono ma “la mano” per produrre bollicine non si crea in un anno, soprattutto perché fare vini spumanti richiede un approccio completamente diverso dal produrre bianchi o rossi.


Concludendo, che sull’Etna (se si eccettuano alcune storiche realtà che li producono da molti anni) si facciano degli spumanti metodo classico è una notizia interessante. Per questo ho appoggiato le bottiglie su un quotidiano e così le ho fotografate, perché oltre alla notizia di oggi credo che ne sentiremo parlare in futuro.

La figura femminile nel racconto storico del vino


Di Rachele Bernardo

"Al vino spetta il ruolo di fedele compagno di viaggio della società primordiale attraverso la storia, un onnipresente testimonianza dell’umana civiltà”


Ripercorrere la storia del vino significa scrivere la storia dell'umanità. La vite è stata una delle prime piante coltivate dalle civiltà sumere, assire, babilonesi, egizie e cartaginesi.
Diverse pitture parietali egiziane, risalenti all’epoca imperiale mostrano scene di raccolta e pigiatura dell’uva.

La coltivazione della vite regolava i rapporti commerciali tra l’Egitto e altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo (scambi di grano, vino ed olio), dapprima con i mercanti cretesi e poi con i fenici ed i greci.


La vite europea (Vitis vinifera sativa) appartiene alla Famiglia delle Ampelideae, genere Vitis. La Vitis vinifera presenta due sottospecie: Vitis vinifera silvestris, spontanea e selvatica e Vitis vinifera sativa, ermafrodita.

Le varietà che coltiviamo oggi derivano dalla vite selvatica, modificata attraverso millenni di selezioni ed incroci avvenuti naturalmente e attuati dall’uomo. Sin dalla sua scoperta nella zona del Caucaso, dove sono state ritrovate tracce di coltivazione della vite e di anfore risalenti a varie epoche, comprese tra il 5000 ed il 1000 a.C., il vino ha rivestito, in tutte le società in cui a mano a mano si è diffuso, un ruolo di primaria importanza, in particolare per gli uomini.

Il rapporto vino-donna in quelle stesse società era controverso e basato su una serie di divieti di farne consumo, che potevano comportare estreme conseguenze giuridiche per la trasgredente.

Furono i Fenici a portare cloni di Vitis Vinifera Sativa e il vino in Grecia e poi in Sicilia. La nostra penisola si dimostrò adattissima alla coltivazione della vite, tanto che in poco tempo venne chiamata Enotria, la terra del vino.


In tutta la zona dell’Italia meridionale colonizzata dai Greci (Magna Grecia) vi fu una vera e propria fioritura della civiltà del vino: vicino Sibari venne costruito un “enodotto”, cioè un condotto di argilla che convogliava il vino nella zona portuale dove veniva raccolto in anfore e poi imbarcato.

Nel periodo in cui ebbero a coesistere in Italia la civiltà greca e quella etrusca, tra le due ci fu quasi una frontiera nascosta che differenziò anche le tecniche di coltivazione della vite.


Gli Etruschi tendevano ad accostare la vite ad alberi di medio e alto fusto permettendo così alla pianta di arrampicarsi (pratica diffusa ancora presso Aversa, non lontano da Napoli, per la produzione dell’Asprinio di Aversa, dove la vite è maritata al pioppo, mentre i Greci, le cui tecniche di coltivazione si erano già affinate, utilizzavano sostegni morti (pali di legno). In virtù degli intensi contatti con i popoli del Mediterraneo orientale, dove la cultura viticola era già più evoluta, gli Etruschi poterono affinare le tecniche produttive e importare anche nuovi vitigni di origine orientale (il cui processo di domesticazione erano iniziato in epoca ben più remota nell’area del Caucaso). La pratica di Vite maritata fu sviluppata dagli Etruschi, anche nella parte centro-settentrionale d’Italia. Le viti venivano allevate su pioppi, aceri, olmi, castagni.

Virgilio, nelle Georgiche (29 a.C.) parla della viticoltura della sua terra (Mantova) e racconta che le viti erano maritate all’olmo. In origine le viti non erano potate e tendevano a crescere molto, ad avere tralci lunghissimi. La raccolta dell’uva era effettuata con le mani, con scale apposite appoggiate agli alberi, oppure usando strumenti dal manico molto lungo. La vite maritata è rimasta nella cultura viticola italiana fino ai nostri giorni, in tutti quei territori dove in antichità era arrivata la civiltà etrusca.


In provincia di Avellino si può ancora vedere “La Starseta” o pergola avellinese: viti alte maritate ad alberi e distanziate tra di loro. Tale apparato ha avuto origine a causa degli appezzamenti piccoli e frammentati tra i vari proprietari, e dalla necessità di contenere tutto nella stessa area (viti, orto, alberi da frutta e ulivi).

Gli Etruschi furono grandi navigatori e commercianti. Con la produzione di anfore etrusche da trasporto, vino ed olio divennero beni di largo consumo.


La funzione del vino presso gli antichi Greci si collega principalmente alla parola simposio, dal latino symposium, che trae origine dal greco sympòsion (syn “con” e posis “bevanda”).

Il vino era l’attore principale del simposio, i Greci lo consideravano dono divino, regalato da Dioniso agli umani per porre rimedio ai loro affanni; ne esaltavano i vantaggi e celebravano la felicità che il bere portava, sempre senza abbandonarsi all’eccesso.

“Portami un orcio, ragazzo,
ch’io tracanni d’un fiato,
mescimi dieci misure
d’acqua e cinque di vino,
perché di nuovo io celebri
senza violenza Dioniso
[…]
(Anacreonte)


Il vino rappresentava un particolare momento della vita sociale della Grecia antica. I partecipanti si riunivano per discutere di politica, arte, filosofia, ma anche per scambiarsi idee ed opinioni; si trattava di un luogo in cui si sviluppava la cultura, accompagnando le discussioni con cibo e vino.

Platone (che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi) racconta che una coppa di vino veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare.


Un vero e proprio rito, scandito da atti programmati in anticipo con una forte dimensione religiosa, oltre che relazionale e culturale; il vino non era solo la bevanda che procurava sollievo agli uomini, ma un mezzo attraverso il quale l’uomo entrava direttamente in contatto con gli Dei.

I Greci deploravano l’ubriachezza, la consideravano non degna di un uomo civilizzato, evitarne le conseguenze negative era fondamentale!

Tra l’altro il vino puro della Grecia era molto alcolico, non a caso veniva sempre servito con acqua, talvolta si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto.
Al simposio non era ammessa la presenza delle donne...salvo alcune eccezioni: le etère, che suonavano l’aulòs e danzavano.

Anche nella cultura dell’antica Roma, a tutte le donne era rigorosamente vietato bere vino e la trasgressione di questo divieto era punita con severità: lo storico Valerio Massimo racconta che un cavaliere di nome Egnazio Mecenio uccise a bastonate la propria moglie solo per averla trovata ubriaca. Secondo la moralità del tempo il bere vino conduceva le donne direttamente all’adulterio: per gli antichi si trattava quindi, di una pratica che poteva nuocere alla purezza femminile.

Dionisio di Alicarnasso, narra che Romolo stabilisce questa regola poiché “l’adulterio è origine di follia e l’ubriachezza è origine di adulterio“.

Solo nell’età imperiale fu concesso alle donne di bere il vinum passum, cioè il vino passito, e in genere i vini dolci.
Al modello della “pudica e domiseda matrona romana”, che viveva all’ombra del focolre domestico, si contrappone la più libera donna etrusca: raffinata, elegante ed indipendente. Il benessere economico della società etrusca faceva sì che, già in età arcaica (dal VI secolo a.C.) le donne cominciassero ad “uscire” dalle mura domestiche per partecipare in maniera sempre più attiva alla vita pubblica.
Dunque, trascorrevano molto tempo in società, partecipavano a eventi mondani, gare sportive e spettacoli. Nelle scene raffigurate in numerosi affreschi, le donne etrusche sostenevano lo sguardo degli uomini, senza arrossire. Nel mondo romano antico, il vino era il rimedio agli affanni, Orazio ricorda che dà anche libero sfogo ai sentimenti nascosti.

Per i romani era piacevole lasciarsi trasportare dai piaceri del vino che, scendendo nelle vene diffondeva nel corpo una gradevole sensazione di ebbrezza, che contribuiva a creare speranze e ad allontanare preoccupazioni, tensioni e malinconie.


La civiltà Romana è stata la civiltà chiave nello sviluppo del vino in molti aspetti. I Romani possono essere considerati i padri della regolamentazione giuridica (introdussero il diritto di proprietà della terra, garantendone i confini attraverso il catasto e la centuriazione), del commercio del vino e della moderna viticoltura, con la crescente consapevolezza della vinificazione, anche se le prime influenze sulla viticoltura della penisola italiana possono essere fatte risalire agli antichi Greci e agli Etruschi. Nelle mani dei Romani, il vino diventa democratico, disponibile per tutti, dal più basso schiavo al contadino e fino naturalmente all’aristocratico.

Di fatto il vino era una necessità vitale per i romani, lo bevevano tutti i giorni. Si “pasteggiava” con il vino, lo si abbinava alle pietanze. L’antipasto tipico (gustatio) comprendeva uova, olive, frutti di mare, verdure ed era innaffiato di mulsum, il vino mielato.


Questo spinse a diffondere la viticoltura e la produzione di vino in tutte le zone dell’impero, al fine di garantire un approvvigionamento stabile per i soldati romani e per i coloni.


I Romani amavano molto l’odore di vino e sperimentavano diverse tecniche per migliorarne il bouquet, come piantare erbe (lavanda e timo) nei vigneti, pensando che i sapori si sarebbero trasferiti, attraverso il terreno, nell’uva.

Naturalmente il vino di qualità migliore era riservato alle classi superiori di Roma. Il vino più prestigioso era il Falernum che si distingueva per la sua capacità di invecchiamento. Fu il più famoso vino prodotto nell’antica Roma, venduto in tutto il mondo, anfore di Falernum venivano inviate in Britannia, Gallia, Hispania, Cartagine ed Alessandria d’Egitto. 
Fu il vino offerto da Cleopatra a Cesare dopo la vittoria.
Nelle rovine dell’antica Pompei è stato trovato un listino prezzi sulla parete di un termopolio che dichiara:

“Per un asse puoi bere vino
per due assi si può bere il migliore
e per quattro può bere Falerno”


Pompei era uno dei centri vinicoli più importanti del mondo romano. L'area era sede di una vasta distesa di vigneti e fungeva da importante città commerciale con le province romane all'estero oltre ad essere la principale fonte di vino per la città di Roma. 

Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia scriveva che la coltivazione della vite, aveva una tale supremazia da superare le ricchezze di ogni altro paese.


Opere di altri scrittori romani classici, in particolare Catone, Columella, Plinio, Orazio, Palladio, Varrone e Virgilio, fanno luce sul ruolo del vino nella cultura romana, nonché sulle pratiche vinicole e viticole contemporanee.


Sia Plinio il Vecchio che Columella offrono un quadro preciso dei vitigni sviluppati nel corso del tempo dai Romani. La grande varietà di tipologie di arbusto ( Plinio ne conteggia più di 160), si divideva principalmente in vitigni nobili et ignobili, ovverosia in vitigni di grande qualità e vitigni dalla produzione massiccia, ma di basso pregio.

Il “De re rustica” di Columella è da considerarsi un trattato di agronomia del primo principato (Columella morì nel 70 d.C.) arrivato a noi completo. Alcune di queste influenti tecniche si possono trovare nella vinificazione moderna.


Questi includono la considerazione del clima e del paesaggio nel decidere quali varietà di uva piantare, i benefici dei diversi sistemi di allevamento della vite, gli effetti della potatura e delle rese del raccolto sulla qualità del vino, nonché tecniche di vinificazione come l'invecchiamento “sur lie” dopo la fermentazione e il mantenimento delle pratiche igieniche durante tutto il processo di vinificazione per evitare contaminazioni, impurità e deterioramento. Avevano intuito anche l’importanza della temperatura nel corso della vinificazione.


L’economia trasse giovamento da questo settore in continua espansione e i mercanti romani colsero le opportunità di scambi commerciali con le tribù native delle terre conquistate, in particolare con i Galli e gli Spagnoli.

La capacità di invecchiamento era una caratteristica molto apprezzata dei vini romani e di conseguenza le annate vecchie raggiungevano prezzi molto alti.

I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano esaltati sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti.


Un’altra tecnica largamente praticata era quella di affinare alcuni vini in anfore, in soffitte dove veniva convogliato del fumo, dette fumarium, per conferire un aroma di affumicatura.

Verso la fine del I sec. d.c., l’anfora iniziò ad essere sostituita dalla “botte”, trasportabile anche da due soli uomini e caricabile sui carri. Il Nord Italia e l’Europa Occidentale sede delle cultura celtica erano grandi fabbricatori di botti e una cronaca romana di Vitruvio riferisce che l’imperatore Massimino, attraversando l’Isonzo, con le sue truppe costruì un ponte di fortuna legando insieme migliaia di botti.


Nell’antica Roma esistevano già locali dove mangiare e bere vino, si chiamavano taverne o anche popine.
L’ambiente era molto grande e vi erano tavoli dove le persone potevano mangiare sedute. Le taverne erano fumose e spesso sudice, ma offrivano qualche piccolo intrattenimento alla clientela.


Durante i fastosi banchetti dei Romani si rendeva indispensabile la presenza di un esperto, l’“haustores”, potremmo dire il sommelier di oggi, che decideva la quantità di acqua che bisognava aggiungere al vino in base al menù. Talvolta veniva utilizzata anche acqua di mare per rendere il vino meno dolce e meno denso.


I Romani usavano, inoltre, i “tagli” tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l’asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il multimediale, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.

Riguardo alle donne, sin dalle origini c’è stato il divieto di bere vino (“Mos Maiorum”); anche annusarlo era reato. Una delle prime "leges regiae" (quella attribuita a Romolo da Dionigi di Alicarnasso) stabiliva i motivi per i quali una donna poteva essere condannata a morte su insindacabile giudizio dei parenti stretti o del marito…

Questi poteva esercitare lo "ius osculi", il diritto di bacio; farsi trovare con l'alito pesante poteva significare, per le donne romane, essere vittime dell'etilismo.

A partire dal 250 d.c. iniziò un periodo di decadenza per Roma e anche per la produzione di vino, infatti fu introdotta una tassa che obbligava i produttori di vino a consegnarne una parte all’impero per le razioni dei soldati e per rifornire la popolazione a prezzo politico. Così molti viticoltori cambiarono attività. Guerre civili e spopolamento fecero il resto e, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, fu a rischio la coltivazione della vite in Italia, solo l’avvento dei monasteri ne comportò la ripresa.

Durante i primi anni del Medioevo, nei territori un tempo occupati dai Romani, lo sviluppo della viticoltura si ebbe in gran parte nei conventi: lentamente si trasformano in veri e propri centri vitivinicoli ad opera di monaci, che sin dall'inizio, si dedicarono alla nobile arte del vino, in quanto elemento indispensabile durante il rito della mensa eucaristica. L'epoca medioevale vide anche un progresso nella qualità del vino; mentre quelli antichi erano quasi sempre tagliati con acqua e resi più gradevoli con l'uso di erbe e aromi, il vino appare nella forma in cui lo consumiamo ancor oggi. I monaci gestirono vigneti monastici, aiutando nella creazione delle qualità oggi esistenti.


In Europa nel Medioevo cambia la figura del “dispensatore delle bevande” che non si dedica più a servire i commensali nei banchetti, ma scende in cantina, dando inizio così alle prime pratiche di organizzazione del servizio. Nei monasteri francesi compaiono due figure quella del “cellier”, un monaco responsabile della cantina, e quella del “caviste” monaco subalterno che si occupa di mescere il vino a tavola.

Nel Cinquecento si mettono in luce nuove figure professionali: gli addetti all’acquisto, alla conservazione e al servizio dei vini. Il “dispensiere-cantiniere”, era responsabile del prodotto dal momento dell’acquisto al momento del consumo. Il “bottiliere” si occupava del servizio del vino e “curava la tavola” Egli, inoltre aveva la mansione di assaggiare le bevande prima di servirle per verificare che non contenessero veleni.


La parola sommelier nasce in Francia dalla parola latina “sagmarium” che indicava il responsabile del trasporto dei vini con animali da soma; termine utilizzato nel Medioevo per poi trasformarsi in Sommelier nel XVI sec. presso la corte del Re Sole.

Dall’Ottocento in poi la funzione del sommelier diviene pubblica con la nascita e la diffusione dei grandi ristoranti.

Il Sommelier oggi è un professionista in grado di effettuare un’analisi organolettica delle bevande al fine di valutarne la tipologia, la qualità, le caratteristiche, le potenzialità di conservazione, soprattutto in funzione del corretto abbinamento vino-cibo.


Si sceglie questo percorso professionale per passione e si apre dinanzi un mondo: il vino è qualcosa di incantevole non solo nel bicchiere. Si programmano viaggi, si visitano aziende, produttori, luoghi, si conoscono persone che ci regalano emozioni. Non è facile da spiegare, ma in un calice di vino ci sono cosi tante cose da scoprire! E più si conosce più la passione cresce. Occorre essere curiosi e non smettere di ricercare. Portare il vino in tavola è una sorta di rituale: aprire correttamente la bottiglia, servire il vino ad una giusta temperatura, abbinare i cibi tipici con i vini che meglio li accompagnano in modo da favorire l’esplorazione del territorio...tutto può amplificare l’emozione di ciò che si berrà.


Le donne Sommelier sono ormai una realtà in crescita esponenziale; l’universo femminile è sempre più protagonista nel mondo del vino: produttrici, enologi donne, sommelier, giornaliste, ristoratrici, buyer...Nel 1988 è nata in Italia ‘L’Associazione Nazionale Le Donne del Vino’ che promuove la cultura del vino ed il ruolo delle donne nella filiera produttiva enologica e della società tutta.

Alle donne si deve anche un rinnovamento nel linguaggio del vino, grazie ad uno spiccato intuito e coraggio verso i cambiamenti. Questo rappresenta un valore aggiunto per tutto il settore vitivinicolo, anche per l’immagine del Made in Italy nel mondo.

Cascina Castlet - Piemonte Moscato Passito Avié 2015


di Roberto Giuliani

Da una storica azienda di Costigliole d’Asti, un Moscato Passito che racconta tutto fuori e dentro, l’etichetta con l’impronta femminile dorata, il nome che significa “veglia”, i profumi di albicocca candita, nocciola, banana sciroppata ed erbe aromatiche.


Al gusto vivo, non stucchevole, appassionante.

Mario Macciocca - Monocromo #1 2016


di Roberto Giuliani

Qualcuno penserà di getto “ma 5 anni non sono mica tanti”, dipende! Non stiamo parlando di un grande Chardonnay in legno o per restare in Italia di un Fiano di Avellino o di un Verdicchio dei Castelli di Jesi. Questa è una Passerina del Frusinate, capace di alte produzioni in vigna, le cui origini non del tutto certe la fanno parente stretto del Trebbiano di Abruzzo e del Pagadebit. Non è certo conosciuta per la sua longevità!


La guida Vitigni d’Italia di Calò, Scienza e Costacurta, dichiara infatti: “Il vino presenta un colore variabile tra il paglierino e il giallo, di sapore asciutto, pieno, non adatto all’invecchiamento”. E più avanti “Può essere utilizzato fresco o dopo un breve appassimento. Solitamente in uvaggio con altre uve bianche, raramente in purezza”.

Mario Macciocca

Beh, dipende, in questo caso le mani e la testa di Mario Macciocca fanno la differenza, il Monocromo #1 è un’altra storia, è un vino che nasce dalla sua volontà di rispettare al 100% l’ambiente e l’ecosistema, di assecondare la vigna senza mai forzarla, tanto da essersi guadagnato un posto all’associazione VinNatur. In vigna solo rame e zolfo in quantità minime, in cantina fermentazione spontanea, niente solforosa aggiunta, insomma un bianco che per molti diffidenti è inconcepibile, rischia grosso, non è possibile che non vada alla deriva in tempi brevi.


Invece mi spiace deludere lor signori, il
Monocromo #1 2016 è semplicemente buonissimo, intenso, pulito, salmastro, profuma di aghi di pino ed erbe aromatiche, di uva passa e nespola, guizzi di nocciola, ricordi di ginestra.


Al palato un’acidità precisa rende il sorso asciutto, pieno, molto fruttato con cenni di confettura, non ha cedimenti, è lungo e rilascia le note di pesca gialla, nocciola e nespola, il finale è salino, avvincente, un esempio di come spesso si giudica male un vitigno, solo perché non è stato allevato nel posto e nel modo giusto. 
Peccato perché era l’ultima bottiglia in mio possesso…

Il Rosso Conero: il vino "marino" da rilanciare

Studio Marche, dopo essersi occupato di Verdicchio dei Castelli di Jesi, per la seconda puntata ha deciso di cambiare colore occupandosi di una delle DOC più rappresentative della Regione: il Rosso Conero.

Questa storica denominazione, che interessa i comuni di Ancona, Camerano, Numana, Sirolo, Osimo, Offagna Castelfidardo, ha come riferimento geografico il promontorio del monte Conero, unico promontorio della costa italiana Adriatica compresa tra Trieste ed il Gargano, che si erge sul mare e le colline che discendono dallo stesso verso l’entroterra.

Riviera del Conero - Foto: Turismo.it

Il territorio di produzione del Rosso Conero DOC, perciò, è un piccolo fazzoletto di terra di circa 350 ettari che, partendo ad est, ovvero dalla costa Adriatica, si inoltra per qualche chilometro verso ovest, all’interno delle colline retrostanti il rilievo montuoso del Conero, dove una morfologia dolce ed omogenea e un clima temperato creano condizioni ambientali uniche, caratterizzate da un’esposizione esemplare alla luce e alle brezze marine. La composizione dei terreni, in prevalenza calcareo argillosi a bassa fertilità, assicura inoltre la piena maturazione delle uve soltanto con un contenuto carico di grappoli per vite.

Territorio della DOC

Prima di addentrarci nella degustazione e nelle considerazioni finali, bisogna sottolineare che il disciplinare del Rosso Conero DOC prevede che questo vino sia prodotto con almeno l’85% di montepulciano al quale si può aggiungere a saldo un 15% di sangiovese.

Come sempre Alberto Mazzoni, direttore dell’Istituto Marchigiano Tutela Vini, durante la diretta zoom ci ha presentato sei vini, tutti montepulciano in purezza, e queste sono le mie brevi note di degustazione

Foto: Enzo Radunanza per Gazzetta del Gusto

Marchetti – Rosso Conero “Castro di San Silvestro” 2019: questa azienda storica, fondati ai primi dell’800 dall’Onorevole Giovanni Bonomi e ora seguita da Maurizio Marchetti (agronomo ed enologo), con il recente aiuto dell’amico Lorenzo Landi, ha presentato questo montepulciano in purezza dai caratteri fruttati e speziati. Peccato per una certa rusticità di fondo che toglio alla beva un filo di eleganza. Affinamento: acciaio e cemento.

Conte Leopardi Dittajuti – Rosso Conero “Fructus” 2018: l’Azienda Agricola Conte Leopardi Dittajuti è di proprietà dell’antica famiglia Leopardi Dittajuti ed è stata tramandata di padre in figlio per moltissime generazioni. Il vulcanico Piervittorio Leopardi, attuale proprietario assieme a Lidia, ci ha presentato il suo Rosso Conero dal naso giovanile e fruttato pur lasciando una scia di macchia mediterranea che ne prolunga la persistenza. Sorso vigoroso, con tannini ordinati e sostenuto da sensibile vena di freschezza sapida nel finale. Affinamento: barrique per due mesi.

Umani Ronchi – Rosso Conero “San Lorenzo” 2018: l’azienda, che non ha bisogno di presentazioni, ha portato in degustazione questo Rosso Conero che nasce da uve prodotte da un unico vigneto, il San Lorenzo, piantato nel comune di Osimo. E’ un vino molto complesso, vigoroso di aromi di amarena, prugna, mora, macchia marina e spezie orientali. Corpo robusto, sostenuto da tannini di razzza e adeguata verve acida. Invecchiamento: per 18 mesi in botti grandi (da 15 a 27 hl) di rovere francese e di Slavonia.

Fattoria Le Terrazze – Rosso Conero 2018: nella batteria dei sei vini presentati, lo anticipo, questo Rosso Conero prodotto da Antonio Terni è stato quello da me preferito, vuoi per la sua eleganza e leggiadria, vuoi per il suo grandissimo equilibrio, figlio anche di un tannino assolutamente cesellato, vuoi per un finale sapido che esalta la beva di questo montepulciano in purezza che berrei a secchi anche d’estate dopo un leggero passaggio in frigo. Il Rosso da pesce per antonomasia! Affinamento: 12 mesi in botti di legno 30 hl.

La Calcinara – Rosso Conero “Il Cacciatore dei Sogni” 2018: l’azienda, diretta dai fratelli Paolo e Eleonora, rispettivamente classe ‘81 e ‘87, prende il nome perché situata sul poggio più calcareo e aperto del paese di Candia. Questo Rosso Conero ha un naso ricercato e ricco di sfumature, con spunti di frutti di bosco ma soprattutto di resina, ginepro e iodio. La bocca è una vertigine di sensazioni articolate e territoriali che rendono questo montepulciano piacevolissimo e di grande sapidità marina. Affinamento: acciaio e botti grandi.

Moroder – Rosso Conero 2017: la nascita del complesso agricolo risale alla metà del ’700, quando i Moroder, originari della Val Gardena, si spostano ad Ancona e acquistano i terreni sui quali oggi sorge l’azienda. Questo vino, il primo e unico presentato del 2017, fa capire le grandi possibilità evolutive di un Rosso Conero in quanto ancora oggi, a tre anni dalla vendemmia, è assolutamente vivace e complesso nei suoi richiami olfattivi di more, mirtilli, corteccia, china, spezie nere e ritorni balsamici. Al gusto è carnoso, di grande equilibrio grazie ai suoi tannini morbidi supportati da una spina dorsale acido-sapida di grande potenza. Ottima la progressione gustativa. Affinamento: per 18 mesi in botti grandi (da 15 a 27 hl) di rovere francese e di Slavonia.

Considerazioni finali

Durante la degustazione con i sei vignaioli ed Alberto Mazzoni è uscita fuori la problematica circa l’identità attuale del Rosso Conero che andrebbe fortemente rilanciata anche per via del suo ottimo rapporto qualità\prezzo. Come fare? La mia proposta è abbastanza semplice ed è qualcosa che è stato attuato in passato anche dallo stesso Consorzio di Tutela ovvero agganciare fortemente la denominazione al terroir di riferimento rievocando l’incontro tra il mare Adriatico, con le sue splendide spiagge, e la viticoltura del Conero. 

Foto: La Stampa

Un terroir unico che può creare un brand tale da considerare il Rosso Conero come il vino rosso da pesce per eccellenza non solo per la costa Adriatica ma anche per tutta l’Italia. Come arrivare a questo risultato? Cercando di produrre meno, meglio, cercando di alleggerire il montepulciano da ogni orpello, magari evitando un sontuoso uso del legno, così come ha fatto, per esempio, Fattoria Le Terrazze col suo Rosso Conero. Bisogna puntare sulla piacevolezza di beva, su vini diretti e croccanti, lasciando al Conero DOCG l’ambizione di essere il rosso più importante e complesso delle Marche.

Podere Selva Capuzza - Garda Classico Chiaretto DOC “San Donino” 2020

Groppello, Barbera, Sangiovese e Marzemino, poche ore di macerazione, ed ecco il vino del Lago per eccellenza, un Chiaretto leggiadro e spensierato nei suoi effluvi aromatici di mandarino, pompelmo rosa e lampone su sfondo minerale. 


Il sorso è pura freschezza e bevibilità tanto che la bottiglia finisce in un amen. W il Chiaretto!

Barone Pizzini: l'anima verde della Franciacorta!

"Non chiamatelo Spumante". Sembra uno slogan, ma per Silvano Brescianini, direttore generale dell’azienda Barone Pizzini e Presidente del Consorzio Franciacorta, le parole sono importanti e tra uno spumante e un Franciacorta passa tutta la differenza del mondo che porta ad un solo termine: territorio. Se a quanto scritto si può ribattere che si tratti (anche) di marketing vi potrei rispondere, e lo farebbe probabilmente anche lo stesso Brescianini, che in Francia lo Champagne prende il nome dal suo territorio di origine e nessuno si azzarda a chiamarlo diversamente da oltre 300 anni.

Silvano Brescianini

Lo stesso legame con la Franciacorta lo ha anche l’azienda fondata nel 1870 da Enrico e Bernardino Pizzini, eredi della casata asburgica Pizzini Piomarta von Thumberg, che fin da subito si sono distinti come agricoltori illuminati.
Giulio Pizzini Piomarta Von Thurberg. Da questa data, vari discendenti si susseguirono alla guida della cantina sino all’ultimo, il Barone Giulio Pizzini (1916-1995) che ebbe un ruolo determinante nello sviluppo della viticoltura in Franciacorta (nel 1967 fu tra i fondatori della DOC Franciacorta). Fu proprio lui, alla fine degli anni ’80, a coinvolgere nella proprietà un gruppo di imprenditori appassionati al mondo enologico, gettando così le basi dell’attuale azienda diretta oggi da Silvano Brescianini che, nel 1993, dopo un glorioso passato nel mondo della ristorazione (ha lavorato anche al San Domenico di New York col mitico Tony May) è stato uno dei soci fondatori della nuova Barone Pizzini che è stata la prima cantina a produrre Franciacorta da viticoltura biologica certificata, ovvero utilizzando per la coltivazione e il nutrimento delle viti solamente sostanze naturali o che l’uomo può ottenere con processi semplici, senza ricorrere a prodotti chimici, diserbanti, OGM, fertilizzanti o pesticidi di sintesi.


Essendo stato per tanti anni dall’altra parte della barricata – osserva Brescianini – ho sempre ragionato con un approccio da consumatore e permettere l’uso in vigna, ad esempio, di un diserbante o di un sistemico, che possono essere cancerogeni, ti porta con un minimo di buon senso a chiederti se è davvero necessario l’uso della chimica perché poi, inevitabilmente, questa roba ce la troviamo anche nel bicchiere di vino che beviamo a tavola”.
Questi ragionamenti hanno trovato concretezza grazie ad un incontro con Pierluigi Donna, il maggior conoscitore di tecniche agronomiche bio, al quale Brescianini rivolge la fatidica domanda: “In Franciacorta si può coltivare la vite in modo non invasivo e di maggior tutela della natura rispetto al sistema convenzionale?”. 


Dalla risposta, che fu ovviamente “Certo!”, è nata una collaborazione, che dura ancora oggi, e che ha portato Barone Pizzini a fare la prima prova di biologico nel 1998, e dal 2001 tutti i vigneti ottengono la certificazione A.B attraverso il solo uso di zolfo e rame nelle loro composizioni più semplici ed in quantità limitate e controllate mentre contro insetti nocivi si usano esclusivamente derivati naturali da piante o batteri.


Il concetto di sostenibilità ambientale in Barone Pizzini è anche questione di coerenza e Brescianini, durante l’intervista che mi ha concesso, mi ha regalato un aneddoto molto importante: ”Tempo fa il produttore di etichette col quale collaboravamo era molto in ritardo con la consegna perché, mi ha spiegato, l’inchiostro usato per stamparle non veniva più dalla Germania, dove era stato messo al bando per la sua tossicità, ma dall’Est Europa dove era ancora permesso produrlo. Da quel momento, era il 2001, presi la decisione ovviamente di cambiare fornitore perché non illogico produrre un vino bio e poi usare materiali non conformi alla nostra idea “green” che va ad abbracciare anche l’uso di bottiglie meno pesanti oppure l’uso di capsule meno spesse (circa 50 micron contro la media che si attesta attorno agli 80\100 micron) in modo da ridurre i materiali utilizzati e i relativi rifiuti”.


L’impegno ambientale dell’azienda franciacortina non poteva non riguardare anche l’attuale cantina che nel 2006 è stata costruita secondo i criteri dell’architettura ecocompatibile. Ogni scelta architettonica è stata progettata per avere un basso impatto ambientale e un limitato consumo energetico. I pannelli fotovoltaici, il sistema naturale di condizionamento, l’impiego di pietra e legno, la fitodepurazione delle acque, sono tutti accorgimenti che fanno della sede produttiva di Barone Pizzini una cantina BIO.


Oggi la Barone Pizzini si estende in Franciacorta, all’interno dei Comuni di Provaglio d’Iseo, Corte Franca, Adro e Passirano, su 54 ettari divisi in 29 particelle (con altitudine variabile dai 200 ai 350 metri s.l.m.) dove pinot nero, chardonnay, pinot bianco ed erbamat (antico vitigno, dalla spiccata acidità, che dal 2017 è stato inserito nel disciplinare del Franciacorta DOCG) sono piantati su suoli in parte morenici, arricchiti da deposizioni fluvioglaciali. Questa grande eterogeneità, che per una cantina rappresenta un grande potenziale di qualità, viene sfruttato anche in cantina dove, attraverso un minuzioso lavoro di selezione, si arrivano a gestire anche 70\80 vini ovvero frazioni di parcelle che poi andranno successivamente e sapientemente assemblati.


Grazie ad una diretta Instagram e ad una precedente riunione ZOOM col gruppo di Garantito IGP ho potuto recentemente degustare tutta la produzione di Franciacorta DOCG di Barone Pizzini e, di seguito, trovate le mie impressioni gustative:


Barone Pizzini - Franciacorta Extra Brut DOCG “Animante” (tiraggio 04\2018 – sboccatura 03\2020): questo vino, il cui nome è un chiaro riferimento all’anima e lo spirito aziendale, è frutto del blend di chardonnay (84%), pinot nero (12%) e pinot bianco (4%) provenienti da tutti i vigneti dell’azienda. Questo Franciacorta, vero e proprio biglietto da visita di Barone Pizzini, essendo il vino numericamente più prodotto, conferma le attese rivelando profumi di crosta di pane, gelatina di cedro, cenni di frutta secca ed echi minerali. Piacevole la bocca: quasi da manuale il tratto acido-sapido che ben si intreccia con una struttura vibrante dominata da una persistenza di buona lunghezza sapida.


Barone Pizzini – Franciacorta Brut Dosaggio Zero DOCG “Animante L.A.” (tiraggio 04\2014 – sboccatura 03\2020): in questo Franciacorta, blend di di chardonnay (78%), pinot nero (18%) e pinot bianco (4%), l’anima del terroir franciacortino di Barone Pizzini viene esaltato da un lungo affinamento del vino sui lieviti che arriva fino a ben 70 mesi. L’annata mediamente calda si fa sentire donando un olfatto molto intenso e ricco di sfumature che vanno dalla frutta matura fino a quella secca all’interno di un insieme elegante ed integro. Sorso bilanciato nonostante il volume del vino la cui persistenza lievemente salina dona al palato freschezza invogliando al prossimo bicchiere.

Barone Pizzini – Franciacorta Brut Dosaggio Zero DOCG “Animante L.A.” (tiraggio 03\2012 – sboccatura 07\2018): rispetto al precedente c’è un cambio deciso di passo grazie all’annata (2011) molto più fresca ed equilibrata della 2013. Grande finezza aromatica con note di fiori di campo, crosta di pane, agrumi, ananas, mandorla amara fino ad arrivare al miele e al pane all’uva. Complesso e profondo in bocca, sostenuto e slanciato da una lunga sinergia acido-sapida. Ancora giovanissimo. Ad avercene!


Barone Pizzini – Franciacorta Brut Nature “Naturae” 2016: questo Franciacorta (70% chardonnay e 30% pinot nero) nasce parzialmente dal vigneto più alto aziendale, denominato Pian delle Viti, denominato nel Medioevo la Valle Sospesa, e caratterizzato da un terreno prettamente calcareo. Naso molto algido solcato da sensazioni di gelsomino, pompelmo e melissa che riposano su uno sfondo minerale ben delineato. Teso all’assaggio, segnato da vibrante nota salina e un retrolfatto che sottolinea i ritorni di agrumi e fiori di campo.


Barone Pizzini – Franciacorta Satèn 2016: chardonnay in purezza che si fa apprezzare per la sua eleganza, sia nel perlage soffice e sottile, sia nel comparto aromatico dove si sviluppano delicatamente nuance di mandarino, mela annurca, caprofoglio, salvia e pompelmo rosa. Bocca fine, longilinea, di eccellente equilibrio e con un finale dove ritorna la prepotenza agrumata a pulire il palato.


Barone Pizzini - Franciacorta Extra Brut Rosé 2016: questo Franciacorta (70% pinot nero e 30% chardonnay) ha un coinvolgente apparato aromatico ricco di sfumature che richiamano le erbe aromatiche, il ribes, la melagrana, i mirtilli e la macerazione di rosa, il tutto all’interno di un climax di raro appagamento minerale. All’assaggio sorprende per sapidità setosa e vivace acidità, entrambe in grande equilibrio all’interno di una trama strutturata, golosa e dai richiami aromatici di frutta e mineralità rossa.


Barone Pizzini - Franciacorta Dosaggio Zero Riserva DOCG “Bagnadore” 2011: prodotto a partire da chardonnay (60%) e pinot nero (40%) provenienti da un’unica vigna di venti anni (Roccolo di Provaglio d’Iseo), questo Franciacorta rappresenta il top di gamma di Barone Pizzini grazie ad un affinamento sui lieviti di almeno 70 mesi (circa 6 anni) prima della sboccatura. La grande complessità donata dal tempo la possiamo percepire nettamente già al naso dove esplodono i fiori bianchi e i lieviti, la pesca bianca, la mandorla in pasta per poi proseguire su effluvi di torroncino, miele, distillato ed erbe officinali. Il sorso è sontuoso, aristocratico, pieno di decisa sapidità, vivace freschezza grazie anche ad un perlage armonioso ed avvolgente. Finale di notevole persistenza su ricordi di agrumi e variegata mineralità. Un grande Franciacorta senza se e senza ma!