InvecchiatIGP: Costaripa - Valtènesi DOC Chiaretto Molmenti Costaripa 2011


di Stefano Tesi

A Mattia Vezzola da Moniga non mancano certamente né la scienza, né la facondia. E così, per parlare di longevità dei vini e per presentare Rosamara 2024 e Molmenti 2019 – l’ultimo frutto della sua antica idea di “rosati da invecchiamento” prodotti da Costaripa, la quasi centenaria azienda di famiglia sulle sponde bresciane del Garda – prima dei dati tecnici e agronomici l’enologo veneto ha sciorinato una serie di massime e di aneddoti folgoranti. Il principio di partenza è che, facendo tesoro dell’esperienza del passato, “bisogna ristrutturare il concetto di rosè”, abbandonando la nozione di vino facile ricavato da uve spesso di scarto e affidandosi invece alla vocazionalità e a una coltivazione dedicata espressamente alla produzione di quella tipologia.


Parlando di epigenetica, Mattia ha quindi cominciato con una citazione del compianto Denis Dubourdieu: “Per capire un vino sarebbe necessario che tu gestissi per almeno cento anni una vigna di almeno tre generazioni”. Ha continuato con la più prosaica ma non meno efficace “teoria del gatto”: finchè sta fuori dal portone di casa, il gatto per mangiare deve adattarsi a ciò che trova e quindi si mantiene agile e scaltro, quando invece sta in casa e ha cibo con facilità, si imbolsisce sulle gambe del padrone”. Ciò per dire che la vite, come il felino, per dare il meglio le risorse deve andarsele a cercare nel tempo e nella profondità del terreno, trovando così un equilibrio stabile. Riferendosi poi all’uso delle botti, alla loro età e alla loro pulizia, Vezzola ha tirato fuori un vecchio suggerimento di Patrick Leon: “I rosati non si fanno come si fa il vino, si fanno come si fa lo Champagne”. Il fulmen in clausola è stato riservato alla relatività del concetto di qualità, così sintetizzato: “E’ molto più corta un’ora d’amore che un minuto col culo sulla stufa”.


E a riprova di quanto sopra ha stappato una bottiglia di Molmenti 2011, Valtènesi doc a base di Groppello gentile al 50%, 30% di Marzemino, 10% di Barbera e 10% di Sangiovese provenienti dall’omonimo vigneto, che comprende i 4 ettari di filari originari acquisiti da Vezzola nel 1992 e portati fino agli odierni 15, per un’età media di 60 anni. Il tutto, ha sottolineato, solo ed esclusivamente per fare un rosato da invecchiamento in botti da 4 ettolitri, destinato poi a maturare due anni in tonneaux e tre in bottiglia prima di andare sul mercato. Il colore è un ambrato carico e tendente al fulvo, che ricorda i riflessi della volpe.


Al naso è fatalmente cangiante e si evolve col passare dei minuti, fino a stabilizzarsi in un ventaglio elegante ed equilibrato di buccia di agrumi maturi e anche candita, melata di castagno, polvere da sparo, pietra focaia, idrocarburi. Al palato è complesso, asciutto ma di sorprendente freschezza, dotato di una godibile sapidità e di un bella lunghezza che nell’insieme danno una sensazione di composta solennità. Peccato che, ovviamente, non sia più disponibile per l’acquisto. Ma visto che Vezzola garantisce anche per le annate più recenti una vita di almeno vent’anni, ci si potrebbe fare un pensierino e poi dimenticare tutto in cantina.

Poggio delle Monache - Toscana Sangiovese IGT "Lanario" 2021


di Stefano Tesi

Vino e buoi dei paesi tuoi, perché no? Questo robusto Sangiovese fatto a pochi passi da casa mia, nelle sanguigne Crete Senesi, esprime tutto il calore del territorio e la potenza dell’argilla, ma con compostezza, pulizia e coerenza quasi filologica. 


L’ho fatto fuori con le opulente lasagne domenicali.

Barone Pizzini e la sua visione circa la longevità del Franciacorta Rosè


di Stefano Tesi

Ci sono parole di cui, nell’ansia di fare marketing, il mondo del vino spesso abusa. Una di queste è “visione”. Grazie alla quale, nelle veline correnti, chi la pratica diventa automaticamente un visionario. Ma la realtà insegna che i visionari veri, alla fine, sono pochi. E tra questi può essere certamente ascritto Silvano Brescianini, uno degli uomini-chiave della storia della Franciacorta, fino a pochi mesi fa presidente del Consorzio ma presente sul territorio da 35 anni, fin da tempi in cui, cioè, uno con le sue idee (ad esempio sul biologico, che Brescianini introdusse tra la diffidenza generale nel 2001 per uscire “certificato” nel 2004) non era destinato ad avere sempre vita facile. E che invece è riuscito, tra intuito e determinazione, a portare in alto sia la denominazione franciacortina che la sua azienda, la Barone Pizzini.


L’abbiamo rincontrato qualche settimana fa in occasione di una bella degustazione organizzata al Salotto Portinari di Firenze, accompagnata ai piatti del fidato Vito Mollica. Copiose spigolature, conversazione come al solito interessante e ancora più interessanti i vini: una verticale di Franciacorta rosè dal 2016 al 2021, con la chicca finale di un Bagnadore riserva rosè del 2011, tutti a base di Pinot nero e Chardonnay, tranne la 2011 e la 2018, fatte solo con Pinot Nero.


Ha “dirazzato” dalla verticale, alla fine della seduta, una sontuosa magnum di Bagnadore Dosaggio Zero Riserva 2015, fatto anch’esso con Pinot Nero e Chardonnay, ma non in rosa. Un’altra gran bella bevuta. Un’uva, il Pinot nero, che, nella circostanza, Brescianini ha voluto liricamente definire “ghermita dai boschi”. Ma neppure questa è fino in fondo un’iperbole: le vigne, ha spiegato, si trovano davvero nella zona collinare più alta del comprensorio, a contatto con le aree boschive prealpine che regalano al vino una ricchezza di sfumature e un’identità propria, altrove sconosciuta.


Anche al netto dell’argomento “forestale”, oggi decisamente di moda tra i produttori più fedeli alla filosofia del bio più spinto, gli assaggi sono stati però assai convincenti. E hanno rivelato una coesione stilistica, nonchè un ventaglio organolettico, oltremodo intrigante. “E’ la prima volta che facciamo una verticale di questo tipo”, ha ammesso lui. “Il nostro interesse cominciò nel 2008: fino a quel momento non ci eravamo molto curati di questa tipologia di vino. Poi, nel 2012, all’International Wine Challenge WC di Londra il nostro Franciacorta rosato fu stato premiato a sorpresa, così a sorpresa che al momento dell’annuncio io ero addirittura fuori dalla sala. Solo allora ne comprendemmo tutto il potenziale”.

Ecco una sintesi di come è andata la verticale.

Franciacorta Rosè Edizione 2021 (80% Pinot nero e 20% Chardonnay)

35 mesi sui lieviti, colore rosa antico, pallido, con sfumature di buccia di cipolla, perlage fine e persistente. Al naso è brillante, vivo, con piacevole sentore di fragola acerba. In bocca è sapido, con acidità spiccata e una cremosità morbida che accompagna la lunghezza con un retrogusto armonico ed elegante.

Franciacorta Rosè Edizione 2019 (70% Pinot nero e 30% Chardonnay)

Cromaticamente è di colore rosa antico, la bolla è ricca, mentre al naso il vino è più asciutto e neghittoso del precedente, quasi brusco. Al palato si rivela maturo, secco, ben equilibrato, con note salite e un finale appena amarognolo che ricorda il bitter.

Franciacorta Rosè Edizione 2018 (100% Pinot nero)

Se le sfumature cromatiche cambiano poco, qui il Pinot nero in purezza regala un perlage fitto e soprattutto un bouquet robusto, acuto, pungente, screziato, con note quasi opulente, sentori di piante grasse e, in bocca, una corposità profonda, sorretta da una bella acidità e da una lunghezza importante.

Franciacorta Rosè Edizione 2017 (80% Pinot nero e 20% Chardonnay)

Il rosa antico si fa appena più intenso, il perlage compatto, mentre gli anni regalano al vino al naso un netto sentore di arachidi salate che si evolve in un una nota quasi salmastra, di alghe e di scoglio. In bocca il sorso è cremoso, gentile, ampio, secco, preciso, grandemente gratificante.

Franciacorta Rosè 2016 Edizione (70% Pinot nero e 30% Chardonnay)

Qui l’occhio si fa più aranciato, tendente al mattone pallido. Al naso si impenna passando dalla sobrietà del lievito e della crosta di pane a eleganti note agrumate che ricordano il pompelmo, mentre al palato è quasi pastoso, complesso nella sua progressione di acidità e sapidità decisamente intriganti.

Franciacorta Bagnadore Riserva Rosè 2011 (100% Pinot nero)

Gran finale con questo monovitigno rimasto 120 mesi sui lieviti, di colore rosa antico carico con riflessi mattonati. Il bouquet è cangiante e si rivela a ondate: prima salmastre e marine, poi la balsamicità del sottobosco di querce e di foglie bagnate. In bocca è decisamente sapido, asciutto e severo, ma poi si scioglie in un’eleganza gentile, profonda e avvolgente.

InvecchiatIGP: Lungarotti - Rubesco "Vigna Monticchio" 1997


di Luciano Pignataro

Chi segue il mondo del vino dagli anni ’90 ricorda bene la 1997: unanimemente definita grande, fantastica. I giornali allora, sotto la spinta di Bordeaux e Montalcino, non esitarono a proclamarla “l’annata del secolo” — anche se poi ci si è fatta l’abitudine. Al di là delle esigenze mediatiche, non ci sono dubbi: ovunque si beva un rosso di quella vendemmia, si ricava una bella soddisfazione, grazie a una stagione regolare, da manuale, di quelle che si studiavano alle scuole elementari prima che nascesse il detto “non esistono più le mezze stagioni”. In particolare, uno straordinario settembre portò a compimento la maturazione in modo perfetto.


Anche a Brufa, frazione di Torgiano, in Umbria. Qui, su un agnello arrosto con zucchine alla scapece scelto nel menu di Olimpia, il bel locale dei fratelli Vittorio e Gregorio Valloni, Chiara Lungarotti decide di stappare il Rubesco Vigna Monticchio 1997: il momento clou di una giornata trascorsa tra i vigneti piantati dal padre Giorgio, pioniere visionario della viticoltura di qualità, la cantina e lo splendido Museo del Vino, la cui visita consiglio a tutti almeno una volta nella vita per capire quanto profondo sia il legame di questa bevanda sacra con le arti, i mestieri, la psicologia e la cultura mediterranea dello stare insieme a tavola — dagli Etruschi ai giorni nostri — prima che i servi delle multinazionali delle oncologiche bibite gassate ed energetiche finanziassero le campagne anti-alcol, segno evidente del regresso e della crisi della nostra civiltà occidentale, per la banalizzazione del tema.


L’etichetta ha ormai più di 60 anni: questa bottiglia di Sangiovese incrocia le tradizioni delle due regioni che premono da nord sulla piccola Umbria, riuscendo a darne un’interpretazione ben distinta e caratterizzata. La prima annata è del 1962, e fu proprio Giorgio a volerla, puntando su questo vitigno e anticipando i tempi in maniera incredibile: Torgiano divenne DOC nel 1968 e DOCG nel 1990. La 1997 è, tra l’altro, la penultima vendemmia firmata dal grande imprenditore, scomparso nel 1999. Insomma, l’avete capito: aprirla è stata una grossa responsabilità, densa di significati e di temi che si incrociano. E lo stappo, oltre a rivelare un vino in perfetta forma e vitalità, esprime anche la modernità con cui già all’epoca era lavorato in botte grande, senza cedere alla moda della barrique — allora mantra inevitabile in ogni cantina — oggi invece oggetto di condanna secondo una vulgata commerciale neopauperista molto in voga.


Il rosso esprime subito frutta al naso, ancora fresca, senza cedimenti né suggestioni ossidative. La freschezza rilassa il naso e accompagna la beva in modo appagante. Vive da solo ma anche ben accompagnato da questa carne, preparata e servita dai fratelli che hanno dedicato il ristorante alla loro mamma. Ed è in questo contesto — con questo vino pensato da un grande uomo, con Chiara, degna figlia di tale padre — che la serata si apre e ci convince che non tutto, in fondo, è perduto, se esiste ancora un’Italia capace di offrire queste meraviglie.

Cantine Astroni - Piedirosso 'Colle Rotondella' 2022


di Luciano Pignataro

Torniamo all'assaggio di questo rosso che nasce sul bordo del vulcano spento degli Astroni dentro Napoli.
 

Dopo tre anni siamo nel pieno della sua maturità: eleganza, frutti rossi ben definiti, nota fumé, tanta freschezza al palato e chiusura pulita e precisa. Perfetto sul più iconico dei piatti: spaghetti al pomodoro.

I Favati - Fiano di Avellino "Pietramara" Etichetta Bianca Riserva 2019


di Luciano Pignataro

Questo vino nasce nel 2007 dalla collaborazione tra Vincenzo Mercurio e una piccola azienda di Cesinali, in provincia di Avellino. Ancora una volta l’enologo stabiese conferma la sua particolare propensione per questa uva, riuscendo a caratterizzare ciascuna produzione in maniera definita, nonostante la vicinanza geografica delle aziende che segue in Irpinia. L’Etichetta Bianca nasce per Fiano e Greco con l’intento, allora poco condiviso, di posticipare l’uscita dei vini bianchi irpini di almeno un anno — tendenza poi confermata con l’inserimento nel disciplinare della dizione Riserva.


Partita come azienda monovitigno in una zona da sempre vocata al Fiano, a ridosso di Avellino, I Favati ha progressivamente ampliato la produzione sia nel numero di bottiglie sia nella varietà delle tipologie proposte. La prima vendemmia risale al 1997: allora uscirono appena 5.000 bottiglie di Fiano, davvero ben fatto. La cantina, le cui radici affondano nella tradizione familiare di viticoltori, è oggi condotta dai fratelli Piersabino e Giancarlo Favati e da Rosanna Petrozziello.
La tradizione continua e si è arricchita con l’ingresso in azienda delle figlie Carla — rientrata da Milano dopo studi ed esperienze professionali — e Brigida, avvocato. Solida impostazione, vini molto corretti e senza grilli per la testa.


Dei 22 ettari di proprietà, il vigneto più importante è quello di cinque ettari, a 450 metri di altitudine, su terreno calcareo e argilloso, dove è piantato il Fiano che prende il nome dalla località: Pietramara. Nel corso degli anni il Fiano di Avellino de I Favati ha rappresentato una sicurezza grazie alla sua costanza qualitativa. La 2019 è stata un’annata sfortunata dal punto di vista commerciale, poiché ha preceduto la chiusura delle attività a causa del Covid, ma sul piano della qualità i bianchi irpini hanno raggiunto eccellenti risultati — forse anche favoriti da uno stoccaggio in cantina prolungato per diversi mesi.


Abbiamo aperto questa 2019 al ristorante dell’Anantara di Amalfi, ex Hotel dei Cappuccini. Vista splendida, cucina mediterranea: questo bianco di sei anni è semplicemente perfetto. Al naso, oltre alle note di frutta bianca ben matura, spiccano piacevoli sensazioni balsamiche e un rimando fumé tipico del territorio irpino, che gioca con lo zolfo, più o meno accentuato. Al palato, grande verve e freschezza, beva complessa ma scorrevole, che ribadisce le promesse del naso in modo piacevole sino a una conclusione lunghissima e precisa.
Insomma, l’ennesima conferma che il Fiano di Avellino, più tempo resta in bottiglia, meglio si beve. Ah, dimenticavo: la lavorazione avviene esclusivamente in acciaio.

Torna Terre di Vite - 25 E 26 Ottobre 2025


Terre di Vite 2025: oltre 150 vignaioli, 1300 vini artigianali, laboratori del gusto e arte nella suggestiva cornice di Villa Cavazza

La storica Villa Cavazza – Corte della Quadra, a Solara di Bomporto (MO), apre nuovamente le sue porte per ospitare la quattordicesima edizione di Terre di Vite, in programma sabato 25 e domenica 26 ottobre 2025. Un appuntamento ormai imprescindibile per appassionati, operatori e curiosi, che qui potranno incontrare oltre 150 vignaioli provenienti da tutta Italia e dall’estero e degustare più di 1300 vini artigianali.


Accanto alle degustazioni libere, l’evento proporrà seminari, laboratori del gusto, momenti musicali e performance artistiche, all’interno e della corte della villa, in un’atmosfera che unisce convivialità, cultura e bellezza.

Il tema: educarsi al bere

Filo conduttore dell’edizione 2025 sarà “Educarsi al bere”, un invito a vivere il vino non solo come esperienza sensoriale, ma anche come scelta etica e consapevole.
Il vino artigianale diventa così occasione di scoperta, rispetto per la natura e percorso di conoscenza personale, condiviso nei seminari, nelle degustazioni guidate e nelle attività collaterali.

Oltre centocinquanta produttori di vino artigianale, degustazioni, laboratori, food truck, musica, performance artistiche e un contesto affascinante sono i seducenti ingredienti della quattordicesima edizione di Terre di Vite, in programma sabato 25 e domenica 26 ottobre a Gorghetto di Bomporto, in provincia di Modena, all’interno della storica Villa Cavazza.

La manifestazione offre la rara opportunità di assaporare un migliaio di varietà di vini prodotti con metodi artigianali. Barolo, Traminer Aromatico, Vernaccia, Cesanese, Aglianico, Cirò, Ribolla Gialla, Lambrusco, Albana, Barbera, Dolcetto, Merlot, Erbaluce, Pinot Nero, Nebbiolo, Malbo Gentile, Moscato, Barbaresco, Vermentino, Schiava, Sauvignon, Bonarda, sono solo alcuni dei vini tra cui scegliere.

Protagonista assoluta della manifestazione sarà una nutrita e qualificata rappresentanza di vignaioli che alla qualità del prodotto muniscono il rispetto del territorio e dei ritmi della natura, applicando metodi di coltivazione tradizionali e sostenibili, rifiutando l’impiego di prodotti chimici di sintesi come pesticidi o diserbanti, e valorizzando i vitigni autoctoni e le antiche pratiche agronomiche.

Filo conduttore della quattordicesima edizione è l'educazione al bere inteso come esperienza non solo gustativa ma come scelta etica vista nell’ottica del rispetto dell’ambiente e come gesto curioso verso se stessi. Il rapporto stretto tra il vino e i sensi di ognuno di noi può essere visto come un viaggio alla scoperta non solo di nuovi sapori ma anche di un sentire profondo che ci apre a nuovi orizzonti di conoscenza di noi stessi e della natura che ci circonda. Un trait d’union che accomunerà i seminari, le degustazioni guidate, le mostre e le performance artistiche che animeranno le due giornate. I vignaioli presenti arrivano da tutta Italia, con alcuni sconfinamenti in Francia, Spagna, Slovenia e Germania, e proporranno i loro vini artigianali in assaggio libero.

Ospiti graditi quest'anno saranno i vignaioli dell'Associazione "Custodi del Lambrusco", associazione nata nel 2025 e che ha scelto Terre di Vite per esporre i vini prodotti dagli associati ed organizzare una Masterclass riservata ai giornalisti di settore.

“Sin dalla prima edizione abbiamo selezionato produttori che hanno scelto di privilegiare il prodotto artigianale e, anche quest’anno, abbiamo sviluppato questo percorso. Si tratta di un evento che valorizza scelte produttive basate sulla tradizione e sul rispetto di tutto ciò che ci circonda. Non a caso tra gli ospiti più prestigiosi abbiamo Sandro Sangiorgi, il maggior esperto italiano di vini naturali. Nostro obiettivo è anche creare un clima di festa, relax e condivisione, col piacere di andare alla scoperta di sapori nuovi” sottolinea Barbara Brandoli, organizzatrice dell’evento insieme a Ludovica Zanasi.

L’offerta è arricchita dalla presenza di una trentina di spazi espositivi collocati sotto i portici della villa, dedicati prevalentemente al buon cibo, con la presenza di alcuni artisti che realizzano gioielli a mano e candele artigianali. I visitatori più golosi potranno completare la propria esperienza culinaria approfittando dei food truck presenti che prepareranno piatti tipici emiliani.

Un ricco programma: accanto alle degustazioni nei due giorni, a partire dal primo pomeriggio, saranno proposti gratuitamente per i visitatori di Terre di Vite otto Laboratori del Gusto, di cui 4 in collaborazione con Modena con Gusto, opportunità da non perdere per assaporare prodotti tutti da scoprire, sotto la guida di esperti chef e Sommelier e comodamente seduti all’interno di splendidi spazi. E’ necessaria la prenotazione con modalità più oltre indicate.

Alla riuscita della manifestazione contribuiranno anche le Scuole alberghiere Nazareno di Carpi e I.A.L. di Serramazzoni. Diversi studenti che frequentano i due istituti saranno impegnati a garantire un servizio accurato, mettendo in atto quanto stanno imparando nell’arte dell’accoglienza.

Il programma in sintesi:

Sabato 25 ottobre

Ore 11.00-19.00: apertura banchi d’assaggio con i vignaioli.
Ore 12.00: Laboratorio del Gusto – Avviamento alla degustazione di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena a cura di AED
Ore 13.00: Seminario/degustazione condotto dal giornalista Sandro Sangiorgi “IL VINO E L’UMANITÀ, UNA STORIA D’AMORE” L’educazione al bere passa dalla conoscenza dei sentimenti (a pagamento su prenotazione)
Ore 13.30: Laboratorio del Gusto – Finger Food con gli chef Francesco Esposito & Andrea Prodi
Ore 15.30: Laboratorio del Gusto – Orto e Cantina con chef Donata Carlucci.
Ore 17.00: Laboratorio del Gusto – Dulcis in Vino con il Pastry chef Tiziano Busuoli.
Nel pomeriggio: musica dal vivo con il progetto “Pedala Piano” nella Corte di Villa Cavazza.

Domenica 26 ottobre

Ore 11.00-19.00: apertura banchi d’assaggio con i vignaioli.
Ore 12.00: Laboratorio del Gusto – Street Food con il pizza chef Luigi Pagano.
Ore 13.00: Seminario/degustazione condotto dal giornalista Sandro Sangiorgi “IL MESSAGGERO DEL SAPERE” - I° concorso sulla sensibilità e l’intuito alla scoperta del vino buono
Ore 13.30: Laboratorio del Gusto – Wine Fusion con chef Domenico Della Salandra.
Ore 15.30: Laboratorio del Gusto – Sapori d’Altura: Vini e Formaggi (Cantine Cà Bora, Versante, Cantina del Frignano + caseifici di montagna).
Ore 17.00: Laboratorio del Gusto – L’Abruzzo incontra la cucina reggiana con Patrizia e Loris della Macelleria Campari di Luzzara.
Nel pomeriggio: musica dal vivo con il saxofonista Enzo Balestrazzi nella Corte di Villa Cavazza.

Tutti i Laboratori del Gusto sono a ingresso gratuito con prenotazione (previo acquisto di biglietto di ingresso all’evento Terre di Vite ) e condotti dal sommelier professionista Alessandro Ticci.

La cornice: Villa Cavazza

Villa Cavazza, storica dimora a pochi chilometri da Modena, con i suoi portici, i saloni affrescati rappresenta una location di straordinaria suggestione.
Oltre ai banchi d’assaggio, la corte esterna ospiterà food truck con specialità emiliane, stand gastronomici e artigiani che proporranno prodotti di qualità, gioielli e creazioni fatte a mano.

Informazioni pratiche
Date e orari: sabato 25 e domenica 26 ottobre 2025, dalle ore 11.00 alle 19.00.
Luogo: Villa Cavazza – Corte della Quadra, via Gorghetto 92/100, Solara di Bomporto (MO).
Ingresso: €25 con calice e tracolla inclusi, degustazioni libere di tutti i vini e accesso a due Laboratori del Gusto (su prenotazione).
Prevendita online: €22 + diritti fino al 24 ottobre su https://bit.ly/2025TDV

Per informazioni: www.terredivite.itinfo@terredivite.it – tel. 338 5474185

InvecchiatIGP: Buiatti Livio e Claudio - Friuli Colli Orientali DOC Sauvignon 2015


di Carlo Macchi

Diciamo che la storia di questo vino, racchiusa in 10 anni, può essere raccontata nell’adattamento del titolo di una famosa fiaba, fatta conoscere ai più da Walt Disney: la fiaba è La bella e la bestia ma questo Sauvignon potremmo definirlo Da bestia a bella e se avete un minimo di pazienza vi spiego anche il perché.


L’azienda Buiatti Livio e Claudio è una cantina ipertradizionale a conduzione familiare nei Colli Orientali del Friuli: da sempre, a Buttrio, produce vini monovarietali schietti e immediati come il loro Sauvignon, che fa solo acciaio. Un vino che nasce per essere bevuto e goduto giovane: assaggiammo il 2015 per la guida di Winesurf nel 2016, quindi dopo essere stato imbottigliato da pochissimo tempo e ci piacque molto, tanto da premiarlo come Vino Top. Sono andato a ricercare la motivazione al premio e nella scheda avevamo scritto: “Vino rustico se vogliamo, quasi aggressivo al naso ma per noi resta comunque un esempio di un modo tradizionale di fare Sauvignon. può piacere o non piacere, a noi piace!” Nelle note di degustazione personali avevo scritto: “naso intenso, molto vegetale ma classico- bocca rustica con bella polpa e pienezza”. Quindi un vino dai profumi intensi ma abbastanza verdi e non certo eleganti, corposo ma un po’ burbero in bocca.


Qualche giorno fa sono sceso in cantina e mi è capitata in mano una bottiglia della stessa vendemmia: l’ho presa, messa in frigo per qualche minuto (i bianchi non vanno bevuti freddi) e poi l’ho aperta.


Il colore era sempre brillante e giovanile ma sono stati i profumi che mi hanno veramente colpito: nessuna nota vegetale, ma qualche bel sentore di agrume che nel giro di qualche minuto si è trasformato in idrocarburi e note minerali di una finezza incredibile. In bocca il vino era diventato più esile ma molto elegante, non certo basato sulla freschezza ma su un equilibrio delle parti che lo rendeva particolarmente piacevole. Nel non stretto giro di 10 anni questo vino, fatto per essere bevuto giovane, oltre a rimanerlo era cambiato completamente, diventando l’opposto, piacevolissimo, di quello che era. Insomma, la “bestia” di 10 anni prima si era trasformato nella “bella” che avevo nel bicchiere e devo dire che è stata proprio una favola a lieto fine.

Tenuta di Capezzana - Carmignano DOCG "Trefiano" 2021


di Carlo Macchi

Creato da Vittorio Contini Bonacossi nel 1979, “pare sia” 80% di Sangiovese, 10% di Cabernet sauvignon e 10% di Canaiolo. 


“In realtà” il 2021 è un 100% di seta, perché ha tannini incredibilmente fini che accompagnano ampi profumi di frutta e legno ben fuso. Senza dubbio una delle migliori annate.

C'era una volta l'Italia, il Paese dei vini bianchi da bere rigorosamente giovani


di Carlo Macchi

Quanti di voi hanno assistito alla scenetta del ristoratore che vuole “affibbiare” il bianco dell’anno precedente al cliente e questo puntualmente lo rifiuta dicendo che è troppo vecchio? Credo ognuno di noi l’abbia vissuta sia “di” che “per interposta” persona. 


Sono anni e anni che sentiamo dirci da enotecari e ristoratori che i bianchi italiani, anche se potrebbero invecchiare, i clienti il 1° gennaio vogliono quelli dell’ultima annata, che comunque i bianchi italiani, al contrario dei rossi, non invecchiano bene.

Sono anni e anni che sentiamo dirci dai produttori che devono per forza fare i bianchi giovani perché il mercato li richiede, che i loro vini si esprimono benissimo subito e quindi “provano” a farli anche invecchiare ma solo una piccolissima parte, solo per provare etc.

Mi fa molto piacere affermare, dati alla mano, che tutto questo sta cambiando e piuttosto in fretta. I produttori italiani di vini bianchi, dalla Sicilia all’Alto Adige, stanno sempre più puntando su bianchi con almeno 2 anni (ma anche molti di più) di invecchiamento e soprattutto li stanno facendo, anno dopo anno, più buoni e più adatti ad essere invecchiati.

Non lo dico io ma i dati delle ultime cinque annate della guida di Winesurf 

Date un’occhiata a questi dati e poi ne parliamo

Guida 2021: Bianchi premiati 135 - bianchi d’annata 57 pari al 42.2%

Guida 2022: Bianchi premiati 108 - bianchi d’annata 53 pari al 49%

Guida 2023: Bianchi premiati 108 - bianchi d’annata 47 pari al 43.5%

Guida 2024: Bianchi premiati 82 - bianchi d’annata 31 pari al 37.8%

Guida 2025. Bianchi premiati 102 - bianchi d’annata 37 pari al 36.2%

Quindi da almeno quattro anni sono percentualmente sempre più i vini bianchi con due e più anni di invecchiamento rispetto ai bianchi d’annata, e comunque da almeno cinque anni i bianchi invecchiati sono percentualmente superiori ai bianchi d’annata. Questo non è dovuto al fatto che i produttori presentano agli assaggi meno vini d’annata (i numeri aumentano ogni anno) ma che introducono ANCHE e comunque sempre più vini con qualche anno sulle spalle. Questo vuol dire che non solo i produttori ci credono ma che esiste un mercato che, anche per denominazioni da vini giovani, gli permette anno dopo anno di puntare sempre più su bianchi invecchiati.


Bianchi invecchiati che ormai vengono presentati da non poche cantine anche con 10 e più anni sulle spalle e ottengono grandi risultati. Del resto, se la tecnologia di vigna e di cantina migliora anno dopo anno non si può pensare che i vini non migliorino e quindi non possano avere maggiori possibilità di invecchiare. 
Detto questo, che è un dato indubbiamente positivo, assistiamo a due fenomeni abbastanza singolari che rischiano di creare non pochi problemi e denotano che ancora non si è compreso bene, a tutti i livelli, come gestire le varie tipologie di bianchi, invecchiati o meno.


Il primo riguarda tanti produttori che puntano alla botte piena e alla moglie ubriaca, presentando vini d’annata secondo loro adatti ad invecchiare e per questo imbottiti di solforosa (magari tappati con tappi tecnici che chiudono molto ma con le stesse dosi di solforosa usate con i tappi naturali) per durare meglio nel tempo, col risultato di assaggiare vini completamente chiusi e quindi ingiudicabili da noi e sicuramente non apprezzabili da chi li acquista.


Il secondo fenomeno riguarda tante cantine che mettono sul mercato dopo pochi mesi dei vini d’annata leggeri e poco performanti, avendo usato le migliori uve per i bianchi da invecchiamento. Un po’ la stessa cosa che accade per tanti rossi, con la differenza che questa tipologia da anni ha delle “gradualità di invecchiamento” ufficiali che tutti conoscono, mentre molte denominazioni di bianchi devono la loro fama ai vini d’annata e “alleggerirli” per puntare alle riserve dopo 2-3-4 anni non fa certo bene all’immagine della denominazione.

Detto questo però torniamo al fatto che, piano piano, il bere bianco italiano non solo prevede anche vini non d’annata, ma che questi vini sono sempre più buoni, sempre più prodotti probabilmente perché sempre più richiesti. Del resto, se cambiano i gusti e i consumi è logico che chi passa dal rosso al bianco voglia anche avere delle soddisfazioni diverse, con vini che puntano ad avere corpo, struttura, aromi meno immediati ma comunque molto piacevoli.


In chiusura un’annotazione: ora che vengono prodotti ottimi bianchi da invecchiamento dobbiamo capire che il merito di questo sta nella vigna, e non nelle operazioni di cantina che prevedono l’uso del legno: abbiamo perso il conto negli anni, ma sicuramente sono migliaia, i bianchi oberati e sciupati da legno nuovo. Naturalmente ce ne sono molti a cui il legno da maggiore complessità ma ormai quello che dà un grande vigneto di uve bianche ha solo bisogno di essere vinificato e atteso.

Il nuovo volto del vino naturale: dati, tendenze e sfide di un mercato globale


C’è stato un tempo in cui chiedere un vino naturale al ristorante suscitava sguardi perplessi. Un tempo in cui la parola “torbido” era sinonimo di difetto, non di fascino, e in cui i piccoli vignaioli che rifiutavano diserbanti e lieviti selezionati erano considerati eccentrici, talvolta ingenui. Poi, lentamente, il vento è cambiato. Oggi il vino naturale è un linguaggio universale, un modo di bere ma anche di pensare, una filosofia che parla di terra, di persone, di un’etica condivisa.


L’analisi pubblicata da Raisin Digital, la più grande piattaforma mondiale dedicata ai vini naturali, fotografa con chiarezza la rivoluzione avvenuta tra il 2016 e il 2024. In otto anni, la rete dei locali che propongono vini naturali è cresciuta del 60%, passando da cinquemila a oltre ottomila indirizzi nel mondo. Non si tratta di una fiammata passeggera, ma di un cambiamento strutturale che ha ridefinito la geografia del vino e il suo stesso modo di essere raccontato.


La mappa tracciata da Raisin mostra una costellazione sorprendente: Parigi con quasi seicento locali, New York con più di centottanta, Roma al terzo posto con centotrentatré. Ma più dei numeri colpisce la dinamica: in Italia, il paese che più di ogni altro ha visto una crescita esplosiva (+3428% in otto anni), il fenomeno si è spostato dai wine bar di nicchia alle tavole dei ristoranti. A Roma, i locali che propongono vini naturali sono quasi raddoppiati, ma i wine shop e i bar dedicati sono diminuiti. Un segnale preciso: il vino naturale è uscito dalla sua bolla culturale per entrare nel cuore della ristorazione, diventando parte integrante dell’esperienza gastronomica contemporanea.


Non è difficile intuire le ragioni di questa ascesa. La prima è l’autenticità, parola abusata ma mai come in questo caso appropriata. Il consumatore di oggi non si accontenta di un’etichetta accattivante o di un punteggio in guida: vuole sapere da dove viene il vino, chi lo fa, come lo fa. Vuole un racconto credibile, fatto di mani, di suoli, di fermentazioni che seguono i ritmi della natura. È una sete di verità, più che di novità, quella che ha spinto milioni di persone verso bottiglie non sempre perfette ma vive, che cambiano nel bicchiere come cambiano le stagioni in vigna.
A muovere questa ricerca non è solo il gusto, ma anche la coscienza ambientale. L’agricoltura convenzionale è responsabile di un uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti chimici; la viticoltura, pur occupando una piccola parte della superficie coltivata europea, ne assorbe una quota importante. Non sorprende allora che in Francia, dal 2010 al 2024, la superficie in biologico o in conversione sia passata dal 6% al 22%. In Italia, secondo Raisin, si contano oggi 739 vignaioli naturali su circa 30.000 aziende: una piccola minoranza, certo, ma in costante crescita, con un impatto culturale molto più ampio dei numeri.


Il vino naturale, insomma, non è più un semplice prodotto agricolo: è diventato un manifesto di sostenibilità. Dietro ogni bottiglia c’è una visione: meno chimica, più vita nel suolo, fermentazioni spontanee, energia risparmiata, bottiglie più leggere, etichette che raccontano la provenienza come un gesto di verità. È un modo di fare agricoltura che non guarda solo al profitto ma al futuro, un ritorno all’essenziale che oggi appare, paradossalmente, come la forma più evoluta di modernità.


C’è poi un aspetto meno evidente ma altrettanto decisivo: la dimensione urbana del fenomeno. Le grandi città sono diventate epicentri del naturale. È nei quartieri creativi di Parigi, Berlino, Barcellona, Roma o New York che il movimento ha trovato il suo pubblico: una generazione colta, curiosa, cosmopolita, attratta tanto dall’etica quanto dall’estetica del vino naturale. Bere naturale, oggi, è anche un gesto culturale, un modo di appartenere a un mondo che privilegia la sincerità alla perfezione, l’esperienza alla competizione. È il vino che parla la lingua dei cuochi contemporanei, delle cucine vegetali, delle fermentazioni spontanee, dell’equilibrio tra gusto e consapevolezza.

Ma dietro questa luminosità non mancano le ombre. Il successo ha portato con sé sfide nuove, che rischiano di incrinare la purezza del messaggio originario. La prima, inevitabile, è quella economica: produrre naturale costa di più. Le rese sono basse, il lavoro è manuale, la burocrazia del biologico è spesso complessa, e l’inflazione post-pandemia ha fatto il resto. A Parigi, una bottiglia sotto i quindici euro è ormai un miraggio; nei ristoranti i ricarichi spingono il prezzo minimo verso i sessanta o settanta euro. Il rischio è che un vino nato per essere contadino e accessibile diventi, paradossalmente, un prodotto elitario, destinato a una ristretta fascia di consumatori informati e benestanti.


C’è poi la questione della definizione. Cosa rende un vino davvero naturale? L’assenza di solfiti aggiunti? La fermentazione spontanea? L’agricoltura biologica certificata? O tutto questo insieme? L’assenza di una normativa ufficiale, sottolinea Raisin, è una lama a doppio taglio: garantisce libertà ai vignaioli, ma apre la porta al caos interpretativo e, in alcuni casi, a fenomeni di “greenwashing”. La sfida dei prossimi anni sarà trovare un equilibrio tra identità e trasparenza, tra filosofia e rigore tecnico. Nonostante queste tensioni, il movimento appare oggi più maturo che mai. L’epoca dell’entusiasmo pionieristico lascia spazio a una generazione di produttori più consapevoli, capaci di coniugare artigianalità e precisione. I vini naturali non sono più “giustificati” dai loro difetti: devono emozionare, sì, ma anche convincere. È la dimostrazione che il naturale non è un rifugio romantico, ma un laboratorio di innovazione, dove si sperimentano nuovi modi di fare vino, di raccontarlo e di distribuirlo. In questo quadro, l’Italia gioca un ruolo strategico. La crescita del settore è tra le più rapide al mondo e il patrimonio vitivinicolo del Paese offre una varietà unica di terroir, vitigni autoctoni e culture enogastronomiche. Ma serve una voce comune, una rete capace di proteggere la coerenza del messaggio. Le esperienze di associazioni come Vinnatur o Vignaioli Artigiani Naturali mostrano che la strada è quella giusta: collaborare, comunicare, educare il pubblico. Non basta produrre diversamente; bisogna anche raccontare diversamente.


Ciò che emerge con chiarezza dall’indagine di Raisin è che il vino naturale non è una moda, ma un movimento culturale che ha cambiato per sempre il modo in cui guardiamo al vino. È il simbolo di una generazione che beve meno ma meglio, che cerca la verità più che l’apparenza, che mette in discussione il sistema industriale per riscoprire il valore dell’imperfezione.
Dieci anni fa era un sussurro nei bicchieri di pochi. Oggi è un coro planetario che canta la stessa canzone: quella della terra, della vita, del tempo che scorre lento tra i filari. Il vino naturale non è più una nicchia: è diventato un modo di stare al mondo.

Pizza (Re)connection: il manuale per i pizzaioli del futuro firmato Giusy Ferraina


La letteratura sulla pizza è ormai vasta e articolata: c’è chi ne ha raccontato la storia, chi esplora l'antropologia del piatto più amato al mondo e chi analizza con minuzia le tecniche di impasto, lievitazione e cottura. Nessuno finora si è mai occupato di trattare questo tema dal punto di vista del mercato e del suo consumo, offrendo una guida che orienti l’operatore a trasformare una pizzeria in un’impresa di successo.


Pizza (Re)connection. Visioni futuristiche e strategie innovative per pizzaioli ultramoderni di Giusy Ferraina colma questa lacuna, proponendosi come un'opera inedita e necessaria per il settore, una bussola per orientarsi tra le tendenze della pizza contemporanea. Il progetto nasce, infatti, da una constatazione chiara: oggi un pizzaiolo non può essere solo un artigiano del gusto, ma deve trasformarsi in imprenditore, comunicatore e innovatore. Il volume, edito da Dario Flaccovio Editore per la collana diretta da Nicoletta Polliotto, “Accadde Domani FuTurismo”, si propone di fotografare il panorama pizza odierno in tutte le sue sfaccettature, esplorando nuove frontiere, tecnologie, innovazioni e sfide che attendono questo prodotto, analisi completa che offre al lettore una visione complessa e attuale del settore e delle opportunità da cogliere rapidamente. In linea con lo spirito della collana, l’opera segue un approccio olistico e, con taglio pratico, suggerisce la ricetta perfetta che equilibra la tradizione e l’identità della pizza con la sua visione contemporanea, dove format alternativi, tendenze, branding, storytelling e tecnologie sono i nuovi ingredienti.

Perché un libro su una nuova visione della pizza?

Se prima i tempi non erano del tutto maturi e impasti e pizzaioli erano i veri protagonisti del racconto, negli ultimi anni la pizza, simbolo gastronomico italiano in tutto il pianeta e con un giro d'affari miliardario, sta vivendo un momento di profondo cambiamento e crescita. Le pizzerie si sono trasformate nelle nuove frontiere della ristorazione e contemporaneamente è cambiata la stessa figura del pizzaiolo sempre più impegnato in ricerca, innovazione e comunicazione, diventando in molti casi star dei social. Ecco perché parlare di “come fare business e impresa con e attraverso la pizza” diventa necessario.

Come afferma la stessa autrice: “L’idea di questo libro nasce dall’osservazione diretta del mondo pizza, grazie alle varie collaborazioni giornalistiche e alla partecipazione come giurata al Campionato Mondiale della Pizza. Un punto di osservazione privilegiato su novità e tendenze, sui pizzaioli illuminati che lanciano format di successo e su chi, invece, si adegua con il solito copia e incolla dell’idea vincente di turno. Intervista dopo intervista, ho avuto la fortuna di confrontarmi con numerosi pizzaioli, rendendomi conto che spesso ciò che mancava era proprio la progettualità, l’unicità differenziante per costruire una propria brand identity. Così nasce questo progetto editoriale, che ritengo utile e mi auguro venga accolto con lo stesso entusiasmo con cui l’ho scritto. Perché per essere al passo con i tempi, bisogna essere visionari, ultramoderni e proiettati nel futuro”.


Nel volume Pizza (Re)connection il lettore individua un’analisi puntuale degli elementi essenziali per costruire un’attività performante: dalle ultime tendenze gastronomiche all’impatto delle tecnologie digitali e produttive, passando per modelli di business rinnovati e strategie di marketing e comunicazione innovative, applicate al mondo della pizzeria. L’obiettivo è quello di generare conoscenza e consapevolezza sulla grande potenzialità e sul percorso che la pizza ha davanti a sé come piatto su cui si sta incentrando la ristorazione del prossimo futuro. Se la pizza è la vera promessa della somministrazione italiana (e non solo), il pizzaiolo diviene un mestiere gettonato, per il quale risulta indispensabile un manuale di istruzioni, per scongiurare una visione “provinciale” di questo ruolo, un’applicazione conformista di format prestabiliti o mode passeggere, incapace quindi di personalizzare i trend. Ovviamente con un occhio di riguardo alle sfide (e opportunità) offerte dalle nuove tecnologie.

Con la prefazione di Antonio Puzzi, giornalista e direttore editoriale del mensile di settore “Pizza e Pasta Italiana”, Pizza (Re)connection mette insieme punti di vista, case history e le voci di esperti e giornalisti come Pina Sozio e Carlo Passera, curatori delle due guide pizza più importanti in Italia o di Antonio Pace presidente dell’AVPN, storica associazione di tutela della pizza napoletana, oltre a creare una mappa, per ogni argomento, di pratiche virtuose ed esempi di successo.

A chi si rivolge Pizza (Re)Connection

Pensato per pizzaioli professionisti e per startupper, per imprenditori e comunicatori del food, ma anche per i pizza lovers che vogliono comprendere quale direzione abbia intrapreso uno dei comparti più vitali e creativi della ristorazione italiana.


L’autrice

Giusy Ferraina calabrese di origine e romana d’adozione, è consulente marketing e comunicazione, project manager e giornalista pubblicista. Si laurea a Siena in Scienze della Comunicazione e dopo alcuni anni passati nell’editoria, si avvicina al mondo dell’enogastronomia, muovendo i primi passi tra redazionali, ricette da editare, social network e fiere di settore. Si specializza così nel “food & wine”, collaborando con chef, cantine, agenzie ed eventi. Dirige il magazine Radio-Food.it, scrive per Pizza e Pasta Italiana, Identità Golose, Gambero Rosso, La Madia Travelfood e collabora anche con prestigiose guide di settore. I suoi temi focus sono la pizza e la Calabria enogastronomica. Il suo mantra è l’ascolto e l’empatia, doti speciali per poter comunicare bene e raccontare storie affascinanti.

InvecchiatIGP: Giovanna Madonia "Fermavento" 1998 e Fattoria Zerbina "Pietramora" 1985


di Roberto Giuliani

Ammettetelo, pochi di voi considerano il Sangiovese romagnolo un vino capace di emozionare e, magari, di invecchiare. Niente di più sbagliato! La Romagna è una regione del tutto particolare, sia per la sua formazione geologica, praticamente unica, sia perché è uno dei pochi luoghi dove l’altitudine non conta più di tanto. In che senso? Nel senso che si possono fare eccellenti Sangiovese a 50 m. sul livello del mare come a 700, perché i fattori che li caratterizzano sono così complessi ed eterogenei che qualunque etichetta si tenti di affibbiargli si incorre in una generalizzazione che non trova corrispondenza con la realtà. Anche il giudizio sulle annate qui non può dare segni di uniformità, perché la varietà di microclimi, di suoli, di pendenze, di esposizioni, è tale da disorientare persino le centraline sparse su tutto il territorio. Detto questo, quello che manca – ma oggi direi sempre meno – è una comunicazione forte e condivisa, collettiva, in grado di sconfiggere luoghi comuni e opinioni frettolose. Andateci in Romagna, non solo al mare, ma girate colline e vigneti, scoprirete un mondo affascinante dove la natura è molto più in armonia che altrove; qui i boschi, la fauna, la flora, sono numerosissimi e, spesso, circondano le vigne, creando paesaggi incantevoli.


Da vent’anni esatti a Faenza c’è un evento che, più di ogni altro, testimonia la bellezza di questi luoghi e dei loro vini, è Vini ad Arte, una kermesse indirizzata, in giornate separate, al pubblico e alla stampa, quest’anno si è svolta dal 22 al 24 settembre. Che si tratti di Sangiovese, Albana, Trebbiano romagnolo, Centesimino, il comparto vinicolo è cresciuto in maniera inequivocabile, senza che i prezzi dei vini siano saliti in modo incontrollato come è avvenuto in altre regioni come Toscana e Piemonte. Per fortuna, direi, perché coloro che per più di vent’anni hanno alzato i prezzi sotto la spinta del successo, oggi fanno molta più fatica a vendere per via di una inevitabile contrazione dei mercati, perché da sempre l’onda sale e scende, i più intelligenti non approfittano ma trovano la giusta mediazione per non incorrere in problemi eccessivi quando la curva scende.


Ebbene, il 23 settembre ho avuto modo di partecipare a una masterclass con tema “Vecchie Annate”, nella quale sono stati presentati 7 campioni, due di questi mi hanno talmente entusiasmato che ho deciso di dedicarli alla rubrica InvecchiatIGP: sono il Romagna Sangiovese Superiore Fermavento 1998 di Giovanna Madonia e il Pietramora 1985 di Fattoria Zerbina. Sono due vini profondamente diversi - il primo proviene da Bertinoro e non è neanche una riserva (che si chiama Ombroso), l’altro da Marzeno, una delle sottozone più piccole del Romagna Sangiovese - ma sono anche due vini che hanno in comune una personalità straordinaria e hanno dimostrato di tenere il tempo in maniera strepitosa.

Giovanna Madonia

L’azienda di Giovanna Madonia e Giorgio Poppi nasce nel 1992, lavora artigianalmente avvalendosi della consulenza enologica di Leonardo Conti e Attilio Pagli, e agronomica di Stefano Dini e Dario Ceccatelli. I suoli sono caratterizzati dal cosiddetto “spungone”, pietra di origine marina dalla connotazione profondamente calcarea. Da alcuni anni l’azienda è passata in regime biologico.
Il Fermavento 1998 ha tinta granato caldo, profumo di straordinario fascino, la componente terziaria è appena accennata, il frutto è ancora vivissimo, arancia, prugna, marasca, karkadè, pelle conciata, poi cenni di caffè e liquirizia dolce, una balsamicità profonda che esalta il bouquet. Tutto si presenta in perfetta armonia, rivelandosi al gusto semplicemente fantastico, salato, austero e allo stesso tempo generoso, ancora fresco e dinamico, senza alcun cedimento, un messaggio chiaro che il sangiovese qui può fare grandi cose.


Cristina Geminiani è nata a Monza ma potremmo dire che è naturalizzata romagnola, visto che ci vive da moltissimi anni. Nel 1985 prende le redini dell’azienda acquistata nel ’66 dal nonno e prende subito la via dell’innovazione, ne è testimone lo Scacco Matto, un passito da uve Albana botritizzate che ha conquistato il globo e forse qualche altro pianeta fuori della nostra galassia. Cristina, laureata in agronomia, è stata la prima a utilizzare l’alberello come metodo di allevamento, con le vigne ad alta densità, e ad effettuare una ricerca clonale per impiantare le migliori barbatelle di sangiovese romagnolo e toscano. Il suo Pietramora è il primo vino prodotto a base sangiovese, degustare il 1985 è stato di per sé già una grande emozione.

Cristina Geminiani

Il Romagna Sangiovese Superiore Riserva Pietramora 1985 mostra un colore granato ancora vivo, luminoso (forse c’è un piccolo contributo dell’ancellotta, uva tintora che Cristina usa in piccola percentuale ma non in tutte le annate); il bouquet si lancia sui fiori macerati, ciliegia in confettura, agrumi, cioccolato, liquirizia, torba e molto altro, ma è al palato che mi lascia senza fiato, dove mette in mostra una freschezza incredibile, che dona al frutto e alle spezie un’energia spettacolare, mai potresti immaginare sia un vino con 40 anni sulle spalle!


Un autentico gioiello, con una beva che ti strega, tanto che non ho potuto fare a meno di finire quel poco che avevo nel calice, sarebbe stata un’eresia lasciarlo lì. Immenso. Viva la Romagna!

Grillesino - Toscana IGT Ciliegiolo Nàcchero 2024


di Roberto Giuliani

Se c’è un vino con cui è facile fare il bis a tavola, questo è sicuramente il Ciliegiolo. A Sorano, nel cuore della Maremma toscana, Giancarlo e Saverio Notari ne producono uno buonissimo, profuma di prugna, mora e macchia mediterranea. 


Al palato è un trionfo di frutta e nuances pepate, una goduria!

Champagne Experience 2025, buona la prima a Bologna


Si è conclusa, dopo due intensi giorni di degustazioni e approfondimenti l’ottava edizione di Champagne Experience, la prima andata in scena a Bologna domenica 5 e lunedì 6 ottobre, confermandosi come il più grande evento in Italia dedicato allo Champagne. Nel corso di Champagne Experience 2025, ospitato nel padiglione 15 di BolognaFiere, si sono registrate poco più di 7000 presenze, segnando un incremento del 20% rispetto all’ultima edizione modenese. Un dato che conferma il crescente interesse del mercato italiano, che – nonostante la congiuntura attuale – si mantiene come il quarto bacino di riferimento per lo Champagne.


La manifestazione quest’anno ha visto la partecipazione di 145 realtà produttive, che hanno messo in degustazione poco più di 700 etichette. A completare l’offerta, anche un ricco programma di master class, che ha permesso di approfondire alcune delle tante sfaccettature dello Champagne, in particolar modo quelle espresse dagli attuali trend di mercato, che meritano di essere sostenuti e raccontati.

Bologna è stata anche l’occasione per ribadire la centralità della formazione per Excellence SIDI, sempre più determinante per interpretare in modo efficace le evoluzioni e le esigenze del mercato. A partire dalla selezione delle maison pensata per promuovere un alto livello di professionalità negli incontri, sempre all’insegna della qualità, con una particolare attenzione rivolta al mondo Ho.Re.Ca. e ai professionisti del settore.

“Questa ottava edizione di Champagne Experience – dichiara Luca Cuzziol, presidente di Excellence SIDI – rappresenta per noi un passaggio fondamentale: non solo perché segna il debutto a Bologna con numeri interessanti, ma perché conferma quanto il modello di collaborazione e formazione che promuoviamo come Excellence SIDI sia oggi imprescindibile per affrontare le nuove sfide del settore. Il pubblico che abbiamo incontrato in questi due giorni — professionisti sempre più preparati e curiosi, operatori attenti alla qualità e alla sostenibilità — ci dice chiaramente che il mercato sta evolvendo, e che il nostro compito è accompagnarlo con visione e responsabilità. Bologna è solo l’inizio di un percorso ancora più ambizioso”.

Ma la “Città delle Due Torri” è stata anche l’occasione per annunciare la U25 Academy, un innovativo programma formativo ideato da Excellence SIDI per rispondere concretamente alle esigenze di rinnovamento espresse dalla filiera e per facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel mondo della distribuzione. I dettagli dell’iniziativa saranno svelati nelle prossime settimane.

L’ottava edizione di Champagne Experience è stata promossa e organizzata da Excellence SIDI, realtà composta da ventuno tra i maggiori importatori e distributori italiani di vini e distillati di alta qualità. La prossima edizione andrà in scena sempre Bologna, il 4 e il 5 ottobre 2026.

Tempa di Zoè: il Fiano XA racconta la rinascita cilentana del grande bianco del Sud


di Roberto Giuliani

Siamo a Torchiara nell’anno 2016, qui Bruno De Conciliis, Vincenzo D’Orta, Feudi di San Gregorio e Francesco Domini decidono di unire le proprie esperienze per valorizzare il territorio cilentano con un nuovo progetto. Quattro vigne per un totale di 5,4 ettari, divise tra i Comuni di Torchiara, Agropoli, Aquara e Rocca Cilento; inizialmente i vini vengono prodotti da Feudi a Sorbo Serpico, ma nel 2018 viene ristrutturata una cantina situata ad Agropoli, in località San Pietro, circondata da 4 ettari di vigneto, dove verranno vinificati tutti i vini di Tempa di Zoè. Le uve predestinate sono l’aglianico e il fiano, da quest’ultimo nasce lo XA, poco più di 3000 bottiglie, fermentato in botti da 500 litri e maturato in botti di rovere francese per un anno. Un’espressione di questo vitigno abbastanza diversa da quelle a cui siamo abituati in Irpinia, frutto non solo della lavorazione in legno, ma anche di un territorio molto più vicino al mare e da questo influenzato.


Ha colore paglierino medio, molto luminoso, il primo impatto riporta a leggere note boisé, ma velocemente si sposta su agrumi gialli maturi, pesca ed erbe balsamiche, forti richiami alla cera d’api, sfumature di camomilla, sul finale un accenno di melone invernale e note iodate.


L’assaggio si concretizza in una sensazione di pienezza e intensità, con una spiccata freschezza e una altrettanto incisiva sapidità; è un vino complesso e stimolante, con grandi prospettive evolutive, non sarebbe male averne qualche bottiglia da parte per futuri assaggi, ma per ora ci possiamo accontentare.