InvecchiatIGP: San Felice - Vino da Tavola Vigorello 1990


di Carlo Macchi

Narrano le storie chiantigiane che tra la fine degli anni ‘60 e inizio degli ’70 a San Felice, all’ora ancora borgo dove abitavano gli operai dell’azienda e non signori che possono permettersi i costi di un Relais chiantigiano, le cose dal punto di vista enoico non andavano tanto bene: le molte uve rosse (sangiovese in gran parte, ma anche colorino, canaiolo), che mescolate al trebbiano e alla malvasia portavano al vecchio uvaggio per il Chianti, si vendevano male. Forse si sarebbero vendute meglio le uve bianche da sole e così Enzo Morganti, allora fattore e responsabile della cantina pensò, assieme a Giulio Gambelli, di togliere le uve bianche dalle rosse per fare un vino bianco con maggiori possibilità di vendita.


Il loro bianco, assieme a quello di altri che fecero la stessa pensata, venne chiamato Galestro ed ebbe un discreto successo, però le uve rosse senza le bianche dettero risultati incredibili e da quella “pensata al contrario” nacque il Chianti Classico moderno e soprattutto i primi Supertuscan chiantigiani.
Uno dei primi in assoluto, tanto da essere messo temporalmente quasi alla pari col Tignanello, fu il Vigorello la cui prima annata è la 1968. Naturalmente ci sarebbero voluti almeno altri 15 anni per far capire le potenzialità della tipologia denominata Supertuscan, che venne osannata nel mondo e servì a far conoscere il vino toscano.


La 1990, annata di altissima qualità, fu una di quelle nate nel momento migliore e dalle uve migliori. Rispetto ai primi anni il Vigorello aveva cambiato uvaggio, passando nel 1979 dal sangiovese e altre uve autoctone a quello per cui venne conosciuto negli anni d’Oro dei Supertuscan, cioè sangiovese e cabernet sauvignon. Approcciarsi ad una bottiglia del genere non è mai facile, sia per la sua storia che per le aspettative, specie poi se arriva da una vendemmia così importante come la 1990.


Stappo e…bestemmio! Infatti il tappo sa di tappo da fare schifo e l’assaggio successivo sembra essere solo una formalità per confermare ed ampliare il fronte dei peana ai vari dei presenti nel mondo. Invece il dio Bacco, che probabilmente era molto interessato alla bottiglia, fa il miracolo! Non solo il vino non sa di tappo (l’abbiamo finita dopo ore e nessuno dei commensali ce l’ha trovato) ma fin dall’inizio quell’amalgama aromatica che parte dal balsamico, passa per la macchia mediterranea, punta verso note leggermente vegetali, curvando anche su sentori di liquirizia e china, si presenta in perfetta forma.


Il naso è quindi più che a posto e anche il colore, un rubino leggermente scarico è quello che ci aspettavamo. In bocca c’è l’apoteosi: tannicità vellutata, equilibrio, giusta freschezza e corpo importante ci fanno esclamare una serie di “ Ohhhhhhhh” accompagnate da altre esclamazioni positive ma pecorecce che è bene non riportare. Un vino semplicemente superlativo, tra l’altro condiviso con tecnici non toscani che non riuscivano a rendersi conto di come fosse potuto nascere e arrivare fino lì un vino del genere. Se devo dirla tutta, anche io sono rimasto profondamente colpito dalla sua freschezza e assolutà bontà: uno dei vini più buoni che abbia mai bevuto.

Cantina Tramin - Alto Adige Doc Gewürztraminer Epokale 2016


di Carlo Macchi

Il Gewürztraminer senza se e senza ma! Un infinito campo fiorito, un bancone immenso di frutta secca e candita, potenza, armonia e rotondità incredibile al palato. Zucchero residuo?


Si, ma chissene! Se avete la mappa delle miniere di Ridanna Monteneve, dove per 6 anni matura l’Epokale, usatela!!!

Gradis’ciutta, 39 modi di dire Collio


di Carlo Macchi

In una degustazione che copre un periodo di 20 anni, che ti presenta ben 39 vini di tre tipologie diverse (Collio Pinot Grigio, Collio Friulano, Collio Bianco), che parla della storia del Collio e di una cantina che forse non viene percepita per quello che è, c’è il rischio di andare in overbooking enoico, cioè di avere tanti e tali argomenti che qualcuno (anzi più di uno) cannibalizzerà altri. Per provare a minimizzare questo rischio cercherò di essere da una parte schematico e dall’altra eviterò di tediarvi con una presentazione annata per annata, cercando di centrare, con pochi vini, i molti temi di questa degustazione.


Degustazione che Robert Princic, titolare e anima di Gradis’ciutta ha voluto “Per cercare di capire meglio cosa abbiamo fatto e dove stiamo andando”. Per questo ha chiamato attorno al tavolo non tanto giornalisti ma tecnici e personaggi come Giulio Colomba, che nella storia degli ultimi 30 anni dei vini friulani ha avuto un ruolo assolutamente centrale.

19 annate di Pinot Grigio: la sorpresa!

Abbiamo iniziato con il Pinot Grigio, vitigno tanto amato da Robert quanto “poco amato” (eufemismo) dal sottoscritto. Quando ho visto che si andava indietro fino al 2004 sono rimasto sorpreso e, lo ammetto, anche un po’ preoccupato, sempre a causa del mio “non amore” per questo vitigno che, a livello italico, ho visto declinare o come vino semplicissimo da “esportazione” o come prodotto molto (spesso) troppo- concentrato, appesantito da dosi assurde di legno nuovo.


La degustazione era incentrata sul vino base di Robert, il Collio Pinot Grigio, quindi un vino base, non passato in legno, non certamente fatto per essere invecchiato e tantomeno per essere presentato dopo venti anni: abbiamo iniziato con la 2023 per poi andare indietro sino alla 2012 senza saltare un’annata. Poi, saltando 2011, 2008, 2006 e 2005, siamo arrivati sino alla 2004. Le prime annate, diciamo fino alla 2019, posso definirle come annate “di rodaggio”. Oramai è infatti normale che una buona cantina abbia bianchi che si sviluppano bene per 5-6 anni e quindi la diminuzione della componente fruttata e floreale era messa in preventivo, un po’ meno la sua fine “sostituzione” con note minerali. In bocca ogni vino manteneva ottima freschezza. La cosa che mi ha colpito di più è stato un progressivo aumento della complessità dei vini, cosa che è continuata, con alcune logiche variazioni dovute all’annata fino almeno al 2014. Altra cosa da sottolineare in questo secondo gruppo è stato il corpo e l’acidità dei vini, che sembrava quasi aumentare annata dopo annata.


La 2014 però, annata piovosa e difficilissima, è stato il punto di svolta della degustazione, sia per la sua acidità importante che per un naso assolutamente giocato su note di idrocarburo. Punto di svolta perché dalla 2013 fino alla 2004 il filo conduttore è stato la sorpresa, culminata con un 2009 spettacolare (ancora fruttato) giovanissimo e profondo e un 2004 ancora molto presente e dinamico. Tra i commenti durante e dopo l’assaggio voglio riportarvi quello di un tecnico che da circa 40 anni lavora sul Collio “Il Pinot Grigio è stato, praticamente in tutta Italia, “declassato” fin dal vigneto al ruolo di vino semplice facile, immediato. Cloni, forme di allevamento, rese altissime per ettaro, vinificazioni “semplicistiche” hanno snaturato questo vitigno. Gli hanno cambiato i connotati facendo pensare a tutti che il solo suo modo di esprimersi fosse attraverso vini da bere quasi in tempo reale. Questa degustazione ha fatto capire cosa questo vitigno possa dare, semplicemente lasciandolo esprimersi come sa.”


Non solo mi ha trovato d’accordo (con mia sorpresa, ma i vini lo hanno dimostrato) su tutta la linea ma mi ha permesso di rinforzare un mio vecchio concetto e cioè che la forzatura fatta agli inizi degli anni 2000 su tanti vini del Collio (e dei Colli Orientali), proponendo quelli che allora venivano chiamati “Superwhites”, vini iperconcentrati e pieni di legno, ha condotto fuori rotta tanti produttori, portandoli a fare vini muscolari che non erano buoni da bere giovani ma spesso non reggevano nel tempo. Il Pinot Grigio BASE di Robert è la dimostrazione lampante di come un vitigno, semplicemente lasciandolo esprimere, possa in Collio dare grandi risultati, quasi sempre migliori rispetto a berlo nei primi due-tre anni di vita. Bisogna anche dire che una cantina che nel 2004 produceva un Pinot Grigio del genere, andrebbe tenuta in maggiore considerazione e che anche Robert dovrebbe guardarsi allo specchio e vedersi come produttore di vini da anche e soprattutto invecchiamento e non solo da bere giovani.

19 annate di Friulano: la conferma!

Rispetto ai Pinot Grigio abbiamo degustato dalla 2023 fino alla 2015 (proposto anche in versione tappo stelvin) senza interruzioni. Saltando la 2014 abbiamo proseguito senza interruzioni di annate dal 2013 al 2009 per poi chiudere con 2006 e 2005. Se il Pinot Grigio è un vitigno da me “non amato” il Friulano è invece da sempre per me l’uva/vino che rappresenta in pieno la friulanità, il vino che anno dopo anno mi colpisce in degustazione, insomma quello che amo di più.


Assaggiarne 19 annate, a questo punto paragonandole con quelle del Pinot Grigio, mi ha permesso di avere alcune chiare conferme. La prima è che se devo eleggere le annate migliore degli ultimi 20 anni in Collio, dividendo in due il periodo, metto per il periodo 2004-2015 al primo posto la 2009, seguita dalla 2010 e per il secondo la 2019 e la 2016. Altra cosa importantissima è che un livello alto di acidità nelle uve e nei vini non garantisce di fatto una maggiore serbevolezza: in certi territori e per determinati vitigni (vedi i due presi in considerazione) l’importante è il pH e l’equilibrio generale di un prodotto. Detto questo parliamo dei 19 Friulano BASE, partendo dal presupposto che San Floriano del Collio, cioè la zona dove Gradis’ciutta ha i vigneti, è per me terra più profumi che di potenza.


Le prime annate fino alla 2019, non hanno avuto un andamento paragonabile ai Pinot Grigio, dimostrando come questo vitigno sia più sensibile agli andamenti climatici. Dal 2018 questa “sensibilità alle annate” si è trasformata in un’adattabilità alle annate” cioè quelle più calde hanno presentato una gioiosa maturità e quelle più fresche note aromatiche sull’idrocarburo e freschezza importante al palato. Tra tutti voglio eleggere l’accoppiata 2009-2010 come “coup de coer” (come direbbero i francesi) : due vini di grande profondità aromatica, con il 2010 più su note floreali e il 2009 su sentori minerali, enttrambi di incredibile freschezza e pienezza. Mi piace citare anche la rotonda “piacioneria” del 2012, la durezza storica della 2013 (anche a livello italiano), il grande equilibrio della 2016, la finezza della 2018 e la solare pienezza e della 2022. Sarà perché amo questo vino ma un andamento più altalenante rispetto al Pinot Grigio lo spiego con la sua assoluta, autoctona “friulanità”, che lo porta a spiccare maggiormente nelle grandi annate ma comunque ad avere un buon paracadute in quelle meno buone. Lo dico prendendo in considerazione non solo questa degustazione storica ma anche tutte quelle che da quasi 20 anni, faccio per Winesurf. Proprio per questo dico che i produttori del Collio, dei Colli Orientali e dell’Isonzo dovrebbero dare sempre più maggiore spazio a questo vitigno, che ha anche il grande pregio di essere da sempre in sintonia con questa terra, cosa non da poco visto la difficoltà crescente delle recenti vendemmie.

Sette annate di Collio Bianco (friulano, malvasia, ribolla) il tempo è galantuomo!

Il Collio Bianco può avere varie facce, ma quella più “furlana” è certamente composta dall’uvaggio friulano, malvasia, ribolla. Questo è per molti, Robert compreso, un vino “importante” e quindi vinificato con l’uso del legno. Chi mi conosce o magari ha semplicemente letto poche righe sopra sa quanto veda con sospetto l’uso del legno in tanti bianchi e certamente quelli di Robert non fanno eccezione. Abbiamo degustato dal 2019 al 2015, con due innesti “prima e dopo”: la 2021 ancora in affinamento e la 2009.


Quello che mi sento di dire prima di parlare di annate è che se i bianchi friulani hanno bisogno di tempo in questa tipologia ne abbisognano ancor di più, non solo per permettere la legno di essere digerito ma anche e soprattutto per dare modo ai tre vitigni di presentarsi da “soli ma in compagnia”. In altre parole un Collio Bianco giovane è un riassunto di uno scritto che ha bisogno di tempo per presentare al meglio i protagonisti della storia. Protagonisti con caratteristiche diverse che non è bene assemblare e basta, devono stare assieme, conoscersi e presentarsi in coro: un tenore e un basso non possono cantare bene lo stesso pezzo assieme, ma possono interagire perfettamente in un’opera lirica.
Qui non si canta (almeno che non ne beviate una bottiglia intera…) ma il linguaggio del Collio Bianco 2009 (ancora, che grande annata!) è chiaro nonostante un legno ancora presente: freschezza da una parte (ribolla) , aromi fini e complessi dall’altra (malvasia) e giusta grassezza che amalgama il tutto (Friulano) sono interpreti ben definiti di questa “buonissima opera”, che ha una versione 2015 più calda e avvolgente e una 2017 più prorompente ma ancora troppo “amalgamata a se stessa”.

In chiusura

Spero di aver reso nella maniera meno noiosa possibile lo spirito di una degustazione numericamente imponente, estremamente piacevole ma molto complessa per riuscire a trovarvi fili conduttori non scontati. Forse la cosa che non ho fatto notare ma che occorre ribadire è che tutto questo mette in mostra la qualità nel tempo di una cantina che forse non molti considerano di alto livello e che probabilmente anche gli stessi titolari fanno fatica a posizionare tra le migliori del Friuli. 
Infine, credo che diversi produttori friulani, in particolare del Collio, Colli Orientali e Isonzo, abbiano le carte in regola (e le bottiglie in cantina) per organizzare una degustazione del genere. I risultati potrebbero essere migliori o peggiori ma se si vuole tirare su il nome, i prezzi e soprattutto la considerazione dei vini questa è per me la strada giusta, specie se seguita da un numero importante di cantine.

InvecchiatIGP: Cantine I Favati – Fiano di Avellino DOCG “Pietramara” 2003


In questo caldo periodo di vacanze italiane, mentre vi scrivo a Roma sfioriamo i 40° all’ombra, mi è venuto il dubbio se dedicare la rubrica InvecchiatIGP, all’approfondimento di un grande rosso oppure lasciare spazio a qualcosa di più “fresco” e stagionale descrivendo un bianco italico la cui evoluzione mi ha profondamente emozionato. Non ho avuto dubbi, visto la calura estiva, a porre in essere la seconda alternativa e così mi è venuto in mente che qualche mese fa, ospite della FIS di Roma, mia vecchia scuola sommelier, avevo degustato, all’interno di una verticale storica, un grande Fiano di Avellino “Pietramara” 2003 portato in degustazione da Cantine I Favati. L'azienda irpina, nata nel 1996, inizia ad imbottigliare solo 4 anni più tardi grazie alla tenacia di Giancarlo Favati e Rosanna Petrozziello che oggi, assieme al cognato Piersabino e alle figlie Carla e Brigida, gestiscono questa bellissima realtà con il prezioso contributo dell'enologo Vincenzo Mercurio.


Oggi l’azienda conta circa 40 ettari suddivisi tra San Mango, Atripalda, Venticano e Montefredane per ben 9 etichette tra Fiano, Greco, Aglianico (prevalenza zona Taurasi DOCG) per una produzione totale di oltre 100.000 bottiglie.


All’interno di questa gamma di altissimo livello, sicuramente il Fiano di Avellino “Pietramara”, etichetta nera, è il vino bianco più iconico e storico prodotto da questa piccola azienda irpina che proprio nel 2000, a quattro anni dalla sua nascita, ha prodotto la prima annata di questo Fiano di Avellino in appena 3.600 bottiglie. Questo vino, in particolare, proviene da una singola parcella di 5 ettari situata a Contrada “Pietramara”, ad Atripalda, un piccolo “anfiteatro” naturale che si apre da nord-est a nord ovest a circa 450 metri di altezza.


Come scritto in precedenza, all’interno della verticale storica, che ha previsto la degustazione delle annate 2022 - 2021 - 2020 - 2019 - 2018 - 2017 - 2016 - 2013 - 2010 – 2003, è proprio l’ultima quella che mi ha emozionato di più e sapete perché? Risposta semplice, per il motivo che spesso la 2003 viene classificata come annata molto calda in Italia e quindi, di conseguenza, legata a vini SICURAMENTE alcolici, voluminosi e dallo scarso potere evolutivo.



Il Fiano di Avellino “Pietramara” 2003 è protagonista di InvecchiatIGP perché è stato emozionante e sbalorditivo, ciò che molti, in negativo, ipotizzano in teoria, è stato nella pratica demolito grazie ad un vino ancora dinamico, ricco di gioventù, certo avvolgente e strutturato, ma affatto pesante.

Rinelli Vigneti - Cesanese di Affile Dop “Bosco” 2023


Marco Pettinelli e suo figlio Stefano, enologo ed agronomo, coltivano ad Affile una vecchia parcella di Cesanese che hanno recuperato dall’abbandono. 


Ispirandosi a pratiche 100% naturali sia in vigna che in cantina nasce questo Cesanese di Affile che rilancia la denominazione con un rosso viscerale dall’anima Pop.

A Ferragosto beviamo Mirabella e il suo Franciacorta Demetra Senza Solfiti Aggiunti


Mirabella nasce nel lontano 1979 quando Teresio Schiavi, lungimirante enologo, insieme all’amico Giacomo Cavalli, ingegnere e proprietario terriero, posarono la “prima pietra” delle Cantine Mirabella, dal nome del primo vigneto aziendale, nel comune di Paderno Franciacorta all’interno di un’antica filanda dove iniziarono a spumantizzare tremila bottiglie di Franciacorta.



Oggi Mirabella è ancora gestita da Teresio Schiavi, cuore e fondatore dell’azienda, al quale si sono affiancati i suoi due figli Alessandro (enologo e direttore commerciale) ed Alberto (responsabile marketing) che attualmente gestiscono 45 ettari di vigneto, gestito tutto in biologico (certificazione Valoritalia), concentrati nella porzione centro-orientale della Franciacorta ovvero nei comuni di Paderno FC, Passirano, Bornato e Provaglio d’Iseo.

Alberto, Teresio ed Alessandro Schiavi

Siamo particolarmente orgogliosi della nostra vocazione naturale – mi conferma Alberto Schiavi - la Franciacorta è un’area densamente antropizzata, i suoi abitanti vivono a stretto contato con le vigne. Il ricorso a prodotti di origine naturale, unito all’uso di atomizzatori che ne evitano la dispersione - e permettono di utilizzarne solo un terzo - è un segno concreto di sensibilità civica e ambientale”.


L’altro aspetto peculiare di Mirabella è la sua particolare attenzione per il Pinot Bianco che, attualmente, cosa rara per la denominazione, è piantato per il 25% dei vigneti. “Questa uva, da sempre, ci piace moltissimo – sottolinea Schiavi - perché dona freschezza, eleganza, gentilezza, alleggerendo e compensando la possibile pesantezza dell’andamento climatico. E perché è il più italiano dei nostri vitigni. Non facile da allevare, poco redditizio, e perciò abbandonato da molti viticoltori per lungo tempo, da noi invece vive e cresce bene anche grazie all’età delle nostre vigne”.

Panoramica azienda

Tra i tanti ottimi Franciacorta prodotti da Mirabella per questo Ferragosto la mia scelta è caduta sul Demetra Senza Solfiti Aggiunti (100% chardonnay), un Brut Nature (meno di 3 grammi\litro di residuo zuccherino) prodotto dalle vigne storiche del ’79 e nato dall’evoluzione di Elite, nato nel 2008 e primo Franciacorta in assoluto senza addizione di metabisolfito di potassio, antiossidante che può “disturbare” i degustatori più sensibili se presente in grande quantità.


Il vino, che rimane sui lieviti per 24 mesi, si fa decisamente apprezzare per la sua piacevolezza agrumata accompagnata da “piccanti” sensazioni di zenzero e pepe bianco. Freschezza in prima battuta all’assaggio corroborato da cremosa effervescenza che bilancia il tratto sapido ma sempre delicato del vino.


Un Franciacorta assolutamente godibile che noi tutti di Garantito IGP vi consigliamo augurandovi un Buon Ferragosto!! Prosit!

InvecchiatIGP: Leone De Castris - Salice Salentino Donna Lisa Riserva 1995


di Roberto Giuliani

Quando iniziai ad assaggiare i vini della Leone De Castris negli anni ’90, fui subito colpito dalla loro qualità media e dalla decisa impronta espressiva. A questa nota azienda pugliese si deve il primo vino rosato imbottigliato d’Italia (1943), il mitico Five Roses, ottenuto da negroamaro con una piccola aggiunta di malvasia nera.


Approfondendo anno dopo anno la conoscenza di questi vini, dal bianco Messapia a base verdeca, al Messere Andrea, rimasi particolarmente impressionato dalle caratteristiche del Salice Salentino Donna Lisa Riserva, anch’esso a base negroamaro con una quota di malvasia nera; ma quello che non ero ancora pronto a capire era la sua potenziale longevità. Poi ho avuto alcune occasioni di assaggi di annate vecchie, che però riguardavano vini tra i 10 e i 15 anni di vita, pertanto non nego che quando ho aperto questo 1995 sono rimasto esterrefatto.


Un millesimo che sulla carta non rappresentava il top, ma se c’è una cosa che il vino è in grado di fare, è smentire qualsiasi previsione, dimostrando che non è possibile uniformare un giudizio, mai, tanto più in un Paese così eterogeneo come il nostro.

Piernicola Leone de Castris

Così, una volta versato nel calice, ho accostato quasi con timore il naso e… ho avuto la prova incontrovertibile che avevo di fronte poco più che un ragazzo! Lo stupore si è trasformato velocemente in pura emozione, non c’era un solo sentore che potesse indicare un viaggio volto al termine. Il fruttato era ancora vivo e stimolante, la parte terziaria leggera e non dominante, quel piccolo legno che appena messo il vino in commercio si faceva notare, ora era perfettamente integrato e aveva lasciato al vino il compito di raccontarsi.


Al primo sorso l’emozione è cresciuta ulteriormente: tanta freschezza ancora viva, che sosteneva perfettamente l’impalcatura solida e di notevole eleganza; sentire addirittura l’arancia rossa e guizzi di rabarbaro mi ha spiazzato, la presenza di un leggero strato di porcini, humus e cuoio testimoniava solo che il tappo è in sughero e un’evoluzione ci deve essere per forza! Magari ginepro, magari ciliegia in confettura, magari una balsamicità rinfrescante, ma di segni di irrecuperabile decadenza neanche l’ombra.

A voler essere cattivo avrei potuto dargli una decina d’anni, non certo 29!

Sono queste le ragioni per cui, ancora oggi, scrivere e raccontare di vino non smette di darmi gioia, pur con la consapevolezza che non è acqua e va bevuto in quantità moderata, possibilmente accanto a un buon piatto.

Come diceva il buon Yoda: “Difficile da vedere è. Sempre in movimento il futuro è”.

Simone Capecci - Offida DOC Pecorino "Ciprea" 2021


di Roberto Giuliani

Criomacerazione e affinamento in cemento fino a primavera per regalarci, dalle colline di San Savino, frazione di Ripatransone, un Pecorino intenso e agrumato, con netti richiami alla salvia e alla pesca, una spiccata freschezza e un piacevole velo sapido. 


Ed è pure biologico…

Luca Di Piero - Quattro Mani Bianco 2020


di Roberto Giuliani

Una volta tanto sono arrivato ai vini di quest’azienda di Civita Castellana (VT) in una fase successiva; infatti, Luca Di Piero è conosciuto per le sue eccellenti creme alla nocciola e i suoi torroni, ottenuti dai propri noccioleti. È un vero agricoltore, lavora olive e nocciole, coltiva uve da vino, produce farina di grano tenero, tutto a km 0., ad eccezione del cacao utilizzato per lo strepitoso cioccolato gianduia e per le creme (ma non è detto che con questo clima sempre più tropicale non finisca per coltivare anche quello!).


Il Quattro Mani Bianco 2020 è ottenuto da uve fiano con un piccolo contributo di roscetto (ma nelle annate successive credo sia passato al fiano in purezza). Il vigneto risiede su terreno tufaceo, da cui si ricava 1,5 kg di uva per pianta (circa 60 q. per ettaro); le uve fermentano in acciaio dove permangono per un anno, poi affinamento di 6 mesi in bottiglia. Per l’imbottigliamento si appoggia all’affidabilissima azienda Doganieri Miyazaki di Castiglione in Teverina (VT).

Fonte: Etruria News

La gradazione si ferma a 13°, cosa che permette di assaporare questo bianco senza sentirsi invadere da ondate di calore (che aggiunto a quello che stiamo subendo in questa estate rovente, metterebbe a dura prova chiunque). Nel calice ha un bel colore oro lucente con sfumature verdoline; profuma di pesca, susina, mandorla, agrumi e rimanda a note di erbe di campo e fiori.


In bocca mostra un’ottima struttura, equilibrio e stimolante freschezza, il ritorno di frutta gialla e agrumata è deciso e avvolgente, un sorso pieno dal gusto sapido e persistente. Da provare con il fieno di Canepina, un piatto tipico di questo piccolo comune del viterbese, ottenuto con una pasta simile alle fettuccine ma molto più sottile, nella versione rivisitata da Felice Arletti (Il Calice e la Stella) con ragù di manzetta e granella di nocciole.

InvecchiatIGP: Claudio Mariotto - Colli Tortonesi Doc Timorasso “Derthona” 2010


di Lorenzo Colombo

Fondata nel 1921 dal bisnonno di Claudio Mariotto, l’azienda con sede a Vho dispone attualmente di 54 ettari di vigneti situati tra i 250 ed i 300 metri d’altitudine per una produzione annuale di circa 150.000 bottiglie.


Il Timorasso

Vitigno assai diffuso un tempo, tanto da essere il più coltivato nel territorio tortonese sino all’arrivo della fillossera, ha visto nel corso degli anni ridursi sempre più la sua superficie vitata a vantaggio di altri vitigni tanto che negli anni Novanta se ne contavano solamente una ventina d’ettari (dati ISTAT). Se poi andiamo a vedere i dati forniti durante la prima edizione di Derthona Due.Zero, tenutasi nell’aprile 2022, la situazione appariva ben più sconfortante, ovvero poco più di mezzo ettaro nel 1987, e 3,5 ettari nel 2000.

Claudio Mariotto - Foto: Lavinium


Da inizio 2000 il vitigno è stato poi riscoperto e la sua superficie è via via cresciuta nel corso degli anni: 25 ettari nel 2009, 95 ettari nel 2017, 111 ettari nel 2018, 175 ettari nel 2019, 276 ettari nel 2021, gli ultimi dati parlano di 395 ettari e la corsa al suo impianto non è certamente terminata. Tra gli autori di questa riscoperta, oltre a Walter Massa, considerato il padre del vitigno, c’è certamente d’annoverare Claudio Mariotto, tra i primi a puntare su questo vitigno. Il Timorasso viene utilizzato, oltre che nella Doc Colli Tortonesi, anche in una decina di vini ad IGT lombardi.

Il vino

Prodotto con uve selezionate da una trentina d’ettari di vigneti con diverse esposizioni, situati su suolo calcareo-argilloso, allevati a Guyot con resa di 70 q.li/ha. Dopo la fermentazione in vino s’affina sui lieviti in contenitori d’acciaio con ripetuti batonnages.


Color oro antico, intenso e luminoso. Discretamente intenso al naso, di buona eleganza, vi cogliamo sentori di pesca, albicocca, note terziarie di frutta secca, accenni tostati e di pasta di mandorle. 


Intenso al palato, sapido, accenni agrumati di cedro, ritroviamo le leggere note tostate ed i sentori di frutta secca, lunga la sua persistenza.

Terrazze di Montevecchia - Igt Terre Lariane Sauvignon "Anima Pura" 2021


di Lorenzo Colombo

Tipico nei suoi sentori di foglia di fico e di pomodoro, pompelmo, melone bianco, fresco e sapido con vena acida che rimanda agli agrumi un poco acerbi.


In 300 battute è impossibile descrivere com’è nato il suo nome, ma potete sempre chiedere a Mario Ghezzi che sarà felice di raccontarvi la sua genesi.

Antichi Poderi Jerzu, vigneti tra mare e cielo


di Lorenzo Colombo

Una gran bella esperienza quella che ci ha permesso di vivere l’azienda Antichi Poderi Jerzu, oltre alla visita dell’azienda e dei vigneti e, ovviamente, la degustazione dei vini, abbiamo potuto scoprire una Sardegna diversa, l’Ogliastra, un territorio dove non eravamo mai stati.


Un territorio che abbiamo potuto visitare sia via terra che via mare, tramite una minicrociera di un giorno con la Motonave Federica, con partenza da Santa Maria Navarrese e con numerose soste nelle più belle spiagge della costa ogliastrina, spiagge quasi sempre raggiungibili unicamente via mare o via terra tramite impegnativi trekking, essendo la costa, per quasi tutta la sua lunghezza assai selvaggia - e spettacolare - con rocce a strapiombo sul mare e un’acqua limpidissima dal color turchese. Abbiamo quindi effettuato soste alle minuscole spiagge di Cala Mariolu, Cala Biriola e Cala dei Gabbiani, inoltre abbiamo visitato la Grotta del Fico.


Dell’azienda e dei vini prodotti avevamo ampiamente scritto qui circa un anno fa, ma possiamo assicurarvi che viverne il territorio cambia completamente il modo vedere le cose. I 500 ettari di vigneti appartenenti ai soci conferitori spaziano dal livello del mare sino ad oltre ottocento metri d’altitudine e sono disposti nel territorio di sei comuni, Uliassi, Osini, Gairo, Cardedu e Tertenia, oltre ovviamente a Jerzu, situandosi su suoli di natura estremamente variabile e con differenze climatiche notevoli alle quali s’aggiungono le diverse esposizioni, questo fa sì che il medesimo vitigno si comporti in maniera assai differente fornendo vini molto diversi tra loro.


Tenendo conto di tutto questo nel 2012 è stato editato il libro Le Terre e le Vigne del Cannonau di Jerzu, un corposo volume curato da Diego Tomasi, Federica Gaiotti, Orazio Lotti e Elena Goddi nel quale vengono analizzati tutti gli aspetti relativi a suolo, clima e quant’ altro tramite la zonazione del territorio, operazione che ha portato alla creazione di nove sottozone con caratteristiche il più possibile omogenee. Per ora la vendita diretta in azienda è limitata ad un 5%-6%, mentre l’export s’aggira sul 15% della produzione. Passiamo ora ai vini degustati in diversi momenti di questo press tour effettuato sotto la guida di Franco Usai, direttore commerciale di Antichi Poderi Jerzu.

Vermentino di Sardegna Doc “Filare” 2021

Le uve provengono da un vigneto di quattro ettari posto a 300 metri d’altitudine su suolo sabbioso d’origine granitica nel territorio di Jerzu, il sistema d’allevamento è a Guyot con densità di 4.500 ceppi/ha, la resa è di 70 q.li/ha.
La pressatura molto soffice limita la resa al 50%, fermentazione ed affinamento sulle fecce s’effettuano in botti di rovere francese da 30 ettolitri dove il vino sosta sino al mese di giugno.


Color giallo paglierino luminoso di discreta intensità. Di media intensità olfattiva, frutta a polpa gialla matura, erbe aromatiche, macchia mediterranea, accenni vanigliati, buona l’eleganza. Succoso e di buon corpo, frutta a polpa gialla, note d’erbe aromatiche, leggeri accenni nocciolati, lunghissima la persistenza. 

Vermentino di Sardegna Doc “Telavè” 2023

Un tipico Vermentino prodotto annualmente in 80.000 le bottiglie.Color giallo paglierino di buona intensità. Buona la sua intensità olfattiva, ampio e verticale, vi cogliamo sentori di frutta a polpa gialla, note d’agrumi, erbe aromatiche, macchia mediterranea. Fresco e succoso al palato, vi ritroviamo quanto percepito al naso, frutta a polpa gialla, erbe aromatiche, chiude leggermente amarognolo su sentori di salvia. 


Vermentino di Sardegna Doc “Lucean Le Stelle”

Le uve vengono selezionate dalle migliori vigne aziendali, alcune delle quali raggiungono i trent’anni d’età. Sono 15.000 le bottiglie prodotte annualmente.
Abbiamo trovato due vini assai diversi tra loro – tra l’altro è cambiata anche la veste grafica - più maturo quello dell’annata 2023, più fresco e verticale – strano poiché quella del 2022 è stata un’annata assai calda- il vino più vecchio, una differenza così marcata ci fa pensare che anche l’interpretazione enologica sia diversa.


2023 - Color giallo paglierino di buona intensità, molto bello. Bel naso, elegante, bel frutto, frutta gialla matura, pesca, erbe officinali, salvia. Dotato di buona struttura, i sentori d’erbe officinali emergono decisi, macchia mediterranea, buona la persistenza su sentori di salvia. 
2022 – Giallo dorato luminoso. Note vegetali al naso, sedano, pompelmo, ricorda un Sauvignon. Fresco, sapido, verticale, vegetale, lunga la persistenza.

Cannonau di Sardegna Doc Rosé Jerzu “Isara” 2023

Le uve provengono dai vigneti più alti, posti a 780 metri d’altitudine Sono 10.000 le bottiglie prodotte annualmente. Color salmone, tendente al ramato. Buona la sua intensità olfattiva, sentori di piccoli frutti di bosco macerati, ciliegia, accenni di tabacco. Fresco e succoso, sapido, discretamente strutturato, frutti di bosco, buona la persistenza. 


Cannonau di Sardegna Doc “Cinquesse” 2020

I vigneti, d’oltre 30 anni d’età, sono collocati sulle colline di Jerzu ad oltre 400 metri d’altitudine su suolo argilloso d’origine scistosa, il sistema d’allevamento è il Guyot con densità di 4.500 ceppi/ha e con resa di 70 q.li/ha. Fermentazione in acciaio con macerazione per 25 giorni e malolattica in legno di rovere, l’affinamento s’effettua in tonneaux di rovere francese dove il vino sosta per sei mesi.


Color granato di media intensità. Intenso al naso, balsamico, frutto rosso macerato, legno dolce, sottobosco, humus, foglie umide, radici, liquirizia.
Dotato di buona struttura, intenso, speziato e con leggera pungenza, probabilmente dovuta all’elevato tenore alcolico percepibile, tannino deciso, radice di liquirizia, legno ancora da digerirsi, lunga la persistenza. 

Cannonau di Sardegna Riserva Jerzu “Is Baus” 2019

Prodotto con uve provenienti da 10 ettari di vigne di 40 anni d’età, situate a 500 metri d’altitudine nell’areale di Is Baus nel comune di Jerzu, allevate in parte a Guyot ed in parte ad alberello, con densità di 5.000 ceppi/ettari, il suolo è sabbioso d’origina granitica e la resa è di 60 q.li /ha. Vinificazione in vasche d’acciaio con macerazione per 25 giorni, malolattica in legno di rovere ed affinamento in barriques e tonneaux di rovere francese per 12 mesi.


Granato di buona profondità. Intenso al naso, liquirizia forte, frutta a bacca scura, spezie dolci. Strutturato, intenso e con buona nota alcolica, un poco austero, tannino deciso, buona vena acida, frutta a bacca scura, liquirizia forte, radici, lunga la persistenza. 

Cannonau di Sardegna Riserva Jerzu “S’Alinu” 2019

Le uve provengono da cinque ettari di vigneti situati negli areali di S’Abba e S’Alinu, nel territorio di Jerzu. I vigneti, situati su suoli scistosi, calcarei, franco argillosi, hanno 50 anni d’età e sono situati a 600 metri d’altitudine e sono condotti parte a Guyot e parte ad Alberello con densità di 5.000 ceppi/ha, la resa è di 50 q.li /ha. La vinificazione è la medesima dell’Is Baus.


Color granato di buona profondità. Elegante, balsamico, frutto rosso maturo, prugna, spezie dolci. Intenso e strutturato, sapido, speziato, liquirizia, con buona trama tannica, lunga la persistenza.

Vigne di 100 anni 2022

Un vino nuovo, ancora in affinamento, assaggiato in anteprima. Color rubino profondo. Frutto rosso maturo al naso, prugna, vinoso, leggera pungenza. Molto intenso, fruttone alla bocca, spezie dolci, accenni piccanti.

Cannonau di Sardegna Riserva Jerzu “Josto Miglior”

Due le annate degustate di questo vino dedicato al fondatore della cantina, prodotto con uve provenienti dai migliori vigneti aziendali.


2020 – Color granato profondo. Intenso al naso, balsamico, prugne secche, note surmature. Strutturato, succoso, con buona trama tannica, chiude leggermente amaricante. 
2021 – Granato meno intenso del precedente. Bel naso, fresco, balsamico, presenta un buon frutto. Fresco e succoso alla bocca, balsamico, mediamente strutturato, buon equilibrio complessivo e lunga persistenza.

InvecchiatIGP: Poggio Antico - Rosso di Montalcino DOC 1993


di Stefano Tesi

Poiché sono vecchio del mestiere, nella sede odierna non voglio certo immischiarmi nelle polemiche e nelle dietrologie legate al recentissimo aumento del 60% della superficie della celebre doc montalcinese, sulle quali - e sulle logiche delle quali - andrebbe aperto un capitolo a parte. Agli attuali 519,7 ettari si potranno infatti aggiungere ulteriori 364 ettari (+60%), ma senza l’impianto di nuove vigne: “gli ettari aggiuntivi rivendicabili”, comunicano gli organi consortili, “fanno infatti parte delle mappe del territorio come quota di vigneti coltivati a Sangiovese ma liberi da albi contingentati. In termini di bottiglie, la produzione potenziale aggiuntiva del Rosso sarà di poco superiore ai 3 milioni che si andranno a sommare alla media attuale di circa 3,6 milioni di pezzi l’anno”.


Né voglio addentrarmi in definizioni più o meno surreali ascoltate qua e là a proposito di questo vino (si va dal “da piscina” a “contemporaneo”, termine oggettivamente insopportabile) che, un ventennio fa, grazie alla propria linearità e alla mancanza di “palestra”, rischiò seriamente di sostituirsi, nei gusti di una percentuale minoritaria ma non troppo di stampa e consumatori, al fratello maggiore Brunello. Men che meno desidero schierarmi a favore o contro chi, per ragioni anch’esse lunghe da spiegare adesso, vorrebbe o affossarlo del tutto, come una sorta di inutile e meno remunerativa brutta copia del principale vino ilcinese, oppure farne qualcosa di talmente “altro” da non avere quasi più nulla in comune, se non la provenienza geografica e il vitigno, col primo.


Sono qui invece perché - alla terza edizione di “Red”, la giornata che da qualche anno il Consorzio del Brunello di Montalcino dedica alla valorizzazione del Rosso e che nel 2024 coincideva col 40° anniversario della nascita della denominazione - mi sono imbattuto in alcune classiche “vecchie annate”, come si usa chiamarle, che mi hanno davvero sbalordito per longevità e spessore. Devo ringraziare il collega Riccardo Viscardi per averle selezionate con un approccio saggiamente laico e con l’aiuto, va detto, dei produttori. “Per individuare le bottiglie da portare oggi in degustazione – ha detto uno di quelli “storici”, Francesco Ripaccioli di Canalicchio di Sopra – abbiamo chiesto ai soci di portare annate a loro scelta, anche vecchie, e le abbiamo assaggiate alla cieca, cercando di farlo però mettendoci nei loro panni e nel loro gusto: perché il tal vignaiolo ha scelto proprio questo Rosso? Abbiamo insomma cercato di capire se e quale fosse la loro visione di questo vino”.



Si è trattato di un viaggio oggettivamente affascinante, capace di riavvolgere lentamente un film che, a causa dell’effetto-schiacciamento del tempo, tende a volte a sembrare troppo rapido e lineare. Ne è emerso invece il quadro potente di un vino che non ci è parso aver nulla di balneare o di contemporaneo ma al quale, nel lungo periodo, la mancanza di troppi riflettori addosso fa indubbiamente bene.


E si arriva così all’assaggio di questo Rosso di Montalcino di Poggio Antico, vendemmia 1993 (“annata fresca e tardiva”, ci ricordano). Naturale che ti aspetti un vino quasi decrepito, messo lì ad aprire il parterre dei roi un po’ per fare notizia e un po’ dimostrare, al massimo, in che modo un pur ottimo prodotto sappia invecchiare con dignità. Invece nulla di tutto questo. Il colore è ancora integro, al netto di una naturale e non eccessiva aranciatura che dà l’idea di senectutem sì, ma non certo molestam.


Al naso questo Rosso è invece pieno e avvolgente, la sua evoluzione è solida, ben contenuta tra sentori terziari asciutti (cuoio secco, tabacco) e composti, con un frutto ancora presente e una morbidezza eterea, elegantissima, piena di sfumature. Altra sorpresa al palato: il primo impatto è di una potenza quasi spiazzante e di un corpo marcato che poi, piano piano, preso trascolora in una lunghezza avvolgente, fatta di tannini fini e di un’acidità che fa ancora capolino, sostenendo il sorso. In sintesi, una bottiglia sontuosa. Ma solo se degustata in tempo: dopo mezz’ora passata nel bicchiere la sua verve sembra appannarsi progressivamente e il gran vino diventa “solo” un grande vecchio dotato di una pur rispettabile e piacevolissima dignità. Comunque sia, non è poco.