Gilberto Farina, chef-patron del Ristorante La Piana racconta la sua ristorazione in tempo di Covid - Delivery IGP


di Lorenzo Colombo

Ciao Gilberto, inizia col dirci quando hai iniziato la Tua attività nel mondo della ristorazione. 

Ho aperto il mio locale Ristorante La Piana, nel 1993, a Castello di Brianza, in provincia di Lecco e, dal 2008 ho trasferito l’attività a Carate Brianza.


Bene, ma prima di aprire un tuo locale che esperienze hai avuto?

Nel 1987 mi sono diplomato alla scuola alberghiera e, durante i mesi estivi da studente, nei primi anni ‘80, ho fatto due stagioni a Londra. Dopo il diploma, sono seguiti tre stage presso Georges Cogny, quando, lasciata l’Antica Osteria il Teatro di Piacenza, si era trasferito in Valnure, nel suo primo locale, La Cantoniera.

Altre esperienze?

Ho lavorato alla Vecchia Filanda di Cernusco sul Naviglio, Stella Michelin e nei primi anni novanta, sono stato per un anno all’Enoteca Pinchiorri, a Firenze.

Cosa ne hai tratto da queste esperienze?

Mi si è aperto quel mondo che la sola scuola alberghiera non può darti, soprattutto da Cogny e da Pinchiorri; a Firenze, in particolare, mi occupavo delle carni che spesso vedevano nelle loro preparazioni l’utilizzo del vino ed ho quindi avuto l’opportunità di assaggiare vini provenienti da tutto il mondo scoprendo così un universo di cui  mi sono innamorato.


Veniamo ora alle problematiche causate da quest’epidemia. Come ti sei comportato durante il primo lockdown
?

Abbiamo chiuso subito, avvertendo la responsabilità di dover contribuire alla sicurezza ed agli sforzi che l’intero Paese stava mettendo in campo per contenere la diffusione del virus, usufruendo in parte della cassa integrazione verso i nostri cinque collaboratori; abbiamo riaperto ai primi di giugno.

Come hai sfruttato quei mesi di chiusura forzata? 

Ne abbiamo approfittato per sistemare  i locali, riorganizzare la cantina, mettere in pratica tutte le disposizioni ed attuare i protocolli che ci potessero permettere di riaprire in sicurezza al termine del lockdown. Inoltre mi sono riguardato tutti i menù proposti dal 1993 ad oggi, ho rivisto ed in parte ampliato il Menù Business per il pranzo ed ho trovato il tempo per studiare, leggendo i numerosi libri a tema “cibo e vino” della mia biblioteca. Ho cercato inoltre di mantenere il contatto con i miei clienti attraverso l’invio di Newsletter, proponendo anche blog di ricette ed un questionario per capire cosa loro si aspettavano alla riapertura.

Quindi non hai pensato di attivarti con l’asporto ed il delivery?

No, nella prima fase del lockdown sia il ristorante che la locanda erano completamente chiusi.

Quanto t’è costata la chiusura? 

In termini economici ci sono stati i costi di adeguamento alle nuove normative, i corsi di aggiornamento e formazione per il personale, la dotazione degli strumenti di sicurezza e poi la riduzione del 40% dei coperti dovuti ai distanziamenti.

Com’è andata la riapertura estiva?

Bene, i clienti abituali non vedevano l’ora di poter nuovamente sedersi al tavolo di un ristorante, però è durata poco. 

E, nel secondo lockdown?

Abbiamo attivato l’attività di asporto alla riapertura di giugno e l’abbiamo sempre mantenuta come proposta. Al secondo lockdown, lavorando da solo, ho cercato di diversificare le proposte di asporto a cui si è aggiunto il servizio delivery a causa dell’impossibilità di spostamenti tra comuni, ma senza risultati entusiasmanti, qualcosa in più s’è smosso a fine novembre ed allora, a turni, ho fatto rientrare il personale.

E con la locanda?

L’abbiamo riaperta ad ottobre, ma praticamente è stata poi quasi immediatamente richiusa.

Com’è andata la prima giornata di riapertura? (L’intervista è stata effettuata lunedì 14 dicembre, il giorno prima, domenica 13, la Lombardia è rientrata in zona gialla)

Direi molto bene, il locale era praticamente quasi pieno, 35 coperti sui 40 possibili rispettando i distanziamenti previsti.

Ho visto che recentemente hai cambiato la specialità del Menù del Buon Ricordo. 

Si, dopo 5 o 6 anni di “Millefoglie di riso croccante con ragù di pasta di salame fresca” ho voluto cambiare, ora il Piatto del Buon Ricordo è dedicato a “Tagliatelle e Misultitt”, ovvero gli Agoni essiccati del Lario, il piatto avrebbe dovuto essere presentato alle Officine del Volo a Milano lo scorso 1 dicembre, in occasione dell’annuale presentazione dei nuovi soci, ma ovviamente l’evento è stato sospeso ed ha potuto svolgersi unicamente in modo virtuale.


La tua ricerca sui formaggi continua?

Certamente, mercoledì prossimo mi sono recato in Valsassina per ritirare le ultime stagionature.

Per quanto riguarda le serate a tema e quelle pre-teatro?

Siamo riusciti a fare una serata a tema dedicata ai formaggi ad ottobre, poi ci hanno nuovamente chiusi; per quanto riguarda il teatro, la stagione è stata annullata e quindi non se n’è fatto più nulla.

Pensi che i ristori messi in atto dal governo possano essere stati sufficienti? 

Le discussioni sul tema sono su tutti i giornali, da buon brianzolo chiedo solo la possibilità di lavorare, in sicurezza adottando tutte le misure necessarie e di poter continuare a credere nella professione che ho scelto, nei suoi valori e nelle sue potenzialità.


E per quanto riguarda il futuro? 

Dopo 28 anni la passione c’è ancora tutta, altrimenti non si potrebbe fare questo lavoro, ma il morale è sotto i piedi.

Per quale motivo? 

Innanzitutto la burocrazia, che ormai occupa il 50% del mio tempo, continui nuovi adempimenti e aggiornamenti che richiedono molta attenzione con il ricorso a specialisti che incidono negativamente sui costi. Poi l’impossibilità di poter programmare il proprio lavoro, la mancanza di tempi certi in cui poter operare e la difficile gestione in questo scenario della attività di ristorazione.

Ultima domanda: so che la tua figura professionale si completa anche con l’attività di insegnamento, cosa ne trai da questa esperienza?

Ho iniziato l’attività di insegnamento da qualche anno, la scuola presso cui opero è cresciuta nel tempo ed io insieme a lei. Il desiderio di poter trasmettere la mia passione in cucina alle giovani leve, nella scuola ha trovato la sua realizzazione e nel confronto con il corpo docenti una nuova realtà in cui acquisire e trasmettere nuovi stimoli sia umani che professionali.

Io, Stefano Frassineti, vi racconto come tra Locanda Toscani e Le Tre Rane di Ruffino affronto la pandemia - Delivery IGP

di Stefano Tesi

Ironia e creatività non sono un vaccino contro il Covid, ma possono aiutare a far sopravvivere le attività, tenere su il morale e magari individuare opportunità nuove per ripartire. Con la consueta causticità Stefano Frassineti, patron della Locanda Toscani da Sempre di Pontassieve e chef de Le Tre Rane di Ruffino si esprime a 360° sulla pandemia, la crisi della ristorazione, i movimenti di protesta dei ristoratori e la necessità di lambiccarsi il cervello per arrivare vivi al momento in cui, si spera, tutto ciò sarà solo un ricordo. 


Come pochi altri ti sei dato da fare in questi mesi per tenere vivi il tuo lavoro e la clientela con servizi divertenti e invitanti. Ci fai qualche esempio?

Dopo i primi giorni, che per me sono stati di knockdown più che lockdown, ho preso consapevolezza della situazione e a metà marzo ho cominciato un delivery particolare, in collaborazione con Ruffino e lo studio di architettura Qart progetti: Cappuccetto (G)Rosso. Portavamo nelle case, oltre al piatto del giorno, anche una fiaba. Cambiando anche questa ogni giorno. E’ stato un momento particolarmente emozionante e anche di grande successo. Con la seconda chiusura ho deciso invece di lanciare i “kitte”, insomma un kit o una “scatola di montaggio” se preferisci, ovvero un contenitore con dentro tutto il necessario per farsi in casa un piatto da ristorante, ricetta compresa ovviamente. Anche quest’idea sta avendo molto successo, tanto che lo proporremo pure come regalo di Natale ”alternativo” insieme ai prodotti d’eccezione della Valle del Sasso di Santa Brigida, nostro fornitore di carni e salumi pregiatissimi.

Il "kitte" ha avuto una bella eco mediatica: credi la formula possa avere un seguito in tempi "normali" o sia addirittura un “modello di business”?

Credo di sì: ritrovata normalità, resta una formula che permette ai buongustai e agli amanti della cucina di cimentarsi anche in piatti anche elaborati, grazie all’assistenza di un tutor professionale, cioè io, che però non sarà in presenza, ma in video.


In effetti si discute molto se delivery e asporto siano "toppe" anti-emergenza o appunto nuove vie commerciali per la ristorazione: fuori dal tuo specifico, qual è la tua opinione?

Personalmente credo che siano un’opportunità oggettiva, ma in concreto penso vadano sempre valutati caso per caso e attentamente contestualizzati. Possono ad esempio essere una buona possibilità per allargare il giro di affari nelle grandi città. E magari, una volta messe a punto, che abbiano perfino le caratteristiche per diventare vere e proprie attività autonome, distaccate da quella di ristorazione in sé. Le variabili sono però moltissime e andrei causo a spacciarle come una panacea buona per tutti i mali del settore.

Hai in mente altre "trovate” nel il caso in cui - speriamo di no - il periodo di crisi dovesse andare avanti ancora per molti mesi e magari fino al 2022?

Al momento, se penso al 2022 come anno di uscita dal Covid, mi prende lo sconforto e non ho assolutamente idea di cosa potrei inventarmi per passare altri dodici mesi anno come questi che stanno finendo. Detto ciò, se il peggio dovesse succedere qualcosa in mente ce la faremo venire di sicuro. Ma è presto per saperlo ed io sono troppo concentrato sull’immediato, che è bello pesante già di per sè.


La Toscana è stato il cuore della protesta dei ristoratori, poi dilagata in tutta Italia. Quanto sei stato coinvolto e perché, secondo te, i risultati sono stati inferiori alle attese?

In realtà partecipo marginalmente alla protesta dei ristoratori toscani, li seguo ma non sempre condivido i toni e i modi della protesta. Credo comunque che la classe politica abbia risposto malissimo alle necessità della nostra categoria,  tirando fuori norme e regole una più imbarazzante dell’altra e sempre molto penalizzanti per tutti noi, senza nessunissima logica. Mi sono imposto però di non arrabbiarmi più di tanto e di essere il più sereno possibile, anche se è dura.

La ristorazione conosce molte tipologie. Da tuo punto di vista quali di questi settori sta soffrendo di più e quali avranno più difficoltà a riprendersi?

Il settore più in difficoltà in questo momento è senza dubbio la ristorazione turistica nelle città d’arte, che risente in maniera pesantissima della mancanza di turismo straniero e delle restrizioni per quello italiano, anche se probabilmente sarà anche quella che avrà il rimbalzo maggiore quando si tornerà alla normalità. Viceversa, la ristorazione media e di campagna potrebbe avere una crisi più lunga e difficile, perchè metà degli italiani non lavora, l’economia precipita, i redditi crollano e quindi, anche quando tutto sarà finito, ci saranno pochi soldi da destinare al ristorante.

Come gestisci in questa fase il rapporto con fornitori, anch'essi in difficoltà? Esiste il rischio che la crisi della ristorazione si allarghi ai produttori di vini, formaggi, salumi, etc.?

E’ un rischio reale e molto serio e purtroppo in alcuni casi è già una realtà. Tanti piccoli produttori di eccellenza stavano in piedi perché la ristorazione assorbiva e promuoveva i loro prodotti. Chi non aveva già una struttura commerciale solida, ad esempio una vendita diretta o una vendita on line fa già affermate, farà molta fatica. Credo però che questa possa anche essere una grossa occasione per creare legami nuovi e più profondi tra ristoratori e produttori nel nome della qualità, perchè una ripresa anche morale di questa monnezza di società non può che passare anche attraverso il recupero di certe cose…ma questa è un’altra storia.


Oltre che patron della locanda sei anche chef de Le Tre Rane di Ruffino: in che consiste, se c’è, la differenza tra strutture così diverse in un periodo di pandemia?

Sostanzialmente c’è  una sola ma grande differenza: Ruffino può affrontare questa crisi con maggiori mezzi e con migliori competenze. Tra le due realtà, organizzativamente parlando, non c’è paragone. Al momento della ripartenza, speriamo presto, Le Tre Rane saranno prontissime fin da subito. Noi, chissà…

Zidarich: come nasce il vino di un grande vignaiolo del Carso


Il Carso, terra aspra, di confine, che si estende nel nord-est dell’Italia e, attraverso la Slovenia occidentale e l’Istria settentrionale, prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie (Croazia), è ragione di vita e lavoro di Benjamin Zidarich, vignaiolo di Prepotto, località a qualche chilometro in linea d’aria dalla bellissima Trieste.

Benjamin Zidarich

Sono andato a trovarlo una mattina di estate ed entrare nella sua piccola azienda agricola, che è anche una apprezzata Osmiza, fa comprendere al visitatore quanto è duro lavorare in un territorio plasmato da tre elementi naturali: mare, vento e, soprattutto, roccia. D’altronde Carso deriva da “kar” o “karra”, parola di origine paleoindoeuropea che significa proprio roccia, pietra, che in questa regione è ricca di calcare e gesso, assolutamente permeabile, tanto che l’acqua filtra facilmente, arricchendosi di anidride carbonica, tanto da scavare nel sottosuolo grotte e gallerie dando origine al fenomeno che, guarda un po’, è noto come carsismo.

Benjamin mi aspetta tra le sue vigne, con affaccio sul golfo triestino, le cui radici affondano su qualche centimetro di terra arida, rossa, per poi abbracciare profondamente il calcare. Attualmente la sua azienda si estende per circa 10 ettari divisi in 30 parcelle (alcune situate anche oltre confine) dove, ad una altezza di circa 250 metri s.l.m., troviamo prevalentemente piante di vitovska (70% del totale), malvasia istriana, sauvignon blanc, terrano e merlot. Tutti i vigneti sono ad alta densità di impianto, dagli 8.000 ai 10.000 ceppi per ettaro, allevati prevalentemente ad alberello e le rese, come facile immaginare, sono molto basse (circa 35 q\ha). 


Tutto questo – spiega Zidarich – ci garantisce un grande equilibrio, fondamentale per la mia filosofia produttiva, visto che tutti i miei vini prevedono una macerazione per cui l’uva deve essere il più possibile sana e a giusto livello di maturazione. Io sono fortunato, vivo nel Carso, il vento che spira costantemente tra le vigne mi evita di effettuare qualsiasi trattamento chimico se con quelli necessari usando solo ed esclusivamente rame e zolfo”. 


Attenzione, però, a parlare di biologico con Benjamin perché la sua risposta potrebbe essere la seguente: “Siamo in regime bio da oltre venti anni ma, purtroppo, questa cosa non la pubblicizziamo perché quando vedi in giro bottiglie di Prosecco, prodotte da grandi aziende, con in etichetta la fogliolina verde della certificazione allora c’è qualcosa che non mi convince…...”.

Scasso e visione della roccia sotto le vigne

Ciò che rende imperdibile la visita da Zidarich è sicuramente la sua cantina, una vera e propria cattedrale del vino scavata nella roccia, a 20 metri di profondità, che rappresenta un vero e proprio viaggio al centro della terra del Carso e della sua matrice geologica. 


Un luogo suggestivo, opera del progettista ed architetto Paolo Meng, inaugurata nel 2009, ancora oggi in fase di ampliamento, che si sviluppa per circa 1.200 metri quadri suddivisi in quattro piani che ospitano tutto l’intero processo produttivo che culmina con la sala di degustazione, posta al livello più alto, dove una grande vetrata si affaccia su parte delle vigne aziendali.


Percorrere la cantina, ricca di pilastri, capitelli e volte in pietra carsica scolpita, è davvero suggestivo, la filosofia naturale di Zidarich, la sua essenzialità, si può toccare con mano perché in questo luogo manca quasi del tutto l’energia elettrica così come assenti, perché davvero non servono, sono i condizionatori d’aria perché si è prevista l’esistenza di feritoie naturali nella roccia che possono essere chiuse o aperte manualmente. 


Io lavoro enologicamente come si faceva una volta, ma senza esagerazioni, perché nel mio vino amo “sentire” la semplicità e il frutto. Questo risultato - spiega Zidarich mentre mi fa degustare qualche campione da botte - lo ottengo attraverso macerazioni al massimo due settimane, se fermento in legno, oppure di circa un mese se la vinificazione si svolge in tini di pietra carsica. Con questo materiale i tempi di fermentazione si allungano naturalmente. Per quanto riguarda l’affinamento, si usano solo botti medie e grandi di rovere di Slavonia dove i vini bianchi riposano per almeno due anni mentre i rossi hanno bisogno di più tempo. Il mio Ruje, ad esempio, è una riserva che affina per circa 5 anni”. 


E’ tempo di ritornare in superficie e di degustare i vini di Benjamin, costituiti prettamente da bianchi, che sono suddivisi in 4 linee: Green, Classica, Kamen e Collezione. 

Zidarich – Vitovska 2017: l’interpretazione di classica e didattica di questo vitigno è assolutamente convincente grazie ad un naso con ricordi fioriture estive, mela golden e carismatici sbuffi minerali. Sorso sapido, scorrevole, la beva piacevole e di buona lunghezza. 


Zidarich – Malvasia 2017: sono innamorato della malvasia istriana e del suo modo di interpretare il territorio senza eccessive concessioni aromatiche. Il bouquet floreale presenta sentori di ginestra, pompelmo rosa, erbe officinali in un finale di calcare. Sorso intenso, di impeccabile equilibrio, scosso da sapidità e freschezza agrumata. Il Carso dissetante che mi piace assai! 


Zidarich – Prulke 2017 (60% Sauvignon, 20% Vitovska 20%, Malvasia 20%): questo blend a base sauvignon blanc è una sorta di sintesi territoriale dove spiccano di ginestra, melone giallo, erbe aromatiche, buccia di mela e camomilla setacciata. Al gusto dimostra succosità, verticalità ed una avvolgente o, meglio, travolgente trama sapida che accompagna il finale quasi salmastro.


Zidarich – Kamen 2017 (100% vitovska): Benjamin è stato il primo nel Carso a vinificare in tini di pietra (Kante, prima di lui, faceva solo affinamento) che rappresentano una sorta di valida alternativa al rovere. I tini di Zidarich, tutti in pietra locale e realizzati dai maestri Marko e Kristjan Zidaric, sono formati da 5 pezzi di marmo impilati ed assemblati. Come detto in precedenza, la vitovska, una volta diraspata, viene macerata sulle bucce per circa un mese per poi affinare 22 mesi in botte di rovere. Il risultato di tutto questo è una vitovska diversa dalla precedente, in questo caso c’è profondità, struttura e un grande respiro sapido. Sorso di classe e armonica potenza che sfociano in un allungo freschissimo e dissetante. Grande vino! 



Zidarich – Teran 2017 (100% terrano): bella e tipica espressione di terrano dal frutto denso, dove ritrovo il frutti di bosco e la ciliegia matura a cui seguono echi di timo, erbe della macchia carsica, rabarbaro, ginepro e ferro liquido. Tipica impronta acida, ben equilibrata, accarezzata da un tannino ben ordinato e di rara precisione. Un vino affatto potente che ha come punti di forza la sua beva irresistibile e la sua grande versatilità negli abbinamenti gastronomici. Io, ad esempio, l’ho bevuto assieme al salame artigianale prodotto da Zidarich e sono andato in estasi…


Zidarich – Ruje 2013 (85% merlot, 15% terrano): un blend di assoluto impatto che sprigiona intensi profumi di fiori scuri macerati, marasca, bastoncino di liquirizia, felci, sottobosco e sbuffi di macchia mediterranea e grafite. Rotondo al sorso, di vellutata trama tannica e lunga persistenza sapida. Allungo deciso, austero, che termina su richiami di frutta rossa matura e mineralità scura. 



Il Centro, la stella Michelin che "odia" l'asporto e aspetta tempi migliori per riaprire - Delivery IGP


di Carlo Macchi

Il centro non è solo un ristorante del cuore, è IL MIO ristorante del cuore. Si trova al confine tra Langhe e Roero, in un paesino di poche anime, Priocca. Ha da anni la Stella Michelin (confermata anche quest’anno) ed è gestito dalla famiglia Cordero da cui cercherò, per Delivery IGP, di sapere cosa sta succedendo nella ristorazione di classe che si trova “in provincia”. Sarà un ‘intervista a tre voci, quella di Enrico Cordero patron del locale, di sua moglie Elide che gestisce in maniera impeccabile la cucina e del loro figlio Giampiero, che da alcuni anni affianca il padre in sala e cura il settore vini. 


Da quanti anni c’è il Centro? 

Enrico Cordero “La nostra famiglia ce l’ha dal 1956 però il locale esiste dal 1860 circa.” 

Da chi è composta la clientela del ristorante? 

En.C. “All’inizio è stata una clientela locale e dei paesi vicini, poi sono iniziate ad arrivare persone legate al mondo del vino e clienti da tutta la provincia e poi, da quando Elide ha preso in mano la cucina, abbiamo persone che vengono da Torino, da Milano, dalla Svizzera.” 


Il Centro è un punto di ritrovo per produttori di vino che vi portano i loro clienti. Anche dopo la prima ondata Covid e prima della chiusura per la seconda ondata è stato così? 

Giampiero Cordero “Quando sono entrato a lavorare con mamma e papà il Centro lavorava già tantissimo con i produttori e oggi questa caratteristica si è ulteriormente rafforzata con produttori di vino che arrivano non solo dal Piemonte ma anche da altre regioni come Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e addirittura dalla Borgogna. 

Adesso, con il problema Covid e l’attuale suddivisione in regioni rosse, arancioni e gialle, questo tipo di clientela è diminuito?

G.C. “Per fortuna no, non so dirti cosa succederà da domenica (domenica 13 dicembre il Piemonte è tornato in zona gialla) ma in periodo post lockdown bisogna dire che la fortuna delle Langhe è quella di avere tanti produttori che hanno sposato la scelta di supportare la ristorazione locale, quindi noi ogni giorno abbiamo avuto come minimo tre o quattro produttori a pranzo o a cena (quando si potevano fare le cene). Diciamo che cerchiamo di aiutarci a vicenda, i produttori frequentando i locali e i ristoratori comprando i vini, magari in quantitativi un po’ inferiori rispetto al passato.” 


Avete notato se, durante il periodo tra la prima e la seconda ondata, la gente abbia cambiato modo di approccio: se spende meno, o di più, o più nel cibo e meno nel vino. 

G.C. “Per quanto riguarda il livello di spesa non è cambiato quasi niente, è cambiata la richiesta nel campo del vino: prima del lockdown si vendevano soprattutto vini piemontesi e di Langa, mentre dopo, con i “confini chiusi” molte clienti di zona preferiscono vini fuori regione.” 

Adesso una domanda per Elide. I vostri sono piatti che affondano nella tradizione e volano per attenta innovazione. Con il problema Covid hai cambiato qualcosa in cucina? 

Noi non abbiamo cambiato nulla in cucina perché abbia voluto mantenere lo stesso livello qualitativo, anche se le difficoltà erano e sono aumentate. Non sapevi e non sai mai se e quando si potrà lavorare e questo crea problemi negli acquisti e nella gestione globale, ma noi abbiamo sempre mantenuto i nostri piatti, che sono un mix tra tradizione e innovazione. Non abbiamo tolto nessun piatto e anzi, ove possibile, abbiamo cercato di offrire qualcosa in più. Ci stiamo già preparando perché domenica 13 dicembre dovremmo diventare zona gialla (l’intervista è stata fatta giovedì 10) e abbiamo una voglia matta di far star bene le persone che vorranno venire da noi.

Fate asporto?

El.C. “Abbiamo scelto di non farlo per vari motivi. In primo luogo siamo a Priocca, un piccolissimo comune e quindi non abbiamo un bacino importante di clienti possibili a cui rivolgerci. Fossimo stati in una cittadina con almeno 10-15.000 abitanti sarebbe stato diverso. Inoltre fare piatti da asporto voleva dire creare dei piatti più semplici che difficilmente avrebbero rispettato il nostro standard. Infine consegnare i nostri piatti che sarebbero poi stati riscaldati non ci sembrava la strada giusta per mantenere alta la qualità.” 

Quindi siete chiusi. 

El.C.”Noi ad oggi siamo chiusi, stiamo iniziando a prepararci per domenica sperando di riaprire anche se nessuno riesce a darci indicazioni certe.” 

Allora siete stati fermi per tante settimane: con il personale come avete fatto?

El.C. “Chi poteva è tornato a casa, chi veniva da molto lontano si è fermato a Priocca e comunque sono tutti in cassa integrazione. E noi è dai primi giorni di novembre che siamo fermi.” 

Giampiero Cordero “Mi sembra giusto aggiungere che non è che siamo stati fermi per un mese e mezzo. Da buoni piemontesi fermi non riusciamo a stare e così abbiamo sistemato varie cose nelle sale, messo a posto la cantina, insomma fatto con calma tanti lavori che andavano comunque fatti. Sul delivery sono d’accordo con mia madre e anch’io ho pensato che non solo c’era il rischio di non dare un grande prodotto ma rischiava anche di essere non conveniente dal punto di vista finanziario. 


Se tu Elide, fossi Presidente del Consiglio quale sarebbe la prima cosa che faresti? 

“Innanzitutto non andrei a chiudere a settori. Prendiamo una famiglia tipo: il bambino piccolo va a scuola perché, dicono, non può essere contagiato. La mamma magari lavora in un ristorante e quindi è a casa perché il locale è chiuso. Il papà lavora in fabbrica e esce tutte le mattine incrociando tantissime persone sui mezzi pubblici e al lavoro. Che senso ha far chiudere i ristoranti se comunque la stragrande maggioranza delle persone può girare, contagiare e contagiarsi? Farei un lockdown totale per azzerare i contagi e basta.” 

Enrico, invece tu cosa avresti fatto? 

“Io avrei tenuto aperti i locali che erano a norma e in sicurezza. Nei paesi piccoli come il nostro abbiamo fatto carte false per far arrivare persone da fuori e poi ci chiudi per mesi, però nelle grandi città se succede qualcosa, anche se vince la squadra di calcio, ci sono enormi assembramenti.” 

Tocca a Giampiero 

“Da una parte concordo con mia madre, specie per la gestione del locale, dall’altra avrei tenuto aperte solo quelle realtà che potevano essere controllate e che applicavano le regole alla lettera. Magari avrei ridotto ancora la capienza dei ristoranti, però avrei lasciato aperto i locali perché non ha senso vedere piazze stracolme di persone e noi dobbiamo stare attenti al metro o ai due metri di distanza. Magari non avrei riaperto le scuole, lasciato aperti i locali e avrei potenziato i mezzi pubblici, diminuendone nello stesso tempo la capienza. Non ha senso chiudere i ristoranti e lasciare aperte le metropolitane. 


Una curiosità? La vostra clientela era /è rispettosa delle norme anticovid, mascherina etc, oppure avete dovuto intervenire spesso? 

G.C. “Fortunatamente sono sempre stati rispettosi, si scordavano solo di mettersi la mascherina quando dal tavolo, dovevano andare in bagno. Ma come glielo facevi notare rimediavano subito” 

Adesso, se riaprirete domenica prossima, i distanziamenti saranno quelli di prima? 

G.C. “Sono gli stessi ma devo dire che a noi questo distanziamento non ci ha cambiato molto le cose perché i tavoli erano già abbastanza larghi e a locale pieno abbiamo sempre due metri tra un tavolo e l’altro e un metro tra commensali.” 

Grazie mille a tutti e tre e speriamo di vederci presto.

Villa Bucci - Rosso Piceno DOC "Pongelli" 2018


di Carlo Macchi

Tutti noi conosciamo Ampelio Bucci per i i suoi Verdicchio ma questo uvaggio paritario di montepulciano e sangiovese mostra al meglio la potenza del primo e l’eleganza del secondo, il tutto condito da un naso fruttatissimo con fini speziature. 


Buonissimo adesso e sicuramente per i prossimi 7-8 anni.

Cose che non vorremmo vedere mai: un Chianti Classico a 3,99 euro!


di Carlo Macchi

Qualche tempo fa ho pubblicato un breve articolo su un Chianti Classico venduto a 2.99 euro (avete letto bene!) in uno di quelli che vengono definiti hard discount, in Toscana, per la precisione a Poggibonsi. Sono tornato qualche giorno fa in quel supermercato e ho trovato lo stesso Chianti Classico, non più scontato, a “ben” 3.99 Euro a bottiglia.


Non ho resistito e ne ho comprata una bottiglia per capire cosa può esserci in una bottiglia che viene proposta mediamente al 70-75% in meno del prezzo di un normale Chianti Classico in enoteca. 
Prima di assaggiarlo ho però ammirato la confezione: etichetta e retroetichetta stampata su carta di discreto valore, tappo di sughero di buone dimensioni e una bottiglia per niente leggera, visto che da vuota pesa ben 620 grammi! Non ho potuto fare a meno di fare due conti in tasca all’imbottigliatore (tal V.S. Srl di Lamporecchio che ha però imbottigliato nello stabilimento di San Casciano Val di Pesa) considerando che tra tappo, etichetta, retroetichetta, fascetta e bottiglia già lì se ne partiva un euro al minimo. Qualcuno obietterà che quando si parla di grossi quantitativi i costi diminuiscono notevolmente ma un euro può essere preso come prezzo medio basso per “il corredo” di una bottiglia. 

Ma veniamo al vino. 

Color rubino brillante quasi porpora, frutto piuttosto intenso con note di frutto rosso maturo, quasi passito e sentori vegetali. Naso non certo difettato anzi, magari potremmo definirlo molto poco tipico per dei sentori di frutta quasi passita al naso che ricordano, tanto per farci capire meglio, il Valpolicella Ripasso. Bocca di medio corpo, con acidità presente. Il vino gira velocemente verso sentori amari, poco piacevoli. E’ abbastanza persistente. Per la cronaca sviluppa 13.5°.


Torno un attimo alla bottiglia per sottolineare una cosa che magari avrete visto anche voi: la retroetichetta in tedesco! Al di là di capire come sia possibile che in un supermercato che si trova a 30 chilometri dal luogo di imbottigliamento si trovi un vino con etichetta tedesca, spero che la logistica della LIDL preveda un magazzino in zona, altrimenti questa bottiglia di Chianti Classico 2018 ha fatto quasi il giro del mondo (con conseguente consumo di carburante e spese relative) prima di arrivare nelle mie mani.


Torniamo a quello che c’è nella bottiglia: siamo di fronte ad un vino certamente non difettato o cattivo anzi: se proprio volessimo dargli un voto potrebbe essere attorno ai 70 punti. Questa bottiglia ha però ha in sé tutte le contraddizioni di una denominazione famosissima ma che non è ancora riuscita a dare un valore certo e stabile al proprio vino. Chi ci rimette in questo caso è sicuramente il produttore, che si trova costretto a vendere il suo prodotto (ripeto, non certo di bassissimo profilo) ad un prezzo che difficilmente può essere remunerativo. Se infatti proviamo ad andare a ritroso e togliendo il prezzo della confezione, del trasporto e il ricarico per la catena che lo distribuisce, se va bene siamo attorno ai 180/200 euro al quintale per lo sfuso. 

Magari diverse denominazioni sarebbero anche contente per un prezzo del genere ma nel Chianti Classico, con costi di produzione sicuramente piuttosto alti, vendere a 200 euro al quintale è a rimessa. Questa è, purtroppo, la tragedia che spesso sta dietro una normale bottiglia di vino e se nel Chianti Classico ci troviamo di fronte ad un grande numero di produttori imbottigliatori è proprio perché è molto difficile sbarcare il lunario producendo e vendendo il vino sfuso.

Intervista al Prof. Luigi Moio che parla fuori dai denti di vino italiano e prospettive future - Delivery IGP


Intervista di Luciano Pignataro al prof. Luigi Moio, ordinario di enologia alla Federico II, produttore e vicepresidente OIV (Organizzazione internazionale della vigna e vino)

Il vino nella sua lunga storia ha conosciuto tante crisi, economiche, storiche, culturali. C'è una specificità di questa in corso?

Le crisi del passato hanno quasi sempre colpito la produzione. Alla fine del diciannovesimo secolo la fillossera, proveniente dall’America, distrusse una enorme quantità di vigneti. Quasi contemporaneamente, oidio e peronospora, due malattie entrambe causate da funghi, compromisero seriamente la coltivazione dell’uva. Poi la crisi del dopoguerra. Tutti periodi che hanno determinato una enorme contrazione della produzione. Circa trentacinque anni fa, in un mercato debole verso l’esportazione ma sufficientemente regolare sulla domanda interna, abbiamo vissuto la crisi epocale e tragica del metanolo, che però, incredibilmente, diventò un trampolino di lancio straordinario verso il successo globale del vino italiano. Dopo quel lontano 1986, che ricordo molto bene per le infinite analisi di vini che eseguii all’università, le parole d’ordine per il vino italiano diventarono: qualità e tracciabilità. Si cominciò a parlare sempre di più del legame tra i vitigni ed il territorio dando vita ad una eccezionale crescita qualitativa fino al successo straordinario degli ultimi anni. 
Oggi, in questa tempesta del Covid-19, lo scenario è completamente diverso. La qualità dei vini è elevatissima, le bottiglie sono sempre le stesse, ma improvvisamente ed inaspettatamente il mercato si è fermato e la domanda è precipitata. Il crollo, tuttavia, è differenziato. Con il canale Ho.re.ca. non più attivo come prima e l’annullamento di cerimonie, pranzi di lavoro, momenti conviviali esclusivi, la domanda di vini di pregio ha subito una significativa contrazione mentre quella di vini ordinari, giornalieri, di largo consumo, presenti soprattutto nella grande distribuzione, in alcuni casi, ha subito un notevole incremento. Stiamo vivendo una crisi che oltre alla elevata riduzione della domanda generale ha creato un forte disequilibrio tra i vari segmenti del mercato del vino che probabilmente provocherà un riposizionamento di una parte dell’offerta. 

Luigi Moio

Quali sono i punti deboli del sistema vino italiano che hanno aggravato la difficile situazione? 

Prima di tutto la mancanza di coordinamento tra gli istituti (pubblici e privati) per la promozione del vino e, in questa disperata fase che stiamo vivendo, una carenza di assistenza e sostegno alle aziende. Purtroppo le aziende vitivinicole italiane soffrono storicamente di un diffuso problema dimensionale (le imprese del vino italiano sono piccole), ciò crea non pochi ostacoli in una economia globalizzata, dove la massa critica è fondamentale. 
Un altro punto debole è, a mio avviso, il disordine tipico del modo del vino in tutte le sue componenti. Nel mercato esistono definiti segmenti (vini di largo consumo, vini premium, top wine, ecc.) ed oggi anche molteplici approcci produttivi quasi tutti orientati verso il biologico, termine che giustamente è diventato un marchio di una modalità di alimentarsi più sana e più naturale. Ovviamente tutti vogliono fare tutto senza indicare in modo chiaro e preciso quali sezioni del mercato si desidera occupare. Questo aumento del caos ha determinato anche uno straordinario ed anomalo affollamento di etichette che sono diventate davvero tantissime, in particolare in riferimento al numero delle etichette prodotte da una singola azienda. A tutti i costi si cerca una diversificazione immediata del prodotto per accontentare tutti, ma in realtà, ho la sensazione che si finisce per non accontentare nessuno. Il Covid ci ha fatto riflettere sul delirio di onnipotenza dell’uomo, il quale deve convincersi che non può fare tutto dappertutto, e anche nel mondo del vino è così! 


Ci sono i presupposti di una ripartenza? E su cosa si basano? 

Certo che ci sono i presupposti per una nuova e straordinaria affermazione del vino italiano nel mondo. Prima di tutto non bisogna perder la forza della nostra Italia che risiede nella sua straordinaria diversità. Il vino è diversità e l’Italia in questo particolare contesto è un paradigma planetario di diversità. In uno scenario mondiale in cui la diffusione sempre degli stessi pochi vitigni, cosiddetti internazionali, ha portato ad un livellamento identitario sotto il profilo sensoriale, i nostri vini ottenuti dai vitigni storici italiani, meglio conosciuti come autoctoni, hanno un vantaggio competitivo enorme anche per il fatto che la scelta degli appassionati si orienta su vini diversi e con una maggiore connotazione territoriale. Ci vuole però un po’ di coraggio e soprattutto una profonda conoscenza tecnica delle differenti varietà di uva e dei processi di vinificazione, i quali dovrebbero essere plasmati sulle caratteristiche dell’uva in modo da ottenere vini che esprimano al massimo il potenziale varietale dell’uva e dei luoghi di origine. Questa è la nostra grande forza e tutto ciò dopo il Covid, deve diventare ancora più valore. 
Inoltre, dopo questo periodo così particolare che ci ha completamente disorientati e confusi, è necessario dare ancora più forza all’enoturismo. Le cantine devono diventare attrattori culturali, bisogna metterle in rete in modo ordinato ed organizzato allo scopo di creare tutte le condizioni per poter fare una buona accoglienza. Oggi chi produce vino non può limitarsi solo al contenuto della bottiglia, è impensabile! Egli non solo dovrà vendere il vino ma anche il luogo in cui si realizza. Il turismo del vino abbinando il vino con il paesaggio genera bellezza. La vista dei vigneti, che danno ordine al paesaggio creando colori meravigliosi con l’alternanza delle stagioni, genera emozioni. Pertanto è necessario prepararsi bene ad accogliere gli appassionati per illustrare e raccontare loro la vita in vigna ed in cantina con estremo garbo, semplicità ed autenticità. 


Un altro punto non più differibile, alla luce dell’enorme crescita della sensibilità ambientale nella società, è l’attenzione ad un’agricoltura sempre più “green”, un’agricoltura “pulita” e “pura” nei confronti dell’ambiente, del suolo, della pianta, degli operatori e dei consumatori. Questi importanti aspetti è necessario affrontarli a livello di sistema e con adeguate conoscenze tecniche contemplando la sostenibilità ambientale di qualsiasi scelta lungo tutta la filiera vitivinicola, dall’uva alla bottiglia. Chiaramente lo stesso discorso vale in cantina dove tematiche come “ecowinery” ed una enologia che amo definire “leggera”, ossia una sorta di “milde-enology”, sono concetti non più procrastinabili che vanno affrontati con profonda umiltà e di conseguenza con l’aiuto della ricerca scientifica e della conoscenza. Non si possono raccontare storielle e favolette, è il momento di essere seri e responsabili, spiegando per bene che cosa è la viticoltura di qualità e che cosa è il vino di qualità. 

Questa crisi ha fatto ripensare i consumi del vino. Si sono rafforzati nuovi sistemi di vendita come l'e commerce e la Gdo. Questo spinge a ripensare anche la produzione nei prossimi anni?

È molto probabile che qualcosa cambierà ed anche in modo molto rapido. Quello che c’era non c’è più. Quando tutto passerà molte cose non saranno più le stesse a cominciare da noi. È necessario riflettere a fondo per intraprendere in fretta un nuovo cammino che consentirà alla nostra Italia del vino di rilanciarsi con nuovi progetti e rinnovate energie verso una sempre più forte affermazione sul piano nazionale ed internazionale. La storia narra che nei momenti di difficoltà nascono grandi opportunità. Nel caso del vino, come ho ricordato prima, è già accaduto trentacinque anni fa con la crisi che seguì lo scandalo del metanolo. Rapidamente l’intero comparto vitivinicolo si trasformò radicalmente portando il vino italiano a livelli di eccellenza qualitativa mai raggiunti prima. La stessa cosa deve emergere da questo brutto periodo che stiamo vivendo. Una crisi terribile che deve tramutarsi in una grande opportunità di rilancio affrontando tutte le tematiche attuali per adeguare l’intera filiera vitivinicola al mondo moderno. La pandemia ha rafforzato scelte che garantiscono maggiore salubrità ed in quest’ottica l’intera filiera produttiva deve assolutamente aumentare gli sforzi per garantire la sicurezza di tutti i consumatori e la sostenibilità ambientale. 
Una grande attenzione bisogna rivolgerla nei confronti dell’agricoltura biologica e sulle sue modalità di esecuzione. Anche in seno all’OIV il dibattito da anni è vivace e le tematiche sulla sostenibilità e sul biologico costituiscono gli assi principali del piano strategico per gli anni futuri. La sensibilità dell’opinione pubblica su questo punto è cresciuta tantissimo ed è impellente la necessità di adottare pratiche agronomiche più rispettose dell’ambiente e della fertilità dei suoli.
In tale ottica questa crisi potrebbe rivelarsi un formidabile acceleratore della conversione dell’intera viticoltura italiana in biologico, cominciando dalle denominazioni di maggior pregio e di maggiore valore. Un processo che, a mio avviso, dovrebbe coinvolgere l’intero paese in tempi rapidissimi in modo da permettere all’Italia del vino di aggiungere alla sua eccezionale originalità varietale e territoriale un altro importantissimo e fondamentale valore. Chiaramente un rinnovamento di tale portata dovrà interessare diversi aspetti dell’intera filiera. Per esempio, mi viene in mente la revisione delle rese massime di produzione soprattutto dove si producono elevate quantità di uva. È una delle tante azioni che è possibile mettere in campo in favore della sostenibilità ambientale, della salubrità e del miglioramento della qualità del potenziale enologico italiano. Bisogna riflettere sul fatto che in futuro non sarà più sufficiente produrre vini buoni, ma diventerà sempre più importante come vengono prodotti, ponendo la massima attenzione al rispetto degli equilibri ambientali ed ai valori etici. 

C'è una incompatibilità strutturale tra vini di alto pregio e la Gdo in Italia?

L’incompatibilità esiste ed è forte se l’offerta è presentata interamente sui generici e sempre più affollati scaffali destinati al vino. In questo caso la confusione tra le innumerevoli tipologie di vino, il ridotto tempo di sosta dei potenziali acquirenti davanti alle bottiglie esposte, l’impossibilità di approfondire argomenti tecnici che portano alla scelta della bottiglia, svilirebbe il valore dei vini di pregio. Al contrario, laddove all’interno della struttura viene prevista una enoteca separata dall’intero contesto e destinata solo ai vini di elevata qualità con personale qualificato ad assistere i clienti, potrebbe esserci una convivenza.

Più in generale, come definire l'attuale situazione del vino in Italia? Quali le tendenze che stanno emergendo e quali modelli sono in declino?

Il vino italiano non è stato mai così buono come oggi. La qualità è cresciuta enormemente. Il problema è la confusione, che è tantissima. Proprio le cosiddette nuove tendenze, i molteplici modi di fare il vino, di proporlo, di raccontarlo, hanno generato un rumore di fondo che disorienta e confonde gli appassionati. Va benissimo cercare nuove strade, oppure riprendere sistemi del passato che, anche se dal punto di vista tecnico non son del tutto chiari, sono comprensibili per i motivi profondi legati al recupero delle origini ed alla ricerca di un contatto più intimo e personale con la terra. Tuttavia non posso sottrarmi dall’invitare a riflettere su alcuni concetti che ho già espresso in passato. Tollerare in modo indiscriminato, in nome di una presunta genuinità, qualsiasi interpretazione produttiva e qualsiasi alterazione sensoriale in un vino, annulla ogni coerenza varietale e territoriale. Purtroppo una ossidazione spinta, una forte riduzione o addirittura chiari sentori di acescenza sopprimono in modo palese ciò che si vuole comunicare attraverso una bottiglia di vino: la sua autenticità territoriale. È evidente che lo stesso identico risultato, ossia il mascheramento ed il depotenziamento della autenticità territoriale del vino, si ottiene anche con un eccesso di note odorose di legno, con una dominanza (in modo particolare nei vini bianchi) di esteri di fermentazione, con interventi invasivi di chiarifica e di filtrazioni molto spinte sui mosti e sui vini che possono ridurre il livello dei precursori d’aroma varietali che, nel libro “Il Respiro del Vino”, ho spiegato con la metafora dei palloncini zavorrati. Le tendenze che, invece, dovrebbero sempre di più emergere in futuro dovrebbero essere dirette davvero all’ottenimento di vini in cui si cerca di esprimere al massimo l’originalità territoriale. È questa l’arma vincente del vino italiano. Tuttavia, non bisogna solo parlarne per meri motivi commerciali, ma occorre percepirla realmente nel bicchiere. È fondamentale pertanto riconsiderare un principio agronomico primario, forse un po’ trascurato negli anni recenti, ossia, favorire l’interazione genotipo/ambiente che equivale a dire: coltivare la pianta che maggiormente si adatta al contesto pedoclimatico in cui si opera. La perfetta sintonia di una specifica cultivar di vite con l’ambiente pedoclimatico in cui vegeta fa si che la possibilità che i grappoli, una volta maturi abbiano tutti i parametri compositivi in equilibrio, sia molto più elevata. Di conseguenza anche il vino che si otterrà sarà armonico in tutti i suoi componenti ed il suo equilibrio sarà principalmente dovuto alla perfetta combinazione tra pianta, suolo e clima, che insieme all’uomo costituiscono la base del concetto di terroir. Se questa naturale armonia del vino non si verifica a causa di uno squilibrio compositivo del grappolo d’uva per una inadeguata sintonia tra pianta, suolo e clima, l’uomo deve intervenire molto di più per compensare, per correggere, per ricomporre un equilibrio. Ecco perché dico spesso che oramai oggi i vini buoni si fanno un po’ dappertutto nel mondo, ma i grandi vini non è possibile farli ovunque ma solo in quei luoghi in cui si verifica una assoluta interazione tra la pianta e l’ambiente pedoclimatico. 
Naturalmente per realizzare tutto ciò è necessario possedere conoscenze tecniche approfondite che abbracciano tutti i settori delle scienze agrarie e saper sempre dubitare: chi ha troppe certezze sulle proprie convinzioni rischia di smarrirsi. Conoscere bene le questioni complesse ci permette di porci delle domande, di ragionare, di prevenire e di conseguenza di intervenire il meno possibile per procedere, invece, in una azione di assistenza dei processi. 
Questi concetti costituiscono, da diversi anni, l’essenza dei miei corsi all’università, lo sanno molto bene i mei studenti ai quali cerco di trasmettere tutte le conoscenze possibili per poter pianificare sin dall’impianto del vigneto il potenziale enologico necessario all’ottenimento di un vino di terroir. 

Le guide tradizionali hanno ancora un senso? Di cosa avrebbe bisogno oggi il mondo del vino sul versante della comunicazione? 

Io amo la carta, adoro l’odore dei libri e mi piace tantissimo il contatto intimo con le pagine, per cui mi dispiacerebbe molto se le guide dovessero lentamente essere sostituite da strumenti mediali. Esse sono state fondamentali per l’affermazione del vino italiano, sia in Italia che nel resto del mondo, realizzando un straordinario lavoro di informazione capillare aiutando ad emergere tante piccole ed ottime realtà aziendali. Purtroppo il Covid sembra averne accelerato la sostituzione con altri mezzi di informazione semplicemente perché ha velocizzato enormemente il passaggio al digitale offrendo al mondo intero nuovi ed innovativi strumenti di comunicazione con i quali presto tutti hanno familiarizzato e di cui sicuramente pochi potranno fare a meno in futuro. Poter organizzare con estrema facilità meeting virtuali raggiungendo contemporaneamente più persone nei luoghi più disparati del mondo è una rivoluzione nella comunicazione ed è una grande nuova opportunità per le aziende perché possono raggiungere direttamente i loro importatori, i loro clienti, gli appassionati in generale, portandoli virtualmente nelle vigne, nella cantina ed in ogni luogo dei propri territori del vino. 
Le guide in uno scenario di questo tipo dovranno essere riconcepite. Probabilmente sarà necessario ampliare le informazioni sulle aziende esaminandone attentamente l’intera filiera sul campo, attraverso visite saltuarie altamente professionali e non chiedere semplicemente le informazioni alle aziende attraverso un modulo prestampato. Inoltre, oltre al contenuto del bicchiere, vanno assolutamente considerati attentamente e senza preconcetti anche altri aspetti, come: filosofia produttiva, organizzazione aziendale, gestione delle vigne, valori etici e morali, ecc. 


In merito poi alla specifica qualità espressiva dei vini, in particolare nel caso dei vini più pregiati, bisognerebbe fare un parallelo con almeno le annate più recenti in rapporto all’andamento climatico dell’annata, ciò allo scopo di fornire agli appassionati informazioni più precise sulla evoluzione sensoriale dei vini di maggior valore. Riguardo alla situazione attuale, effettivamente, forse non ha più senso leggere una ripetitiva e noiosa descrizione sensoriale del vino sintetizzata in un giudizio che, per via delle tante guide presenti sullo scenario nazionale, finisce con il creare ancora più confusione in quanto molto frequentemente sembra valere tutto ed il contrario di tutto.

Come sta cambiando Quintodecimo in questi mesi? Quali prospettive e quali obiettivi nuovi? 

Quintodecimo si sta gradualmente completando. L’intera famiglia ed i nostri collaboratori sono tutti impegnati a perfezionare un progetto estremamente chiaro e molto lineare. Un desiderio prorompente maturato nella mia mente durante il lungo periodo trascorso in Borgogna, dal 1990 al 1994, in cui studiavo l’aroma dello Chardonnay e del Pinot Noir. Lì, nella culla di questi due straordinari vitigni, scoprii un mondo meraviglioso in completa sintonia con la mia visione del vino. Al ritorno in Campania la voglia di fare qualcosa di simile, di vivere in mezzo alle vigne e di produrre vini di grande qualità che siano una reale restituzione del territorio d’origine è stata irrefrenabile. Come ho già detto, mi è sempre stato chiaro che per realizzare vini di terroir è necessario porre la massima attenzione nella scelta della pianta che meglio si adatta al contesto pedoclimatico che la ospita. Dunque, avendo una formazione puramente agronomica, scelte come: clone, portinnesto, modalità di impianto, conduzione agricola, strategie di gestione del vigneto sono tutti aspetti basilari che da anni desideravo curare in modo maniacale per creare la magia dell’armonia tra vigna, suolo e ambiente. 
È chiaro che un tale disegno richiede molto tempo e tantissima pazienza. Agli inizi è stato necessario adattarsi. Infatti, a parte i vini rossi che sono stati sempre prodotti esclusivamente dalle vigne di Aglianico piantate nel 2001 a Mirabella Eclano intorno alla casa, per i bianchi abbiamo usufruito di pochi esclusivi e fedeli conferitori con i quali è stato instaurato un rapporto di collaborazione nelle scelte agronomiche per la gestione delle vigne. Ovviamente non era questo a cui aspiravo, ma per portare a termine il progetto con vigne di proprietà anche con il Fiano, il Greco e la Falanghina, era necessario attendere. La Falanghina, fortunatamente, la piantammo subito qualche anno dopo a Mirabella Eclano, per produrre il nostro Via del Campo. Molto più lunga, invece, è stata l’attesa per il Fiano ed il Greco perché volevo completare l’opera solo ed esclusivamente realizzando le vigne di Greco a Tufo e quelle di Fiano a Lapio. Sin dai tempi della frequentazione dell’istituto agrario di Avellino (a metà degli anni settanta) ho sempre considerato tra le zone di massima elezione dei vini Fiano e Greco, gli areali di Lapio e di Tufo. Era lì che volevo le mie vigne. Ho aspettato pazientemente ed in silenzio per molto tempo fino a che, pochi anni fa, il sogno si è concretizzato. 
Oggi, nella parte alta del comune di Tufo, a poca distanza dal paese, abbiamo una bellissima tenuta di circa quindici ettari coltivata a Greco dal quale produciamo il nostro Giallo d’Arles. A Lapio, invece, su circa sette ettari di terreno acquistati in località Arianiello, proprio all’ingresso del paese, stiamo completando gli impianti destinati alla produzione del nostro Exultet. Contemporaneamente abbiamo ultimato gli impianti delle vigne di Aglianico a Quintodecimo, dove produciamo i nostri tre vini rossi: Vigna Quintodecimo, Grande Cerzito e Terra d’Eclano. Nei primi mesi dell’anno, durante il lockdown totale, ed in quelli successivi, ci siamo interamente dedicati al completamento delle vigne. Oggi l’azienda è proprietaria di quaranta ettari, di cui trentadue vitati, ripartiti in tre nuclei: Mirabella Eclano, Lapio e Tufo. Tutti sono a conduzione biologica ed il prossimo anno si completerà il percorso per la certificazione. L’ambito progetto di produrre i nostri tre vini rossi ed i tre bianchi solo dalle uve di nostra proprietà, curando direttamente l’intera filiera dall’uva al vino, gradualmente e pazientemente si è completato. 

Quintodecimo

Ovviamente per la conduzione delle vigne interamente in biologico, applicando principi di sostenibilità ambientale, è necessaria una continuità d’azione ed una profonda conoscenza tecnica nel campo delle scienze agrarie. Per provvedere a questa fondamentale esigenza, da tre anni è entrato a tempo pieno in azienda un mio validissimo allievo, il dott. Simone Iannella, che oggi è responsabile e coordinatore di tutte le attività agronomiche fondamentali alla gestione delle vigne. Da tre anni, inoltre, è a tempo pieno in azienda anche mia figlia Chiara, laureata in scienze agrarie e specializzata in enologia a Bordeaux dove a conseguito il suo DNO. Chiara si divide tra la cantina e le vigne affiancando Simone. Mentre, da oramai sei anni, l’altra mia figlia Rosa, donna di lettere presa dal vino, si occupa dell’accoglienza e delle visite in azienda, dei social, dei rapporti con gli importatori e i clienti stranieri partecipando alle varie degustazioni che si tengono in giro per l’Italia e all’estero. Gli altri due figli, Michele e Alessandro, sono ancora impegnati nello studio ma mai come in questo periodo di pandemia, isolati a Quintodecimo, hanno vissuto pienamente l’azienda divertendosi anche loro a seguire le operazioni in campo per gli impianti delle vigne. 
In definitiva Quintodecimo è in continuo movimento semplicemente per perfezionarsi sempre di più. L’obiettivo è sempre lo stesso sin dall’inizio, non è mai cambiato, produrre ogni anno vini sempre più buoni che siano una fedele restituzione delle vigne di origine nel pieno rispetto della terra, dell’ambiente, degli uomini e di altissimi valori etici e culturali. 
Tale obiettivo, sin dal 2001, anno della fondazione di Quintodecimo è stato sempre condiviso con una persona per noi molto speciale, Pietro Pellegrini, il nostro distributore nazionale che ha aspettato pazientemente per ben cinque anni la nascita dell’azienda conoscendone ed approvandone sin dall’inizio l’idea portante. Con Pietro, durante quest’anno così particolare, ci siamo sentiti spesso ed anche incontrati più volte per pianificare il futuro di Quintodecimo e soprattutto la fase post-covid che, essenzialmente, prevede una serie di azioni finalizzate sempre ad un maggiore ed incisivo consolidamento dell’azienda sull’intero territorio italiano. Per concludere questa lunga chiacchierata cosa dire se non che io e Laura, che tanto ci siamo impegnati in tutti questi anni per rincorrere un sogno, siamo molto contenti per le tante belle soddisfazioni di questi primi vent’anni di Quintodecimo. Il prossimo anno, infatti, Quintodecimo compierà vent’anni e ci terremo tantissimo ad organizzare una festa per il ventennale, sperando che si ritorni presto alla normalità. 


In questo anno terribile, nel quale ci siamo sentiti tutti un po’ “sospesi”, entrambi abbiamo avuto modo di riflettere e guardarci allo specchio, mettendo in pausa la vita frenetica che facevamo. Chiusi in azienda, da privilegiati, l’abbiamo osservata ogni giorno, rendendoci conto di quante cose belle abbiamo fatto e di quanto sia affascinante il mondo del vino, se fatto in un certo modo, ossia prediligendo un approccio puramente agricolo. Speriamo che questa tremenda tempesta del Covid passi in fretta in modo tale da poter tutti insieme ritornare a vivere e ad inseguire con passione i propri sogni.