Alla scoperta del Sangiovese di Brisighella

L'edizione senese di Sangiovese Purosangue 2017 è stata ricca di seminari tra i quali spiccava quello tenuto da Francesco Falcone sul Romagna Sangiovese di Brisighella. Di questa tipologia di vino scrissi già nel 2014 prendendo spunto proprio dalle parole dello stesso Falcone che, in qualità di collaboratore di Enogea, pubblicò un interessante articolo su questa meravigliosa rivista (II serie - n°37) dal quale estrapolerò alcune parti per contestualizzare la degustazione che seguirà (se violo qualche copyright me ne scuso e sono pronto ad eliminare tutto)


Scrive Falcone: "La zona di produzione del Sangiovese di Romagna (denominazione d'origine controllata a partire dal 1967) interessa una vasta area collinare che si sviluppa a sud della via Emilia toccando (da nord-ovest a sud-est) una cinquantina di comuni delle province di Bologna (l'Imolese), Ravenna (Il Faentino), Forlì-Cesena (Il Forlivese e Il Cesenate) e Rimini (Il Riminese). Il disciplinare di produzione prevede come vitigno principale il sangiovese, la cui percentuale minima nel vino non deve essere inferiore all'85%. Sempre più spesso viene vinificato in purezza, ma non mancano bottiglie che dichiarano l'aggiunta di altre uve complementari. Si può affermare che la fetta più significativa della viticoltura si sviluppa su colline di matrice sedimentario-argillosa, mai troppo elevate, la cui quota altimetrica oscilla tra i 150 e 300 metri s.l.m. Anche se una larga parte dei vigneti si sviluppa a non grande distanza dall'Adriatico (mare troppo ristretto per influire significativamente sulle condizioni termiche della regione), il clima è prevalentemente continentale, con estati molto calde e afose, e inverni freddi e prolungati (rappresentano due eccezioni alla regola il Riminese e alcune zone del Cesenate, dove l'influsso delle brezze è più netto). Poco più di 7000 sono gli ettari vitati rivendicati dalla DOC, sedici milioni le bottiglie che ogni anno sono immesse sul mercato e tre le principali tipologie prodotte. La versione d'annata (con o senza la dicitura “Superiore”), fruttata, polputa e godibile da bere in gioventù, maturata sempre in vasche di cemento e/o di acciaio e posta in commercio la primavera successiva alla vendemmia. La “selezione” (quasi sempre commercializzata come “Superiore”), di maggiore struttura, intensità e vigore, di tanto in tanto elevata per qualche mese in barrique o tonneaux (più rara è invece la presenza della botte grande) e venduta dopo un breve periodo di affinamento in bottiglia. E infine la Riserva: un vino più potente e profondo, in genere austero nei primi anni di vita ma dotato di buona propensione all'invecchiamento (tra i 10 e i 15 anni)".


Il nuovo disciplinare, in vigore dal 2011, ha introdotto due novità importanti: la prima è che dovremmo chiamarlo non più Sangiovese di Romagna ma Romagna Sangiovese. 
L'altro cambiamento sostanziale riguarda l'istituzione delle sottozone (menzioni geografiche aggiuntive) che sono, partendo da nord-ovest per arrivare a nord-est, quella di Serra, di Brisighella, di Marzeno e di Modigliana. Quella di Oriolo e di Castrocaro, di Predappio, di Bertinoro e di Meldola, di Cesena, di San Vicinio e, infine, di Longiano.


Ponendo il fuoco dell'attenzione sulla sottozona "Brisighella", circa 1000 ettari vitati che si estendono lungo la valle del torrente Lamone, è opportuno anzitutto dire che questo comprensorio, molto famoso anche per la produzione di olio, dal punto di vista geologico è composto da terreni ricchi di calcare e gesso, prossimi alla linea dei calanchi (150-400 metri s.l.m.) e da terreni più tenaci ed argillosi, prossimi al Monte Coralli, che di tanto in tanto si alternano a conformazioni sabbiose (sabbia gialla) del Messiniano. 

Calanchi

Queste differenze, ovviamente, si riscontreranno anche all'interno vini prodotti all'interno dell'areale che, grazie anche alle specifiche di Falcone, cercherò di descrivere nel migliore dei modi iniziando dal Romagna Sangiovese Brisighella Riserva DOC "Corallo Nero" 2015 di Gallegati. L'azienda, che si sviluppa su 20 ettari di cui 10 piantati sulle colline di Brisighella, è condotta dai fratelli Antonio e Cesare Gallegati, entrambi laureati in scienze agrarie e specializzati in campo agronomico ed enologico, che da circa 15 anni hanno ripreso in mano l'attività di famiglia per produrre vino di qualità. Questo vino, 100% sangiovese, è il classico Romagna Sangiovese, ma di qualità, che ti aspetti di trovare sopra la tavola delle feste. E' ricco, pacioccone, ciliegioso e dotato di un finale amaricante, quasi da erbe medicinali, che smorza la carica alcolica del vino rendendo tutto molto più equilibrato e gaudente.


Il secondo vino degustato è stato il Romagna Sangiovese Superiore "Millo" 2011 di Roberto Monti la cui azienda, incentrata attorno al Podere Samba, è nata nel 1982 estendendosi oggi per circa 12 ettari di vigneti piantati su terreni calcareo-argillosi, a 200 metri s.l.m, all'interno dei quali è possibile trovare principalmente sangiovese e cabernet sauvignon assieme a piccole percentuali di merlot, centesimino, malvasia, pignoletto e trebbiano. Il vino è un sangiovese in purezza proveniente da un millesimo abbastanza caldo che al naso esplode con un frutto rosso sanguigno e prorompente a cui seguono profonde sensazioni di erbe amare, china e ghisa. La bocca evoca un vino ancora giovane, scalpitante ed arcigno soprattutto nel tannino che martella incessante fino a centro bocca creando le basi per un finale austero ma un po' troppo asciugante.


Il terzo vino è rappresentato dal Ravenna Sangiovese IGT "Oudeis" 2013 di Vigne di San Lorenzo ovvero dell'azienda di Filippo Manetti che nel 1998 ha acquistato una piccola borgata di origine medievale chiamata Campiume, nel Comune di Brisighella, trasformando il suo sogno in una realtà che oggi vanta un'estensione di circa 10 ettari (albana, trebbiano, sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, malbo gentile) dove tradizione e limitatissimo uso della tecnologia in vigna e in cantina, quest'ultima scavata interamente nella roccia, fanno rima con produzioni di nicchia dalla grande qualità. Non fa pertanto sconti questo sangiovese in purezza, atipicamente romagnolo, sia per il colore rubino scarico sia per la mancanza di sbuffi alcolici che spesso segnano i vini di questo territorio. Questo Oudeis, nonostante la sua gioventù, è deliziosamente equilibrato e inebriato da sensazioni aromatiche che vanno dalla rosa passita alle erbe campestri fino ad arrivare all'agrume.  Berlo è una meraviglia per il suo essere succoso, elegante e dotato di finale sapido ed inebriante. Bella scoperta!


Il penultimo vino della batteria era rappresentato dal Ravenna Sangiovese IGP "Testa del Leone" 2010 di Andrea Bragagni la cui azienda, situata nella frazione di Fognano, si estende per 25 ettari su un territorio collinare a circa 350 metri di altitudine con esposizione nord-est dove sono piantate varietà come albana, trebbiano, sangiovese, famoso e cabernet sauvignon su suoli di galestro ricchi di sabbie. Famoso per il suo Rigogolo (albana in purezza), Bragagni ogni tanto si "diverte" a tirar fuori questo "Testa del Leone" espressione chiara di un sangiovese nordico dove il calore e le rotondità della frutta rossa succosa sono messe da una parte e sostituite da fresche note di té al limone, pesca, mela rossa, agrume, tabacco. La bocca è nervosa, anticonformista, decisamente originale trovarsi davanti ad un sangiovese romagnolo così ossuto, salmastro ma, al tempo stesso, carico di sensazioni acide da vino del nord Europa. Difficile per chi lo approccia per la prima volta ma, credetemi, vale la pena scoprire che esiste anche un B Side del sangiovese di Brisighella.


L'ultimo vino della batteria era il Ravenna Rosso IGT "Poggio Tura" 2009 di Vigne dei Boschi ovvero l'azienda di Paolo Babini e Katia Alpi che dal 1989 portano avanti la loro idea di viticoltura che già in tempi non sospetti, ovvero dal 2002, viene condotta secondo i dettami dell'agricoltura biodinamica. Il Poggio Tura è sicuramente il vino più "famoso" di Paolo e Katia che, complice anche all'annata decisamente calda, lascia intravedere un carattere decisamente mediterraneo grazie ai suoi sentori di oliva, timo e ginepro a cui seguono i classici sentori terziari del sangiovese di romagna che in questo caso prendono la forma del cuoio, del cioccolato e della terra bagnata. Alla gustativa è avvolgente, scuro, misurato per equilibrio e graffiante nel finale decisamente austero e sapido. Dopo ben otto anni un vino ancora in piedi ed in piena evoluzione. Anche per questo, ma non solo per questo, il Poggio Tura e Paolo Babini sono un riferimento per i tanti amanti del sangiovese romagnolo. Avanti così!



Fattoria Lavacchio - Chianti DOCG "Puro" 2016 è il vino della settimana di Garantito IGP

Di Stefano Tesi


Sarà moda, sarà marketing, ma io questo giovane e generoso Chianti bio senza solfiti, bello succoso e violaceo, con quei sentori da potpourrì che mi piacciono tanto, in una fredda serata di zuppe, formaggi e salumi, me lo sono bevuto tutto. Subito e con gran piacere. Suggerisco di fare altrettanto.

www.fattorialavacchio.com

Castello del Trebbio, verticale “50 anni di Sangiovese” - Garantito IGP

Di Stefano Tesi

La storia del vino è fatta anche di avventure, circostanze, scommesse vinte e perdute, azzardi e colpi di fortuna, cicli, corsi e ricorsi. Più lunga è la storia, più è sinuoso il percorso.
E sebbene non sempre l’Italia possa vantare in materia le radici antichissime dei cugini, nemmeno da noi mancano aziende con alle spalle un vissuto di qualche generazione. Radici che nell’enologia moderna trovano nel mezzo secolo la loro unità di misura più attendibile: la vera boa, lo spartiacque tra una cantina solo importante e una cantina anche antica. Il tal senso il 2018 sarà la volta del Castello del Trebbio, la tenuta del Chianti Rufina “cuore” di un gruppo, DCasadei, che oggi si estende anche in Sardegna e in Maremma. Scadranno infatti nel 2018 i cinquant’anni da quando il conte milanese Giovanni Baj Macario e la contessa Eugenia Spiegel Baj rilevarono la malmessa proprietà chiantigiana, abbandonata da alcuni lustri.


Lo fecero, in realtà, per avere una casa in campagna ove passare al fresco le vacanze. Nessuno pensava di diventare vignaiolo. Ma era il 1968, un millesimo inquieto, anche per un’azienda mezzadrile come quella, che pareva vivere ai margini perfino dei rivolgimenti sociali dell’epoca: non a caso, allora, in gran parte della Toscana contadina l’esodo dalle campagne era già quasi concluso, mentre al Trebbio doveva ancora cominciare.
Fattostà che i due nuovi proprietari si insediano nel millenario castello, con 350 ettari di terra senza un vigne o quasi. E che mezzo secolo dopo una delle loro figlie, Anna Baj Macario, e il marito di lei, Stefano Casadei, sono ancora lì. Ma sono diventati produttori a tempo pieno, con 60 ettari di vigne, una filosofia “rurale” tutta loro e una figlia entrata dal 2013 a dar man forte e futuro.


Per celebrare la ricorrenza, Anna e Stefano hanno organizzato due belle verticali dei loro vini a base di Sangiovese: dieci campioni del Lastricato Chianti Rufina docg Riserva (cominciando con l’antenato Chianti Riserva del 1971 su su con i suoi discendenti) e quattro de Le Anfore Sangiovese Toscana Igt, prodotto esclusivamente in anfora.
A presentare e raccontare il tutto, l’emozionato patron e il giovane Andrea Galanti, migliore sommelier d’Italia 2015. Non sono andato a scegliere per forza le annate migliori”, ha detto Casadei presentando la verticale, “ma ciò che secondo me rappresentava meglio le tappe fondamentali del nostro lungo cammino”.

Ecco com’è andata.
 
1971 (Chianti Riserva)
Un vino fatto ancora con le tradizionali uve chiantigiane prodotte dai contadini: Sangiovese, Canaiolo, Trebbiamo, Ciliegiolo, Colorino. Annata calda (per l’epoca).
Colore granato scarico, aranciato. Naso cangiante con sequenze di terra bagnata, foglie umide e sottobosco, in bocca è integro e lungo, ben sostenuto dall’acidità, avvolgente e sorprendente.

1979 (Chianti Riserva)
E’ l’anno dell’addio degli ultimi contadini, con in vigneti rinnovati solo al 50%. Annata fredda con estate piovosa.
Alla vista rubino/granato ancora integro, naso con note di freschezza sorprendente, accenni di balsamicità e netto sentore di pomodori secchi. In bocca è compatto, non molto lungo ma godibile.


1983 (Chianti Colli Fiorentini Riserva)
L’anno del rinnovo dei vigneti è terminato, con una percentuale di uve bianche nettamente inferiore rispetto al passato. L’azienda è a conduzione diretta. Fu un’estate caldissima.
Rubino scuro e intenso, al naso è piuttosto evoluto con un netto senso di calore, marmellata e frutta sotto spirito, in bocca ha tannini spiccati, una nota amarognola e un finale brusco.

1989 (Chianti Colli Fiorentini Riserva)
E’ l’anno della scomparsa di Giovanni Baj Macario, millesimo difficile anche meteorologicamente con primavera siccitosa ed estate molto piovosa.
Colore rubino intenso un po’ granato, all’olfatto dà note nette di cuoio, liquirizia, frutta scura e tabacco, in bocca rivela tannino deciso e una certa acidità, potenza e uno strano finale salato.


1995 (Chianti Riserva).
Scompare la contessa Eugenia e gli eredi si dividono il patrimonio. Al Trebbio restano Anna, suo fratello Alberto e Stefano Casadei, che subentra nella gestione. Questo vino viene tenuto in casa “per prova” e mai messo in commercio.
Colore rubino opaco, naso molto fruttato e intenso, bella freschezza. Anche in bocca è pieno, potente, molto strutturato ma pienamente godibile.

1999 (Chianti Rufina Riserva)
E’ la prima vendemmia dal nuovo vigneto “Lastricato”, impiantato nel 1995. Vengono ripulite e asciate le vecchie botti. Si vendemmia piuttosto tardi, attorno al 20 ottobre.
Rubino scuro e intenso, naso pieno e gentile, fresco e agile, bocca potente e alcolica, bei tannini, pienamente maturo.

2004 (Lastricato Chianti Rufina Riserva)
In cantina vengono introdotte le tonneaux al fianco delle vecchie botti. Vendemmia molto umida.
Colore rubino intenso, naso sobrio ed elegante, frutto gentile, in bocca molto “moderno” e tipico del periodo, bella trama tannica con note di legno non fastidiose.


2007 (Lastricato Chianti Rufina Riserva)
Arrivano barrique e tonneaux nuovi nel nome delle nuove tendenze e dei gusti del pubblico. Annata mite con un luglio piovoso.
Bel rubino medio, al naso evidenti ma accettbili note di legno, bouquet fragrante, quasi croccante e speziato, in bocca è molto trendy, alcolico, importante.

2011 (Lastricato Chianti Rufina Riserva)
Marcia indietro: addio barrique e ritorno alle tonneaux e alle botti (sia asciate che nuove). Cominciano gli esperimenti con le uve lavorate in anfora.
Colore rubino profondo, naso fragrante e fruttato, con bella nota varietale. Anche in bocca è ricco, piacevole, con promettente profondità.

2013 (Lastricato Chianti Rufina Riserva)
Anno importante: nasce il protocollo di lavoro interno “biointegrale” e le anfore entrano ufficialmente nella produzione del Lastricato a fianco dell’acciaio e delle botti da 20 hl.
Rubino fitto, naso ricco, giovane e molto fruttato,  anche in bocca è ancora acerbo, con alcol marcato e buona profondità, da aspettare.
 
2011 Le Anfore Sangiovese Toscana Igt
Venticinque giorni di fermentazione e sei mesi di affinamento in anfora, vino prodotto in sole 1.500 bottiglie e mai messo in commercio.
Colore rubino pieno, naso vivo e frutto dolce con una nota ipermatura, in bocca è fresco, quasi mostoso, con spiccato sentore di melograno e marcata acidità.

2013 Le Anfore Sangiovese Toscana Igt
È l’anno in cui Elena Casadei, entra in azienda e comincia a lavorare sulle anfore con il progetto “Le Anfore di Elena Casadei”.
Rubino con accenni violacei, ha un naso pungente, varietale e nervoso mentre in bocca è acerbo, con una nota dolce di piccoli frutti rossi.

2015 Le Anfore sangiovese Toscana Igt
Affinato in anfora di 6 mesi, è il primo vino presentato ufficialmente al mercato e alla stampa come “Biointegrale”. Rubino/violaceo, naso ancora mostoso, ricco e acerbo con frutto in evidenza, note che mantiene anche in bocca.

2016 Le Anfore Sangiovese Toscana Igt
Trenta giorni di macerazione sulle bucce e sette mesi in anfora. Vino del tutto acerbo, difficile da giudicare.

Alla scoperta del Montecucco, il grande sangiovese dell'Amiata

Il Montecucco prende vita laddove le morbide forme della Maremma Toscana lasciano rapidamente il passo alle pendici del Monte Amiata, incastonandosi tra le DOCG del Brunello di Montalcino e del Morellino di Scansano.
Qui la vite e l’olivo, coltivati con amore e cura, sono da sempre due pilastri dell’economia locale e attraverso il lavoro dell’uomo sono diventati due elementi imprescindibili del paesaggio, fatto di vigneti e colline, di borghi medievali ben conservati e di realtà agricole moderne e responsabili. Si alternano, con ricchezza di sfumature, la macchia mediterranea, i pascoli, i castagneti, gli oliveti, le vigne e le dolci colline delle vallate dei fiumi Ombrone e Orcia. 


Da qualsiasi lato ci si voglia addentrare in questo territorio, subito se ne percepisce la sua immensa biodiversità, la sconfinata varietà vegetale faunistica e produttiva. Risalta in modo evidente come nel corso dei secoli questa terra sia stata preservata, tutelata e sapientemente arricchita. Non a caso molte aziende del Consorzio Tutela Vini Montecucco, ottimamente integrate nel paesaggio, hanno conservato la loro millenaria vocazione  agricola che gode di condizioni climatiche estremamente favorevoli grazie alla vicinanza con il Mar Tirreno contrapposta “al riparo“ del Monte Amiata. Questi fattori, ovviamente, determinano un clima ideale per la vitivinicoltura: luce intensa, adeguata ventilazione, giusto apporto idrico invernale e soleggiate estati con sensibile escursione termica, sono gli eccellenti ingredienti per produrre un ottimo vino. Naturalmente tutto ciò va sommato a un'antica tradizione vitivinicola tramandata da una generazione all'altra, in piena simbiosi con la natura.


In queste terre benedette da Bacco, soprattutto all’interno dei comuni di Arcidosso, Campagnatico, Castel del Piano, Cinigiano, Civitella Paganico, Roccalbegna e Seggiano, è il Sangiovese dell’Amiata ad essere il vero protagonista tanto che dalla vendemmia 2011 al Montecucco Sangiovese e al Montecucco Sangiovese Riserva (minimo 90% di sangiovese ) è stata attribuita la denominazione di origine controllata e garantita (DOCG) grazie ad un disciplinare molto restrittivo visto che, tra l'altro, questo grande rosso toscano viene ottenuto con una delle rese per ettaro più basse d’Italia: appena 70 quintali di uva per ogni ettaro di vigna.  


Il Consorzio Tutela Vini Montecucco, che oggi raggruppa 66 aziende produttrici, nel 2011 ha fatto un fatto un ulteriore passo in avanti andando a rivedere anche tutto il sistema delle DOC che oggi sono declinate in Montecucco Rosso (minimo 60% di sangiovese), Montecucco Bianco (minimo 40% vermentino e/o trebbiano toscano), Montecucco Vermentino (minimo 85% vermentino),  Montecucco Rosato (minimo 70% sangiovese e/o ciliegiolo), Montecucco Vin Santo (minimo 70% trebbiano toscano e/o malvasia lunga e/o grechetto) e, infien, Montecucco Vin Santo Occhio di Pernice (minimo 70% sangiovese).

Claudio Carmelo Tipa

Poco tempo fa lo stesso Consorzio, alla presenza del Presidente Claudio Carmelo Tipa, ha presentato alla Città del Gusto una selezione di vini della DOC Montecucco e DOCG Montecucco Sangiovese ad un pubblico di appassionati ed operatori del settore che, attraverso un wine tasting condotto dalla Redazione del Gambero Rosso, hanno potuto apprezzare i seguenti vini dei quali riporto brevemente anche le note di degustazione.


CollePetruccio - Montecucco Rosso DOC “Ardente” 2015: il vino, sangiovese in purezza, proviene da vigneti posti in località Campagnatico a circa 200 metri s.l.m. E’ un rosso molto diretto, schietto, con olfatto di frutta rossa croccante e dotato di bocca decisa, con ampi tannini e un sensibile tocco sapido. Nota tecnica: il vino fermenta in acciaio a temperatura controllata ed affina 3/6 mesi in legno di secondo passaggio.


Vegni & Medaglini - Montecucco Sangiovese DOCG “L’Addobbo” 2015: il vino, sangiovese in purezza, proviene da vigneti posti in località Porrona (Cinigiano) a circa 300 metri s.l.m. Rubino vivo, profuma di fiori rossi, spezie piccanti e frutta rossa di rovo. Bocca compatta, decisa, con fitti tannini e una prolungata scia speziata nel finale. Nota tecnica: il vino fermenta in acciaio per 15 giorni ed affina 13 mesi in legno a cui seguono almeno 4 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Pianirossi - Montecucco Rosso DOC “Sidus” 2014: il vino, 60% sangiovese e 35%  montepulciano, proviene da vigneti posti in località Porrona (Cinigiano) a circa 150 metri s.l.m.  Ha un naso più scuro e profondo che evoca profumi di erbe aromatiche, ciliegia nera, mirtillo e pepe nero. Al sorso è pulito, morbido e perfettamente equilibrato, dotato di un tannino perfettamente smussato da un sapiente uso del legno che avvolge ed intriga dando carattere ad una annata non proprio perfetta. Nota tecnica: il vino fermenta in acciaio per 15 giorni ed affina 10 mesi in tonneaux da 500 litri a cui seguono almeno 6 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Le Maciarine - Montecucco Rosso DOC “Le Maciarine” 2013: : il vino, 90% sangiovese con quota restante di cabernet sauvignon e petit verdot, proviene da vigneti posti in località Seggiano a circa 350/400 metri s.l.m. All’olfattiva rivela aromi intensi di amarena, ribes, felce e soffi balsamici. In bocca evidenzia freschezza ed equilibrio ed una gradevole scia sapida, quasi empireumatica, che rivela alla grande il terroir di appartenenza (il Monte Amiata è il più un vulcano spento della Toscana). Nota tecnica: il vino fermenta in acciaio per 14 giorni ed affina 36 mesi in acciaio a cui segue almeno 1 mese di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Salustri - Montecucco Sangiovese DOCG “Santa Marta” 2013: il vino, sangiovese in purezza, proviene da vigneti posti in località Cinigiano a circa 300 metri s.l.m.  E’ da subito evidente che i relatori della masterclass, man  mano che si va avanti, stanno aumentando anche la complessità del vino in degustazione che in questo caso ha spalle larghe e possenti dove ritroviamo la ciliegia rossa, la prugna matura e tante spezie dolci. Al sorso è sontuoso e grazie ad uso accorto del legno privilegia le caratteristiche di morbidezza e bevibilità di questo sangiovese dal finale lungo e speziato. Nota tecnica: il vino affina 24 mesi in botte grande a cui seguono almeno 6 mese di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Orciaverde - Montecucco Sangiovese DOCG “Orciaverde” 2013: il vino, sangiovese in purezza, proviene da vigneti posti in località Montenero d’Orcia a circa 250 metri s.l.m.  Questa azienda, che lavora in regime biologico, produce questo 100% sangiovese dotato di un naso che diffonde aromi di terra, viola, ciliegia a cui seguono sensazioni balsamiche in abbondanza. In bocca è vibrante, con tannino vivo e pari freschezza su sensazioni pronunciate di frutta rossa. Nota tecnica: il vino affina 12 mesi in barrique a cui seguono 4 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Collemassari - Montecucco Sangiovese Riserva DOCG “Poggio Lombrone” 2013: questo sangiovese è prodotto da un’attenta selezione delle migliori uve di sangiovese da una selezione di uve provenienti dalle migliori vigne di sangiovese, condotte con metodo biologico, poste a 300 metri s.l.m su terreni argilloso-tufacei e calcareo-marnosi in località Poggi del Sasso. E’ un vino potente ed elegante allo stesso tempo che ha un bagaglio olfattivo dove emergono opulenti gli aromi di ciliegia, viola, lampone, pepe, tabacco da sigaro ed ampie folate speziate. Imponente l’impatto gustativo, ricco di estratti e corpo dove il tannino di nobile fattura è sinonimo di classe. Chiude con un intenso finale di frutta nera e spezie nere. Nota tecnica: il vino affina 18 mesi in  botti di rovere da 40 ettolitri a cui seguono 12 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Parmoleto - Montecucco Sangiovese Riserva DOCG “Parmoleto” 2013: il vino, sangiovese in purezza, proviene da vigneti posti in località Montenero d’Orcia a circa 200 metri s.l.m.  Rispetto ai vini precedenti dove, più o meno, si privilegiava la struttura del vino, in questo rosso esce la parte più eterea e sottile del Montecucco dove incontriamo sbuffi di gelso, noce, cola, peonia e tante erbe aromatiche. In bocca tanta classe, leggerezza e profondità grazie anche ad un formidabile uso del legno.  Nota tecnica: il vino affina 24 mesi in botti di rovere da 20 ettolitri a cui seguono 12 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.


Basile - Montecucco Sangiovese Riserva DOCG “Ad Agio” 2011:  il vino, sangiovese in purezza, proviene da vigneti, coltivati in regime biologico, posti in località Cinigiano a circa 300 metri s.l.m. L’annata, decisamente calda, non aiuta molto la complessità e la dinamicità del vino che rimane per tutta le durate della degustazione molto contratto ed aprendosi sporadicamente su sentori di terra, erbe di campo e sensazioni di tabacco pipa e spezie. Il sorso è corposo e di valida tensione, il leggero residuo zuccherino del vino tende ad ammiccare la beva ce risulta golosa ed assolutamente gastronomica. Nota tecnica: il vino affina 24 mesi in tonneaux a cui seguono 24 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.



Amiata - Montecucco Sangiovese Riserva DOCG “Cenere” 2010: l’azienda, come facilmente si può evincere dal nome, si trova ad ovest dell’Amiata e ha vigne piantate sulle pendici del cono vulcanico dove il territorio degrada tra i 500 e i 200  metri s.l.m. Questo rosso, 100% sangiovese, forse anche per un leggero appassimento delle uve in pianta, risulta assolutamente polposo con le sue sensazioni di amarena, anche sotto spirito, prugna della California, viola, fiori rossi macerati a cui seguono importanti sbuffi minerali. Al palato colpisce l’equilibrio, con tannini perfettamente maturi ed una lunghissima chiusura fruttata e minerale. Nota tecnica: il vino affina 24 mesi in botti da 25 ettolitri a cui seguono almeno 9 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

Lo strano caso del merlot in Irpinia: verticale di Feudi di San Gregorio "Patrimo" 2015-2002

di Luciano Pignataro

Da vino mediatico a brutto anatroccolo di cui non parlare mai. E’ la metamorfosi del Patrimo, vino rosso dell’anno per la Guida dei Vini Gambero Slow Food nella vendemmia 2000 lanciato nel 1999 a centomila lire da Enzo Ercolino, allora patron dei Feudi di San Gregorio e protagonista incontrastato della scena vitivinicola regionale. Un vino spartiacque, perché segna l’ingresso in azienda di Riccardo Cotarella e l’abbandono di Luigi Moio che l’aveva seguita nei primi anni in collaborazione con Mario Ercolino, enologo di famiglia.
Per quelle “astuzie della ragione” attraverso cui si dipana lo spirito della Storia, entrambi gli enologi non ricorderanno con piacere il loro lavoro ai Feudi.


Ma non scomodiamo Hegel, diciamo che l’esordio del Patrimo fu clamoroso.
La vicenda del Patrimo fu divisorio tra le tribù del vino, il segnale quasi del passaggio da un’epoca all’altra.
In effetti, cosa ci faceva un merlot  in Irpinia, perché l’azienda regionale più grande decise di puntare su un vitigno internazionale mentre tutta la Campania andava in senso inverso? Perché quella che poteva apparire una scorciatoia verso il successo alla fine è diventato un calvario enologico?

Se cerchiamo di contestualizzare la scelta di Enzo Ercolino, dobbiamo dire che fino a quel momento l’unico vino rosso campano che aveva avuto una risonanza internazionale era il Montevetrano, ottenuto da merlot e cabernet sauvignon oltre che da una punta di aglianico. La mano era la stessa: Riccardo Cotarella.
L’aglianico nelle sue diverse versioni stentava ad emergere in un mondo in cui un Tre Bicchieri era in grado di cambiare le sorti di un vino, anche di una azienda. Troppo ostico, difficile, nonostante l’introduzione della barrique da Caggiano nel 1994. Soprattutto troppo lontano dal modello di vino che si era affermato in quegli anni in cui si puntava su frutto, morbidezza, potenza alcolica.


“Un vino ottenuto da merlot è immediatamente comprensibile a livello internazionale – mi disse Ercolino quando gli chiesi i motivi della scelta – fa conoscere l’azienda e ci consente poi di far provare i nostri autoctoni”.
L’uscita e il successo del Patrimo segnarono anche la prima vera contrapposizione tra il mondo cartaceo e quello nascente del web. Franco Ziliani, con quello che rimane uno dei suoi articoli più spettacolari e meglio scritti, impallinò il vino dimostrando che il Patrimo non poteva essere un Irpinia Rosso Igt perché il merlot non era uva autorizzata. La replica ufficiale fu che si trattava di una vigna classificata come aglianico per errore. Successivamente la questione fu sanata e il merlot entrò a far parte delle uve autorizzate in provincia.

Patrimo divisorio di stili, di epoche, di enologi, di critici. 

Di fatto la potenza del cartaceo era enorme, il 2000 fu vino dell’anno e le bottiglie vendute a centomila lire portarono 80 milioni di lire a fronte di un costo industriale non superiore alle 500mila lire. Non male come operazione commerciale. Ancora una volta Ercolino, genio del marketing, aveva fatto centro.
L’attacco alle Twin Towers però segnò il blocco del mercato americano e l’inizio della prima grande crisi del vino. Il Patrimo, insieme ad altri rossi dai prezzi molto alti costruiti dal marketing, iniziò a soffrire prima sul mercato italiano e poi su quello estero. Cambia passo il mondo vitivinicolo, si affaccia la critica su internet, cambiano i gusti, i fatti danno ragione a chi ha seguito la linea dei vitigni autoctoni. Il Patrimo, dopo il successo fece qualche proselito, proprio in Irpinia Tenuta Ponte a Luogosano mise in commercio un merlot in purezza.

Inizia la vita carsica di questa etichetta, precipitata nell’oblio dall’azienda che cambia rotta portando alla direzione Antonio Capaldo e Pierpaolo Sirch. Viene impostata una politica low profile, e quella etichetta aveva finito per rappresentare, a torto o a ragione, la cattiva reputazione dei Feudi verso il mondo di internet, anno dopo anno sempre più forte e influente.

Pierpaolo Sirch

Nonostante ciò è sopravvissuta e, sull’esempio dei francesi, il tempo regala il dono di una sintesi comune a fronti contrapposti. Soprattutto perché., per questo come per tutte le altre etichette, si è ricominciato dall’agricoltura, quella vera, non raccontata.
Oggi il patrimo nasce in cinque ettari coltivati proprio a ridosso della cantina e la verticale organizzata nella sede dei Feudi sintetizza tre epoche. Quella in cui fu preso a carico da Paully George tra il 2008 e il 2012, poi  Denis Dubourdieu con l’idea di passare dalla opulenza alla eleganza, alla freschezza. Una linea mantenuta anche dopo la scomparsa del grande enologo di Bordeaux avvenuta nel 2016.
Il merlot ha una acidità un po’ scarsa e il cambiamento climatico tende a penalizzarlo. Qui però siamo nella fredda Irpinia, a circa 500 metri di altezza, terreno argilloso. Le condizioni per avere un buon risultato non mancano. Va bene su terreno argilloso.

La linea delineata negli ultimi anni parla di macerazioni più brevi
Nel percorso enologico: macerazioni più brevi, sosta in legno di botti da 20 ettolitri non più di un anno, fermentazione alcolica in acciaio. La raccolta non supera i 60 quintali per ettaro

Malolattica acciaio e legno.


Oggi il Patrimo costa 50 euro franco cantina, viene prodotto in 6.000 bottiglie e ha un mercato di affezionati clienti all’estero che lo chiedono.

2015 *****
Ancora in itinere, ha bel profumo di frutta rossa, verticalità. Note di legno piacevole. Ancora in cerca di equilibrio. Si sentono i tannini e la freschezza sostenuta.

2014****. 
Annata più fresca,  esile,  quasi sottile. In commercio da poco. C’è più equilibrio tra le diverse componenti

2013****
Ricco, equilibrato, tannino dolce e levigato. Ben sostenuto dalla freschezza, lungo, piacevole.

Tutt’altra la musica dei vini seguiti da Paully

2012 ***
Dal colore è più scuro, al naso note fumé, salamaoia, tabacco, meno pulito della 2013. Più sapidità, lungo, rustico. 

2011 ***
Vino abbastanza potente, più ricco  al palato che al naso. Beva popputa, fresca, piacevole, lunga.

2010 ****
Merlot piacevole, pieno, classico, bordolese.  Beva piena e lunga. Al naso note di anice, note balsamica.

2006***
Old style, new style, dipende dai punti di vista. Ancora buono, con un buon fondo di freschezza. Si sente la tensione verso la concentrazione, lunga.

2005**
Note di stanchezza, tannino molto presente. Beva piacevole ma poco netta, poco pulita. 

2004*
Il vino stanco anche se ancora piacevole e vivo. Pesa l’eccesso di sumaturazione, quasi cotto. Lungo e fresco, tutto sommato potabile.

2002***
Annata particolare, soprattutto per i rossi. In questa fase il vino si presenta vivo ma poco elastico, decisamente appesantito, coerente fra naso e palato.

CONCLUSIONI

Lo sforzo dei Feudi di puntare ad un vino più snello, fresco e moderno rendono sicuramente più interessante questo rosso configurando probabilmente una giusta chiave di lettura priva di riferimenti bordolesi o, peggio, caricaturali. Così come avviene anche per l’Aglianico, la nuova linea tende a far esprimere la frutta e in questa rotta il Merlot ritrova un suo perché costituendo una proposta decisamente diversa dagli altri rossi mentre, se ben ci pensiamo, stilisticamente era dal 2006 in giù molto simile ai Piano di Montevergine.
In vista della ventesima vendemmia cosa possiamo dire: sicuramente l’azienda ha fatto bene a proteggere questa etichetta come proprio patrimonio storico che non si può rinnegare. Ma è altrettanto evidente che non può costituire, e di fatto non costituisce, un modello a cui ispirarsi come avvenne al suo trionfante esordio.

Pietro Rinaldi - Langhe Nebbiolo 2015 Argante è il Vino della Settimana di Garantito IGP

di Carlo Macchi
A questo Langhe Nebbiolo di Madonna di Como la madonna ha fatto la grazia, profumandolo di rosa e viola e dandogli un tannino  benedetto, che tocca il palato ma non lo graffia.


Del resto anche la sua freschezza è  quasi miracolosa e non ti fa vedere la madonna, ma quasi. Un vino da godere, parola di ateo!

Pietro Rinaldi, Madonna Di Como  86, Alba
Tel: 0173 360090

Barolo Bar a Monforte: una perla gustosa nelle Langhe che vale il viaggio - Garantito IGP

di Carlo Macchi

Si dice che nei locali in cui si fermano i camionisti si mangi bene: allora in quelli di zone enologiche dove vanno a mangiare  i produttori di vino come si mangerà? Se il locale si chiama Barolo Bar ed è a Monforte c’è da stare tranquilli, si mangerà e si berrà sicuramente bene.


Ma eccovi la storia: durante il recente viaggio IGP in Langa l’ultimo giorno abbiamo appuntamento a Rocche dei Manzoni nel primissimo pomeriggio. Decidiamo così di andare verso Monforte, tanto un posto per mangiare lo troviamo sicuramente lungo la strada. Piove come dio la manda e naturalmente di posti lungo la strada che ci piacciano manco l’ombra. Arriviamo a Monforte e intravediamo un locale dove sembra si possa mangiare qualcosa. Parcheggiamo, ci bagniamo come pulcini per fare 30 metri a piedi e apriamo la porta di questo Barolo Bar pensando “Speriamo bene!”.



Appena entrati capiamo subito che non solo saremmo stati bene, ma addirittura meglio. Prima di tutto il profumo che aleggia nel locale, che comprende la sala bar, una sala ristorante abbastanza ampia, una seconda sala ristorante e una enoteca fornitissima (non per niente Barolo Bar è anche Enoteca di Monforte) è di quelli che ti fanno venire immediatamente fame. Inoltre il locale è pieno e tutti stanno mangiando non solo salumi e formaggi, ma consistenti piatti langaroli, come carne cruda battuta al coltello, vitello tonnato, ravioli, etc.
Mentre ci sediamo l’occhio allenato ci casca su un tavolo dove girano Riesling della Mosella di tutto rispetto, sarà perché a capotavola c’è Guido Fantino, patron di Conterno Fantino: inoltre ad un altro tavolo si sta sedendo Claudio Fenocchio.
“Insomma” pensiamo “Se due produttori di Langa vengono a mangiare qui con gli amici tanto male non si starà”.
Per passare i pochissimi minuti prima di ordinare (servizio preciso e velocissimo!) diamo un’occhiata alla carta dei vini e notiamo che tra i vini serviti a calice ci sono anche Champagne, in particolare (e scusate se è poco) la cuvée “base” di  Bollinger: del resto una mega-boule piena di bottiglie troneggia all’ingresso e con qualcosa sarà pur stata riempita.
Il locale è caldo e accogliente, anche se arredato con spartana attenzione: si bada al sodo e questo sodo lo verifichiamo subito con un’ottima, ma veramente ottima, carne cruda al coltello, seguita da un piatto di buoni ravioli di carne che sarebbe bastato per due persone.


Nel frattempo vediamo passare piatti di risotto e addirittura vassoi di gamberi che vanno a stemperare l’acidità dei riesling  tedeschi.
Mentre a pancia piena ci finiamo la bottiglia di vino ordinata chiediamo in giro e così veniamo a sapere che la giovane titolare Silvia Aiassa nel 2012 ha rilevato il locale, unendolo all’Enoteca di Monforte: da allora il locale sta andando sempre meglio e da qualche tempo, accanto a salumi e formaggi, sono arrivati anche i buoni piatti caldi che abbiamo gustato.


La carta dei vini è da Enoteca di Monforte, ma lasciando da parte i Barolo troviamo tanti Alta Langa, molti Champagne e vini di alto livello sia italiani che esteri.
Le belle sorprese in questo accogliente locale non finiscono mai: andiamo a pagare e scopriamo che per i due piatti che abbiamo mangiato, una bottiglia di Dolcetto di Dogliani (Papà Celso 2015 di Abbona, niente male!), acqua e caffè la spesa totale è di “ben” 25 euro a testa.
Soddisfatti su tutto il fronte  usciamo felici e contenti: adesso la pioggia battente serve solo per farci improvvisare un inverecondo “I am singing in the rain”.


Barolo Bar L’enoteca di Monforte
Via Garibaldi, 11
12065 Monforte d’Alba (CN)
Tel. 0173 789243
www.facebook.barolobarmonforte
mail: silvia.aiassa@tiscali.it

I vini di Emidio Pepe per la prima volta all'asta a New York con Zachys

Emidio Pepe farà la sua prima asta di annate invecchiate con la prestigiosa Zachys, casa d’aste internazionale e specializzata nel mondo del vino i primi di Dicembre.
L’asta sarà live a New York, Londra e Los Angeles ed in streaming mondiale.
Tutte le bottiglie sono provenienti direttamente dalla storica cantina di Torano Nuovo e attentamente decantate prima della spedizione appositamente per l’asta.
Faranno parte di questa eccezionale vendita le migliori 20 annate prodotte da Emidio Pepe, fino ad arrivare ad un lotto unico di una bottiglia di Montepulciano 1967.


Molte annate iconiche che non sono più in commercio da tempo a causa dello stock limitatissimo, faranno parte dell'asta.
Emidio Pepe consacra così la sua carriera e corona il sogno di ogni produttore di vino, dimostrando al mondo intero quello su cui cinquant’anni fa aveva scommesso: il lungo invecchiamento del Montepulciano d’Abruzzo, la sua evoluzione virtuosa e la forte convinzione del loro grandissimo potenziale.
“E’ un’occasione unica ed un evento straordinario”, dice Emidio “poter raccontare la storia del Trebbiano e del Montepulciano d’Abruzzo con delle bottiglie che sono piene di vita e parlano di un territorio: l’Abruzzo”.

Ed infatti, le 53 annate sono state prodotte con gli stessi metodi del 1964, la stessa filosofia e la stessa artigianalità: “è quello che li rende vivi e gli dà potenziale di invecchiamento” dice Emidio, precursore negli ideali di vinificazione artigianale e convinto sostenitore della vinificazione senza macchine e senza legno.

E’ un evento molto emozionante per la Famiglia ma soprattutto un momento di prestigio per i vini di Emidio Pepe che li include così nell’Olimpo dei vini da collezione, guadagnandosi il rispetto e l’ammirazione solenne dell’élite più nobile del mondo del vino.