L'Orvieto DOC, un vino buono da scoprire. Certo, se fatto bene!

Orvieto, chi non la conosce? Le sue imponenti rupi di tufo, il magnifico Duomo, il Pozzo di San Patrizio, i colombari, l'Umbria Jazz Festival sono tutte parti di un mosaico a cui, spesso e volentieri, manca il tassello "vino di qualità" per essere veramente completo.
Infatti, l'immagine dell'Orvieto Doc è colpevolmente legata a vini di quantità, che definisco "da battaglia", che spesso e volentieri varcano i confini nazionali per invadere i mercati esteri che richiedono l'equazione errata grandi numeri=vino di territorio.
C'è un modo, invece, per comunicare che esiste una piccola percentuale di Orvieto Doc di grande qualità che nulla deve invidiare agli altri grandi bianchi italiani? Certo, mettere assieme Sergio Mottura, PalazzoneDecugnano dei Barbi, Barberani, Le Velette, senza dubbio i migliori produttori della denominazione, e creare una piccola verticale dei loro vini.


Foto: Lavinium

Prima di entrare nei particolari è opportuno capire come viene fatto l'Orvieto Doc. Il disciplinare di produzione, sottoposto negli anni a varie modifiche, ha riformato profondamente l'uvaggio tradizionale che vedeva il Procanico prevalente (dal 50% al 65%) con la presenza di Verdello (dal 15 al 25%), Grechetto, Drupeggio, Malvasia (dal 20 al 30%, di cui la Malvasia toscana non più del 20%). Oggi, infatti, i vini a denominazione di origine controllata “Orvieto” devono essere ottenuti da Trebbiano Toscano (Procanico) e Grechetto (minimo 60%) con un 40% massimo di altri vitigni di colore analogo.

L'area DOC dell'Orvieto è dunque suddivisa in Orvieto Classico, che copre la zona intorno alla Rupe e al suo circondario, e in Orvieto, che la completa a nord e a sud. Dalla vendemmia del 1997 è possibile produrre un Orvieto e un Orvieto Classico con la qualificazione "Superiore". Questo vino, che si ottiene grazie a una drastica diminuzione della produzione per ettaro (da 11 a 8 tonnellate) e a un contenuto alcolico minimo di 12% vol., può essere messo in commercio solo dopo il primo marzo dell'anno successivo alla vendemmia.

Le tipologie della DOC Orvieto, inclusa la sottozona Orvieto Classico sono: secco, abboccato, amabile, dolce, superiore e vendemmia tardiva.

Il wine tasting, organizzato presso la Rimessa Roscioli, prevedeva le degustazione di ben Orvieto Doc di varie annate, partendo dalla 2011 fino ad arrivare alla 2008.



Orvieto Classico Superiore "Lunato" 2011 - Tenuta Le Velette (Procanico 20%, Grechetto 40%, Malvasia 20, Verdello 15%, Drupeggio 5%): l'azienda storica della famiglia bottai ha vigneti che si estendono su terreni vulcanici per oltre 100 ettari sulla collina di fronte ad Orvieto. Il Lunato proviene da una porzione di 45 ettari chiamata Podere Belvedere dove sono presenti i vitigni più vecchi. Il vino è intensamente minerale, sapido e la sua durezza è corroborata solo in parte da una bella vena di frutta gialla croccante.. Sorso misurato, sottile, fresco e dalla persistenza calcarea. Vinificazione ed affinamento in acciaio.

Orvieto Tragugnano 2011 - Sergio Mottura (Procanico 50%, Verdello 25% e Grechetto 25%): questa azienda che si estende ai confini del Lazio non ha bisogno di molte presentazioni visto che il suo Grechetto in purezza che prende la forma del Poggio della Costa e del Latour a Civitella rappresenta il meglio della produzione nazionale. Il loro Tragugnano, selezione delle migliore proveniente dai loro vigneti nell'areale dell'Orvieto Doc, è un vino che rispetto al precedente ha un naso più complesso ed intenso dove spiccano le note di calcare, glicine, frutta bianca ed erbe di campo. Sorso ampio che riempie il palato di note minerali chiudendo lunghissimo su toni ammandorlati. Vinificazione ed affinamento in acciaio.



Orvieto Classico Superiore "Campo del Guardiano" 2011 - Palazzone (Procanico 50% Grechetto 30%,Verdello, Drupeggio e Malvasia il restante 20%): l'azienda della famiglia Dubini si estende per circa 25 ettari piantati su terreni collinari di origine sedimentaria e argillosa di Rocca Ripesena, con una vista emozionante sulla rupe di Orvieto. Il Campo del Guardiano rappresenta un vero e proprio Cru per l'azienda e, rispetto ai precedenti due vini, si presenta con un naso meno duro dove spiccano le note di fieno, agrumi, pesca, pera a cui solo in parte seguono note salmastre e di iodio. Bocca freschissima, diretta, avvolgente e di ottima persistenza sapida dove ritornano le note di gesso ed erbe di campo. Vinificazione in acciaio ed affinamento per 24 mesi in bottiglia.

Orvieto Classico Superiore "Il Bianco" 2011 - Decugnano dei Barbi (Grechetto 50%, Vermentino 20%, Procanico 20% e Chardonnay 10%) : appartenente alla famiglia Barbi, l'azienda si estende sui colli che dominano il Lago di Corbara per circa 32 ettari. Le vigne sono piantate su terreni di origine marina, ricchissimi di fossili. Questo vino, prodotto grazie all'ausilio di Cotarella,  ha un disegno olfattivo ancora giovane dove i ritorni iodati e salmastri sono ben evidenti assieme a sentori di frutta bianca, anice e biancospino. Sorso morbido, sinuoso, di grande avvolgenza ed equilibrio. Chiusura salata.  Vinificazione ed affinamento in acciaio.

Veniamo alla batteria dei 2010!

Orvieto Classico Superiore "Luigi e Giovanna" 2010 - Barberani (Grechetto, Trebbiano Procanico e Chardonnay): la famiglia Barberani da decenni ha impiantato vigneti sulle colline che dominano il lago di Corbara. Attualmente si estende per circa 100 ettari, di cui 55 a vigneto specializzato, su terreni vulcanici, sedimentari e calcareo-argillosi. Il vino, nato nel 2011 per celebrare il 50° anniversario dell'azienda, presenta all'interno dell'uvaggio una piccola percentuale di muffa nobile che inesorabilmente crea un profilo gusto-olfattivo di grande morbidezza e suadenza con ritorni di frutta matura ed erbe secche. La mineralità stavolta è più nascosta. Persistenza davvero impressionante.

Orvieto Tragugnano 2010 - Sergio Mottura (Procanico 50%, Verdello 25% e Grechetto 25%): rispetto al 2010, complice l'annata che dalle parti di Orvieto è stata meno equilibrata che in altre zone di Italia, è un vino più pronto, morbido, con frutta gialla in evidenza e mineralità rarefatta. Bocca di polpa e consistenza. Ottima la persistenza.

Orvieto Classico Superiore "Campo del Guardiano" 2010 -Palazzone (Procanico 50% Grechetto 30%, Verdello, Drupeggio e Malvasia il restante 20%): anche in questo caso il naso è un cesto di frutta gialla ed erbe aromatiche con sottofondo salmastro. Bocca che gode della solita grande sapidità e progressione da urlo.


Orvieto Classico Superiore "Il Bianco" 2010 - Decugnano dei Barbi (Grechetto 50%, Vermentino 20%, Procanico 20% e Chardonnay 10%) : naso che si fa più tenebroso del 2010, con aromi quasi di porto e frutta secca. Bocca di grande impatto, salata, iodata, dotata di tanta polpa e dinamicità. Deve ancora aprirsi, forse troppo giovane!



Veniamo alla batteria dei 2009!

Orvieto Classico Superiore "Luigi e Giovanna" 2009 - Barberani (Grechetto, Trebbiano Procanico e Chardonnay): l'ottima annata per tutta la denominazione si fa sentire immediatamente nel vino che diventa nobile, austero e dotate di grandissimo equilibrio ed intensità. La parte morbida data dalla botrite è totalmente integrata. Un sorso che in bocca spinge come un toro. Grande versione.

Orvieto Tragugnano 2009 - Sergio Mottura (Procanico 50%, Verdello 25% e Grechetto 25%): il naso del Tragugnano cangia e diventa floreale, l'Orvieto inizialmente odora di camomilla e glicine all'interno di un quadro dove la mineralità si fa più setosa e meno irruenta rispetto alla precedenti annate. Al sorso si conferma la grande eleganza e l'equilibrio del millesimo che chiude intenso, persistente su ritorni di erge e gesso. Grande bicchiere!

Orvieto Classico Superiore "Campo del Guardiano" 2009 -Palazzone (Procanico 50% Grechetto 30%, Verdello, Drupeggio e Malvasia il restante 20%): una versione granitica e solenne di questo Orvieto Doc Superiore che sembra irrorato di iodio e fa della durezza e della escalation gustativa il suo punto di forza. Ficcante come una lama nel burro, alla cieca potresti portarlo dalla parti di Vouvray!

Giovanni Dubini - Palazzone

Orvieto Classico Superiore "Il Bianco" 2009 - Decugnano dei Barbi (Grechetto 50%, Vermentino 20%, Procanico 20% e Chardonnay 10%): piccolo accenno di terziarizzazione nel vino che prende aromi quasi autunnali di nocciola, foglie secche, mela golden, fieno bagnato. Rispetto a tutti gli altri vini esce una inedita nota fumè. Bocca tridimensionale che riempi il palato e non lo lascia più. Persistenza record su ricordi di frutta secca e mineralità scura.

La batteria dei 2008 ha previsto solo due vini.

Orvieto Classico Superiore "Lunato" 2008- Tenuta Le Velette (Procanico 20%, Grechetto 40%, Malvasia 20, Verdello 15%, Drupeggio 5%): per la prima volta percepisco abbastanza bene note di evoluzione che vanno dal tostato al miele di castagno fino ad arrivare alla mela cotogna. Al sorso il vino spinge fino ad arrivare al centro bocca poi un pò si perde ma, nonostante tutto, chiude su una bella scia sapida.

Orvieto Classico Superiore "Luigi e Giovanna" 2008 - Barberani (Grechetto, Trebbiano Procanico e Chardonnay): la lieve punta di muffa nobile in questa versione è ben evidenziata e, assieme ad una struttura di tutto rispetto, dà vita ad un vino di grande morbidezza e sensualità dove spiccano anche cenni aromatici di curcuma e zafferano avvolti in una cornice di odori di affumicatura. Bocca da vecchio Silex, molto più dritta e verticale rispetto al naso. Ha ancora tanto da dire questo vino. Da tenere e servire tra cinque anni almeno!



Chiudo questo post ringraziando i produttori che mi hanno invitato a questo interessantissimo wine tasting che pone in risalto una denominazione da scoprire se il prodotto viene da vignaiolo che hanno a cuore il territorio e le sue potenzialità. L'Orvieto DOC è un vino con una sua anima, di grande freschezza in alcuni casi, sapida in altri, che ad oggi può tranquillamente inserirsi nella short list dei grandi vini bianchi italiani, anche da invecchiamento. L'importante è crederci e rimanere uniti come adesso. 

Line Up orvietana


Sangiovese Purosangue: consigli per gli acquisti

Si è conclusa domenica scorsa la due giorni di Sangiovese Purosangue - Vini e Vignaioli di Italia organizzata come al solito magistralmente da Davide Bonucci (Enoclub Siena) e Marco Cum (Riserva Grande). 
Le 90 le aziende presenti, spesso riunite in Consorzi di territorio, hanno creato un'offerta sangiovesista di qualità difficile da trovare in altri contesti. 
Io, che sono curioso come una scimmia, stavolta ho cercato di evitare il più possibile di degustare i soliti grandi nomi puntando verso aziende e territori non sempre alla luce della ribalta.
Prendete, ad esempio, il territorio di San Minitato, a metà strada tra Pisa e Firenze, zona di Chianti (non Classico) e di pellegrinaggi visto che la Via Francigena passava proprio sopra l'azienda Pietro Beconcini  che durante la manifestazione presentava un'interessante gamma di vini. Vigneti di sangiovese (due cloni selezionati col tempo da Leonardo Beconcini) piantati su terreni diarenaria ed argilla bianca intarsiati da fossili di origine marina di età pliocenica danno vita ad un Chianti Riserva 2010 molto rigoroso ed austero che presenta un ventaglio aromatico tra la mineralità bianca, la ciliegia, le spezie e la viola. Bocca su ampie volute sapide, fruttate e floreali.Matura per circa un anno in botti di rovere di Slavonia e dopo l’imbottigliamento affina fino ai 30 mesi prima di essere immesso in commercio. Piccola curiosità: Beconcini produce anche un tempranillo da vigne del 1920. Attenzione, il vino è molto meglio di quanto si possa credere. Da degustare senza pregiudizi!

Eva e Leonardo Beconcini

Cambiando territorio, anche se rimaniamo in Toscana, un'altra interessante scoperta è stata il Castello di Ripa d'Orcia che presentava ben 5 rossi. Tra i vari sangiovese presenti mi ha colpito soprattutto il Ripagrande 2011, un IGT a base sangiovese che fa della freschezza e della grande facilità di beva il suo punto di forza. Al naso dominano le note di lampone, ciliegia, fragola e rosa, mentre in bocca è perfettamente equilibrato e di buona lunghezza. A 5 euro rappresenta un vino dal rapporto q/p commovente. E questo, signori, è solo il base dell'azienda che poi si fa molto apprezzare con i suoi sangiovese in purezze come il Terre di Sotto Riserva 2011 e, sicuramente, il Terre di Sotto 2008 che fa della brillantezza la sua arma vincente.


Accanto al banco del Castello di Ripa d'Orcia mi attendeva Gregorio Galli di Palazzo Piero che dal 2006, tre anni aver impiantato i nuovi vigneti di famiglia un tempo estirpati per far posto a mais e grano, ha iniziato una nuova avventura all'interno di un territorio, come quello di Sarteano, legato a terreni ripidi e sassosi. "Negli anni ci siamo pian piano emancipati dai cattivi maestri e da vecchie abitudini, giocando in vigneto (inerbimenti, bando di diserbanti e disseccanti, ecc.) e in cantina, convertendoci sempre più a una vinificazione naturale". Gregorio pronuncia queste parole con grande orgoglio mentre mi versa il suo rosato, il Mustiola 2012, fresco e per nulla scontato. Ma, a Sangiovese Purosangue, non potevo non bere il Purneaia 2011, vino a fermentazione spontanea con minima presenza di solforosa che dopo una lunga macerazione sulle bucce e, durante l'inverno, sulle fecce, viene passato in barrique di secondo passaggio per un periodo variabile tra sei e dodici mesi prima di essere imbottigliato. Il risultato è un vino ancora giovanissimo, vibrante, succulento, dalla grande carica fruttata che, a mio avviso, dovrà ancora affinare in bottiglia per dare il meglio di sè. 


Pochi centimetri e ti ritrovi davanti a quel grande vignaiolo che prende il nome di Paolo Cianferoni, deus ex machina di Caparsa, che presentava in anteprima i suoi due vini: Caparsino Riserva 2010 e Doccio a Matteo 2011. Entrambi, in bottiglia da pochissimo, sono esattamente come Paolo, estroversi, vigorosi, eclettici, con il primo leggermente più profondo e filosofeggiante, mentre il secondo è ancora invaso da irrequietezza giovanile e tannini graffiante. Il Cianferoni è uno delle grande espressioni di Radda in Chianti, "sottozona" del Chianti Classico che amo alla follia per cui, fidatevi, prendete questi due vini e teneteli buoni in cantina. Tra cinque/sei anni vi daranno soddisfazioni inattese.


Grazie a Luciano Ciolfi, per un giorno non in veste di produttore di ottimo Brunello di Montalcino, ho conosciuto anche il sangiovese di Montepulciano di Contucci presente alla manifestazione col suo Rosso di Montepulciano 2012, fresco e di grande beva, con il Vino Nobile di Montepulciano 2011, dinamico ed equilibrato, con i due Cru Mulinvecchio e Pietra Rossa 2009, fieri ed austeri come le vecchie botti di rovere in cui affinano, e la Riserva 2009 che rispetto ai precedenti si segnala per una maggiore progressione e profondità degustativa. In generale i vini di Contucci rappresentano tutto ciò che vorrei nel Prugnolo Gentile di Montepulciano e che spesso, tranne rare eccezioni, non riesco mai a trovare causa uso del legno piccolo molto "parkeriano". Contucci è un'azienda storica, tradizionale che, grazie a Dio, mantiene certi valori. Grazie!


Passando tra i banchi del Romagna Sangiovese, il mio calice si è soffermato al banco dei BioVitiCultori ben rappresentati da Paolo Babini di Vigne dei Boschi ed Emilio Placci de Il Pratello. Entrambi mi hanno colpito per una peculiarità: la freschezza del loro vino! Sia Paolo che Emilio, infatti, hanno piantato vigne situate mediamente tra i 400 e i 600 metri di altezza e se il Poggio Tura 2009 di Vigne dei Boschi è vibrante, balsamico e con tratti floreali, il Mantignano 2004 di Placci ci fa capire come evolve egregiamente un Sangiovese di Romagna di grande struttura se adeguatamente accompagnato da una palpitante vena acido/sapida. Due punti di riferimento da segnare!

Paolo Babini
Mantignano 2004 Il Pratello
Ah, se volete sapere qual'è stato il miglior vino degustato durante Sangiovese Purosangue la risposta è la seguente:


Questione di testa e di cuore!

Il Carema Riserva della Cantina dei Produttori Nebbiolo di Carema: emozioni dall'Alto Piemonte

Adoro il Carema e mi ricordo come fosse ieri quando Maurizio Gily all'interno del Salotto di Wineup, mi fece degustare per la prima volta una mini verticale di questo splendido nebbiolo dell'Alto Piemonte. Scrivendo le note di degustazione della verticale che ho organizzato a Roma poco tempo fa non ho avuto alcuna esitazione a chiedere allo stesso Gily di scrivermi una piccola prefazione all'articolo. Pensieri di pura passione che con grande orgoglio riporto:

CAREMA, GRIDO DI PIETRA

Il titolo del film di Werner Herzog mi sovviene quando cammino tra i vigneti di Carema, al cospetto delle  falesie granitiche che formano i pilastri di ingresso della Val d’Aosta .  Pochi altri posti mi danno la stessa emozione. I terrazzi in pietra sono collegati da scalette, sempre in pietra, una minima parte delle pergole di Carema sono accessibili con piccoli trattori o motocoltivatori, per il resto tutto si fa a mano. La falce, o al massimo il decespugliatore, la pompa a spalle per i trattamenti, cassette per la vendemmia, da spalleggiare fino alla prima strada. Non c’è prezzo per la fatica dei vignaioli di Carema, in un mondo che ha quasi abolito la fatica. E alla fatica non si dà il giusto valore, perché il Carema costa troppo poco rispetto alla sua qualità e alla fatica che costa produrlo. Infatti la superficie si è ridotta a meno di trenta ettari e l’abbandono purtroppo continua, solo frenato, ultimamente, dalla crisi economica e da un aumento, sia pure insufficiente, del valore del vino.
Ogni terroir da vino è unico, ma alcuni sono più unici degli altri, e Carema è uno di questi. Ne esce un Nebbiolo granitico, luciferino, che non si concede alla prima annusata e al primo sorso, un’amicizia che va conquistata e poi dura per sempre. I vini di Carema sono sempre stati buoni e originali, ma ultimamente si sono perfezionate le tecniche ed eliminati i difetti e gli spigoli troppo vini, rendendo il Carema un vero campione. Restando però molto lontani da un’enologia interventista, da vino “fatto in cantina”. Il Carema lo fanno sempre la pietra, la luce limpida, il vento e la fatica.

Maurizio Gily


Il Carema Doc nasce sulle rocce moreniche al confine con la Val d’Aosta da due varietà di nebbiolo: Picutener e Pugnet,. La coltura di produzione è stata sviluppata caparbiamente nel tempo sulle pendici del monte Maletto tra i 350 e 700 metri di altitudine, grazie a un duro lavoro di terrazzamento a secco.

La forma di allevamento locale è la pergola, denominata topia in dialetto locale, particolarmente suggestiva per la presenza di sostegni di pietra dalla forma tronco-conica, i “pilun” in dialetto, utilizzati anche come accumulatori di calore da rilasciare lentamente durante la notte. Stesso ruolo di accumulatore di calore è svolto dalla pietra usata per costruire i terrazzamenti, un po' come accade anche in Valtellina. 

Forma di allevamento e..pilun. Foto: www.vinantico.eu  
Rende l'idea? Foto:http://www.caremadoc.it/
Tutte le fasi di vinificazione, conservazione e invecchiamento sono effettuate nella zona di produzione comprendente l'intero comune di Carema e nella frazione Ivery del comune di Pont Saint Martin. L'affinamento minimo del Carema è di 24 mesi, 12 dei quali in botti di rovere o castagno della capacità massima di 40 ettolitri (nella versione Riserva l'affinamento dura almeno 36 mesi, 12 dei quali in legno).

Tra i produttori di riferimento, oltre a Ferrando, c'è la Cantina dei Produttori Nebbiolo di Carema, fondata dal 1960 da  un gruppo di dieci agricoltori e che oggi è diventata una splendida realtà cooperativa formata da circa 80 soci, tutti produttori part-time di oltre 60 anni di età, che ancora oggi lottano per coltivare il loro fazzoletto di vigna che, è bene dirlo, senza di loro andrebbe persa. Forse per sempre.

Grazie all'aiuto Viviano Gassino, Presidente della Cantina, assieme ad un manipolo di amici appassionati abbiamo degustato una splendida verticale del Carema Riserva che la Cantina sottopone ad un periodo di invecchiamento non inferiore a 4 anni di cui almeno 30 mesi in botti di legno grande ed un anno di affinamento in bottiglia.


Le annate in degustazione sono: 1989, 2000, 2003, 2006, 2008 e 2009.

Carema Riserva 1989: nutrivano grandi speranze relativamente a questa annata che, leggendo un pò in Rete, aveva riservato molte emozioni a chi lo aveva bevuta prima di noi. Purtroppo ogni speranza si è subito affievolita quando ho versato il nebbiolo che, cromaticamente, aveva una vivacità di colore pari ad un cielo invernale. Al naso, la conferma. Gli odori era tipici di un nebbiolo stanco a cui davi, purtroppo, un'età maggiore rispetto ai suoi.....primi 25 anni. Un tappeto aromatico autunnale caratterizzato da funghi, tartufi, foglie secche ed humus. La frutta e i fiori rossi, squillanti, sono solo un lontano ricordo e prendono la forma di quei diari adolescenziali che ogni tanto tiriamo fuori dal cassetto per comprendere come eravamo e dove siamo andati. Al sorso il Carema tira fuori le unghie e ti aspetta in perfetto equilibrio con l'eleganza di una vecchia signora agghindata per andare alla prima di un'opera lirica. Finale di erbe medicinali, composto e non lunghissimo.

Carema Riserva 2000: sono passati undici anni ma, come spesso si dice, un pò retoricamente, sembra passata un'eternità dal precedente Carema. Motivo? In questo nebbiolo dell'Alto Piemonte ritrovo tutti i caratteri che mi hanno fatto innamorare di questo vino, è un ritorno al primo amore che, evviva i luoghi comuni, non si scorda mai. Al naso è ha una leggiadria ed una vezzosità che non ambisce a stupire, con calma si apre in un ventaglio di profumi floreali che vanno dalla violetta alla genziana per poi alternarsi in soffuse sensazioni di frutta rossa ancora croccante circondate che fanno da contorno ad una balsamicità e ad una mineralità che col tempo si fanno sempre più presenti. Al gusto è rigoroso, ficcante come una lama appuntita, duro quanto la mineralità che sprigiona accerchiando il palato fornendo equilibrio e piacevolezza allo stato puro. L'archetipo del Carema che vorrei.



Carema Riserva 2003: prima di stappare la bottiglia tutti a storcere il naso, lo stereotipo della 2003 come annata calda da vini marmellata ovunque in Italia è difficile da distruggere nella mente delle persone. Già il Brunello di Montalcino Biondi Santi, ad esempio, ha dato prova contraria e, se posso, da oggi anche questo Carema Riserva viaggerà sulla stessa lunghezza d'onda. Rispetto al millesimo 2000 c'è molta più frutta, non rossa croccante, ma leggermente più nera, boschiva, perfettamente integra e succosa. Il lieve maggior apporto di alcol e morbidezza fruttata viene corroborato senza dubbio al sorso che esalta la componente dura del vino che rimane comunque integro, fresco, minerale e con quel tocco di solarità che, seppur non rendendolo di magnifica complessità, dona la giusta gradevolezza. Un'altra ottima e commovente interpretazione dell'annata c.d. calda.

Carema Riserva 2006: il millesimo più vivace, che qualcuno definirebbe "classico", regala un nebbiolo acuto e dinamico che non farei fatica, alla cieca, a riportare nella zona dell'Alto Piemonte. Il Carema, dal punto di vista aromatico, cambia continuamente nel bicchiere disegnando un piano cartesiano dove troviamo nelle ordinate la florealità rossa primaverile, nelle ascisse l'austera mineralità (scambiata quasi per tratto ematico). Questo vino però no, non si ferma qua e, non troppo sorprendentemente, aggiunte una terza dimensione che prende la forma della frutta agrumata e del melograno creando uno spazio euclideo del piacere che pochi vini sanno disegnare. Al sorso ha la giusta precisione ed intensità unità ad un corpo armonioso e solenne, soprattutto nel tannino fitto ma maturo. Chiusura di grande sobrietà ma lunga, persistente e sapida. Grande classe!


Foto: http://www.wine-searcher.com/

Carema Riserva 2008: probabilmente le note di degustazione che seguono fanno riferimento ad una bottiglia non troppo performante visto che, a sorpresa, ho trovato questo vino estremamente semplice, quasi rustico nel suo quadro olfattivo che, a parte qualche cenno floreale e balsamico, forniva intense sensazioni cosmetiche e di frutta estiva che nemmeno lontanamente potevano legare questo vino al vitigno nebbiolo. Anche al sorso è abbastanza banale, manca la solita profondità e l'ampiezza gustativa che rimane orfana delle durezze e dell'austerità del Carema. Almeno, del mio Carema. Riproverò a breve perchè sono sicuro che non può essere così!

Carema Riserva 2009: Wikipedia scrive che fin dall'antichità un modo per esternare la propria approvazione e il proprio consenso. Già gli antichi romani lo facevano nelle arene producendo un suono secco e forte che solitamente, unito a quello di altre persone, risulta simile a uno scroscio. Nell'antica Mesopotamia, invece, venivano utilizzati per coprire le grida delle vittime sacrificali durante i riti religiosi. Oggi, invece, lo si produce al termine di spettacoli, concerti, recite teatrali, anche "a scena aperta" (a seguito di battute particolarmente divertenti e consone alla situazione), o con momenti di eventi sportivi nei quali si vuole sottolineare la bravura del campione per il quale si fa il tifo. 
Si chiama APPLAUSO , lo stesso che io faccio virtualmente agli 81 soci della cooperativa che da anni si sbattono per tutelare un pezzo un territorio unico e che,  in questa annata, l'ultima in commercio, ci regalano un vino a cui batto le mani per il suo essere cristallino e rilucente come il più prezioso dei diamanti. Un Carema che è tutto terroir, che al sorso sviscera durezza e severità piemontese e un allungo minerale che solo un grandissimo nebbiolo può donare. 

Signori, standing ovation!

Il vino invecchia il cervello? Allora dovrei essere già morto cerebralmente!!

A chi dare retta? Agli studi che dicono che un bicchiere al giorno di vino rosso, ricco di resveratrolo, è un toccasana per il nostro fisico oppure ai tanti studi che maledicono la bevanda di bacco?

Su Scienza.fanpage.it è uscito un questi giorni un articolo che mette in allarme noi amanti del vino. Già, ci dice che berlo fa invecchiare il cervello. Non ci credete? Ecco il testo!

Anni bevuti in un bicchiere di vino. Uno al giorno finché in dieci anni non ne passano venti. Secondo una ricerca pubblicata su Neurology e condotta da studiosi delle università di Londra e Parigi, consumare quotidianamente 36 grammi di vino (un bicchiere) per dieci anni accresce l’invecchiamento di 2,4 anni le capacità cognitive, di 5,7 quelle mnemoniche e di 1,5 le funzioni esecutive. Ai dieci anni di invecchiamento “naturale” se ne aggiungerebbero dunque 9,6 causati dall’alcool. Lo studio, durato dodici anni, ha coinvolto 5.054 uomini e 2.099 donne, e ha preso in esame gli effetti dell’alcool effettuando un primo test ad un’età media di 56 anni. In questo modo si è cercato di distinguere le conseguenze dell’alcool dal naturale invecchiamento cerebrale.

La reazione dell’essere umano all’uso frequente di alcool cambia da genere a genere. Per l’uomo le conseguenze sono lineari e di facile individuazione. Birra, vino e superalcolici, infatti, producono effetti negativi in maniera cumulativa: più si beve, maggiori saranno i danni. Le conseguenze dell’alcool sono immediatamente visibili se si confronta un astemio, chi ha smesso di bere molto presto o chi beve meno di 20 grammi al giorno con chi beve soprattutto superalcolici. Per le donne il discorso sembra essere diverso e ben più complesso. Le donne che bevono entro i 19 grammi quotidiani stanno meglio delle astemie e di chi consuma più alcool. Pertanto vi sarebbe una via intermedia migliore non solo dell’eccesso, ma anche dell’astensione completa. Il motivo per cui i due sessi rispondono diversamente all’alcool non è stato ancora spiegato dagli studiosi, ma è noto che uomini e donne non reagiscono agli alcolici nello stesso modo per differenze di metabolismo.E’ probabile che proprio da qui si debba partire per spiegare per quale motivo le donne possano (e debbano) concedersi un po’ di vino.
Foto: vinhill.cn

Bisogna dare retta a questi studi? Mah, tralasciando il mio caso, conosco personalmente persone che dovrebbe essere decedute da molti anni ed invece ancora stanno lì a godersi un bicchiere di buon vino. Certo, l'alcol non fa bene, ma se beviamo responsabilmente e senza eccessi non vedo troppe controindicazioni. Poco ma di ottima qualità, ecco il segreto!
Fonte: http://scienze.fanpage.it

Caves Cooperatives de Donnas - Valle d 'Aosta D.O.C. - Donnas 2006

E' da un pò che l'Altro Nebbiolo, quello che per intenderci non viene dall'area di produzione del Barolo e del Barbaresco, è entrato nel mio cuore di degustatore e amante del vino. 
I motivi? Tanti, magari personali, ma in generale l'unire vino puri, cristallini, eterei, ad un rapporto qualità\prezzo da brividi spinge moltissimo la scelta verso direzioni che vanno dalla Valtellina fino alla Valle D'Aosta, come nel caso di questo post, passando piacevolmente per alcune importanti denominazioni dell'Alto Piemonte come Boca, Gattinara, Lessona e Carema.
Ispirato da Fabrizio Gallino, che col suo libro "Vino in Valle" ha destato nuovo interesse verso i vini della Valle d'Aosta, ho deciso di acquistare da Bulzoni per circa 11 euro una bottiglia di Valle d 'Aosta D.O.C. - Donnas 2006 prodotto da un'altra importante e storica realtà cooperativa come le Caves Cooperatives de Donnaz fondata nel 1971 da un manipolo di vignaioli con l'intendo di tutelare l'appena nata D.O.C Donnaz, la prima della Valle d'Aosta. 


Veduta di Donnas. Foto: http://www.donnasvini.it

Perchè Donnaz e non Donnas? A questo punto è necessario chiarire con le parole di Michele Peyretti:"Donatium latino, Donatio nel 1620, Donax nel 1707, Donas nel 1799, Donnas nel 1800, Donnaz ad inizio secolo, ridiventa Donas dal 1939 al 1945. Dopo la caduta del fascismo che aveva italianizzato i nomi francesi nei nostri comuni, la quasi totalità dei Comuni riprende la precedente denominazione (Champorcher invece di Campo Laris, Pré Saint Didier invece di San Desiderio Terme, La Thuile invece di Porta Littoria ecc. ecc.). Donas diventa Donnaz. Nel 1976 si sostituisce la "z" con la "s". E' per questo che la DOC del 1971 è DONNAZ e tale è rimasta tale fino al nuovo decreto che ha istituito la Doc "Valle d'Aosta Donnas" del 1985. Un'altra curiosità: perché la "s" del plurale nella denominazione sociale "Caves Cooperatives de Donnas"? Perché fino al 1988, i soci hanno conferito alla cooperativa il vino. La vinificazione era fatta presso le varie cantine dei produttori, si trattava quindi di una cooperativa che riuniva le diverse cantine. Nel 1989 con la ristrutturazione e l'ampliamento dell'edifìcio, si è potuto finalmente dotare la cooperativa dei macchinari per vinificare in comune e da allora i soci conferiscono le uve come in tutte le cantine sociali".

A Donnas, piccolo paese della Bassa Valle d'Aosta situato a 300 metri s.l.m., l'attuale Cooperativa conta 86 soci e una superficie vitata totale pari a 26 ettari (!!) dove il nebbiolo, detto localmente "picotendro", fa la parte del leone assieme ad altre uve come vien de Nus, fumin, freisa, neyret, erbaluce e pinot grigio.
La viticoltura, nemmeno a dirlo, è eroica e mi ricorda molto la vicina Carema o la Valtellina vista la notevole parcellizzazione e la forte pendenza dei vigneti che, storicamente, viene affrontata con terrazzamenti sostenuti da muri a secco alti anche 4 metri collegati tra loro da ripidi scalini in pietra.

Picotendro. Foto:http://www.donnasvini.it

Il sistema di allevamento è quello classico della pergola, detta localmente "topia", che viene sostenuta da pali in legno di castagno, preso direttamente dai boschi nei dintorni, o dalla caratteristiche colonne in pietra dalla forma tronco-conica. Le differenze con il Carema DOC, areale che dista poco più di 5 km, sono davvero minime in questo caso!

Foto:http://www.donnasvini.it
Foto:http://www.donnasvini.it

Una viticoltura estrema, fatta di passione e sudore, che fornisce vini dalla grande personalità e mai banali come questo Valle d'Aosta D.O.C. - Donnas 2006 (90% nebbiolo, 10% freisa e neyret) vinificato in vasche d'acciaio per circa 10 giorni e successivamente affinato per 12 mesi in botti di rovere francese da 25 hl e successivamente in bottiglia per almeno un altro anno.


Aprendo questo Donnas e, successivamente, esaminando il suo aspetto olfattivo, ti rendi subito conto che hai di fronte un vino duro, contratto, compatto, che probabilmente farebbe scappare la maggior parte dei wine lovers che cercano la morbidezza e la dolcezza di frutto nel vino.
No, qua c'è tutta l'asprezza del terroir che esalta l'austerità del picotendro valdostano donando un profilo aromatico che, disegnandosi col passare del tempo, assume la forma della ferro, della ghisa, delle spezie rosse e nere, del sottobosco invernale, della viola appassita.
Tutt'altro che un vino "piacione", soprattutto al palato che viene irrorato dalla nobile durezza del Donnas fatta di prepotente freschezza e trama tannica di grande maturità e fittezza. E' un sorso di grande austerità e verticalità dove ritrovo il territorio e il rispetto del giusto tempo di affinamento. Finale serio, deciso, lunghissimo e caratterizzato da ritorni salini, iodati.



Da quello che scrivo sembra un vino difficile ma vi posso assicurare che ha una bevibilità eccelsa visto che non si porta dietro nessuna pesantezza di sorta. 
Il Donnas 2006 è un vino rigoroso ma soave, chiuso come un montanaro ma, se saprete apprezzare le sue caratteristiche, vi porterà in cima a vette ancora inesplorate.

Se volete abbinarlo a piatti regionali valdostani, vi posso consigliare un matrimonio d'amore con la zuppa di cavoli o di cipolle, col risotto al vino di Donnas ma anche con piatti più rustici come la polenta concia, spezzatino o fonduta a base di fontina stagionata.

Sul sito della'azienda c'è anche questa ricetta:

Carbonada

INGREDIENTI:

800 gr di carne di manzo (meglio se sotto sale)
gr 25 di burro
gr 50 di pancetta
una cipolla
un po' di farina bianca
sale
pepe
cannella in polvere
noce moscata
chiodi di garofano
mezza bottiglia (3 bicchieri) di Donnas

PREPARAZIONE:

Far cuocere, senza rosolare, la cipolla tritata finemente con la pancetta tagliata a dadini. Togliere la pancetta e le cipolle e nello stesso burro cuocere a fuoco vivo la carne tagliata a dadini, condirla quindi con sale, pepe, noce moscata, cannella e chiodi di garofano e spolverare con la farina. Aggiungere il vino e far cuocere a fuoco basso. Servire con patate bollite o polenta.


La Carbonada. Foto: www.buonissimo.org


Verdicchio contro Fiano: la sfida finale?

Fiano e Verdicchio, due grandi vitigni italiani, sono stati valutati e comparati poco tempo fa a Roma in una sfida dove l'obiettivo finale era quello di valutare riconoscibilità e capacità di evoluzione dei relativi vini.
Sono state disposte quattro batterie da tre vini, ciascuna caratterizzata da alcuni elementi comuni come annata o territorio. Tutto è stato eseguito rigorosamente alla cieca. Vediamo come è andata?

PRIMA BATTERIA

Il vino è indiscutibilmente irpino. E' ancora chiuso, giovane, escono sottotraccia i fiori, sbuffi vegetali che terminano con una nota fumè e tostata. Bocca nervosa, tesa, progressiva, finale salino. Avrà un bel futuro il Fiano di Avellino 2011 di Ciro Picariello.

Il secondo vino sembra uscito da un quadro di Botero, è largo, godurioso, sa di frutta matura, esotica. Il sorso è morbido, caldo, intenso, quasi masticabile il vino in bocca. Non può che essere un verdicchio e solo un produttore ha questo stile inconfondibile. Trattasi del Verdicchio di Jesi "San Michele" 2010 di Vallerosa Bonci.

Il terzo vino sembra il più evoluto dei tre per delle note autunnali che, a mio parere, cominciavano a farsi notare all'olfatto. E' anche il più minerale con una netta espressione di pietra focaia. In bocca è maturo, morbido, rotondo ma meno boteriano del precedente per un equilibrio che questa volta è più convincente. Verdicchio con qualche dubbio per me stavolta. Scelta vincente. Trattasi di Verdicchio di Jesi "Capovolto" 2010 de La Marche di San Michele. Stesso vitigno e stessa zona di Vallerosa Bonci. Qualcosa vorrà dire..

Vittoria per il Fiano 2011 di Picariello

Foto: Salumeria Roscioli

SECONDA BATTERIA

Tappone per il primo vino che avevo già degustato durante il mio tour irpino. Peccato perchè era un grande Fiano di Avellino, annata 2010, di Rocca del Principe.

Col vino successivo, appena metti il naso nel bicchiere, capisci che si cambia marcia. L'espressione olfattiva è di grande intensità ed eleganza, l'affumicatura prende la forma della torba e per un pò pensi di stare ad odorare un grande whisky dell'isola scozzese di Skye. Poi, col tempo, escono sensazioni di agrumi, zafferano, terra. Bocca immensa, fresca ed opulenta allo stesso tempo, tridimensionale nella progressione al palato. Finale sapido, terroso, infinito. E' un grande Fiano questo. Di nuovo Picariello che non ho riconosciuto al volo perchè non pensavo ad un bis. E' il  Fiano di Avellino 2008, da comprare a casse!

Col terzo vino si ritorna verso situazione aromatiche più fruttate anche se questa volta sembra che tutta la materia sia stata infilata all'interno di un contenitore pieno di zucchero a velo. Un profilo "dolciastro" e piacione fa da anticamera ad un sorso stanco che arriva fino ad un certo punto ma poi crolla per mancanza di quella spina dorsale chiamata acidità. Verdicchio senza dubbio per me anche se trattasi dell'ennesima versione di vino "vorrei ma non posso". Colpa del manico? Trattasi comunque di Verdicchio dei Castelli di Jesi "Albiano" 2008 di Marotti Campi

Vittoria per il Fiano 2008 di Picariello

Foto: Salumeria Roscioli

TERZA BATTERIA

Il timbro aromatico a metà tra l'affumicato e il tostato ti riporta inevitabilmente in Irpinia ed in particolare a Summonte. Fiano sicuro al 100%. Oltre ai precedenti descrittore, aprendosi, il vino offre sentori di mela cotogna, limone candito. In  bocca si coniugano complessità, potenza e struttura, tutti fili che si intrecciano alla perfezione formando un arazzo territoriale da appendere alle porte di ogni cantina che si rispetti. La 2008 da quelle parti è stata una grande annata e Guido Marsella ha interpretato il suo Fiano di Avellino nel modo migliore.

Il secondo vino ti riporta al mare appena lo annusi, sa di sale e sole per poi lasciare affiorare la ginestra, il fieno, l'anice, l'oliva verde e la pietra focaia. Bocca densa che scorre nel palato lentamente ma inesorabile con i suoi ritorni di agrumi e sale. Persistenza infinita. E' un grandissimo vino, un grandissimo Verdicchio che non puoi non "beccare" alla cieca. Trattasi del Mirum 2007 della Fattoria la Monacesca

Nel bicchiere contenente il terzo vino metto il naso più volte ma non riesco a capire di cosa si tratta. Venditti direbbe che è "...chiuso come le chiese quando ti vuoi confessare...". L'esperienza mi dice che siamo di fronte a tanta materia che per ora ha i caratteri dell'algidità e della purezza cristallina che a volte prende la forma dei fiori bianchi e a volta quella della mineralità silicea. Bocca marina, salina, tesa, in divenire. E' il vino più faticoso da riconoscere. E' il Fiano di Avellino "Cupo" 2008 di Pietracupa. Da stappare tra un paio di anni per iniziare a godere.

Vittoria per il Mirum, di un soffio...

Foto:www.wine-searcher.com 

QUARTA BATTERIA

Il vino ha spiccata connotazione ossidativa che a mio giudizio maschera indelebilmente i caratteri del vitigno di partenza che anche i RIS farebbero fatica ad individuare. Appena vedo il tappo della bottiglia, di silicone di scarsissima qualità, capisco che probabilmente lo stato evolutivo avanzato del vino non dipende dall'annata di produzione. La tanta frutta candita al naso e una bocca che pare uscita da un distillato comprato al supermercato non aiutano la degustazione che termina mestamente strappando la carta argentata che copre l'etichetta del vino. A sorpresa è un Verdicchio dei Castelli di Jesi 2007 della Fattoria il Coroncino. Bottiglia sfigata o....?

Il colore farebbe pensare ad un vino appena uscito dalla cantina e anche al naso, linfatico e ricco di mineralità e fragranze di erbe aromatiche, sambuco, agrumi e non so quanta altra roba. Bocca sapida, ammandorlata, appagante, piena e caratterizzata dalla grande persistenza fruttata ed agrumata. Non finisce mai. So che è un verdicchio, è facile individuarlo. Difficile, e mi complimento visto che mi succede di rado, è riconoscere alla cieca il Verdicchio dei Castelli di Jesi "Riserva 2006" di Garofoli. Caspiterina che vino, giovanissimo nonostante sette anni di età. Nel futuro ci riserverà tante sorprese!

Al naso la prima cosa che noti è la grande complessità di un vino che sicuramente ha qualche anno sulle spalle. Naso caledoscopico dal timbro prettamente vegetale, contadino, dove emergono le note di basilico, timo, maggiorana, fieno bagnato. Poi, col tempo, esce la "canna di fucile" a cui seguono sensazione di pesca matura e nocciola. Bingo, siamo in terra di Fiano! Bocca austera, quasi d'antan, che coniuga setosità e floridezza, vivacità e determinatezza. Quando hanno scoperto l'etichetta ho tirato un sospiro di sollievo. Non poteva che essere un grande vino di un grande vignaiolo: Fiano di Avellino Villa Diamante "Vigna della Congregazione" 2006!!

Vittoria per....difficile dirlo...Fiano di Antoine Gaita per una mezza misura

Foto: Cucchiaio.it

Piccole considerazioni finali: nonostante una maggiore preferenza per il Fiano non posso dire che questi abbia vinto inesorabilmente sul Verdicchio, magari avrà vinto una battaglia ma la "guerra" è ancora lunga e apertissima, per le Marche mancavano all'appello alcuni numeri uno come Villa Bucci o Collestefano che in futuro potranno riequilibrare la sfida, se ti sfida vogliamo  parlare. 

Intanto, se vi va, provate ad indicare i prossimi contendenti!

Alla prossima