di Luciano Pignataro
I personaggi che legano la propria esistenza alla produzione di vino sono sempre particolari, coinvolgenti, a volte forse spiazzanti. Almeno quelli della prima ondata post metanolo. Luigi Tecce è sicuramente un produttore di carattere, con le idee ben chiare, andare a trovarlo ti consente anche di far un aggiornamento e capire in che direzione va chi ha qualcosa da dire nel mondo del vino. Ecco perché con lui ci prendiamo sempre tempo, meglio il primo pomeriggio, e iniziamo a rilassarci sin dalle curve che salgono a Paternopoli che insieme a Castelfranci costituisce la parte più alta dell’areale della DOCG Taurasi. Che adesso per noi diventa un riferimento puramente geografico visto che il Nostro ha deciso di mandare a quel paese il disciplinare e di uscire con i propri vini senza marchio europeo. “Vedi, l’ultima bottiglia che a breve va in commercio, Io Vino? Mai avrei potuto mettere questo termine ed associarlo a me, alle mie idee. Uscire dalle regole me lo consente ed ecco a voi Io Vino”. Un grande aglianico che costerà, in uscita dalla cantina, sui cento euro per poco più di 2500 bottiglie.
Luigi è sostanzialmente una persona libera che ama raccontare la resilienza contadina alle banalità del mondo moderno. La metafora anarcoide degli irpini di montagna, avulsi dall’algoritmo come i loro nonni hanno sempre fatto a meno dell’orologio. I sei ettari di vigneto da cui escono circa 22mila bottiglie sono posizionati sul versante di una collina battuta di continuo da venti freschi, le uve vengono comunque selezionate con grande attenzione: ogni grappolo arrivato in cantina deve essere perfetto. Infatti i tempi di vendemmia sono piuttosto lunghi ed un sapiente uso dei legni, carato, barrique e tonneaux, danno il tocco finale: ogni annata stabilisce il giusto impiego delle varie botti le cui tostature sono sempre ben digerite dal corpo del vino e mai dominanti. Il risultato di tanta attenzione si materializza sempre in un vino straordinario. Luigi racconta che nei giorni precedenti la vendemmia assaggia di continuo i vinaccioli e solo quando sono maturi e quindi hanno perso l’asprezza ostinata, si decide a vendemmiare. Senza ombra di dubbio anche il territorio fa la sua giusta parte, siamo nella zona tra i 500 ed i 600 metri, con una esposizione a sud che consente una buona maturazione dell’uva in una zona dove il freddo è stato sempre piuttosto pungente.
Luigi Tecce ha senza dubbio il dono di saper assecondare e valorizzare al massimo l’esuberanza a tratti spigolosa ed a tratti avvolgente dell’aglianico. Gli è bastato seguire l’insegnamento dei nonni a loro volta viticoltori, i quali, seguendo semplici principi dettati dalla lunga esperienza tramandata di generazione in generazione, puntavano principalmente ad ottenere un’uva sana ed a raggiungere la giusta maturazione. l segreto di questi vini, non è retorica scriverlo, è proprio nel rapporto maniacale con la frutta che è poi il filo conduttore di tutte le annate, con diverse sfumature ma certo.
Come spesso diciamo, non saranno i vini migliori del mondo, ma sono unici. E l’unicità, oltre al tempo, sono i due valori più importanti nella epoca della velocità e della omologazione. Un piccolo artigiano questo deve fare, non rincorrere perché la modernità in questo caso è andare lento pede. Si potrebbe pensare che siamo di fronte a un leader dei vini naturali….niente affatto!
La retorica commerciale su questo tema lo vede insofferente quanto le certezze della viticoltura convenzionale. Ecco perché nella sua cantina ha usato una vite centenaria prefillosssera alla quale ha appeso le sue bottiglie, quasi una composizione artistica che lui chiama ironicamente “l’albero del vino naturale”.
Il vino è la sintesi dell’uomo e della natura, il primo deve capire la seconda e assecondarla, ma anche intervenire quando è necessario. “Lo sapevano bene i nostri nonni che hanno sempre sudato vicino alla vigna”. “Il vino – aggiunge – è un progetto, non conta quello che sta nel bicchiere, ma il paesaggio in cui è compreso anche l’uomo, non solo la natura”. Insomma, una sorta di terza via nello scontro fra vini naturali e convenzionali o meglio, una visione pasoliniana della viticoltura che si aggancia alle al modo di vedere che Mario Soldati ci ha lasciato nei suoi documentari del 1957 e nel mitico “Vino al Vino”: è il momento del “vino culturale”
Mamam 2020
Partiamo con il bianco, un blend di fiano, greco e coda di volpe. La capacità di trasmettere la sensazione di frutta al palato è incredibile, viene voglia di masticare non perché il sorso sia denso, ma proprio perché ha la percezione di aver e frutta in bocca. Fresco, dai toni finali amari, bevibile, meraviglioso.
Calipso 2022
Cerco ancora un produttore italiano che abbia la capacità di farmi provare l’emozione dei rosati di Lopez de Heredia e stavolta con questo ci siamo andati molto vicino. Rispetto agli spagnoli citata manca un po’ di finezza, ma ha la complessità, la freschezza, il sorso lungo che avvolge e fa sognare.
Io Vino 2021
Coniamo un termine più complesso per questa etichetta, il «vino culturale», come espressione completa della sinergia fra natura e uomo. Aglianico straordinario, assolutamente bevibile, ricco di energia, lavorato fra legni grandi e piccoli e con una parte in acciaio, sicuramente ricco ma al tempo stesso agile e scattante, più a la page rispetto alle tendenze moderne. Un vino da stappare anche subito se si vuole godere del frutto, da conservare chi ama pazientare in attesa delle evoluzioni che inevitabilmente ci saranno.
Diavolo Pazzo
Questa edizione in meno di 700 bottiglie vede la collaborazione di Gianluca Cestone di un vino dedicato alla convivialità, in cui l’aglianico monumentale di Paternopoli incontra la Volpe Rossa, uva dai contorni non ancora studiati con decisione ma che contribuisce a rendere, grazie ai tannini delicati simili a quelli del Piedirosso, l’Aglianico più delicato e bevibile. Quello che però mi piace di questo rosso è che la semplicità non vuol dire banalità, anzi, il naso è complesso e affascinante, il sorso comunque pieno e lungo.
Poliphemo 2016 Taurasi docg
Andiamo allora all’ultimo suo Taurasi ufficiale, quello con la fascetta. Le 1250 bottiglie sono uscite centellinate dalla cantina, l’annata pine e solare esplode in tutta la sua potenza. Mi viene in mente un paragone che ho fatto spesso con i rossi di Luigi, che ricordano al tempo stesso la potenza e l’agilità di Cassius Clay. Note di camino. Immortale.
Purosangue 2014 Taurasi Riserva docg
Interrompiamo il sequel dei Poliphemo con l’intrusione di quello è da più parti è stato considerato il vino più buono ed emozionante mai fatto da Luigi Tecce. Figlio di una annata considerata minore, questa circostanza ha incrociato bene la sensibilità manuale sulla frutta che il nostro viticultore ha letteralmente nel sangue e l’uva è arrivata semplicemente perfetta. Il vino ha sostato un anno in più del necessario e si presenta al naso ancora con frutta croccante, note ematiche, di sottobosco, funghi, fumé, cenere, scorza di arancio. Al palato a dieci anni dalla vendemmia è agile e scattante. Imperdibile.
Poliphemo 2011 Taurasi DOCG
Scendiamo verso un’altra annata calda, che nelle zone fredde come l’Irpinia ha dato non poche soddisfazioni. Ogni annata ha la sua storia, ed eccoci allora con 6500 bottiglie, un rosso in splendida forma, esuberante, composto, capace di fondere benissimo il frutto e il legno, sempre usato in maniera magistrale, come le pinne per un nuotatore. Magico
Poliphemo. 2010 Taurasi DOCG
Scaliamo di un anno e la differenza di annata di sente, siamo all’opposto del precedente, le bottiglie prodotte sono 4800 più cento magnum. Il sorso è più veloce, molto fresco, la frutta si fonde a sentori di tabacco, spezie, humus, ha davvero ancora tanto da spendere nei prossimi anni.
Poliphemo 2006 Taurasi DOCG
Tecce si ricorda perfettamente dei miei gusti, sa bene che quest’annata generò enorme entusiasmo da parte mia e devo dire, modestia a parte, che non mi sbagliavo. A distanza di anni questo capolavoro si mantiene intatto, sfida il tempo come un dolmen in una posizione di assoluto equilibro fra legno e frutto, alcool e tannini, il tutto sostenuto da una straordinaria energia e una conclusione praticamente infinita.
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Ci alziamo, sono trascorse quattro ore e il buio silente inizia ad avvolgere le operose colline di questa Irpinia affascinante, laboriosa, discreta. L’ultimo sorso è una bottiglia di Poliphemo 2003, di quelle rimaste in cantina senza etichetta, la sua prima vendemmia commercializzata. Inutile dire in perfetta forma. Sono questi incontri di verità che mi appagano e che mi evitano la noia.
Vini unici firmati da un personaggio unico.