Luigi Tecce e i vini culturali


di Luciano Pignataro

I personaggi che legano la propria esistenza alla produzione di vino sono sempre particolari, coinvolgenti, a volte forse spiazzanti. Almeno quelli della prima ondata post metanolo. Luigi Tecce è sicuramente un produttore di carattere, con le idee ben chiare, andare a trovarlo ti consente anche di far un aggiornamento e capire in che direzione va chi ha qualcosa da dire nel mondo del vino. Ecco perché con lui ci prendiamo sempre tempo, meglio il primo pomeriggio, e iniziamo a rilassarci sin dalle curve che salgono a Paternopoli che insieme a Castelfranci costituisce la parte più alta dell’areale della DOCG Taurasi. Che adesso per noi diventa un riferimento puramente geografico visto che il Nostro ha deciso di mandare a quel paese il disciplinare e di uscire con i propri vini senza marchio europeo. “Vedi, l’ultima bottiglia che a breve va in commercio, Io Vino? Mai avrei potuto mettere questo termine ed associarlo a me, alle mie idee. Uscire dalle regole me lo consente ed ecco a voi Io Vino”. Un grande aglianico che costerà, in uscita dalla cantina, sui cento euro per poco più di 2500 bottiglie.


Luigi è sostanzialmente una persona libera che ama raccontare la resilienza contadina alle banalità del mondo moderno. La metafora anarcoide degli irpini di montagna, avulsi dall’algoritmo come i loro nonni hanno sempre fatto a meno dell’orologio. I sei ettari di vigneto da cui escono circa 22mila bottiglie sono posizionati sul versante di una collina battuta di continuo da venti freschi, le uve vengono comunque selezionate con grande attenzione: ogni grappolo arrivato in cantina deve essere perfetto. Infatti i tempi di vendemmia sono piuttosto lunghi ed un sapiente uso dei legni, carato, barrique e tonneaux, danno il tocco finale: ogni annata stabilisce il giusto impiego delle varie botti le cui tostature sono sempre ben digerite dal corpo del vino e mai dominanti. Il risultato di tanta attenzione si materializza sempre in un vino straordinario. Luigi racconta che nei giorni precedenti la vendemmia assaggia di continuo i vinaccioli e solo quando sono maturi e quindi hanno perso l’asprezza ostinata, si decide a vendemmiare. Senza ombra di dubbio anche il territorio fa la sua giusta parte, siamo nella zona tra i 500 ed i 600 metri, con una esposizione a sud che consente una buona maturazione dell’uva in una zona dove il freddo è stato sempre piuttosto pungente. 


Luigi Tecce ha senza dubbio il dono di saper assecondare e valorizzare al massimo l’esuberanza a tratti spigolosa ed a tratti avvolgente dell’aglianico. Gli è bastato seguire l’insegnamento dei nonni a loro volta viticoltori, i quali, seguendo semplici principi dettati dalla lunga esperienza tramandata di generazione in generazione, puntavano principalmente ad ottenere un’uva sana ed a raggiungere la giusta maturazione. l segreto di questi vini, non è retorica scriverlo, è proprio nel rapporto maniacale con la frutta che è poi il filo conduttore di tutte le annate, con diverse sfumature ma certo.


Come spesso diciamo, non saranno i vini migliori del mondo, ma sono unici. E l’unicità, oltre al tempo, sono i due valori più importanti nella epoca della velocità e della omologazione. Un piccolo artigiano questo deve fare, non rincorrere perché la modernità in questo caso è andare lento pede. Si potrebbe pensare che siamo di fronte a un leader dei vini naturali….niente affatto!
La retorica commerciale su questo tema lo vede insofferente quanto le certezze della viticoltura convenzionale. Ecco perché nella sua cantina ha usato una vite centenaria prefillosssera alla quale ha appeso le sue bottiglie, quasi una composizione artistica che lui chiama ironicamente “l’albero del vino naturale”.
Il vino è la sintesi dell’uomo e della natura, il primo deve capire la seconda e assecondarla, ma anche intervenire quando è necessario. “Lo sapevano bene i nostri nonni che hanno sempre sudato vicino alla vigna”. “Il vino – aggiunge – è un progetto, non conta quello che sta nel bicchiere, ma il paesaggio in cui è compreso anche l’uomo, non solo la natura”. Insomma, una sorta di terza via nello scontro fra vini naturali e convenzionali o meglio, una visione pasoliniana della viticoltura che si aggancia alle al modo di vedere che Mario Soldati ci ha lasciato nei suoi documentari del 1957 e nel mitico “Vino al Vino”: è il momento del “vino culturale


Il vino come occasione di incontro, di essere comunità, essere conviviali. Dunque le bottiglie le proviamo fra formaggi. Salsicce, soppressate, uova sode, pane con burro e alici: una merenda pomeridiana, anche se Luigi Tecce è un ottimo cuciniere e ama ricevere e le persone in questo modo. Inizia così, fra le chiacchiere che in qualche modo vi ho anticipato e un boccone di pecorino di Bagnoli Irpino, una bella cavalcata della sua attività di viticoltore, iniziata con la vendemmia 2003 che, se ricordata, fu la prima veramente calda da quando è la moderna viticoltura italiana.

Mamam 2020

Partiamo con il bianco, un blend di fiano, greco e coda di volpe. La capacità di trasmettere la sensazione di frutta al palato è incredibile, viene voglia di masticare non perché il sorso sia denso, ma proprio perché ha la percezione di aver e frutta in bocca. Fresco, dai toni finali amari, bevibile, meraviglioso.

Calipso 2022

Cerco ancora un produttore italiano che abbia la capacità di farmi provare l’emozione dei rosati di Lopez de Heredia e stavolta con questo ci siamo andati molto vicino. Rispetto agli spagnoli citata manca un po’ di finezza, ma ha la complessità, la freschezza, il sorso lungo che avvolge e fa sognare.

Io Vino 2021

Coniamo un termine più complesso per questa etichetta, il «vino culturale», come espressione completa della sinergia fra natura e uomo. Aglianico straordinario, assolutamente bevibile, ricco di energia, lavorato fra legni grandi e piccoli e con una parte in acciaio, sicuramente ricco ma al tempo stesso agile e scattante, più a la page rispetto alle tendenze moderne. Un vino da stappare anche subito se si vuole godere del frutto, da conservare chi ama pazientare in attesa delle evoluzioni che inevitabilmente ci saranno.

Diavolo Pazzo

Questa edizione in meno di 700 bottiglie vede la collaborazione di Gianluca Cestone di un vino dedicato alla convivialità, in cui l’aglianico monumentale di Paternopoli incontra la Volpe Rossa, uva dai contorni non ancora studiati con decisione ma che contribuisce a rendere, grazie ai tannini delicati simili a quelli del Piedirosso, l’Aglianico più delicato e bevibile. Quello che però mi piace di questo rosso è che la semplicità non vuol dire banalità, anzi, il naso è complesso e affascinante, il sorso comunque pieno e lungo.

Poliphemo 2016 Taurasi docg

Andiamo allora all’ultimo suo Taurasi ufficiale, quello con la fascetta. Le 1250 bottiglie sono uscite centellinate dalla cantina, l’annata pine e solare esplode in tutta la sua potenza. Mi viene in mente un paragone che ho fatto spesso con i rossi di Luigi, che ricordano al tempo stesso la potenza e l’agilità di Cassius Clay. Note di camino. Immortale.

Purosangue 2014 Taurasi Riserva docg

Interrompiamo il sequel dei Poliphemo con l’intrusione di quello è da più parti è stato considerato il vino più buono ed emozionante mai fatto da Luigi Tecce. Figlio di una annata considerata minore, questa circostanza ha incrociato bene la sensibilità manuale sulla frutta che il nostro viticultore ha letteralmente nel sangue e l’uva è arrivata semplicemente perfetta. Il vino ha sostato un anno in più del necessario e si presenta al naso ancora con frutta croccante, note ematiche, di sottobosco, funghi, fumé, cenere, scorza di arancio. Al palato a dieci anni dalla vendemmia è agile e scattante. Imperdibile.

Poliphemo 2011 Taurasi DOCG

Scendiamo verso un’altra annata calda, che nelle zone fredde come l’Irpinia ha dato non poche soddisfazioni. Ogni annata ha la sua storia, ed eccoci allora con 6500 bottiglie, un rosso in splendida forma, esuberante, composto, capace di fondere benissimo il frutto e il legno, sempre usato in maniera magistrale, come le pinne per un nuotatore. Magico

Poliphemo. 2010 Taurasi DOCG

Scaliamo di un anno e la differenza di annata di sente, siamo all’opposto del precedente, le bottiglie prodotte sono 4800 più cento magnum. Il sorso è più veloce, molto fresco, la frutta si fonde a sentori di tabacco, spezie, humus, ha davvero ancora tanto da spendere nei prossimi anni.

Poliphemo 2006 Taurasi DOCG

Tecce si ricorda perfettamente dei miei gusti, sa bene che quest’annata generò enorme entusiasmo da parte mia e devo dire, modestia a parte, che non mi sbagliavo. A distanza di anni questo capolavoro si mantiene intatto, sfida il tempo come un dolmen in una posizione di assoluto equilibro fra legno e frutto, alcool e tannini, il tutto sostenuto da una straordinaria energia e una conclusione praticamente infinita.

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Ci alziamo, sono trascorse quattro ore e il buio silente inizia ad avvolgere le operose colline di questa Irpinia affascinante, laboriosa, discreta. L’ultimo sorso è una bottiglia di Poliphemo 2003, di quelle rimaste in cantina senza etichetta, la sua prima vendemmia commercializzata. Inutile dire in perfetta forma. Sono questi incontri di verità che mi appagano e che mi evitano la noia. 

Vini unici firmati da un personaggio unico.

Champagne Experience: la VII edizione si svolgerà a Modena il 20 e 21 ottobre


Mancano ormai pochi giorni all’apertura della VII° edizione di Champagne Experience, manifestazione di riferimento in Italia dedicata allo champagne e che si svolgerà negli spazi di ModenaFiere domenica 20 e lunedì 21 ottobre 2024. L’evento è organizzato da Excellence - Società Italiana Distributori e Importatori Srl, realtà che riunisce ventuno tra i maggiori importatori e distributori italiani di vini e distillati d’eccellenza.


Anche questa edizione offrirà agli operatori professionali e agli appassionati un’occasione unica per approfondire la conoscenza del mondo dello champagne grazie alla presenza di più di 900 etichette in degustazione in rappresentanza di 167 realtà suddivise tra storiche Maison e piccoli vigneron.

La suddivisione espositiva dei vini, in base alla loro appartenenza geografica, corrispondente alle diverse zone di produzione della Champagne – Montagne de Reims, Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Côte des Bar – oltre alle “maison classiche” riunite in una specifica area, è confermata anche quest’anno all’interno dei cinquemila metri quadrati dei Padiglioni di ModenaFiere.

“La macchina organizzativa di Champagne Experience è pronta per accogliere tutti i professionisti, gli operatori e gli amanti dello champagne che si sono già accreditati” afferma Luca Cuzziol, presidente della Società Italiana Distributori e Importatori. “Sono ormai quasi esauriti anche i posti a disposizione per le master class che, come ogni anno, rappresentano un fiore all’occhiello della manifestazione e consentono di approfondire temi specifici grazie alla presenza di ospiti esclusivi e relatori di grande professionalità”.

Saranno 6 le master class, suddivise nei due giorni di manifestazione. Si parte domenica 20 ottobre, alle 12.30 con la master class dal titolo “DA CHOUILLY A MESNIL-SUR-OGER”, condotta da uno dei giornalisti e divulgatori più esperti di champagne in Italia come Alberto Lupetti: non sarà un generico confronto sui Blanc de Blancs, ma un vero e proprio viaggio sensoriale che permetterà ai partecipanti di comprendere le piccole, ma decisive differenze, di due terroir molti vicini tra loro.

Allo stesso orario il sommelier Luca Boccoli condurrà il coinvolgente incontro “IL BUIO OLTRE IL PERLAGE”, una master class dove i partecipanti assaggeranno 6 cuvée bendati, guidati da un grande degustatore non vedente.

Champagne Experience non può non avere un relatore d’oltralpe e quest’anno sarà presente Geoffrey Orban, direttore di Educavin, consulente e formatore che da oltre 20 anni si impegna e lavora per la divulgazione e la conoscenza della Champagne: unisce studi parcellari a degustazioni geo sensoriali dei terreni, per far comprendere le interazioni tra suolo, vite e frutto. Saranno due gli incontri che lo vedranno protagonista e conduttore, sempre domenica 20 ottobre: il primo, dal titolo: “AUBE, RICEYS E MONTGUEUX” alle ore 14.00, il secondo, “QUALITÀ TRA PICCOLE E GRANDI MAISON” alle 15.30.

Lunedì 21 ottobre altre due master class vedranno come relatore sempre Alberto Lupetti: si parte alle 12.30 con “DA BOUZY AD AY” e si conclude alle 15.30 con “COTEAUX CHAMPENOIS”. Quest’anno si rinnova la collaborazione tra Modena Champagne Experience e Champagne de Vignerons, associazione creata nel 2001 dal Syndicat Général des Vignerons de la Champagne con l’obiettivo di diffondere il lavoro svolto dai piccoli vignerons.

Il calendario degli appuntamenti, infine, contiene una serie di Sponsor Class, organizzate dai partner di Champagne Experience, dedicate non solo allo champagne, ma anche a prodotti d’eccellenza del territorio emiliano. A questo proposito anche quest’anno saranno presenti come partner della manifestazione il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano e il Consorzio Tutela Lambrusco.

Tutti i servizi di ristorazione durante la manifestazione saranno curati dal Consorzio Modena a Tavola, mentre quello dei vini, da ONAV (Organizzazione Nazionale degli Assaggiatori di Vino), storico partner di Champagne Experience.

Champagne Experience si svolge con il patrocinio del Comune di Modena e il sostegno della Camera di Commercio di Modena: il loro contributo e la loro presenza al fianco della manifestazione sono fondamentali per l’organizzazione di questa importante manifestazione.

Tutte le informazioni sulla manifestazione e sulle master class sul sito di Modena Champagne Experience: www.champagneexperience.it

InvecchiatIGP: Querciabella - Chianti Classico 1994


di Carlo Macchi

Le annate dal 1991 al 1995 in Chianti Classico (e non solo) sono state veramente difficili. A parte la catastrofica 1992, dove le uve dovevano avere maschera e pinne per arrivare in cantina, le altre annate sono state fredde e più o meno abbastanza piovose. Non per niente definisco questo periodo “la piccola glaciazione chiantigiana”. I vini di quelle annate sul momento erano nella migliore delle ipotesi scorbutici, con acidità pronunciate e tannini rustici, non certo facile da bere. Però negli ultimi 5-6 anni mi è capitato di assaggiare diverse bottiglie di quelle annate e sono sempre rimasto positivamente sorpreso dalla longevità e dall’eleganza di quei vini, dotati di pH più bassi e acidità più alte rispetto ad oggi. Se ci pensate bene in 20 anni si è rovesciato il clima e questo ci dovrebbe far capire quanto sia difficile fare il vignaiolo.


L’annata 1994 non è stata certo la peggiore del quinquennio ma nemmeno la migliore, parlando con qualche produttore mi hanno confermato che fare dei buoni vini era “quasi un miracolo”, ma il Chianti Classico 1994 di Querciabella, assaggiato a Greve in Chianti durante una degustazione di vecchie annate, è la dimostrazione lampante che i miracoli esistono!


Vorrei sottolineare che si parla di Chianti Classico annata, di vino fatto per essere bevuto da giovane, non certo per invecchiare 20 anni. Qui si innesta una mia certezza, che per valutare un’azienda chiantigiana (ma non solo) bisogna prendere in considerazione il vino base, quello più prodotto, e non i “figliol prodigo” a cui si prestano mille attenzioni e mille riguardi. L’uvaggio dichiarato è sangiovese al 95% con un 5% di cabernet sauvignon e merlot.


Il colore è sempre rubino e il naso, permettetemi la licenza poetica, è semplicemente il primo passo sulla scala che porta in paradiso: note balsamiche, di menta, di macchia mediterranea a cui si fondono sentori fruttati. Il legno, se una volta si sentiva, oggi è solo un remoto e piacevole ricordo. In bocca la freschezza che si immagina nel naso si conferma subito, accompagnata da una sensazione setosa data da tannini morbidi ma ancora ben presenti. L’equilibrio, assieme ad un elegante pienezza è tangibile e tutto questo non sparisce in un attimo ma ha una lunghezza notevole e una chiusura magistrale.
Un vino che oltre ad essere buonissimo, rappresenta perfettamente quel periodo di storia chiantigiana e devo dire grazie a Querciabella per avermi (anzi averci) permesso di “toccarla con bocca”.

Poderi Boscarelli - Toscana IGT "Il Bianco" 2022


di Carlo Macchi

Poderi Boscarelli è famoso per i rossi ma questo bianco, specie se bevuto non freddo, è “tanta, ma tanta roba!”. 


Viognier, petit manseng con spiccioli di vermentino (le uve arrivano dalla Maremma e da Cortona) vinificati in acciaio per un vino profumato, rotondo, equilibrato, piacevolissimo.

Facciamo bianchi sempre più buoni a scapito dei grandi bianchi?


di Carlo Macchi

Quando, per la nostra guida vini, abbiamo fatto il conto dei vini degustati e dei Vini Top ci siamo accorti subito che c’era qualcosa che non andava, nel senso che, rispetto all’anno scorso, ci siamo trovati con ben 26 Vini Top in meno, non certo giustificati dai circa 150 vini degustati in meno rispetto all’anno precedente. Anche rispetto al 2021 ci siamo ritrovati con 20 Vini Top in meno. A questo punto ci è venuta l’idea di controllare come, negli anni, sia andata la media punti per ogni tipologia di vini bianchi degustati e ci siamo accorti che la stragrande maggioranza della denominazione da noi degustate, da nord a sud, aveva una media punti sempre più alta a mano a mano che dal 2006 (primo anno della guida) si arriva ad oggi.


In definitiva, prendendo in considerazione gli ultimi 5-6 anni della nostra guida, siamo di fronte a due situazioni che potremmo sintetizzare così: da una parte, anno dopo anno cresce la qualità media dei vini bianchi italiani ma contemporaneamente diminuiscono i vini di altissimo profilo. Se da una parte c’è sicuramente da essere contenti dall’altra crediamo occorra una seria riflessione. Prima di farla vogliamo inimicarci la maggioranza dei colleghi mettendo in discussione l’aumento annuale, spesso spropositato, dei premi distribuiti a destra e a manca. Questa ubriacatura di onorificenze, più o meno vere, mette delle dorate fette di prosciutto sugli occhi del sistema vino italiano, sugli appassionati, sul mercato, comunque sempre più increduli di fronte a questa “premiazione continua”.
Veniamo al dunque: i bianchi italiani sono mediamente più buoni ogni anno che passa e questo è un dato di fatto: i miglioramenti in vigna e in cantina sono stati continui e hanno portato a ottimi risultati, che si ripercuotono sul mercato e sull’aumento del gradimento e delle vendite di questa tipologia.


Sono sempre più buoni ma si assomigliano sempre più. La domanda è perché? Sicuramente gli sviluppi dell’enologia hanno aiutato e stanno aiutando a uscire dalle montagne russe di annate non solo molto più calde ma molto diverse tra loro, però alla fine si arriva solo a buoni bianchi che in più si assomigliano troppo spesso anche tra denominazioni diverse. Forse anche perché si vendemmia sempre più in situazioni dove la maturità delle uve non è il primo punto all’ordine del giorno; meglio stare attenti all’acidità, alla conservazione di determinate caratteristiche aromatiche che, grazie a lieviti e nutrimenti di lieviti si assomigliano al momento che vedranno la luce in cantina.
Scrivendo queste righe ci è venuto in mente il grido di dolore che lancia Yves Confuron (nel bel libro intervista di Camillo Favaro) dall’alto della Borgogna, parlando di standardizzazione che elimina il concetto di annata, ma soprattutto colpisce l’ammissione che con queste stagioni si possono fare dei buoni vini per il mercato ma non dei grandi vini, dei vini da vitigno ma non di territorio.

Yves Confuron

Anche in Italia il clima nelle ultime annate non ha certo aiutato e questo può essere forse il motivo principale di questa situazione: pur lavorando bene si può arrivare solo fino ad un certo (buon) punto, ma è difficile andare oltre. Inoltre (ops!) con il positivo andamento del mercato dei bianchi è forse logico puntare ad un buon risultato e a vini con precise aromaticità, freschezza e nerbo, ma ciò sembra inficiare la strada al grande bianco, sempre più difficile da trovare. Forse tante vigne sono state piantate o ripiantate da poco e anche questo può concorrere a creare un quadro molto buono per buoni/ottimi vini, ma ancora non adatto per il grande bianco, quello che va oltre i pur ottimi standard, quello che quando metti il bicchiere sotto il naso o lo assaggi ti fa sobbalzare e dire, come i bambini della canzonetta, ohhhhh.


Per favore non venite fuori con il solito ritornello che i grandi vini sono quelli rossi! I bianchi italiani hanno grandezza da vendere e vorremmo capire perché, partendo da una base sempre migliore, sempre meno vini bianchi si trasformano da bruco (pur bello) in farfalla. Se volessimo fare un paragone musicale potremmo definire tanti bianchi italiani “Belli senz’anima”.


Forse siamo soltanto noi di Winesurf in questa situazione e qui chiediamo consiglio ai colleghi assaggiatori delle altre guide, o forse ci siamo “adeguati al meglio” nel senso che l’assaggio di migliaia di vini ti porta ad essere un po’ meno attento ai particolari. Sinceramente non crediamo sia così ma lasciamo la porta aperta per il confronto.

Lux Wine, l'enoteca con degustazioni che mancava a Roma Nord


Mattia Favazza guida l’enoteca Lux Wine, progetto che unisce la vendita (in sede e online) e le degustazioni di etichette ricercate, da scoprire ogni giorno, con un ricco calendario di eventi e workshop. Il vino può essere un insegnante migliore dell’inchiostro, afferma l’attore comico e scrittore britannico Stephen Fry. E a ben vedere è un po’ la filosofia che sottende a Lux Wine, enoteca di Roma nord che non si limita a essere un luogo dove assaggiare e acquistare un gran numero di referenze, ma è uno spazio in cui si studia e approfondisce la cultura sul frutto della vite. Lo sa bene Mattia Favazza, mente del progetto, che nell’ultimo decennio ha costruito la sua formazione attraverso importanti tappe. Diventa velocemente un Bibenda Wine Master e dirige vari store a Roma della catena Signorvino.


Ho capito da subito che il vino non è solo ciò che bevi, è cultura, territorio, scoperta continua. E io, da grandissimo curioso, ho deciso di approfondire maggiormente, girare l’Italia e non solo, parlando con produttori, enologi e agronomi, scoprendo storie che oggi condivido con chi entra. Scegliere un’etichetta in enoteca diventa un viaggio che faccio insieme ai miei clienti.” 

Andrea Favazza

In questo percorso Mattia è affiancato dai suoi soci, Flavio e Alessandro Moretti, Diego Favazza, Daniele Ussia, tutti inseriti nella distribuzione di bevande da generazioni. La loro unione dà vita a Lux Wine, un progetto importante in cui si uniscono le passioni, le competenze e le professionalità di tutti loro.

Lux Wine, lo spazio polifunzionale

L’enoteca si trova all’interno del parco commerciale Pandora, in via Cassia. Il locale è una sala unica nel suo genere. Arredata da una bottigliera in legno di rovere lunga 14 metri, interamente illuminata e termocondizionata, ben progettata per mantenere le bottiglie alla giusta temperatura e inclinazione. Il vasto e attento lavoro di ricerca compiuto nei mesi precedenti l’apertura ha permesso di assortirla con le migliori denominazioni provenienti da tutta l’Italia e da svariate etichette internazionali, per un totale di 900 referenze. 


Nel salone spicca il grande tavolo sociale, che può accogliere fino a 35 persone. L’interno è arricchito da una splendida terrazza panoramica e da un parcheggio custodito. Lux Wine è anche eventi. La location è disponibile per cene aziendali di settore e anche per eventi privati, uno spazio da riservare in totale esclusività, nel quale poter esser guidati da un event planner, interna al team del locale.

Lux Wine, avvicinamento al vino: gli eventi di ottobre

“Non sono solo vini. Sono storie.” Il payoff di Lux Wine, caratterizza la ricca programmazione di degustazioni e masterclass. Nel mese di ottobre, il calendario si divide tra il corso di avvicinamento al vino, con cadenza settimanale e un cartellone eventi che si apre venerdì 4 con “Viaggio tra terra e mare nei Domini di Castellare di Castellina”, per continuare giovedì 10 con “La serata del Gin” e sabato 12 con “Alla scoperta di tre grandi vitigni: Nebbiolo - Aglianico - Nerello Mascalese”; si prosegue venerdì 18 con “L’eleganza del Pinot Nero” e infine martedì 22 si chiude con “St. Michael-Eppan”. Orgoglio di queste serate è la partnership con aziende esclusive. “Ci piace l’idea di accompagnare i calici con food selezionato. Per questo ci affidiamo a nomi come quello di Andrea Roscioli, del famoso forno all’Esquilino o a Francesco Loreti, proprietario della Formaggeria Roma, in Piazza Epiro.” Altro fiore all’occhiello in questo mix di eccellenze, la presenza delle Bevande Limori, più volte premiate dal Gambero Rosso, che fanno da contorno alla grande famiglia Lux Wine.


Enoteca Lux Wine
Via cassia 340, Roma
Aperto dal lunedì al sabato (10-19)
Tel. +39 350 069 1854

InvecchiatIGP: Fontodi - Flaccianello della Pieve 1994


di Roberto Giuliani

Quando ho deciso di proporvi un rosso d’antan avevo sperato di avere in cantina ancora una bottiglia di quel meraviglioso Flaccianello della Pieve ’88 che mi rimase nel cuore quando lo assaggiai nel 2001 (chissà se avrebbe retto fino ad oggi…), ma purtroppo non ne avevo più. Il Flaccianello della Pieve nasce nel 1981 dal vigneto omonimo, per mano di Franco Bernabei, enologo che non ha certo bisogno di presentazioni, e Giovanni Manetti, direttore generale dell’azienda Fontodi, acquistata dal padre nel 1968, e oggi al terzo mandato come Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico.
In realtà, fino all’ingresso di Giovanni, la famiglia Manetti era conosciuta per la lavorazione di cotto pregiato, proveniente dall’Impruneta, ma la sua indole era diversa: amante della natura, si è subito innamorato della vigna ed ha lavorato con grande impegno e volontà, arricchendo la sua esperienza sul campo, studiando e visitando le più importanti zone viticole del mondo.


Nella mia cantina, tra le vecchie annate ho ancora a disposizione un quartetto 94-97, visto che siamo nel 2024, sebbene sulla carta è l’annata più “debole”, ho scelto la ’94, trent’anni dalla vendemmia mi sembrano un bel test per un sangiovese in purezza come questo, dal carattere certamente forte e indomabile. 

Vediamo com’è andata…

Apro una parentesi sull’etichetta, decisamente malconcia (e la retro è anche peggio), frutto di una conservazione fatta il primo anno dopo l’acquisto, in una cantina sotterranea che aveva un’umidità quasi del 100%. Dal secondo anno ha riposato fino ad oggi nella cantina climatizzata che avevo acquistato.


Bene, ho estratto il tappo senza difficoltà, integro e dalla tenuta rassicurante. Verso il vino con delicatezza nel calice, tutto fila liscio, nessun deposito e colore granato-aranciato trasparente senza particelle in sospensione.
Lo lascio respirare qualche minuto, giusto per permettergli di aprirsi un po’, poi faccio la prima immersione olfattiva (in realtà è la seconda, in quanto avevo già sentito subito come stava, per tranquillizzarmi…) e noto con piacere che è un profumo ancora vivo, invitante, senza puzzette o sensazioni troppo evolute.


Ragazzi, cosa posso dire, a me questo bouquet piace di brutto, non voglio elencarvi tutti i sentori, ma in sintesi è evidente una componente terziaria (e ci mancherebbe!) ma molto fine, è un trionfo del sottobosco, ma dai toni freschi, tanto da sciorinare una preziosa arancia sanguinella, poi tante spezie, dalla cannella alla curcuma, passando per il tabacco da pipa e il cuoio lavorato.


In bocca è pura seta, il tannino è dolce e la trama fruttata riesce ad emergere vincendo sulla parte terziaria, più soffusa, quasi timida; ma quello che più mi impressiona è la vena acida, ancora vivissima, vibrante, un vero piacere per i sensi. Certo, l’annata mette in evidenza che non ha un corpo possente, ma chissenefrega! È buonissimo e ancora pimpante, non potrei chiedere di più da un sangiovese di trent’anni. Per me è pura poesia, e stasera me lo porto al ristorante e ne offro un calice allo chef, sicuro di fargli un bel regalo.

Marco Carpineti - Nero Buono Nzù 2020


di Roberto Giuliani

Andare insieme, questo significa nzù in dialetto corese, Marco Carpineti ha investito molto in questo progetto, nella versione in rosso il vino è ottenuto da Nero buono di Cori, maturato in anfore di argilla di artigiani locali. 


Profondo, pieno, succoso, intenso, affascinante, lunghissimo, un gran vino!

Burlotto - Barolo Monvigliero 2017: l’annata che aiuta


di Roberto Giuliani

No, non fraintendetemi, il mitico Monvigliero di Fabio Alessandria non è al meglio delle sue condizioni neanche in un’annata dall’estate rovente e prolungata come la 2017, ma è un fatto che se proprio non resistiamo e vogliamo aprirne una bottiglia, questa è l’unica annata possibile, a meno che non si vada fortemente indietro nel tempo. Detto questo, la vita è breve, fuggevole, la salute non è sempre la stessa, aspettare sempre il momento opportuno per stappare è un rischio che aumenta con il passare dell’età, e io non intendo correrlo, soprattutto con un cru che per me rappresenta uno dei più affascinanti di tutta la Langa, posizionato sulla collina su cui si erge il poetico Comune di Verduno.


Ma bando alle ciance.

Osservo quel timbro luminoso, granato trasparente con ricordi rubini, che sentenzia la presenza di un grande nebbiolo. Lo accosto al naso (che essendo piuttosto lungo non fatica a raggiungere una certa profondità nel calice Bourgogne della Zalto, ma questo è un dettaglio…) e mi immergo in quelle note che da sempre mi incantano: viola, liquirizia, oliva, arancia sanguinella, prugna, cardamomo, cannella, cenni di tabacco scuro, nuances di spezie officinali e quella sensazione di sottobosco che mi capita di sentire in presenza delle querce.

Fabio Alessandria

All’assaggio si fa notare la componente alcolica (che non arriva a 15 gradi) non tanto per l’effetto pseudocalorico, quanto per l’avvolgenza che fornisce a frutta e spezie, qui in bella evidenza, su una trama tannica quasi dolce; finale profondo e suggestivo che sussurra: “ho appena iniziato a stupirvi”. Che dire…

InvecchiatIGP: Pio Cesare - Barolo "Ornato" 2005


di Lorenzo Colombo

Una sera d’agosto, cena a casa con una coppia d’amici, i vini si susseguono, dapprima un Metodo Classico da uve Erbaluce, quindi un (troppo giovane) Greco di Tufo, a seguire un bianco toscano frutto di un blend tra Chardonnay e Viognier, l’annata è la 2017 ed il vino si rivela una vera sorpresa tanto che la bottiglia velocemente evapora, segue un fresco e sorprendente Gamay del Trasimeno. Un poco di pausa, si chiacchiera, più tardi passeremo al dessert.

“Che ne dite se aprissimo una vecchia bottiglia mentre chiacchieriamo?”

“Perché no?” (tra appassionati di vino non si dice mai di no ad una simile offerta)

“Toscana o Piemonte?”

“Piemonte”

Scendiamo in cantina e rovistando tra le scatole che contengono bottiglie - quasi sempre singole - con diversi anni sulle spalle salta fuori questo Barolo.


Proviamolo!

Stappiamo la bottiglia e come spesso accede con bottiglie vetuste il tappo si spezza, quasi alla fine. Colpa nostra, non siamo scesi col verme del cavatappi sino in fondo. Riproviamo con l’ultimo pezzetto di tappo e questo fuoriesce senza problemi.

Lo annusiamo.

Ci pare di non cogliere problemi di sorta.

Assaggiamo il vino per sicurezza.

La prima impressione era corretta.

Il vino è però un poco caldo, lo raffreschiamo tramite una di quelle tasche termiche che si tengono nel congelatore.

Pochi minuti ed il vino è già nei bicchieri.

Si inizia a commentarlo. 

“Però!”

“Non male, forse un poco chiuso”

“Che bel naso, ampio, elegante, ancora integro”

“Meglio alla bocca”

“Però il naso!”

“E chi se l’aspettava?”

“Notevole, complesso, elegante”.

Il colore è granato, profondo e compatto, ricorda una prugna cotta, unghia aranciata. Intenso al naso, ampio, complesso, spezi dolci, vaniglia, pepe, accenni di china e tabacco, frutto rosso maturo, ciliegia e prugna, accenni di confettura, liquirizia, fiori secchi, sottobosco, un vino elegantissimo, di grande armonia. Emozionante.


Asciutto alla bocca, con tannino ancora vivo ma ben integrato, succoso, sentori di radice di liquirizia, vaniglia, tabacco, ciliegia e prugna mature, lunghissima la sua persistenza.


Alla fine ne rimane una mezza bottiglia (sarebbe la quinta e noi siamo in quattro), la tappiamo con il Vacuvin, lo riassaggeremo domani a mente più fresca.

L’azienda ed il vino

La Pio Cesare è un’azienda storica radicata nel territorio del Barolo (e del Barbaresco) sin dal 1881 appartenente alla stessa famiglia da cinque generazioni.
La cantina si trova nel cuore di Alba ed è costruita sulle mura della città, dispone di 70 ettari di vigneti, 32 ettari si trovano in diversi comuni del Barolo, 27 in quella del Barbaresco ed oltre una decina in altri comuni delle Langhe.


Ornato - il cui nome deriva da quello della famiglia che vi ha vissuto sino all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso - è una delle 39 MGA del comune di Serralunga d’Alba, s’estende nella parte meridionale del comune per 6,7 ettari posti tra i 300 ed i 395 metri d’altitudine tutti vitati a Nebbiolo da Barolo.
Oltre a Pio Cesare c’è unicamente un’altra azienda che rivendica questa Mga, si tratta di Palladino. Il suolo è caratterizzato dalla Formazione di Lequio, ovvero un alternarsi di sabbia e arenaria giallo-rossastra con marne grigie.


L’Ornato è il primo Cru prodotto dalla Pio Cesare sin dal 1985, le uve provengono dall’omonima cascina situata a Serralunga d’Alba, di proprietà della famiglia. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio con macerazione sulle bucce di circa un mese mentre l’affinamento avviene in botti di rovere sia francese che di Slavonia per circa 30 mesi (una piccola parte s’affina in barriques), segue un anno di sosta in bottiglia.

Weingut Schweitzer - Südtirol Doc Chardonnay Riserva Tschaupp 2020


di Lorenzo Colombo

Tschaupp nel tedesco medioevale significa “guarda”, non ci è quindi nome più azzeccato per questo vino il cui vigneto, situato a Tirolo, “guarda” dai suoi 450 metri d’altitudine ben tre versanti del Burgavriato, la Val d’Adige, Merano e la Val Venosta.


In quanto al vino non vi resta che provarlo.

Alla scoperta del Gamay del Trasimeno


di Lorenzo Colombo

Il Trasimeno Gamay è un vitigno a bacca rossa introdotto nella zona del Trasimeno a partire dal XVI secolo, dagli spagnoli. L’influenza spagnola nella zona del Trasimeno è testimoniata dal matrimonio tra il Duca Fulvio Alessandro della Corgna, da cui deriva il nome del palazzo di Castiglione del Lago, e la marchesa Eleonora de Mendoza.
Il Trasimeno Gamay appartiene alla famiglia della grenache (o garnacha, in spagnolo) ed è lo stesso vitigno da cui derivano il cannonau sardo, la granaccia ligure e il tai rosso dei Colli Berici, in provincia di Vicenza.
In questa zona è sempre stato coltivato con la tecnica ad alberello e parrebbe questo motivo per cui prese (erroneamente) il nome di Gamay, vitigno francese allevato ad alberello proveniente dal Beaujolais, regione viticola francese.


Curiosità: l’elenco di vitigni utilizzabili nelle varie denominazioni e nei vini ad indicazione geografica si trova sul “Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite”, sotto la voce Gamay troviamo “ammesso nelle Doc Colli del Trasimeno e Valle d’Aosta e in 21 vini ad Igt”.


Il Trasimeno Gamay è una delle diverse tipologie della Doc Colli del Trasimeno e il suo specifico disciplinare di produzione recita “Gamay, minimo 85%”, stessa identica cosa troviamo sul disciplinare della Doc Valle d’Aosta Gamay.
In realtà si tratta però di due vitigni completamente diversi, infatti sempre sul sopracitato Catalogo, alla voce Cannonau troviamo come sinonimi: Alicante, Tocai Rosso, Garnacha Tinta, Grenache, Cannonao e Gamay, quest’ultimo vitigno riporta però un asterisco che rimanda a “Ai soli fini della designazione dei vini Do e Igt della provincia di Perugia”.

In pratica ci pare che questo generi un bel po’ di confusione.

Il Consorzio Tutela Vini del Trasimeno attesta una produzione totale di Gamay del Trasimeno limitata a 24.300 bottiglie, 8.800 di queste sono di Riserva, quest’ultima tipologia prevede un affinamento minimo di 24 mesi e almeno quattro di questi debbono essere effettuati in botti di legno.

I vini

Abbiamo avuto la possibilità di confrontare sei vini prodotti con questo vitigno trovando diverse interpretazioni stilistiche con un fil rouge che comunque li accomuna, quest’ultimo è principalmente data dai sentori di frutta rossa selvatica, soprattutto ciliegia e dal finale piacevolmente amaricante.

Lago Trasimeno

Abbiamo così degustato vini giovani, dell’ultima annata, caratterizzati soprattutto dalla freschezza e vini con qualche anno d’affinamento che ci hanno dato la possibilità di sondare la tenuta nel tempo di questo vitigno.
Anche le varie lavorazioni in cantina variano da vino a vino, con affinamenti sia in vasche d’acciaio come in legno. Nel complesso è stata una degustazione assai appagante che ci ha permesso di ri-scoprire un vitigno duttile in grado di fornire vini diversi tra loro ma assai godibili e, cosa non ultima di facile e vasta possibilità d’abbinamento col cibo. Tra i vini più giovani ci è particolarmente piaciuto l’Opra dell’azienda Madrevite, mentre tra quelli con certo affinamento abbiamo apprezzato soprattutto l’E-trusco di Coldibetto. Tutti i vini sono prodotti con uve Gamay del Trasimeno in purezza e sono elencati in ordine di gradimento.


Coldibetto - Gamay del Trasimeno “E-trusco” 2021

L’azienda è situata nella parte Nord della città di Perugia ed ha un’estensione totale di 65 ettari tra cereali, uliveti, boschi e vigneti situati ad un’altitudine tra i 300 ed i 400 metri slm. L’azienda è certificata biologica dal 2000.
Il vigneto per la produzione di questo vino ha dieci anni d’età ed è situato a 300 metri d’altitudine con esposizione Sud-Est su suolo argilloso calcareo, il sistema d’allevamento è a Cordone speronato con densità di 4.000 ceppi/ha.
Fermentazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per 12 mesi.


Color sangue luminoso, di media intensità. Buona la sua intensità olfattiva, elegante, ampio, vanigliato, balsamico, ciliegia matura, erbe aromatiche, mandorle in confetto. Morbido e succoso, ciliegia, note vanigliate e di legno dolce, bella trama tannica, lunghissima la persistenza. Vino di grande eleganza e notevole armonia.

Madrevite – Gamay del Trasimeno “Opra” 2023

L’azienda, fondata nel 20023, è situata a Castiglione del Lago, in località Cimbano, dispone di 60 ettari, 11 dei quali vitati. Il vino viene prodotto con uve Gamay in purezza provenienti da un vigneto posto a 320 metri d’altitudine, il sistema d’allevamento è a Guyot con densità di 5.000 ceppi/ha e la resa è di 80 q.li/ha.
Fermentazione spontanea con lieviti indigeni, affinamento per 10 mesi in vasche di cemento più tre mesi in bottiglia.


Color granato scarico, tendente al melograno. Intenso al naso, fresco e pulito, sentori di ciliegia selvatica ed erbe aromatiche, presenta inoltre una leggera nota speziata. Di corpo leggero, fresco, sapido e succoso, con trama tannica delicata, frutto selvatico, ciliegia, leggeri accenni di pepe, piacevolmente amaricante il lungo fin di bocca. Vino molto interessante, dalla facile e piacevole beva.

Casaioli – Gamay del Trasimeno Doc “Fontinius” 2019

L’azienda si trova a Fontignano Il vigneto si trova su suolo sassoso e ricco di scheletro, dopo la fermentazione il vino viene posto in barriques di rovere francese e americano ed in tonneau dove rimane sino al momento dell’imbottigliamento, seguono sei mesi di sosta in bottiglia prima della commercializzazione.


Color ciliegia trasparente e luminoso di media intensità, molto bello. Bel naso, fresco, pulito, balsamico, ciliegia selvatica fresca, fiori rossi, accenni di vaniglia e di pepe, buona eleganza. Fresco, sapido e succoso, presenta un bel frutto, ciliegia ed una buona trama tannica, accenni vanigliati e di caffè, lunga la persistenza.

Duca della Corgna – Trasimeno Gamay Doc Riserva “Poggio Pietroso” 2020

Duca della Corgna è la linea produttiva di punta della Cantina del Trasimeno, cooperativa che dispone di 300 ettari di vigneti gestiti da 200 soci. Le uve per la produzione di questo vino provengono da un unico vecchio vigneto situato nel comune di Panicale, il sistema d’allevamento è a Cordone speronato e la resa -assai bassa- è di 40 – 45 q.li/ha. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio mentre l’affinamento del vino avviene in botti di rovere francese di grandi dimensioni dove sosta per oltre un anno, il vino torna quindi in vasche d’acciaio per l’assemblaggio finale, dopo di che segue una sosta in bottiglia per circa un anno.
La produzione annua è di 3.500 bottiglie.


Color melograno di media intensità. Buona l’intensità olfattiva, pulito, di buona eleganza, piccoli frutti rossi selvatici, balsamico, mentolato, spezie dolci, vaniglia, note di fiori rossi, di buona complessità. Fresco, sapido e succoso, con tannino gentile ed equilibrato anche se leggermente asciugante, frutti rossi e vaniglia, note mentolate, accenni di radici, lunga la persistenza su note amaricanti.

Pucciarella – Trasimeno Gamay Doc 2023

I vigneti sono situati a Magione, a 300 metri d’altitudine su suolo composto da sabbia, ghiaia e argilla, sono allevati a Cordone speronato con densità variabile dai 3.000 ai 5.000 ceppi/ha. Fermentazione e affinamento di questo vino si svolgono in vasche d’acciaio.


Color rubino di discreta intensità. Buona l’intensità olfattiva, fresco e pulito, ciliegia selvatica matura, rosa, spezie dolci, accenni balsamici. Di media struttura, fresco e asciutto, succoso, con buona trama tannica, frutto selvatico, ciliegia, spezie dolci, buona la persistenza.

Il Poggio – Trasimeno Gamay Doc “Legamè” 2019

L’Azienda Vitivinicola Il Poggio si trova a Castiglione del Lago, in Località Macchie dove dispone di 13 ettari di vigneti dai quali ricava 12 diverse etichette. 


Color granato trasparente di media intensità. Buona l’intensità olfattiva, ampio, balsamico, vanigliato, legno dolce e spezie dolci, vaniglia, ciliegia selvatica matura, prugna, radici, accenni di sottobosco e di caffè tostato. Buona l’intensità olfattiva e bella la trama tannica anche se leggermente asciugante, frutto rosso maturo, ciliegia, spezie, vaniglia, sentori di radici, radice di liquirizia, caffè espresso, legno ancora percepibile, chiude con buona persistenza su note amaricanti.

InvecchiatIGP: Arnaldo Caprai - Sagrantino di Montefalco "25 anni" 1998


Lo ammetto e faccio mea culpa, non compro Sagrantino di Montefalco da tanto, troppo tempo, segno questo che non è un vino che mi emoziona o, come dicono quelli bravi, non rientra tra le mie corde. Sì, caro lettore, so bene che ci sono tantissimi produttori artigianali che producono a Montefalco dei grandi Sagrantino ma, vedete, quel tannino così opulento e graffiante, tipico dell’uva, soprattutto in giovane età, proprio non lo gradisco in questa tipologia di vini. 


Poi, mentre sistemo la cantina in vista del prossimo trasloco, spunta una bottiglia di Sagrantino di Montefalco “25 Anni” 1998 di Arnaldo Caprai, un vino acquistato tantissimo tempo fa sul Forum del Gambero Rosso e che allora era considerato uno dei vini più iconici e premiati in Italia. 
Oggi, sicuramente, non ha più quell’appeal che aveva ventisei anni fa, ormai Caprai è quasi considerato un brand di lusso in Italia, fa parte di un certo establishment del vino che a molti appassionati e giornalisti, alla continua ricerca del piccolo vignaiolo garagista, fa storcere il naso. Troppe bottiglie di vino prodotte, troppa pubblicità, troppi premi ma, ricordiamoci sempre, che se oggi si parla di Sagrantino di Montefalco nel mondo, lo si deve alla visione di Arnaldo Caprai, imprenditore tessile, che nel 1971 fonda la sua azienda con l’obiettivo, a quei tempi sicuramente visionario, di valorizzare quell’uva autoctona poco conosciuta e coltivata spesso per uso famigliare chiamata Sagrantino.

Marco Caprai

L’arrivo nel 1986 di Marco Caprai, figlio di Arnaldo, ha segnato un punto di svolta grazie ad una nuova energia e una visione aziendale estremamente moderna puntando su innovazione e ricerca per rilanciare finalmente il Sagrantino tramite un miglioramento delle tecniche di coltivazione e vinificazione fino ad allora ancora ancorate a logiche da “vecchia” enologia.


Con alle spalle questa nuova filosofia di produzione, tipica degli anni ’90 dove la barrique era considerata il nuovo Messia, nasce il Sagrantino di Montefalco “25 Anni” di Arnaldo Caprai, un vino nato per celebrare, nel 1993, il quarto di secolo dalla fondazione dell’azienda e destinato, come la storia ci ha insegnato, a rivoluzionare il concetto di Sagrantino lanciando non solo Montefalco ma, in generale, tutta l'Umbria sulla vetta del mondo enologico.
Davanti a me, un po’ impolverata c’è l’annata 1998 del “25 Anni”, messa da parte da tempo immemore con un solo scopo che solo un nerd come me poteva avere: capire dopo tanti anni come evolve il Sagrantino di Montefalco, soprattutto quello di Caprai, verificando se questo benedetto tannino alla fine riesce ad integrarsi nel corpo del vino.


Lo apro senza problemi, il tappo non si distrugge, bene così, e già dal colore, rubino tendente al granato, capisco che il vino, nonostante tutto, nella mia cantinetta è stato ben preservato cedendo pochissimo al tempo e all’ossidazione visto che anche i profumi, ricchi di rimandi al tabacco da pipa, al ferro fuso e al sottobosco, non erano quelli (terribili) che mi aspettavo. Per parlarci chiaro non ho trovato assolutamente odori “marsalati” o tendenti al glutammato.


Le sorprese, positive, le ho soprattutto alla gustativa visto che il Sagrantino di Montefalco è ancora vivo e vegeto, per certi versi ancora scalpitante e, udite udite, con un tannino “abbastanza” fuso che per certi versi, ma prendete ciò che scrivo con le molle, simile come grana a quello di certi grandi Bordeaux. Il sorso, soprattutto nel finale, scappa via un po’ troppo velocemente ma rimane comunque ancorata al palato una interessante scia sapida che, almeno al sottoscritto piace tanto.


Insomma, vuoi vedere che, dopo questa bevuta, devo rivedere le mie valutazioni sul Sagrantino di Montefalco? Cari amici IGP tirate fuori le vostre bottiglie dalla cantina ed organizziamo una bevuta di “redenzione”?

Avincis – Cuvée Alexis 2023


L’amico Carmelo Sgandurra, grande esperto di vini internazionali, ogni tanto mi regala delle chicche niente male come questo rosato romeno (merlot e cabernet sauvignon) che alla cieca, per qualità ed energia, farebbe un figurone mettendo in difficoltà qualche rosato italico. 


W i nuovi territori del vino!