Donatella Cinelli Colombini: “Montalcino è la palestra dove si formano gli olimpionici del vino.”


di Carlo Macchi

Iniziamo la serie di interviste di Winesurf dedicate alle donne del mondo del vino, con Donatella Cinelli Colombini, vulcanica produttrice sia a Montalcino che in Val d’Orcia, tra le creatrici di importanti associazioni come il Turismo del vino e le Donne del vino. L’intervista ci ha portato a toccare temi generali e personali, con alcuni aneddoti veramente incredibili.
Winesurf. “Partiamo da tua madre che scrisse un libro dal titolo “Il vino fa le gambe belle” e narra storie di 60/70 anni fa, quando ancora il vino non era quel fenomeno quasi di massa che è oggi. Da allora quali credi siano stati i principali cambiamenti nel mondo del vino in generale e nel territorio del Brunello in particolare?”


Donatella Cinelli Colombini
In generale nel mondo del vino le zone che producono vino imbottigliato di alto profilo e le cantine di alto livello sono cresciute moltissimo, coinvolgendo anche aree che prima non erano così famose e ampliando così la possibilità di diventare imbottigliatori e esportatori anche a piccole realtà, col risultato che il numero di cantine di eccellenza è ulteriormente aumentato. A Montalcino la situazione è stata simile, nel senso che siamo passati da un piccolo numero di cantine prevalentemente di “indigeni” ad una popolazione molto più numerosa di quasi 300 cantine, dove ci sono persone da tutto il mondo e di natura molto diversa: da ultramiliardari (ce ne sono tre) a grandissime società tipo Rosewood a Castiglion del Bosco, colosso nel settore alberghiero, a Constellation, fino a piccoli appassionati spesso molto ricchi, che hanno realizzato il sogno di avere una cantina a Montalcino. Poi ci sono quelli come me.”

W. Che ormai sono una netta minoranza?

D.C.C. “Sono molto meno di prima diciamo che gli “alloctoni” saranno attorno al 65/70% più o meno.”

W. “Hai detto una cosa che mi ha stupito: 300 cantine attive, produttrici, con marchi: una marea su un comune piccolissimo, ma andiamo alla seconda domanda. La vecchia frase dietro a un grande uomo c’è una grande donna è ormai strausata e anche la battuta che dietro ad una grande donna c’è una grande colf. Ma dietro ad una grande donna come te chi c’è?”

D.C.C. “Ma quale grande donna? Comunque indubbiamente mio marito Carlo è stato una figura importante. Mi ha sempre sostenuto senza mai essere invidioso. Mi ha aiutato tanto, non solo concretamente per la parte finanziaria ma anche psicologicamente, perché sapere che c’è una persona che ha fiducia in te, all’inizio, è veramente importante.”

W. “All’inizio soltanto, dopo no?

D.C.C. “Anche dopo, credo. Dopo si acquisisce anche più fiducia ma all’inizio ti vengono dubbi del tipo: Ora metterò sul lastrico tutta la famiglia?

W. “2008 brunellopoli, crisi americana dei subprime, poi disputa tra 100% sangiovese o no: tanti errori dal punto di vista della comunicazione e problemi di mercato. Nonostante questo il Brunello, da allora, è cresciuto in maniera esponenziale, perché?”

D.C.C. “Brunellopoli l’ho vissuta in modo strano perché nel 2008 ero Assessore al Turismo a Siena. Dal punto di vista politico in Toscana in quel momento eravamo senza assessore regionale e con al governo Berlusconi, di altro schieramento politico. La Provincia e la Camera di Commercio ricevevano ispezioni quasi tutti i giorni. Mi trovavo sul fronte istituzionale, con riunioni dove mi proponevano liste, che non capivo da dove venissero fuori, di aziende che non erano conformi. Inoltre il Ministro Zaia voleva chiudere la questioni a tutti i costi perché temeva che la situazione del Brunello portasse a bloccare tutte le esportazioni di vino negli Stati Uniti. Ci sono stati momenti molto difficili, come quando ci fu il sequestro da Banfi, che proprio non sapevi cosa fare. Pensa che il giorno dopo il Palio arrivarono in elicottero Zaia e l’Ambasciatore Americano. Zaia andò dal Procuratore della Repubblica e dato che ero Vicepresidente dell’Enoteca Italiana, fui incaricata di intrattenere l’Ambasciatore, che era convinto che fosse un complotto dei comunisti contro gli interessi americani. Oggi sembrano novelle. Ma rimane il fatto che Brunellopoli è stata forse una fortuna, perché ha spinto i produttori a impegnarsi nei vigneti molto di più, così da ottenere dei grandi risultati. Poi c’è stata anche la “spintarella” del cambiamento climatico che ha dato una bella mano. Ci sono comunque due concomitanze che portano alla fortuna del Brunello: una quantità piccola e circoscritta di bottiglie (si parla di massimo 9 milioni) ma molto prestigiosa, così da attrarre capitali e ambizioni. Montalcino è come un centro sportivo di alto livello, dove formano quelli che vanno alle Olimpiadi: tu che sei un talento vai lì ad allenarti perché sai che poi otterrai molto di più in termini di risultati.

W. “Domanda dovuta: il mondo del vino è più maschilista adesso o negli anni ottanta/novanta del secolo scorso?”

D.C.C. “Era molto più maschilista prima anche perché oggi ci sono molte più donne nel mondo del vino. Se partiamo dai dati che abbiamo adesso in mano le donne guidano circa un terzo delle cantine italiane, per precisione il 28%. Percentuale che corrisponde anche a quella delle aziende agricole dirette da donne. Se andiamo a vedere i dati generali dell’agricoltura la superficie di aziende dirette da donne è il 21%, perché mediamente le aziende guidate da donne sono più piccole di quelle maschili, ma questo 21% produce il 28% del PIL agricolo, quindi sono più performanti di quelle maschili. Se parliamo invece solo delle aziende vinicole vediamo che in vigna e in cantina le donne sono circa il 14%, quindi sono minoritarie sia nei numeri che nei ruoli. Invece dove le donne sono molti forti è nei settori nuovi: nel commerciale sono un po’ più del 50% (addetti e manager), nel marketing e nella comunicazione sono la stragrande maggioranza, oltre il 70% e così nel turismo enoico. Questo fa si che crescendo nei settori strategici, quelli dove il vino è più vicino al consumatore finale, sono cresciute di importanza e di retribuzioni e di quelle che potremmo definire prospettive politiche.”

W. “Ma al punto di vista di mentalità generale oggi il mondo del vino è più aperto verso le donne o è sempre rimasto al passato?”

D.C.C. “Dato che tra i consumatori di fine wines è cresciuta notevolmente la quota femminile questo porta ad un ribilanciamento nel settore produttivo. Abbiamo dati statunitensi dove la remunerazione è un dollaro all’uomo e 90 centesimi alle donne, ma nel wine businness ci sono 96 centesimi alle donne per un dollaro di retribuzione maschile: è il settore più vicino al gender equity.

W. “Qual è stato il commento o la frase più maschilista che ti hanno rivolto nel tuo ruolo di produttrice di vino?”

D.C.C. “E’ brutto dirlo perché riguarda il settore di mio marito, quello delle banche, ma quando una donna, accompagnata da un uomo, parla con un responsabile di una banca, quello guarda l’uomo e la esclude quasi automaticamente.

W. “Premio Casato Prime donne: credi che nel mondo del vino ci sia abbastanza cultura o lo vedi come un mondo che usa poco o niente messaggi culturali?”

D.C.C. “In generale i giovani studiano poco, imparano con altri strumenti, non con lo studio come noi possiamo intendere e ho dei dubbi sulla sopravvivenza del concetto di cultura come la intendiamo noi, cioè sull’approfondire il concetto di essere umano, sul senso della vita.

W. “Una visione molto umanistica.”

D.C.C. “Oggi come oggi tendenzialmente c’è un livello culturale molto più “spiccio” e si vede bene nel turismo: se andiamo a vedere quali sono i luoghi più ricercati per visite non troviamo i musei ma luoghi che in qualche modo rappresentano delle esperienze: per esempio il più ricercato e quello che in Baviera viene chiamato “Castello di Ludwig” (Castello di Neuschwanstein. n.d.r.). In Asia sono molto ricercati luoghi che celebrano fumetti e cartoons. Su un altro registro mi ha colpito che uno dei luoghi più visitati in Olanda sia la casa di Anna Frank, quindi un luogo dove c’è una storia importante alle spalle.”

W. “E nel mondo del vino, dal punto di vista culturale, tutto questo cosa diventa?”

D.C.C. “Il mio giudizio è piuttosto negativo: si studia poco, s legge poco, si vanno a vedere le cantine di altri cercando però più una chiave di successo che uno stile del fare. Studiare come faceva Giacomo Tachis per intendersi, uomo che ha studiato tutta la vita, è un approccio ormai abbandonato.”

W. “A questo proposito, Il giornalismo enoico in Italia fa più cultura, informazione, o comunicazione?”

D.C.C. (ci pensa un po’) “Fa comunicazione!

W. “Sul totale quanto conta la comunicazione 80%? 90%?”

D.C.C. “Il grosso è composto da degustazioni di vino, punteggi, descrizioni di vini, luoghi, persone.

W. “Invece che differenze vedi tra il giornalismo enoico italiano e quello estero?”

D.C.C. “All’estero c’è una fetta importante di giornalisti che vengono dal giornalismo, come la Monica Larner o da lauree in letteratura come la Kerin o ‘Keefe. Poi ci sono quelli specializzati nel settore della distribuzione vendita del vino che è un po’ il taglio dei Master of Sommelier.

W. “Donne del vino e Turismo del vino, due associazioni a cui hai dato e stai dando molto. Quale di queste due entità oggi reputi più importante in questo momento?”

D.C.C. “In questo momento direi il Turismo del vino, se però ingrana la marcia! Siamo in un momento molto, molto complicato: basta andare a Venezia o in Piazza della Signoria a Firenze anche solo una volta per rendersi conto di quanto le città siano assediate e asfissiate dall’overtourism. Bisogna riuscire in ogni modo a trasformare il turismo da ricchezza diffusa a ricchezza sostenibile, che non trasformi i luoghi in delle Disneyland di loro stessi. L’enogastronomia ha un ruolo determinante in questo, ma solo nel momento in cui faremo spaghetti al pomodoro perfetti più che inventarci un piatto improbabile con cinquanta ingredienti quasi introvabili. Non è una cosa intuitiva e semplice da fare, però trasformare i ristoranti in posti rappresentativi della cultura materiale del luogo è fattibile e porterà una ricchezza sicura per un ciclo di anni lunghissimo ma, ripeto, non è per niente semplice. Il turismo è una macchina veloce, è un business almeno 6 volte più grande rispetto al vino, siamo a circa 1500 miliardi contro 250. Per dare un’idea Expedia e Booking spendono su Google 10 miliardi di dollari all’anno di advertising. Si parla di un miliardo e mezzo d viaggiatori, che costituiscono un’opportunità ma anche un rischio. Per esempio Montalcino è cambiata tanto ed è sul limite di diventare un “turistificio”, la Disneyland del Brunello. Per arginare questo fenomeno bisogna intervenire subito e non mi sembra, a livello politico, che la nostra ministro Santanchè sia in grado di farlo.

W. “Qual è il vino che ti ha reso più orgogliosa?”

D.C.C. “Sicuramente il Cenerentola.”

W. “Un’annata particolare o il Cenerentola come idea fatta vino?”

D.C.C. “Il Cenerentola non è ancora quello che voglio io: stiamo lavorando molto al miglioramento dei vigneti ma qui (al podere il Colle a Trequanda n.d.r.) è molto più difficile fare vino rispetto a Montalcino, dove il terreno è più semplice da capire. Qua è molto più complicato, a partire dal trovare i portainnesti giusti. Per arrivare dove voglio io ci vorranno ancora degli anni.

W. “E invece il vino che non avresti mai voluto fare?”

D.C.C. (Ci pensa un po’) “Questa è un po’ una cosa mia: non amo i vini dolci e i rosati.

W. “I consumi diminuiscono, specie per i vini rossi, specie negli Stati Uniti: qual è secondo te la ricetta giusta per far bere più vino rosso nei prossimi anni?”

D.C.C. “Bisogna fare un passo indietro: secondo me quando l’uva arriva in cantina non bisogna toccarla più. Dobbiamo lavorare in vigna per ottenere quelle caratteristiche per un vino che sia vicino al consumatore moderno. Faccio ancora un passo indietro: si dice, e credo sia vero, che il vino è un’espressione culturale, come la musica: quando noi ascoltiamo la registrazione di un brano, per esempio, di Beethoven, capiamo immediatamente se è una registrazione di cinquanta anni fa o di venti o è attuale. Beethoven è sempre lo stesso ma è suonato in un modo diverso. Col vino è lo stesso: oggi noi abbiamo davanti consumatori che mangiano meno salato, meno dolce, meno grasso, in quantità inferiori e in maniera più fusion. Bisogna riuscire ad arrivare nella vigna e non in cantina a vini che siano adatti a questo tipo di consumatore. Questo vuol dire che quando io ci metto un giorno per convincere l’agronomo che il terreno con la giacitura perfetta, che è sempre stato nei suoi sogni, non va più bene è una grande fatica. Oggi il sole è diverso, la temperatura è diversa e bisogna pensare ad un luogo e un modo diverso di piantare le vigne, ad un portainnesto diverso, ad un modo diverso di coltivare la vigna.

W. “Comunque non è che si possa mettere, come dice il mio caro amico Peter Dipoli, un cric sotto i vigneti e alzarli.”

D.C.C. “Ma le puoi ripiantare in un posto diverso, mentre mi sembra che gli agronomi continuino ad amare luoghi con le stesse caratteristiche del passato.”

W. “Poco tempo fa abbiamo fatto qui da te una bellissima degustazione di passiti, vini certamente non molto consumati in questi anni: secondo te quale tipologia vedi veramente in crisi e quale avrà il futuro più roseo?”

D.C.C “Vin Santo e vini dolci passiti sono in grossissimo affanno per molti motivi, però abbiamo il dovere di difenderli. Credo invece che se noi lavoriamo bene, ma proprio bene, stando attenti a molti fattori, in primis acidità, vedo in Toscana una prospettiva anche per i vini bianchi.

W. “Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Giappone, Cina: dove è più facile vendere vino?”

D.C.C. “Negli Stati Uniti!

W. “E perché?”

D.C.C. “L’Inghilterra, dopo la Brexit, sta andando incontro ad una crisi ancora più grave di quella attuale. La Cina è un mercato dove un produttore non guadagna mai perché ti chiedono aiuti e incentivi continuamente, ma quando smetti di darglieli ti tocca a cambiare importatore. Il Giappone è un mercato forte, molto forte, ma è anche un mercato storico: quindi ci si lavora bene ma bisognava entrarci 25-30 anni fa. In Germania… hanno cinque modi per dire sconto.”

W. “Qual è l’insegnamento che hai trasmesso a tua figlia Violante e ti rende più orgogliosa”

D.C.C. “Credo di averle trasmesso, oltre alla convinzione dell’importanza di lavorare con serietà e impegno, anche credere che non basta lavorare per sé ma bisogna anche impegnarsi per gli altri, dedicarsi all’associazionismo, fare un passo indietro quando c’è chi ha bisogno di aiuto. Sapere che il proprio successo non si misura in soldi o in bottiglie vendute ma nel sapere che hai fatto la differenza anche per gli altri.

W. “Invece qual è il difetto peggiore che le hai trasmesso?”

D.C.C “Diciamo che, come me, è un po’… brusca, non è molto femminile nel senso tradizionale del termine.

W. “Se volessi comprare un’azienda di vino in quale territorio la sceglieresti?

D.C.C “Ci sono due zone che mi affascinano molto, per motivi diversi: la prima è le Marche e sono anche una fanatica supporter di Ampelio Bucci. Secondo me il Verdicchio può avere dei potenziali di invecchiamento straordinari e anche dei potenziali di miglioramento straordinari. Un’altra zona che mi affascina molto è il Vulture, perché a me piacciono le zone vulcaniche alte. In questo senso anche se la zona dell’Etna mi piace molto avrei però molta paura, almeno dando ascolto a quanto si sente dire e si legge relativamente alla criminalità organizzata sull'isola. Nel Vulture invece non penso ci sia questo problema e inoltre l’aglianico è un vitigno che amo.”

W. “Cosa bevi a tavola, il vino di Trequanda o di Montalcino?”

D.C.C “A tavola non beviamo mai i nostri vini. Preferisco i bianchi perché con un rosso mi sembrerebbe di essere al lavoro. Mi ha veramente impressionato il Timorasso: sembrava ci fosse solo Walter Massa e invece ho trovato tanti produttori che fanno ottimi vini. Altra zona che mi ha colpito è la Côtes du Rhône, dove sono stata di recente: credevo che fare Syrah fosse semplice, tipo produrre Cabernet Sauvignon e invece quando ci siamo trovati a degustarne tanti mi sono resa conto che arrivare a produrre ad altissimi livelli è difficilissimo. Per esempio il livello di Chave è completamente diverso da tanti altri vini che abbiamo assaggiato. Per certi versi mi impressionano tanti vini spagnoli. Alla fine da noi, di una zona estera, finisci per assaggiare sempre le solite cose ma poi quando la visiti ti rendi conto delle grandi diversità, di come sia un universo molto complicato e avresti bisogno di tanto tempo per capirla. Certe volte scopri dei vini incredibili, come quelli da vigneti centenari dell’Argentina: vini eccezionali che danno delle grandissime emozioni. Certe volte assaggiando in maniera bendata determinate zone alla fine ti accorgi che hai preferito è un vino che ha una grande reputazione

W. “In questo caso non ti viene da pensare che, in un territorio che non conosciamo bene, ci piacciono più i vini che abbiamo già assaggiato in altre occasioni. Che, insomma, la memoria ci faccia preferire qualcosa di già “ascoltato”?”

D.C.C “Quasi sempre è così. Aggiungo che noi bisogna riabituarci ad usare più l’olfatto: le soglie di percezione nostre sono migliori di quelle dei cosiddetti nasi elettronici. Noi ci fidiamo troppo poco del naso e troppo della bocca.

W. “Sono d’accordissimo e devo dire che mia moglie ha un naso finissimo, incredibile.”

D.C.C. “Pensa invece che mio marito, durante il covid, si era abituato agli acquisti online: trovandosi di fronte a scelte sconfinate comprava le cose più strane, per esempio i vini dell’Himalaya oppure fenomeni di marketing di caratura mondiale come quel vino australiano che ha sull’etichetta facce di 19 ergastolani: metti davanti all’etichetta il cellulare con Q-code e loro parlano. Però è un vino cattivissimo!"

W. “Adesso devi fare la delatrice: dimmi i nomi di alcune importanti donne del mondo del vino che, secondo te, dovrei intervistare.”

D.C.C “Tra le nuove generazioni Elisabetta Pala, che ha lasciato l’azienda di famiglia e si è creata la sua cantina: vini di un altro pianeta. Poi dovresti intervistare Elena Fucci, che all’inizio ha avuto un coraggio da leone. Poi, Silvia Fuselli, che da calciatrice in Serie A è diventata vignaiola a Bolgheri. Su un livello diverso ti consiglio di intervistare Roberta Corrà, Direttore Generale di GIV: è una fuoriclasse. Poi la Ruenza Sant’Andrea, presidente del Consorzio Vini di Romagna, anche lei bravissima, e la nuova enologa dell’Ornellaia, Denise Cosentino.

InvecchiatIGP: Rocca Albino - Barbaresco Vigneto Brich Ronchi 1997


di Roberto Giuliani

Erano gli anni in cui transitavo in Langa un giorno sì e l’altro pure, il nebbiolo è fuor di dubbio il vitigno che mi ha trascinato dentro il mondo del vino, le sue caratteristiche entrano automaticamente in sintonia con il mio essere, non chiedetemi perché, non lo so e non è rilevante saperlo. Quello che so è che il mal di Langa l’ho provato, una malinconia che si è fatta sempre più insistente in questi ultimi anni, per una mia assenza non voluta, ma questa è un’altra storia.


Per fortuna la mia scorta di vini di quel fantastico territorio mi basta per almeno altri vent’anni. Così, andare a pescare un Barbaresco del 1997 (non date retta a quelli che dicono che il Barolo è più longevo, dipende, come sempre) proveniente dal mitico cru Ronchi (nel 1997 non esistevano ancora le MGA, Menzioni Geografiche Aggiuntive, quindi in etichetta si poteva utilizzare il nome aziendale Vigneto Brich Ronchi, dal 2008 solo Ronchi), rappresenta un bel tuffo nel passato, quando il vino lo faceva ancora Angelo Rocca, terza generazione in quel di Barbaresco.


Quel vigneto vanta piante che vanno dai 50 ai 70 anni (nel 1997 ne avevano già tra i 25 e i 45), è sempre stato composto da più varietà come spesso accadeva in Langa: nebbiolo oltre il 60%, poi dolcetto, barbera, chardonnay, cortese e poco altro, su una superficie totale inferiore ai 20 ettari, con un’altitudine che va da 190 a 290 metri s.l.m.. Si trova sul versante orientale di Barbaresco, con esposizione principalmente a Est, ma anche Sud-Est come nella parte di proprietà della famiglia Rocca che guarda a Neive, qui il suolo è marnoso con inserti di calcare, argilla e sabbia.

Angelo Rocca

In quegli anni Angelo Rocca non era rimasto immune al fascino delle barriques, infatti proprio per la ’97 le usò nuove. In tempi in cui non era poi così abituale, Angelo preferiva non filtrare e non chiarificare il suo Brich Ronchi, proprio per ottenere tutte le sue qualità espressive al massimo. 
Assaggiarlo a distanza di 26 vendemmie è una bella prova, certamente il legno non può che essere integrato, ma per il resto come va? Vediamo.


Il colore è indubbiamente aranciato con vaghi ricordi granata, Dopo opportuna ossigenazione (quasi un’ora nel calice), fa piacere notare che il vino non si è dissolto né spento, la spinta dei profumi è decisa e convinta, ben giocata sul frutto in confettura, prugna, mora e cassis in particolare, corredato da note più terziarie di tabacco, cuoio, fumo, liquirizia, noce tostata, infuso di spezie officinali.


Al palato toglie qualsiasi dubbio sulla sua tenuta, ha ancora una bella verve, la struttura piena e ricca gli ha permesso di tenere botta dopo così tanto tempo, interessante notare il carattere leggermente polveroso del tannino, un marchio di fabbrica del Ronchi, il sorso ha una bella dolcezza e una persistenza davvero notevole. Sicuramente all’apice delle sue qualità espressive, ma la discesa potrebbe essere ancora lontana…

Le Rogaie - Morellino di Scansano "Forteto" 2021


di Roberto Giuliani

Assaggio 10 vini eletti per Morellino del Cuore e rimango colpito dal Forteto 2021 Le Rogaie (Luca, Francesco, Carlo e Pietro Poggi), seconda annata di un sangiovese in purezza che ti trascina nella Maremma con decisione. 


Fresco, vivo, succoso, con un frutto croccante, giovanissimo eppur buonissimo!

Marino Colleoni e quel Brunello di Montalcino Riserva Santa Maria 2017 senza etichetta


di Roberto Giuliani

Chi ha avuto modo di conoscere Marino Colleoni, sa sicuramente che è un filosofo prestato all'arte contadina; bergamasco, quindi tosto e caparbio, nel 1989 si trasferisce con la moglie Luisa a Montalcino in quella località che i montalcinesi conoscono come "Sante Marie".

Marino Colleoni

Pur avendo nel cuore il sogno di produrre vino, inizialmente la struttura ha finalità agrituristiche, ma intanto Marino lavora per recuperare 2,5 ettari di ulivi e studia suoli, piante, insetti, la natura che lo circonda, perché il suo obiettivo è vivere in simbiosi con l'ambiente, impattando il meno possibile.
Nel 1995 scopre casualmente nel bosco circostante vecchie viti, filari seminascosti, decide allora di preparare il terreno, riportare alla luce le viti, ricostruire i tipici muretti a secco indispensabili su simili pendenze e in poco tempo realizza circa 3 ettari vitati. Finalmente, nel 2000, inizia la produzione del Brunello di Montalcino, che commercializzerà a gennaio del 2005.


Il suo approccio naturale, la sua visione che ricorda da vicino quella del mitico Masanobu Fukuoka, trasferita sulla vigna, non sono frutto di casualità, ma provengono dalla profonda convinzione che l'uomo deve fare vino negli ambienti giusti, deve assecondare i cicli vitali delle piante, deve imparare a "leggere" le loro necessità, a utilizzare tutti i sistemi di difesa che la natura stessa mette a disposizione, quindi niente chimica ma metodi del tutto naturali, sfruttando anche gli antagonisti che l'ambiente stesso fornisce.


In cantina le vinificazioni sono condotte con lieviti indigeni, senza controllo della temperatura, le fermentazioni vengono svolte in botti da 20 hl per circa una settimana e le macerazioni durano 20-25 giorni.
Basta farsi un giro in vigna per rendersi conto che qui tutto vive in simbiosi, condizione ideale perché certi parassiti e certe malattie fungine non invadano il campo, ma si limitino a qualche sporadica apparizione. Un problema che molti si rifiutano di capire, se fai la vigna in posti non adatti, se crei decine di ettari vitati uno a fianco all'altro, fai monocoltura, cosa ti aspetti che succeda? Poi ti lamenti se arriva la peronospora e in pochi giorni invade tutto?


Il 13 novembre 2022 sono andato a trovarlo, abbiamo fatto una lunga chiacchierata, anzi, direi che è lui che ha raccontato se stesso, ha parlato della sua vigna. Il suo vino è sempre tutto venduto, difficile trovare qualche bottiglia da lui, infatti mi ha regalato questa bottiglia di Riserva 2017 ancora non etichettata, annata che qui è andata molto bene, dimostrando ancora una volta che giudicare un'annata in modo generico è sempre profondamente sbagliato.
Credo che online il vino sia ancora acquistabile, il prezzo medio si aggira ben oltre i 100 euro, del resto con una produzione totale di circa 8000 bottiglie fra Rosso, Brunello Sant'Anna e Santa Maria, bianco Perluisa (da ansonica), rosato, rosso Selvarella, rende questa Riserva un prodotto di nicchia.

Marino Colleoni - Credit: Tuttowines

Del resto, basta berne un sorso per rendersi conto che li vale tutti, i profumi inebrianti che fanno capoccella con insistenza parlano chiaro, questo è un signor Brunello, pieno, vigoroso, complesso, ma anche elegante, terragno, profondo, con la mora selvatica in primo piano, una forte impronta di macchia mediterranea, non si fatica a cogliere l'alloro, la felce, ma anche note di liquirizia, cacao, noce moscata, mallo di noce, persino qualche spunto agrumato.
L'assaggio rivela un equilibrio invidiabile in ogni sua componente, freschezza, tannino e sapidità sono in armonia, il frutto è perfetto nella sua maturità, l'alcolicità si nasconde magnificamente dando l'impressione di essere poco sopra i 13 gradi, mentre in realtà ha sicuramente raggiunto i 14. Questo 2017 ha il pregio di essere assolutamente godibile già ora, pur avendo tutte le condizioni per evolvere altri vent'anni. Mi sa che farò presto un'altra visita in azienda..

Champagne: falsi miti e credenze sulle lussuose bollicine


Lo Champagne è considerato uno dei prodotti vinicoli più lussuoso al mondo e, proprio per questo, è associato a festeggiamenti e ricorrenze speciali nell’immaginario collettivo. Tutti lo conoscono come un “vino frizzante” proveniente dalla Francia, qualcosa di molto simile alle bollicine nostrane che, tuttavia, può avere prezzi decisamente poco accessibili.

Dinanzi a bottiglie iconiche, come lo Champagne Dom Pérignon, è difficile non rimanere affascinati ma, come vedremo, per apprezzare al meglio le peculiarità dello Champagne è importante conoscerlo a fondo.

Oggi, per l’appunto, presenteremo questo prodotto sotto una luce nuova, che non tenga conto solamente della sfera del lusso che lo avvolge e che sveli, finalmente, tutti i falsi miti e le credenze che vi ruotano attorno.

Non solo lusso e sfarzo: lo Champagne può essere anche “frugale”

Il primo falso mito da sfatare riguardo allo Champagne è la sua esclusiva associazione con le occasioni di lusso e celebrazioni. Sebbene sia vero che lo Champagne è spesso scelto per eventi speciali, va ricordato che può essere apprezzato in tanti altri contesti, anche quelli economicamente più abbordabili.


Il suo profilo fruttato e le bollicine vivaci lo rendono adatto anche per cene informali, aperitivi o semplicemente come accompagnamento per piacevoli momenti di relax. È da molto tempo che i produttori di Champagne lavorano per rompere la concezione elitaria che lo caratterizza ma, chiaramente, senza mortificarne le origini.

Questo aspetto si lega ad un altro “falso mito”, ovvero a ciò che riguarda il prezzo delle bottiglie di Champagne. Si, è vero, esistono etichette pregiate di valore altissimo, ma è vero anche che sul mercato esistono opzioni più accessibili di ottimo gusto e di grande raffinatezza.

Gli Champagne non sono tutti uguali

Nell’immaginario di chi non ha mai bevuto Champagne aleggia sempre la convinzione che si tratti di un vino spumante fruttato e delicato. Questo in parte è vero ma bisogna anche considerare che di tipologie ce ne sono molte, e che la loro essenza deriva dal metodo di produzione ma anche dalla regione da cui provengono.

La regione della Champagne, infatti, è suddivisa in diverse zone vinicole, ciascuna con caratteristiche uniche che contribuiscono alla diversità e alla complessità dei vini prodotti. A nord-ovest, per esempio, troviamo la Montagne de Reims, famosa per i suoi terreni calcarei e le vigne di Pinot Noir. I vini prodotti in questa zona sono noti per la loro robustezza e struttura.

Procedendo verso ovest, lungo le rive del fiume Marne, si trova la Vallée de la Marne, dove il Pinot Meunier è la cultivar più diffuso, nonché quello che conferisce l’animo morbido e fruttato allo Champagne.

A sud di Épernay sorge la Côte des Blancs, rinomata per i suoi terreni calcarei e le vigne di Chardonnay. Questa zona produce principalmente Champagne Blanc de Blancs, cioè ottenuto esclusivamente da uve Chardonnay.

Più a sud ancora, infine, troviamo la Côte des Bar, meno conosciuta ma in crescente riconoscimento, utilizza principalmente uve Pinot Noir e Pinot.

Il concetto di "terroir", dunque, è importantissimo perché influenza l’aspetto, il colore e la sapidità del prodotto in base alle condizioni del suolo, del clima e dell'esposizione dei vigneti.

InvecchiatIGP: Castello di Querceto – Colli della Toscana Centrale IGT “La Corte” 2000


Ci sono realtà nel mondo del vino italiano le quali, per mille motivi, sfuggono ai radar della comunicazione enogastronomica di massa anche se, vieni a scoprire successivamente, sono da tantissimi anni presenti sul territorio attraverso una produzione attenta e mai gridata. Un esempio lampante, almeno per me, è stato Castello di Querceto, in Chianti Classico, dove tra le alte colline di Greve dove la famiglia François ricerca da sempre l’autenticità del suo magnifico territorio attraverso i suoi vini e il suo Sangiovese.


“Il mio bisnonno all’inizio del ‘900 decise di scommettere sulla vigna de La Corte, che impiantò pionieristicamente solo con Sangiovese” afferma il produttore Alessandro François. “Io ho raccolto il suo testimone e ho cercato di seguire un metodo rigoroso per valorizzare al meglio quel vigneto e altre parcelle preziose”.
Oggi, Castello di Querceto, con la sua proprietà di famiglia, si estende su circa 190 ettari, 65 dei quali sono coltivati a vigneto, 10 a oliveto e il resto è rappresentato da boschi di quercia e castagno, utilizzati soprattutto come “riserva di caccia”.

Simone ed Alessandro François

Tra le uve rosse primeggia, ovviamente, il Sangiovese, a cui si affiancano numerose altre varietà, tra cui Canaiolo e il Colorino. Completano il quadro Cabernet Sauvignon, Syrah, Petit Verdot e Merlot. Tra i vitigni a bacca bianca ci sono la Malvasia del Chianti, il Trebbiano Toscano, il San Colombano e lo Chardonnay.


Grazie ad un incontro romano con Alessandro e Simone François, papà e figlio alla guida della tenuta, ho potuto apprezzare la gamma dei loro Chianti Classico e Chianti Classico Riserva a cui si aggiungono due Gran Selezione: Il Picchio (sangiovese 95% con saldo di colorino) e, dalla vendemmia 2017, La Corte (100% sangiovese).


Di entrambi è stata organizzata una mini-verticale di tre annate che, partendo dalla 2020 (millesimo ancora non in commercio) si è spinta fino all’anno 2000 dove, tra tutti, ha spiccato prepotentemente La Corte tanto da decidere di inserire questo vino, in passato un semplice IGT, nel mio InvecchiatIGP di oggi.
La Corte è un Sangiovese in purezza. Prende forma in un vigneto di ca. 4 ettari tra i 440 ai 470 m s.l.m, esposti a ovest/sud-ovest e in prevalenza sabbiosi e ricchi di magnesio.


L’annata 2000, dal colore ancora rosso rubino ancora compatto, è la quintessenza del sangiovese di Greve, identitario ma al tempo stesso sfaccettato, soprattutto se piantato su terreni ricchi di sostanze minerali come quello de La Corte che in questo millesimo, al naso, si conferma assolutamente autoritario, austero, dotato di sbuffi aromatici che vanno dal ferro fuso al salgemma che solo in parte schiudono aromi più delicati di muschio, radici e macchia mediterranea.


Ciò che maggiormente sorprende è sicuramente la bocca, dall’impostazione classica, che coniuga, ancora dopo 23 anni, finezza, dinamicità e forza dell’annata. Il finale è profondo e ricco di sapienti richiami ferrosi. E’ la bellezza del Territorio, baby!

Graziano Prà – Soave Classico DOC “Monte Grande” 2021


Da uve garganega e trebbiano di Soave provenienti da vigne di 40 anni di età, questo Soave, premiato anche dall’IGP Carlo Macchi, si caratterizza per affilate sensazioni minerali, accanto ad effluvi di cedro e mimosa. 


Corpo sapido, ricco ed avvolgente. Imbottigliamento, come di consueto, con tappo a vite.

Un vino, un progetto: nasce Ritorno


Ritornare alle origini con una sguardo rivolto al futuro. Questa frase, letta così, potrebbe sembrare uno slogan pubblicitario molto seducente ma, conoscendo da tempo Edoardo Ventimiglia e sua moglie Carla Benini, dietro quelle parole, invece, c’è ben altro, qualcosa di molto profondo e personale che da Pitigliano, luogo del cuore dove nel 1997 hanno fondato l’azienda Sassotondo, li ha portati fino a Milo, alle pendici dell’Etna, dove ha preso ufficialmente vita da qualche mese il progetto Ritorno.

Edoardo Ventimiglia e Luigino Bertolazzi di GRASPO

Come scritto in precedenza, il nome è assolutamente evocativo e scelto a caso perché, come dichiara lo stesso Ventimiglia, “seguendo il filo rosso dei vini vulcanici italiani, dal 2000 ho cominciato ad andare a Milo tutti gli anni, in occasione della Vini Milo, per condurre insieme ad Alfio Cosentino, al vulcanico Aldo Lorenzoni e agli altri amici “vulcanici”, le degustazioni del progetto Volcanic Wines. In questi 12 anni l’attrazione si è trasformata nella volontà di fare qualche cosa per riavvicinare la mia famiglia a questa terra”.


Ritorno, infatti, non è un nome casuale perché il Barone Gaetano Ventimiglia, nonno di Edoardo, direttore della fotografia con collaborazioni illustri tra i quali Hitchcock, era proprio catanese (fondatore della squadra di calcio della città) e dai suoi racconti è nata l’attrazione fatale di Edoardo verso la Sicilia tanto da voler riprendere un legame, mai sopito, con i luoghi della sua memoria e le origini della sua famiglia.

Lucio Bertolazzi, Edoardo Ventimiglia e Carla Benini

A Edoardo e sua moglie Carla non bastava tutto questo, volevano porre in essere qualcosa di concreto per il territorio ed, in particolare, per i vitigni perduti dell’Etna, creando al tempo stesso un progetto dagli importanti risvolti sociali. “Non voglio però fare un vino sull’Etna, come molti miei colleghi legittimamente fanno, ma un vino per l’Etna. In particolare, per l’Etna Bianco Superiore, che credo rappresenti il futuro”. Con queste parole Edoardo Ventimiglia ha presentato alla stampa il suo Ritorno, un Etna bianco superiore da carricante in purezza, che proviene dal vigneto degli Eredi Di Maio, nella prestigiosa Contrada Caselle, foglio 19, particella 117, nel comune di Milo sul versante est dell’Etna e che vede la sinergia tra i Ventimiglia ed un’altra grande figura del mondo vinicolo quale Federico Curtaz.

Credit: Gazzetta del Gusto

Questo Etna Bianco Superiore, prodotto nel 2021, vinificato in acciaio e affinato in un due tonnaux da 300 litri, è ricco e penetrante con un naso che richiama sensazioni idrocarburiche associate a tocchi aromatici di glicine, agrumi e mandorle tostate. Le percezioni olfattive trovano continuità al gusto, fresco e sapido insieme, in una gradevole fusione che mostra un vino giovane ma al tempo stesso raffinato e territoriale.


Prodotto solo in 200 magnum a produzione limitata, Ritorno è un progetto che ha anche una valenza sociale importante visto che con i proventi delle vendite, tramite Proposta Vini, si andrà proprio a finanziare l’Associazione G.R.A.S.P.O. per l’avviamento del progetto finalizzato alla catalogazione, recupero e successiva messa a dimora degli antichi vitigni dell’Etna con la collaborazione dell'Università di Catania.

Ruiz de Cardenas - Cuvée Armonia Blanc de Blancs Metodo Classico Extra Brut


di Lorenzo Colombo

Bella l’effervescenza di questo Metodo Classico prodotto con uve chardonnay che s’affina sui lieviti per 28 mesi. 


Decisamente sapido, fresco, pulito e fruttato, lo produce Gianluca Ruiz de Cardenaz, imprenditore milanese d’origine spagnola sulle colline di Torricella Verzate, nell’Oltrepò Pavese.

Scoprire il vitigno Rebo attraverso una verticale di Vigneti delle Dolomiti Rosso Passito IGT Reboro


di Lorenzo Colombo

Il vitigno


E’ curiosa la storia della genesi del Rebo, vitigno che deve il nome al suo inventore, Rebo Rigotti, ricercatore e sperimentatore presso la Scuola Agraria di San Michele all’Adige, che ha ottenuto questa nuova varietà nel 1948 tramite l’impollinazione di un fiore di merlot con uno di marzemino e che registrò questo incrocio col nome di 107- A. Il nuovo vitigno venne poi iscritto al registro Nazionale delle Varietà di Vite nel 1978 col nome del suo inventore. Ma la storia non finisce qui, infatti successive analisi genetiche hanno stabilito che in realtà si tratta di un incrocio tra Merlot e Teroldego. Il vitigno, il cui utilizzo è autorizzato nella Doc Trentino e in poco meno di una quarantina di vini ad Igt è assai poco diffuso, nel 2010 infatti il censimento agricolo ne contava solamente 119 ettari mentre l’edizione 2020 del Which Winegrape Varieties are Grown Where, che prende in considerazione l’anno 2016, ne conta solamente 92 ettari in tutto il mondo, 85 dei quali in Italia e di questi 60 nella provincia di Trento.


La sua area di diffusione principale rimane la Valle dei Laghi, nei comuni di Cavedine, Calavino, Volano e nella frazione Padergnone del comune Vallelaghi oltre che in quello di San Michele all’Adige.

Il Reboro

Il Reboro è frutto di un progetto di alcuni vignaioli della Valle dei Laghi che, forti dell’esperienza e della tradizione nella produzione del Vino Santo Trentino hanno pensato di mettere ad appassire anche le uve di Rebo e di trarne quindi un vino rosso passito. La presentazione di questo nuovo vino è avvenuta nel 2012, in occasione dell’evento annuale dell’Associazione dei Vignaioli del Vino Santo Trentino. Per la sua produzione vengono accuratamente scelte le uve migliori che vengono poste ad appassire sulle arele (graticci di canne) sino alla fine di novembre, dopo la vinificazione il vino deve maturare in botti di rovere per almeno tre anni.


I vini in degustazione

Le uve provengono dal vigneto San Siro, allevato a Guyot su suolo calcareo. Il vino s’affina per tre anni in barrique e per un anno in bottiglia. Sono tre le annate che abbiamo avuto il piacere di degustare, 2018, 2016 e 2014, ecco le nostre impressioni:

2018 – Color prugna, profondo. Buona la sua intensità olfattiva, ampio, balsamico, mentolato, prugna secca, prugna in confettura, ribes nero, accenni di vaniglia e di salamoia. Intenso e strutturato, asciutto, con tannino importante ma mai aggressivo, speziato, sentori di caffè, liquirizia forte, prugne secche, accenni di radici, buona la persistenza.


2016 – Il colore vira tra il granato profondo e compatto ed il prugna. Intenso al naso, balsamico, elegante e di buona complessità, prugna secca, ciliegia, frutti di bosco a bacca nera, spezie dolci, vaniglia, liquirizia dolce, cioccolato, note mentolate, accenni di caffè. Morbido e succoso, strutturato senz’essere pesante, vi ritroviamo i sentori di prugna secca e ciliegia matura, liquirizia dolce, cioccolato, vaniglia, sentori mentolati, buona la sua trama tannica e lunghissima la persistenza.


2014 – Color granato, con unghia tendente al mattonato. Buona la sua intensità olfattiva, vi cogliamo sentori di radici, liquirizia, spezie, vaniglia, cannella, cioccolato amaro e prugna secca. Strutturato, alcolico, asciutto, con tannino leggermente asciugante, presenta sentori di liquirizia, prugna secca, ciliegia matura, cioccolato, accenni di caffè, tracce mentolate e leggeri ricordi di legno, buona la sua persistenza.


Tre annate che, pur presentando un comune denominatore sono abbastanza diverse tra loro, riteniamo che questo sia dovuto in parte all’annata ma soprattutto (secondo noi) alla diversa maturità dei vini, dei tre quello del 2006 è per noi il più completo, più maturo e complesso rispetto a quello più giovane e più fresco, in forma e scattante rispetto al 2014.

InvecchiatIGP: Tenuta La Novella - Chianti Classico Riserva 2006


di Stefano Tesi

Ci sono vini che sembrano fatti apposta per rammentarti, oggi, quanto le cose, in un arco di tempo relativamente breve, possano cambiare nel profondo. Perché se è vero, come è ovvio, che tutto muta e quindi appare diverso rispetto a prima, a volte il mutamento ha dei simboli, dei benchmark direbbero quelli bravi, qualcosa che lo rappresenta meglio di qualunque altra cosa.


Questo Chianti Classico Riserva 2006 della Tenuta La Novella, a Musignano, presso San Polo, in comune di Greve, assaggiato ora è infatti perfetto alla bisogna.
Di ciò devo ringraziare il giovane enologo Lorenzo Morandi, che da 2015 con Simone Zemella si occupa dello sviluppo dell’azienda e che mi ha portato la bottiglia di cui sto per parlarvi.


La tenuta ha una storia antica e discontinua: già monastero e poi grande fattoria ottocentesca, passò da varie mani prima di arrivare, nel dopoguerra, a un industriale pratese morto nel 1970 senza lasciare eredi. Rimase abbandonata fino al 1996, quando la Società dei Domini, ne divenne proprietaria e iniziò un imponente lavoro di restauro e di recupero durato dieci anni, conclusosi con l’approdo all’agricoltura biologica e alla biodinamica odierne.


Dal punto di vista esteriore, più che dall’etichetta il cambiamento si coglie in retroetichetta: 80% di sangiovese, 8% di teroldego, 7% di merlot e 5% di cabernet sauvignon.

Il tappo è integro, il colore ancora scuro, pieno, profondo.

Al naso il vino rivela tutta la coerenza delle proprie origini: è ancora vivo sebbene compatto, a tratti pastoso, con residui echi di legno ben percepibili, frutti rossi molto maturi, ciliegia sotto spirito e note terziarie, marcate ma non troppo, di cuoio, funghi e liquirizia. Sentori che si evolvono appena, ma non mutano di sostanza nemmeno lasciando respirare il vino, che alla fine manca un po’ di profondità. Lo stesso accade al palato, con un’entrata potente e una struttura importante che però di fermano presto, senza spiccare il volo né in lunghezza, né in finezza e restano un po’ sospese come, alla fine, il giudizio finale. Il quale, tutto considerato, non è negativo, perché la bottiglia non tradisce affatto le attese. 


Anzi, le conferma. E mi spinge a dire che l’aggettivo più giusto per descrivere oggi questo vino è “didattico”: l’ideale cioè per spiegare a chi non c’era “come eravamo” e a chi ha ancora in cantina qualche bottiglia, “cosa aspettarsi”.

Poggiotondo - IGT Toscana "Poggiotondo" 2020


di Stefano Tesi

Ho fatto bene a rispettare la vocazione “tardiva” (è questa l’ultima annata in commercio) di questo rosso del Casentino a base di sangiovese e canaiolo, maturato in vasche di vetrocemento.


Bevuto col clima invernale e coi piatti giusti dà una sferzata di calore, piacevole veracità e di giusta pienezza.

Collazzi, il rosso toscano alla prova del tempo


di Stefano Tesi

Come diceva il titolo di un film bello ma poco conosciuto, “il vento fa il suo giro”. E a volte ti riporta laddove manchi da tempo, magari da così tanto tempo che tutto è cambiato. Oppure non è cambiato nulla, ma è mutato il contesto. L’effetto che mi ha fatto tornare ai Collazzi, la villa sulle colline fiorentine – secondo la vulgata, anzi, la più bella delle ville fiorentine – progettata del Rinascimento da un allievo di Michelangelo, Santi di Tito, è stato un po’ questo: la riscoperta di una sorta di familiarità perduta e di una motivazione nuova.


La motivazione era una verticale 2001- 2019 del “Collazzi”, il rosso igt Toscana nato qui negli anni Novanta (la prima vendemmia è del 1999) da un taglio di cabernet sauvignon, merlot, cabernet franc e, in seguito, di Petit Verdot, dal 2005 affidato senza soluzioni di continuità all’enologo Alberto Torelli. Ma anche farsi raccontare la vicenda della tenuta, storicamente della famiglia Marchi (400 ettari tra Impruneta, San Casciano e Scandicci, con 33 ettari di vigneto, 140 di oliveto e il resto a bosco), con le sue tante curiosità. Come quella di Ottomuri, il Fiano IGT Toscana (l’unico da questa varietà prodotto nella regione) ricavato da un’unica vigna sperimentale di galestrino e vendemmiata in tre tempi, piantata dove un tempo era stata una cava di argento.

Ma torniamo alla verticale.

Collazzi IGT Toscana 2019

Fa 24 mesi di barrique, per il 30% nuove e per il 70% di un anno.
Bellissimo colore rubino pieno, da cui emerge un riflesso bluastro intrigante. Al naso emergono molta gioventù e un frutto pieno, polposo, denso, accompagnato da una coda quasi salata. Sentori che si riversano puntualmente al palato, con una freschezza e un’acidità inattese. L’alcool è a 14,5° ma non si avverte troppo. Da aspettare.

Collazzi IGT Toscana 2015

Il colore è scurissimo, quasi impenetrabile, e il calore dell’annata emerge al naso con un accenno di sovramaturazione che però non intacca l‘evidenza delle pirazine del Cabernet Sauvignon, destinate a restare in primo piano. La sensazione di vino maturo si conferma in un palato asciutto e solenne, setoso elegante e con un finale di liquirizia.



Collazzi IGT Toscana 2008

Qui il Petit Verdot non era ancora entrato in scena. Il colore è un granato scuro, comunque integro. Al naso presenta marcate note terziarie di funghi freschi, muschio e sottobosco, ma è di discreta finezza e di una certa eleganza. Il tutto si conferma in bocca: il vino è severo, un po’ brontolone, evoluto ma ancora piacevole.

Collazzi IGT Toscana 2005

Ultima annata prodotta con legni americani: si vede e si sente. Di colore praticamente impenetrabile, al naso denuncia uno stile “antico” ma è ancora relativamente vivace e solido. Il balzo lo fa al sorso con una rotondità bella e rassicurante e un’agilità non banale, appena sporcata da un finale un po’ asciugante.

Collazzi IGT Toscana 2001

Rubino scuro e caldo, al naso è ovviamente evoluto ma si tratta di un’evoluzione elegante ed equilibrata che rende il bouquet godibile e fine, con un piacevole accenno di dolcezza e un gradevole tocco balsamico. Ed anche in bocca la piacevolezza non si dissipa, evidenziando sapidità, pienezza, una solida rotondità e qualche residuo di acidità.

InvecchiatIGP: Castello del Terriccio - Lupicaia 2001


di Luciano Pignataro

Possiamo dire che il Lupicaia 2001 è l’ultimo vino degli anni ’90? Beh, da un punto di vista psicologico sicuramente sì visto che quell’anno, con l’attacco alle Torri Gemelle, siamo entrati in una nuova fase storica che ci ha fatto cambiare molte abitudini quotidiane, ma soprattutto perché il mondo del vino interruppe la sua cavalcata trionfale iniziata nel decennio precedente dovendo fare i conti con una improvvisa crisi di del mercato americano, principale sbocco naturale dell’export italiano.


Ma la vendemmia, dopo la calda 2000, nulla faceva presagire del brutale e progressivo cambio climatico: annata inizialmente piovosa e con una gelata ad aprile che in Toscana tagliò la produzione del 15% circa, poi riequilibrata da un buon andamento che ha portato persino ad un po’ di anticipo nella raccolta proprio sulla costa.


Bere il Lupicaia 2001 è dunque una sensazione straniante: siamo in un'altra epoca, non esistevano i social, decisamente rassicurante e conforme ai canoni produttivi degli anni ’90 nella fase produttiva, decisamente nuovo millennio per le fasi commerciali seguenti. Era ancora il periodo in cui il legno non era stato così ferocemente messo in discussione e si affacciava appena il tema dei vitigni autoctoni come principale caratteristica identitaria del sorso rispetto al territorio di provenienza. Anzi, il Lupicaia, in questa versione 2001 con un po’ di Merlot e di Pedit Verdot a saldo di un 85 per cento di Cabernet Sauvignon era sin dalla sua nascita, il 1993 per l’esattezza, orgoglioso alfiere dell’impostazione bordolese in salsa mediterranea che ha sonoramente rinnovato la viticultura della costa toscana e, di conseguenza, della viticultura italiana. Fu proprio grazie ai vitigni internazionali che la Toscana trascinò il resto del paese verso un export redditizio, autorevole e non più subalterno alla Francia.


L’azienda, con i suoi 3500 ettari di cui una settantina vitati in quel di Castellina Marittima, non ha bisogno di presentazioni essendo stata la protagonista del rilancio del vino italiano nel suo decennio d’oro e mantenendo la rotta sulla qualità assoluta nel corso degli anni. Indubbiamente un vino molto ben fatto, nonostante i nostri pregiudizi verso tanti vini così concepiti di quell’epoca alla prova del tempo. Non solo il tappo è perfetto, ma il colore granato è vivo e sin dal primo secondo il vino, conservato tutto questo tempo nella sua cassetta di legno in cantina, respira ancora frutta rossa, note balsamiche e di macchia mediterranea in un vago contesto di fumè e carruba. Se proprio volete saperlo, non ho percepito il classico peperone sempre associato didatticamente al cabernet. Al naso il frutto e il legno appaiono in perfetto equilibrio, direi anzi fusi e la scelta dei tonneaux da parte della azienda, rilanciata dal mitico marchese Gian Annibale Rossi di Medelana purtroppo scomparso nel 2019, appare da distanza di 23 anni saggia e lungimirante.

Gian Annibale Rossi di Medelana Serafini Ferri 

Il vino, con il passare dei minuti acquisisce complessità e intensità olfattiva con note di caffè, in parte liquirizia, conserva. Le premesse del naso vengono mantenute al palato dove la freschezza sostanzialmente integra tiene in piedi la beva in maniera autorevole senza il minimo cedimento, spingendo con decisione il sorso in un contesto di morbidezza setosa dei tannini, presenti e di pregio, sino al finale lunghissimo in cui ritornano i ricordi di frutta rossa. Una chiusura che conserva intatta la sapidità del sorso che non ha alcuna concessine piaciona o dolce e che anzi invoglia a ripetere la beva. 


La bottiglia finisce rapidamente e ci complimentiamo per la nostra tenacia di resistere alla tentazione di aprirla prima: fisicamente parlando, ammesso che il Lupicaia 2001 sta ancora in commercio (lo vediamo quotato sui 220 euro sul web), è al suo zenit. 
Un grande vino. Questo è l’epitaffio che lasciamo alla bottiglia vuota.

Tenuta del Cavalier Pepe - Irpinia Coda di Volpe DOC "Bianco di Bellona 2011"


di Luciano Pignataro

Non importa il vitigno, sui tempi lunghi i bianchi irpini regalano sempre grandi soddisfazioni. 


Come questa Coda di Volpe lavorata solo in 
acciaio e dimenticata in bottiglia dal naso di cedro candito e idrocarburo, con la beva piena e appagante ben sostenuta dall’acidità. Sorso finale lungo e dissetante.