Ventolaio, tutto il bello di Montalcino e delle sue vigne in altezza


di Carlo Macchi

Non ero mai andato al Ventolaio e un po’ la cosa mi bruciava, perché questa cantina era entrata prepotentemente nei radar di Winesurf più di venti anni fa, con uno strepitoso Brunello di Montalcino 2001.

credit: Partesa Wine

Ho appuntamento per le 9.30 ma sono in ritardo. E’ una cosa che non sopporto e così, per quantificarlo e comunicarlo, a Buonconvento metto il navigatore: 38 minuti. Penso che Google sia impazzito ma ha (ovviamente) ragione, perché da quando si lascia la strada asfaltata all’altezza del Passo del Lume Spento al momento in cui si arriva al Ventolaio passano buoni-buoni 15-16 minuti. In questi 15-16 minuti, tutti di strada bianca attorno ai 400/450 metri di altezza, vedo tantissimi nuovi vigneti quasi a perdita d’occhio, molti di questi piantati da cantine importantissime dell’enologia italiana, a dimostrazione che oramai a Montalcino più che il terreno conta l’altezza a cui si pianta.


Al Ventolaio, l’altezza c’è, (siamo attorno ai 450 metri) tanto che alcune annate dei primi anni 2000 sono state abbastanza sofferte, come in tutte le zone alte di Montalcino. Parlo solo di primi anni 2000 perché la famiglia Fanti è arrivata al Ventolaio negli anni ’90, e quindi i primi Brunello nascono proprio attorno all’inizio del nuovo secolo.

Maria Assunta Fanti

Mi accoglie Maria Assunta Fanti, moglie di Luigi e mamma di Manuele e Baldassarre: gli uomini sono in vigna. Camminando nella vigna di fronte alla casa capisco subito che anche Maria Assunta non disdegna per niente il lavoro di vigna, anche se il suo mondo è la cantina, anzi la nuova cantina.


Ma prima della cantina la vigna. Oltra alla vigna vecchia, la prima piantata e che è la mamma di quel 2001 di cui sono rimaste “ben” 2 bottiglie, piano piano sono arrivati a 8 ettari a Brunello, 2 a Rosso di Montalcino, e altri 8 tra Sant’Antimo e IGT. Le esposizioni sono sud/sud ovest con sesti d’impianto che, almeno nelle vigne più vecchie non si discostano dai 3000 ceppi per ettaro . “Su questo Luigi non ha mai voluto sentire ragioni. Ultimamente solo in un vigneto i ragazzi l’hanno convinto ad arrivare a 4000 piante.” Con il numero di ettari che hanno gli chiedo quanti operai ci sono in azienda e quando mi risponde “uno solo” mi convinco definitivamente che il Ventolaio è un’azienda familiare a 360°. Manuele e Baldassare sono nel vigneto pure di notte quando serve, anche se, guardando il loro parco macchine agricole, si avvalgono moltissimo della tecnologia e non disdegnano usare, per determinati vini, anche una modernissima vendemmiatrice.


Ho parlato di nuova cantina, il regno di Maria Assunta, che da quando ha scelto Maurizio Castelli come tecnico è ancora più coinvolta e convinta del suo lavoro. Nuova cantina sia come struttura che come macchinari: quasi tutto acciaio, con due sole grosse vasche in cemento che servono soprattutto per i tagli: fermentazioni molto tradizionali con macerazioni che possono arrivare anche ai 40-45 giorni. Ogni vigna ha la sua vasca e quindi ho potuto farmi un quadro della vendemmia 2022 prima che vada in legno. La cosa che mi ha stupito in questi vini grezzi è l’assoluta mancanza di sentori troppo maturi al naso: frutta rossa e nera matura c’è, ma con sensazioni fresche e in diversi casi fini note floreali. I tannini sono netti, ben definiti, per niente amari una sottesa freschezza fa da contraltare ad un corpo in qualche caso molto importante. Non sembra assolutamente la 2022 calda, asciutta, sicuramente difficile che abbiamo vissuto da pochi mesi, segno che oramai i produttori riescono a salvaguardare sempre meglio sanità e maturazione dell’uva in annate “estreme”.


L’assaggio delle ultime annate prodotte mi conferma che oramai il Ventolaio è perennemente sulla strada della qualità e se andate a dare un’occhiata ai voti della nostra guida vini ne avrete conferma. Per quanto riguarda i vini mi soffermerò soprattutto su quelli che noi non degustiamo per la guida.


Il primo dei fuori guida è lo Spiffero 2021, un rosato di sangiovese dal classico colore scarico provenzale ma dal nerbo tutto toscano. Frutta di bosco al naso ma soprattutto sapidità e decisione al palato. Un rosato per niente accondiscendente.


l’IGT Toscana Sentiero del Fante è un “rosso d’ingresso” (viene venduto in cantina a 10 euro) da provare per la finezza aromatica da vino superiore e un corpo di ottima profondità, sempre giocato su tannini dolci con sapidità in prima fila. Un vino che mi ha sorpreso piacevolmente.


Ho riassaggiato anche i loro Brunello 2017 nonché la Riserva 2016 e su questo c’è stato un “giallo” che mi sembra abbia bisogno di un approfondimento. In degustazione bendata è stato da noi considerata la migliore Riserva 2016 e con il suo punteggio di 90 punti (per noi un punteggio molto alto) è tra i migliori 12 vini rossi italiani. Mentre la riassaggio Maria Assunta assume un’aria strana e mi racconta che un importante giornale estero non solo ha valutato con un voto bassissimo questo vino ma ha anche detto che non “era adatto nemmeno per fare Brunello base”.


Indubbiamente noi di Winesurf abbiamo un sistema di valutazione diverso da tante altre guide/giornali italiani e esteri ma, avendo il vino nel bicchiere e non volendolo per forza lodare non si può però negare che abbia struttura, profondità, eleganza come minimo al pari di tante altre riserva 2016 e che anche al naso incarni perfettamente il sangiovese di Montalcino. Lo riassaggio due/tre volte, cerco di trovarci dei difetti o dei punti deboli ma non ci riesco. E’ un gran vino!


A questo punto mi rivolgo a voi lettori o ai colleghi per avere un giudizio su questa Riserva 2016. Se l’avete già assaggiata o se vi capita (ma vi consiglio di farlo capitare…) assaggiatela e fatemi sapere. Lascio Maria Assunta, la famiglia Fanti e il Ventolaio con la certezza di avere appena visitato una delle certezze enoiche meno conosciute di Montalcino.

InvecchiatIGP: Michele Chiarlo - Barolo Cerequio 1993



di Roberto Giuliani

Trent’anni cominciano ad essere un bel banco di prova persino per un Barolo, tanto più se figlio di un millesimo “minore” (se non ricordo male la ’93 fu valutata tre stelle su cinque). Ma qui stiamo parlando del signor Cerequio in quel di La Morra, ovvero uno dei cru più prestigiosi, capace di una progressione evolutiva che ha pochi confronti.


Chi conosce il territorio delle Langhe e la sua antica cultura vitivinicola, sa bene che la maggior parte dei cru (oggi Menzione Geografica Aggiuntiva, MGA) è condivisa da un congruo numero di produttori. Il Cerequio non fa eccezione, fra i nomi di spicco risaltano Batasiolo, Achille Boroli, Damilano, Roberto Voerzio, Gaja e altri. Michele Chiarlo, con i figli Alberto e Stefano, dispone di 110 ettari vitati fra Langhe, Monferrato e zona del Gavi, del Cerequio “solo” 2,5 ettari su una superficie totale di 24,12 interamente a nebbiolo (una piccola parte sconfina nel comune di Barolo), da cui ricava un vino che esce in versione Riserva solo nelle migliori annate. A conferma che la ’93 non lo è, eppure…


Sarà merito del suolo composto di marne calcaree e argillose di origine sedimentaria marina (era Tortoniana)? Sarà l’esposizione sud sud-ovest e l’altitudine superiore ai 300 metri? Sarà il pH basico, l’abbondante presenza di manganese e magnesio e la scarsa quantità di sostanze organiche?


Sta di fatto che ho davanti a me un Barolo in forma perfetta, dal colore ancora luminoso con la venatura granata in bella evidenza e senza particolari cedimenti al bordo. Pur non avendo riscontrato sentori di libreria stantia appena versato nel calice, gli ho concesso una buona mezz’ora d’aria per ricomporsi e mettere in mostra il suo bagaglio espressivo, che mette subito in evidenza una gamma ben diversa da quella che ci si aspetterebbe dopo trent’anni di vita in bottiglia: prugna, eucalipto, cacao, liquirizia, radici, genziana, di terziario avanzato neanche l’ombra, il cosiddetto goudron è appena percepibile, la sensazione generale è di balsamicità e freschezza, i funghi, il cuoio conciato, i cenni ossidativi, neanche per idea! Possibile? Al naso non gli darei più di dieci anni.


Proviamo a berne un sorso: ragazzi, dov’è il trucco? Sì, ok, una certa evoluzione si sente, e ci mancherebbe! Ma questo Barolo non ci pensa proprio a sedersi, anzi, è bello pimpante, con un tannino ancora mordace e una trama complessa e viva, succosa, piena di brio. E quella vena balsamica che rimane anche dopo minuti dall’assaggio. Davvero mi ha lasciato senza parole, secondo me qualcuno è venuto a rinfrescarlo mentre non c’ero…

Di Filippo - Grechetto Umbria IGT 2020


di Roberto Giuliani

Di Filippo, l’uomo biodinamico che sussurra ai cavalli e alle oche, non lavora più in azienda, ma la traccia del suo lavoro rimane in quest’ottimo Grechetto senza solfiti aggiunti, dall’indole generosa, che profuma di mango, agrumi maturi e fiori macerati.


Beva fresca e piena, salina, intensa, godibilissimo.

Il Vermouth Bianco Autarchico di Marco Ghezzi


di Roberto Giuliani

Non se ne parla quanto si dovrebbe, forse colpa del fatto che siamo stati invasi dagli “amari” per troppi anni, dimenticando quanto il Vermouth sia qualcosa di veramente speciale, inimitabile e, spesso, entusiasmante. Un anno fa, in occasione della presentazione ufficiale del Consorzio del Vermouth di Torino, il nostro Lorenzo Colombo ha descritto ben otto diversi tipi di Vermouth.


Su Lavinium ne abbiamo scritto più volte, uscendo anche dal territorio piemontese. Abbiamo raccontato quello rosato di Castello di Radda ottenuto da uva sangiovese, ma anche quello rosso di Sara Vezza, per il quale miei amici e parenti sono rimasti folgorati. In quel caso le uve venivano dall’azienda langhetta, nebbiolo in purezza, elaborato poi a Torino.
Questa volta ci spostiamo in Romagna, dove Marco Ghezzi dell’azienda Baccagnano di Brisighella ha voluto riesumare questo antico nettare con le uve bianche locali e una miscela di erbe tipiche della sua zona. Anche in questo caso la distillazione del prodotto è stata effettuata in Piemonte, dalla Magnoberta di Casale Monferrato.



Ma cosa ha spinto Marco Ghezzi a intraprendere questa avventura? Ce lo dice lui stesso: “È tutta colpa del decespugliatore e di quei ripidi rivali da tenere in ordine sotto la cantina. Erbe e arbusti che crescono indefessi e quasi imbattibili e il frullino che li combatte senza speranza. Le chiamiamo erbe infestanti ma sono piene di vita, di api e di farfalle. Io odio il decespugliatore. È proprio una cosa che odio fare, decespugliare. Ogni scusa è buona per rimandare, ogni distrazione benvenuta.
Questa estate mi sono messo a fare l'inventario delle erbe e ho capito cosa farne! Dietro casa avevo quasi tutto quello che mi serviva per fare del Vermouth, una delle mie bevande preferite e dentro la cantina in un tino di acciaio qualche centinaio di litri di Trebbiano Romagnolo che pensavo sarebbero diventati un rifermentato da mettere in bottiglia in autunno. Il progetto Autarchico nasce da questi pensieri strampalati: realizzare un Vermouth Bianco il più possibile romagnolo, il cui massimo dell'esotico non superi i confini nazionali. Per certe note agrumate e amare ci siamo spinti nel sud Italia per raccogliere un po' di agrumi del Mediterraneo: Arancio amaro, limone, cedro. Il nostro vermouth è extradry, con un contenuto di zuccheri minimo indispensabile secondo il disciplinare e ha una gradazione alcolica di circa 16° anche essa sullo scalino più basso del disciplinare”.


Intanto diciamo che il colore è molto vicino all’ambrato, il profumo è davvero ampio e complesso, piacevolissimo, richiama l’arancia candita, la scorza di cedro, le spezie officinali, il rabarbaro, la genziana, lo zenzero, una punta di caramella d’orzo, finocchietto selvatico, artemisia, cannella, radici pestate, mallo di noce, menta selvatica e salvia. L’assaggio non è da meno per ampiezza espressiva, in perfetta simbiosi con l’olfatto, ricco e persistentissimo, un vino liquoroso aromatizzato che non stanca neanche un po’, è giunta l’ora di farlo conoscere alle nuove generazioni, non come componente dei vari cocktail, ma come prodotto a sé, sarebbe ora anche di farlo entrare a buon diritto nella carta vini dei ristoranti di qualità…

InvecchiatIGP: Ruffino - Chianti Classico Riserva Ducale Oro 1982


di Andrea Petrini

Nel mondo del vino non ci sono tanti punti di riferimento ma, se parliamo di storicità, non possiamo non citare Ruffino, azienda vitivinicola fondata nel 1877 a Pontassieve, vicino Firenze, che da oltre cento anni è sinonimo di grandi vini di Toscana come, ad esempio, il Brunello di Montalcino Greppone Mazzi, il pluripremiato Modus e, soprattutto, il Chianti Classico Riserva Ducale e Riserva Ducale Oro, vera e proprio “cult wine” che ha consolidato l’immagine chiantigiana in tutto il mondo.


Qualche tempo fa a Roma, per salutare il debutto ufficiale della nuova etichetta del Chianti Classico Riserva Ducale Oro Gran Selezione, l’azienda, con la presenza di Sandro Sartor, presidente e amministratore delegato di Ruffino, si è tenuta una storica verticale di Riserva Ducale Oro, attraverso 5 decadi, dagli anni ’70 ai giorni nostri. Un’etichetta, come già scritto, che nel corso degli anni è diventata uno dei simboli di Ruffino. Se la creazione del Chianti Stravecchio, all’inizio dello scorso secolo, consentì all’azienda fondata dai cugini Ilario e Leopoldo Ruffino di diventare fornitore ufficiale della Casa Reale Savoia, la nascita della Riserva Ducale nel 1927, e successivamente quella della sua evoluzione “Oro” nel 1947, hanno consentito all’azienda di Pontassieve di poter custodire e tramandare sino ad oggi un pezzo importante della storia della viticoltura e dell’enologia toscana e italiana.


La degustazione, che ha visto protagoniste sette annate di Chianti Classico Riserva Ducale Oro – 1977, 1982, 1988, 1996, 2005, 2015 e 2018 – è stata condotta da Daniele Cernilli, affiancato da Gabriele Tacconi, enologo di Ruffino.


Per la rubrica InvecchiatIGP ho scelto di parlare dell’annata 1982, un millesimo che per la sua integrità gusto-olfattiva mi ha lasciato davvero di stucco.


Questo Chianti Classico Riserva Ducale Oro (75% sangiovese, 10% canaiolo, 10% malvasia e 5% colorino) è stato vinificato in tini di cemento vetrificati per circa 2 settimana a cui è seguita una macerazione post-fermentativa sulle bucce per altri 7 giorni. Al termine della malolattica, il vino ha trascorso un primo periodo di affinamento di almeno 12 mesi in botti grandi di rovere di Slavonia da 80hl, a cui ha fatto seguito un ulteriore affinamento in tini di cemento vetrificati. Figlio di una annata abbastanza mite, il vino, come scritto, spiazza il degustatore per la sua giovinezza sensoriale che, affatto, fa trapelare che sono passati ormai oltre 40 anni dalla vendemmia. 

Il Colore

Naso ancora impressionante per complessità ed eleganza. Si susseguono percezioni di the nero, timo, frutta rossa succosa, prugna, legno di sandalo fino ad arrivare a note di incenso e tamarindo. 


Al sorso il vino ha ancora energia, vigore, avvolgenza e, grazie ad una spiccata acidità fornita anche dalla presenza di malvasia bianca, ha ancora una schiena dritta e una persistenza che dall’agrume rosso vira verso percezioni speziate e di erbe aromatiche.

Sandro Sartor

La chiusura dell’articolo la lascio alle parole di Sartor che, al termine della splendida verticale, ha così commentato: “Stasera abbiamo avuto la fortuna di poter apprezzare, a distanza di molti anni dalla loro nascita, vini che sono stati realizzati dal lavoro di persone che erano in azienda prima di noi. Mi piace pensare che a distanza di oltre 40 anni si possa ancora parlare di questi vini perché qualcuno è stato in grado di custodire i terreni e l’ambiente nei quali vengono prodotti”.

Duca di Salaparuta - Terre Siciliane Rosso IGT “Suòlo 7” 2020


di Andrea Petrini

L’attento studio del terroir della Tenuta di Suor Marchesa, a Riesi (CL), ha permesso di individuare nella particella 7 le condizioni ideali per piantare questo Cabernet Franc che dimostra la versatilità di questo vitigno pronto a donare vini freschi, golosi e profondi senza arrivare, come spesso accade in Sicilia, ad architetture barocche poco interessanti.



Fonzone, tutte il bello dei bianchi irpini!


di Andrea Petrini

La Campania, specialmente nella zona irpina, è una terra ricca di piccole ma importanti realtà famigliari che producono vino di assoluta qualità. La famiglia Fonzone, che gestisce circa 30 ettari (di cui circa 20 a vigneto) nelle campagne di Paternopoli (in provincia di Avellino), è una di queste importanti realtà la cui storia vinicola inizia nel 2005 quando Lorenzo Fonzone Caccese, medico chirurgo, fonda l’azienda decidendo di produrre grandi vini di territorio secondo un approccio sostenibile, sia in vigna che in cantina. 


Oggi, la nuova generazione della famiglia Fonzone Caccese, rappresentata dai figli e dalle rispettive mogli, hanno preso a cuore la mission aziendale del fondatore che ha voluto coltivare fn da subito solo ed esclusivamente varietà autoctone dell’Irpinia: Aglianico (circa 12 ettari), Fiano d’Avellino (2 ettari), Falanghina (3 ettari) e Greco di Tufo (1 ettaro e mezzo). Nei vigneti non vengono utilizzati diserbanti e la difesa fitopatologica è in accordo con i criteri di lotta integrata. I vigneti si estendono sui due versanti dell’altura, beneficiando di molteplici esposizioni e di un’altitudine che varia dai 360 m ai 430 m/slm. La collina comprende sia suoli argilloso – calcarei che suoli a tessiture più sciolte, di chiara origine sedimentaria, ed è circondata dai torrenti Fredane ed Ifalco, che ne influenzano il microclima caratterizzato da forti escursioni termiche tra il giorno e la notte. Inoltre, data la vicinanza in linea d’aria con il Vesuvio, nel sottosuolo è presente polvere vulcanica, deposito delle eruzioni avvenute nel corso dei secoli. 


La tenuta si completa con i vigneti situati a San Potito Ultra, Parolise, Altavilla Irpina e Montefusco con altitudini che, in alcuni casi, raggiungono fino ai 650 sul livello del mare.

Lorenzo Fonzone Caccese

L’azienda, che nel giro di pochi anni otterrà la certificazione biologica, è accompagnata in questo cammino dall’enologo Luca D’Attoma che, come afferma Silvia Campagnuolo Fonzone, ha una filosofia in grado di esplorare, sperimentare e valorizzare vitigni e territori per creare, con intuito e lungimiranza, vini unici”. Ad affiancarlo, seguendone le linee guida, l’enologo Francesco Moriano.


L’azienda agricola Fonzone Caccese, attualmente, produce 8 vini monovarietali di cui cinque sono stati al centro di un bellissimo pranzo romano all’interno del ristorante stellato Pulejo.


Falanghina Irpinia DOC “Le Mattine” 2021: prodotto con uve provenienti da un vigneto situato a 380 m s.l.m., in prossimità del torrente Ifalco, il vino si apprezza per la sua duttilità e l’estrema bevibilità grazie ad un impatto aromatico fragrante nelle sensazioni di mela, uva spina, mandorle fresche ed erbe mediterranee a cui segue un lieve abbraccio minerale. Sorso teso, bilanciato, che si distingue per corroborante salinità.ù

Fiano d’Avellino DOCG 2021: prodotto con uve provenienti da San Potito Ultra, a 500 m s.l.m., si distingue per un impatto olfattivo decisamente didattico per la tipologia grazie ad una dotazione olfattiva che va dalla mela stark, alla salvia, fino ad arrivare ai fiori bianchi e la scorza di limone. Bocca scattante, di piacevole rispondenza e notevole progressione sapida nel finale.


Greco di Tufo DOCG 2021: nasce dai vigneti di Altavilla Irpina e Montefusco che crescono lungo ripidi pendii tra i 650 e i 450 m s.l.m. Mostra un naso impetuoso e graffiante esprimendosi su slanci odorosi di gardenia, erbe mediterranee, mela golden, agrumi e talco. Assaggio caratterizzato dalla classica “prepotenza” del Greco dove il corpo del vino è sostenuto da una spiccata vena acido-sapida. Sfuma in persistenza su serrati toni sapidi e ammandorlati.


Fiano d’Avellino Riserva DOCG “Sequoia” 2020
: ottenuto da una selezione di uve fiano provenienti da Parolise, un piccolo borgo di 676 abitanti in prossimità di Avellino che si estende su una collina ad un’altitudine media di 500 s.l.m. Discreto e mai impetuoso, conserva i suoi inconfondibili tratti aromatici di nocciola non tostata, margherite, fiori di camomilla, buccia di mandarino, dragoncello e timo. Al gusto, pienamente equilibrato, svela con autorevolezza le sue doti di acidità e sapidità e per una veemente persistenza agrumata con tratti salmastri.


Greco di Tufo Riserva DOCG “Oikois” 2020: da Altavilla Irpina, dove l’azienda coltiva 1,5 ettari di una vecchia vigna di Greco Antico (clone rarissimo dotato di acino piccolo e succo molto più concentrato) nasce questa Riserva di Greco di Tufo di rara intensità olfattiva che dispensa profumi di frutta esotica ed agrumi, arricchiti da cenni di nespola, fiori di acacia e leggeri spunti di pietra focaia. Trova il suo pregio nella pienezza con cui interessa il palato e nella persistenza, quasi da vino rosso, che si fa largo con prepotenza col passare dei minuti, con un tono minerale che via via si fa sempre più marcato garantendo personalità ad un vino che, a mio giudizio, va aspettato in cantina ancora per tanto prima di fornire il massimo godimento al degustatore più smaliziato.


Non ho degustato ancora i loro rossi ma, da quello che mi racconta Silvia Campagnuolo Fonzone, dai loro vigneti di aglianico si ottengono per ora due vini: un Irpinia Rosato DOC e il Taurasi DOCG Riserva “Scorzagalline” che attualmente è in commercio con la 2015.

InvecchiatIGP: Sergio Mottura - Muffo 2003


di Lorenzo Colombo

Sergio Mottura viene considerato il maestro del Grechetto, colui che più di ogni altro ha valorizzato questo vitigno che, vinificato in varie modalità riesce a dare vini dalle caratteristiche assai diverse, pur mantenendo il timbro del vitigno.
Il Grechetto costituisce il vitigno principale nei due Orvieto Doc prodotti, e viene utilizzato in purezza in tre altri vini, gli Igt Civitella d’Agliano Poggio della Costa, vinificato ed affinato in acciaio, il Latour a Civitella, altro Igt Civitella d’Agliano pluripremiato dove entra in gioco il legno durante la vinificazione e l’affinamento ed infine il Muffo, certamente uno tra i più famosi ed importanti vini botritizzati d’Italia.


L’azienda, che appartiene alla famiglia Mottura sin dal 1933, è gestita da Sergio e dal figlio Giuseppe, s’estende su 130 ettari, 37 dei quali vitati ed è certificata biologica, il simbolo aziendale è l’istrice, riportato in pose diverse sulle etichette di tutti i vini fermi, ad indicare la salubrità dell’ambiente, questo animale infatti vive esclusivamente in ambienti dove esiste un equilibrio ecologico.

Il Muffo

Le uve per la sua produzione provengono da due distinti vigneti, l’Umbrico, messo a dimora nel 1968 utilizzando una selezione massale con marze selezionate tra le viti più vecchie dell’azienda ed il Mecone, impiantato nel 1988.
I due vigneti sono posti in posizione tale che facilmente vengano raggiunti, nella fase di maturazione, dalle nebbie che si sprigionano dal lago di Alviano, un lago artificiale formatosi nel 1963 a causa di uno sbarramento del fiume Tevere, effettuato per scopi di regolamentazione delle acque. Si è così formata un’oasi naturalistica di circa 900 ettari, 400 dei quali coperti da acque. Queste nebbie mattutine sono poi quelle che favoriscono lo sviluppo della Botritis Cinerea, la “muffa nobile” che conferisce ai vini le specifiche ed originali caratteristiche organolettiche.


La vinificazione si svolge gli ultimi giorni dell’anno in vasche d’acciaio dopo di che il vino viene posto in caratelli di rovere dove sosta per nove mesi ai quali ne seguono altri sei di sosta in bottiglia. Il passare degli anni ha conferito al vino un colore tra l’ambra scuro ed il topazio, con unghia tendente al giallo.

Sergio Mottura

Decisa la sua intensità olfattiva, ampio, vi si colgono una sequenza di sentori che spaziano dalla caramella all’orzo, rabarbaro, fichi al forno, datteri, uvetta passa, liquore alla liquirizia, quasi impercettibili i sentori dati dalla botrytis.

Uva con Botrytis Cinerea

Intenso anche alla bocca, strutturato, armonico, dolce non dolce, vi ritroviamo le stesse sensazioni avute all’olfatto, anche per quanto riguarda la muffa nobile, praticamente impercettibile, lunghissima la sua persistenza.

Costaripa - Valténesi Rosso “Maim” 2017


di Lorenzo Colombo

Questo vino, prodotto con uve groppello gentile coltivate sul suolo morenico della Valténesi ed affinato in botti di rovere bianco usate per 12 mesi ci è subito piaciuto molto.


Le sue note di frutto rosso selvatico e la chiusura piacevolmente amaricante ci ha ricordato le migliori Schiave altoatesine

Alla scoperta del ColFondo Agricolo


di Lorenzo Colombo

ColFondo Agricolo è un progetto al quale hanno aderito 14 produttori dei Colli Trevigiani e la sua realizzazione si basa su "dieci comandamenti" che riguardano sia la produzione del vino, dalla vigna sino all’imbottigliamento, sia consigli sul modo di consumarlo.
  1. Coltiva la tua vite tra i Colli Trevigiani, dove da sempre l’uva di collina matura al sole.
  2. Produci un vino frizzante rifermentato in bottiglia, senza sboccatura.
  3. Imbottiglia da marzo a giugno dell’anno successivo alla vendemmia e mettilo nel mercato l’anno successivo all’imbottigliamento.
  4. Scegli il tappo a corona.
  5. Usa questi vitigni: Glera minimo 70%, e/o i vitigni storici come Perera, Verdiso, Bianchetta, Boschera, Rabbiosa fino a un massimo del 30%.
  6. Utilizza uve di proprietà e selezionate personalmente.
  7. Non temere il tempo: questi vini sorprendono anche dopo anni in bottiglia.
  8. Evidenzia l’identità di ogni annata con una fascetta di colore diverso nella bottiglia.
  9. Bevilo come preferisci. Velato o limpido, la scelta è solo tua.
  10. Condividi con gli amici e una sopressa: gli abbinamenti perfetti.                    
Durante l’evento Inconfondibile, tenutosi a Milano nello scorso mese d’ottobre abbiamo partecipato ad un’interessante Masterclass condotta da Massimo Zanichelli e Gianpaolo Giacobbo durante la quale abbiamo potuto approfondire la conoscenza di questi prodotti attraverso la degustazione di sei vini, tutti della medesima annata, la 2020, eccoli:


Colli Trevigiani Igt Frizzante “ColFondo Agricolo” – Martignago

L’azienda, con sede a Maser si autodefinisce “La Cantina del Prosecco Salato” per la sapidità che caratterizza i loro vini. Quello in degustazione è prodotto con uve Glera. Color giallo paglierino luminoso con riflessi dorati. Bel naso, intenso, sentori di lieviti, agrumi, frutta a polpa bianca, accenni birrosi. Fresco ed asciutto, bella verticalità, pesca bianca, discreta la sua persistenza. 


Colli Trevigiani Igt “Di Fondo” ColFondo Agricolo – Bresolin

L’azienda si trova a Crespignana di Maser nel territorio della Docg Asolo Prosecco, il vino, biologico-vegano, viene prodotto con uve Glera. Giallo paglierino di discreta intensità. Mediamente intenso al naso, frutta bianca, agrumi maturi. Asciutto, sapido, agrumato, con spiccata vena acida, citrino, buona la persistenza. 


Colli Trevigiani Igt ColFondo Agricolo - Bele Casel

L’azienda si trova a Caerano San Marco, le uve per la produzione di questo vino (Glera, Perera e Bianchetta trevigiana) provengono dalle colline di Monfumo, il vigneto, d’oltre 80 anni d’età, è situato su suolo marnoso-argilloso, ricco di calcare ed è allevato a Doppio capovolto. La fermentazione alcolica si svolge in vasche d’acciaio dove il vino sosta per otto mesi, la rifermentazione in bottiglia è avvenuta nel mese di marzo 2021 ed ha una durata di 25 giorni, il vino è stato messo in commercio ad inizio 2022. Paglierino luminoso. Intenso al naso, erbe aromatiche, accenni floreali, note di lieviti. Note curiose e difficilmente descrivibili alla bocca, erbe aromatiche. Un poco fuori dagli schemi.


Capo degli Onesti ColFondo Agricolo – Bastía

L’azienda è situata a Saccol di Valdobbiadene, le uve per questo vino, Glera in purezza provengono da vigneti di 35 anni d’età, situati tra i 200 ed i 300 metri d’altitudine con esposizione Sud, Sud-Ovest ed allevati a Cappuccina modificata. La prima fermentazione si svolge in vasche d’acciaio dove il vino s’affina per sette mesi, dopo la presa di spuma in bottiglia c’è un ulteriore affinamento di 8 – 10 mesi prima della commercializzazione. Giallo paglierino di discreta intensità. Buona la sua intensità olfattiva, sentori di frutta gialla matura. Fresco, sapido, verticale, succoso, note d’agrumi, buona la sua vena acida e lunga la persistenza.


Colli Trevigiani Igt “L’Essenziale” – Ruge

Ruge, azienda di Valdobbiadene, prende il nome da quello dei proprietari, la famiglia “Ruggeri”, ovviamente qui di produce Valdobbiadene Prosecco Docg, ma anche un ColFondo Agricolo con Glera in purezza. Le uve provengono dalle colline di Santo Stefano, i vigneti sono situati tra i 250 ed i 350 metri d’altitudine su suolo d’origine morenica, composto d arenarie ed argille, calcareo. Vinificazione in vasche d’acciaio ed imbottigliamento in primavera per la rifermentazione, l’affinamento si protrae per almeno sei mesi. Color giallo paglierino di media intensità. Al naso sentori di pera matura. Asciutto, verticale, mediamente strutturato, con buona vena acida. 


Colli Trevigiani Igt “Sottoriva” ColFondo Agricolo - Malibran

Situata a Susegana, nella zona di produzione del Conegliano-Valdobbiadene Prosecco, oltre ai Valdobbiadene Prosecco Docg si producono due vini ColFondo Agricolo, il Credamora e il Sottoriva, quello in degustazione. Le uve per il Sottoriva provengono da un vigneto allevato a Sylvoz e situato su suolo argilloso-ferroso d’origine morenica. Paglierino di media intensità. Pulito e fresco, di buona intensità olfattiva, bel frutto bianco. Fresco e verticale, asciutto e sapido, agrumato, buona la sua persistenza. 

InvecchiatIGP: Tenuta di Capezzana - Ghiaie della Furba 1999


di Stefano Tesi

Ricordo alla perfezione il momento in cui il compianto Ugo Contini Bonacossi mi regalò questa bottiglia. Anzi, una cassa di queste bottiglie. Ai primi anni duemila avevo accompagnato alla Tenuta di Capezzana un amico, che sapeva della mia familiarità con Ugo ed era ansioso di visitare la cantina. Il nostro ospite fu gentilissimo e amichevole come sempre. E al momento del congedo insisté affinché accettassi, con mio grande imbarazzo e non poche resistenze, quell'opulento omaggio.


Il Ghiaie della Furba fu uno dei primi supertuscan, nato nel 1979 con un taglio in parti uguali di Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc, quest’ultimo sostituito poi nel 1998 con il Syrah al 10% e una percentuale di Cabernet Sauvignon salita al 60%. Le “Ghiaie”, come molti sanno, sono quelle che compongono il suolo su cui sorgeva la prima vigna, prossima al torrente Furba.

Dopo tanto tempo sono andato a cercare cosa era rimasto di quella cassa e l’ho ritrovata in cantina, occultata tra molte altre.

In fondo c'erano ancora due bottiglie.

Una è quella di cui vi parlo e che ho stappato ieri sera coi soliti patemi che accompagnano l'apertura dei vini molto vecchi.

Capsula un po’ danneggiata e tappo molto imbevuto, ma integro e privo di sentori inquietanti: buon segno. Ho lasciato comunque riposare e acclimatare la bottiglia un'oretta prima di versarla.


Il colore si è rivelato sorprendente, pieno e vivo oltre ogni aspettativa, fitto direi, solo appena opaco. Anche al naso il vino è risultato intatto al primo affondo e nel bicchiere, col passare dei minuti, si è aperto a poco a poco scivolando dalle note piene ma un po’ ostiche dell'inizio a una lenta sequenza di tartufi, spezie, prugne, cuoio asciutto. Dopo ancora un po’ ecco affiorare qualche accenno balsamico e una vaga coda di legno.


In bocca, invece, il Ghiaie '99 è apparso al primo impatto meno convincente: ancora apprezzabile, certo, ma un po' stanco, direi seduto. Si riprende dopo una buona mezz’ora con una sorta di sussulto riacquisendo corpo, ampiezza, finezza e nerbo e regalando a lungo sorsi godibili prima di sedersi nuovamente e facendo comunque degna compagnia a una tagliata di chianina fatta come si deve da un amico capace. Ora sono incerto che stappare la seconda bottiglia, se lasciarla invecchiare almeno un decennio per vedere l’effetto che fa o se conservarla per sempre a ricordo di quella grade persona, del vino e non, che è stato Ugo Contini Bonacossi.