InvecchiatIGP: Fèlsina - Fontalloro 1995


di Roberto Giuliani

Non c’è giorno che non nascano nuovi vini e nuove realtà produttive, chi si affaccia al mondo enologico oggi non è così scontato che conosca vini come il Fontalloro. Basta girare i social per rendersene conto, le bottiglie che hanno fatto storia negli anni ’90 oggi sono meno ricercate, c’è più attenzione verso il nuovo, verso la corrente più in voga al momento, cosa tutto sommato normale. 


Quello che però ai meno esperti sfugge è che, guardando al passato, si possono scoprire vini capaci di resistere al tempo in modo straordinario, alla loro uscita meno “pronti”, ma con una materia prima di elevatissima qualità, alla quale il lungo affinamento dà spesso giustizia. Oggi il mercato chiede tutto e subito, così possiamo trovare Barolo, Brunello, Taurasi, Sagrantino bevibilissimi, ma siamo sicuri che abbiano le stesse potenzialità dei loro precursori?


Oltre al diverso modo di lavorare in vigna e in cantina, per ottenere vini più pronti e godibili, c’è anche un clima che è radicalmente cambiato, sempre più instabile e con punte di caldo un tempo impensabili, che nel vino significano gradazioni alcoliche elevate e acidità più moderate. Con queste caratteristiche un vino può evolvere bene per 20-30 anni o più? Ne dubito.


Certamente il Fontalloro ’95 ci è riuscito, 26 anni abbondanti raggiunti in grande spolvero, un “sangioveto” in purezza proveniente dai poderi di Poggio al Sole e Arcidossino di una storica cantina di Castelnuovo Berardenga (quindi nel territorio del Chianti Classico), maturato in barrique per una ventina di mesi e affinato in bottiglia per un anno.



Le uve provengono dalla partita catastale n.1334, foglio n.111, particelle n.41,57, su una superficie totale di 6,18 ettari.
L’annata 1995 ha avuto un andamento climatico piuttosto irregolare, con temperature estive basse e piogge frequenti che hanno provocato un ritardo nella maturazione di una decina di giorni. L’acidità naturale si è manifestata più elevata del normale favorendo un ottimo sviluppo del patrimonio aromatico. La raccolta delle uve è stata eseguita a metà ottobre. La gradazione alcolica è risultata di poco superiore ai 13 °C (13,04), l’estratto di 26,01 g/l e l’acidità totale di 5,55 g/l.


Aprire questa bottiglia (la prima annata del Fontalloro risale al 1983) è stato per me come ritornare al periodo in cui nasceva la mia “consapevolezza” nei confronti del vino, perché la passione c’era già ma fino ad allora avevo bevuto con gusto e curiosità senza avere ancora gli strumenti per comprendere fino in fondo la complessità dei vini.

Giuseppe Mazzocolin

Ricordo di avere ascoltato in più occasioni Giuseppe Mazzocolin, uomo di straordinaria cultura, genero del fondatore di Fèlsina Domenico Poggiali; il suo linguaggio e la sua sensibilità nel raccontare il territorio chiantigiano, la storia, i suoli, il lavoro di ricerca, hanno contribuito a farmi innamorare del vino e ad accostarmi ad esso in una forma del tutto nuova, che ha sicuramente tracciato il mio futuro.


Ma entriamo nel vivo della degustazione: già il colore non passa inosservato, un granato ancora vivo e privo di cedimenti ai bordi; è sufficiente ossigenarlo per qualche minuto per notare come i sentori più evoluti, emersi al primo approccio, siano poco a poco sfumati, lasciando spazio a note di ciliegia nera e prugna mature, sottobosco, eucalipto, felce, tabacco, cuoio, humus, sandalo, terra umida, leggero caffè, liquirizia.


All’assaggio è diritto, sostenuto da un’acidità ancora vitale, sapido e profondo nel suo incedere, complesso e soprattutto avvincente, progressivo, lunghissimo, un piacere per i sensi e un commovente richiamo a tutto il fascino di un grande sangiovese.

I Tirreni - Bolgheri Rosso Beccaia 2018


di Roberto Giuliani

Bravi Samuele Falciani e Tommaso Rindi che hanno espresso il meglio del terroir bolgherese con questo rosso dal frutto pieno e avvolgente, calibrato nell’uso del legno, succoso. 


Il tannino è perfetto e acidità che ben si equilibra con la morbidezza data da mora, mirtillo, prugna e ribes nero maturi.

Pagani De Marchi - Costa Toscana IGT Principe Guerriero Anfora 2019


di Roberto Giuliani

Una rivoluzione in casa Pagani De Marchi in quel di Casale Marittimo? Può darsi. Fatto sta che il Principe Guerriero, nato nel 2001 come sangiovese in purezza fermentato in barriques con i lieviti indigeni e maturato in tonneaux, cambia veste.

credit: winedering.com

Con l’annata 2019 questo è l’uvaggio: 60% merlot e 40% cabernet sauvignon, ma anche la vinificazione e la maturazione cambiano: dopo la diraspa-pigiatura, il mosto ottenuto viene trasferito in anfora di terracotta cruda da 8 e 10 Hl, dove rimane a macerare per un mese a contatto con le bucce, con periodiche follature. Successivamente matura nelle stesse anfore per un anno.


Dietro a questa scelta c’è lo zampino di Matteo, figlio di Pia Pagani, che sta concentrando l’attenzione su un più ristretto numero di vini e cercando di dare ancora maggiore risalto al forte legame con la cultura etrusca. Che l’anfora sia tornata in auge in Italia già da qualche decennio è un fatto assodato, dal Friuli-Venezia Giulia alla Sicilia sono sempre più numerosi i produttori che si cimentano con questo contenitore, finendo spesso per innamorarsene. 
Meglio se chi fa una scelta di questo tipo ci crede fino in fondo, piuttosto che farsi trascinare nel vortice delle mode, ma allo scrivente interessa principalmente cosa ne ottiene, ovvero se i vini che in anfora dimorano ne traggono qualche beneficio, se vengono meglio valorizzati, se il racconto che esprimono una volta versati nel calice è convincente. Ogni contenitore, se usato bene e con le uve giuste, può dare ottimi risultati. In questo caso mi sembra che la strada sia stata individuata e non sia frutto di improvvisazione, piuttosto di una sperimentazione attenta e consapevole. Del resto immagino che Matteo sia stato supportato da Attilio Pagli e Stefano Moscatelli, che seguono l’azienda sin dagli inizi.


Dunque eccolo qua, nel calice, rubino profondo: intanto diciamo subito che il bouquet è pulitissimo, senza sbavature (e di vini in anfora piuttosto rustici ne ho assaggiati parecchi), domina la componente fruttata, ma con una inusitata e vivace freschezza olfattiva; un’altra cosa che mi sembra caratterizzare questo vino è la perfetta fusione dei sentori, non c’è qualcosa che emerge in modo netto ma un amalgama perfetto, dove il ribes nero, la mora, la prugna, giocano sullo stesso piano, in sintonia. L’impressione è di un vino agli albori di un lungo percorso, la ridotta percezione speziata è anche indice di come il legno ne sia spesso autore, laddove si usa un contenitore più neutro ecco che il bouquet ci riporta al varietale, ma non mancano sfumature di grafite e cacao, qualche venatura di vaniglia.

La Cantina

L’assaggio rivela una materia importante, c’è struttura e incisività, slancio e dinamicità, nulla che sia fuori dal contesto, il linguaggio è diretto e chiaro, la trama profonda e suggestiva. Un Principe Guerriero in tutti i sensi, giovane e aitante, che nella maturità si rivelerà in tutto il suo già preannunciato splendore.

InvecchiatIGP: Colle Santa Mustiola – Poggio Ai Chiari 2004


Se parliamo di sangiovese toscano inevitabilmente la nostra mente enoica si dirige verso importanti e storiche denominazioni come il Chianti Classico, il Brunello di Montalcino, il Nobile di Montepulciano proseguendo il suo viaggio verso la zona del Chianti, con le sue mille sfaccettature, e il Morellino di Scansano.


Nessuno, o quasi, indicherebbe la terra dove gli Etruschi, abili viticoltori, raggiunsero i propri splendori fondando “Clevsin”, l’attuale Chiusi, una zona altamente vocata per la coltivazione del sangiovese che grazie a Fabio Cenni, attuale proprietario e fondatore di Santa Mustiola, sta acquisendo nuova luce ritrovando, per certi versi, i fasti di un passato troppo lontano.

Fabio Cenni e sua moglie - credit: Corriere Fiorentino

Cenni, animato dalla volontà di valorizzare sia il patrimonio vitivinicolo esistente in zona sia la vecchia azienda familiare fondata da suo nonno all’inizio del secolo scorso, duranti i primi anni ’80 decide di dedicarsi a tempo pieno all’attività di vignaiolo andando subito a recuperare e studiare il materiale viticolo presente in azienda riproducendo le piante migliori di sangiovese che erano presenti nei vecchi vigneti. La ricerca agronomica portata avanti con fatica in quegli anni, e le relative prove enologiche, hanno fatto dato i loro frutti nel 1992 quando Fabio Cenni impiantò nuovi vigneti salvaguardando 28 cloni di sangiovese, l’unica varietà piantata in azienda, di cui cinque anche a piede franco. Oggi gli ettari vitati sono circa cinque e le vigne si trovano piantate terreni pleocenici con depositi alluvionali ad un’altitudine di 320 metri s.l.m. incastonati tra Chiusi e i “Chiari, ovvero gli specchi d’acqua dei laghi di Chiusi, Montepulciano e Trasimeno.


Proprio da questi specchi d’acqua, in omaggio al connubio tra territorio e produzione vinicola, che Cenni fa nascere il Poggio Ai Chiari, il primo vino prodotto in azienda del quale, ultimamente, ho degustato l’annata 2004.


Il colore del Poggio Ai Chiari, se questo può avere una valenza qualitativa, non è affatto di vino di 22 anni di età, è ancora rosso rubino e, ciò che per me è importante, è ancora luminoso così come smaglianti e complessi sono i profumi che fuoriescono dal bicchiere. Il sipario olfattivo, diretto, preciso e che grida sangiovese, è disposto su note di pot-pourri, ciliegie in confettura, melograno, tabacco da pipa, legno di cedro, rabarbaro, ginepro e idee salmastre.

La cantina

All’assaggio di conferme un vino ancora assolutamente integro e dinamico che rivela una silhouette di pregiata fattura dove un abbrivo succulento e quasi mediterraneo condivide la scena con tannini assolutamente maturi incalzati da vibrante freschezza. Netta, inoltre, la percezione sapida che amplifica il ricordo dell’assaggio che rimane impresso nella memoria gustativa per minuti.

La nuova etichetta del vino

Nota tecnica: il vino viene vinificato attraverso l’uso di lieviti spontanei ed affina 66 mesi in barrique di rovere francese e parte in botti di rovere di slovenia da 20/30 hl. Successivo affinamento in bottiglia per minimo 24 mesi prima dell'immissione in commercio.

www.poggioaichiari.it

Cantine di Nessuno – Etna Rosso DOC “Nuddu” 2017


Blend di nerello mascalese e nerello cappuccio coltivati nella zona sud-est dell’Etna, tra Fleri e Trecastagni. 


La versione base del rosso di questa piccola cantina etnea si fa apprezzare per l’aderenza territoriale di questo vino che sa di cenere e bacche scure mature. Sorso teso, pulito, sapido e di bella progressione.

Tenuta I Fauri, tutto il bello delle Colline Teatine!


“Nasciamo contadini e lo siamo ancora, nulla è cambiato rispetto alle nostre origini, soprattutto il nostro vino, da sempre immediato e conviviale perché ci poniamo l’obiettivo di allietare il più possibile le tavole degli italiani”.

Esordisce così, mentre mi aspetta presso Baldovino, il suo agriturismo, Valentina Di Camillo che, assieme a suo fratello Luigi, gestiscono da qualche anno Tenuta I Fauri, l’azienda vitivinicola di famiglia portata avanti da loro padre Domenico, vignaiolo schietto, estroverso e con un amore decisamente importante per la sua terra: le colline teatine.

Luigi e Valentina

Quella che vi racconto oggi è una storia tutta abruzzese che prende vita all’interno di un territorio, quello della provincia di Chieti, racchiuso tra le vette delle Maiella e il mare Adriatico dove la famiglia Di Camillo, in zona chiamati i Baldovino, per tantissimi anni ha portato avanti un modello agricolo basato sulla coltivazione delle uve da destinare esclusivamente al conferimento presso la più vicina cantina sociale. Al massimo, ogni tanto, si tentava la vinificazione per vendere qualche cisterna qua e là.


La crisi del modello cooperativo, lo scandalo del metanolo ed altre vicissitudini personali misero fortemente in crisi Domenico Di Camillo che, vista l’esigenza, iniziò ad imbottigliare il proprio vino anche se, racconta Valentina, al tempo non era molto convinto. Erano i primi anni 2000, bisognava dare una svolta all’azienda vinicola, il mercato stava cambiando, c’era bisogno di qualità e comunicazione, c’era la necessità di prendere al volo certi treni che altrimenti non sarebbe più ripassati. Luigi e Valentina, nonostante papà e mamma avessero per loro altri progetti di vita, capiscono che quello era il momento giusto per fare la loro parte e, dopo gli studi in enologia, cominciano a lavorare con il padre per portare avanti e non interrompere il mestiere di famiglia, quello che hanno sempre ascoltato e visto fare.


Oggi, Tenuta I Fauri, è una vera e propria squadra composta da Luigi, responsabile di cantina, Valentina, anima rock della comunicazione e del commerciale mentre a papà Domenico spetta la supervisione dei vigneti che, attualmente, si estendono per circa 35 ettari suddivisi in 12 parcelle sparse nei Comuni di Ari, Villamagna, Miglianico, Bucchianico, Chieti e Francavilla al Mare.


Le vigne, condotte secondo metodo biologici certificati (2021), hanno una altezza che varia tra i 150 e i 250 metri s.l.m. e sono allevate sia a filare che a tendone. I vitigni coltivati, ovvero trebbiano, pecorino, passerina, montepulciano, sono per lo più autoctoni anche se c’è qualche parcella di chardonnay e pinot nero che vengono usati per produrre le due tipologie di spumante.


Per quanto riguarda la cantina, Tenuta I Fauri può contare su due strutture: ad Ari, c’è la cantina di vinificazione ed affinamento composta sia da moderni tini d’acciaio che da vecchie vasche di cemento recentemente rimodernate. A Chieti, invece, si svolgono le operazioni di imbottigliamento e stoccaggio del vino prodotto. Quando le chiedo del perché non si usano legni in cantina, Valentina mi risponde così:”Una volta non si avevano i soldi per comprare le botti e oggi, che potremmo permettercele, abbiamo deciso di continuare a non utilizzarle perché a noi interessa fare il vino come si faceva in passato ovvero senza troppe sovrastrutture!”.


Ci mettiamo seduti intorno ad un tavolo e Valentina inizia ad aprire le sue bottiglie iniziando, ovviamente, dai vini bianchi che nasconderanno più di qualche sorpresa.

Tenuta I Fauri – Colline Teatine IGT “Passerina” 2020 (100% passerina): la rusticità contadina, quella bella, dei Di Camillo comincia subito ad intravedersi con questa passerina in purezza che olfattivamente si fa apprezzare per i suoi richiami che rimandano alla terra, al fieno, alla camomilla romana fino ad arrivare al melone bianco invernale e agli agrumi. Al palato è di grande bell’equilibrio e freschezza e, con solo 12,5 gradi, è un vino che si lascia bere senza pensieri tanto che la bottiglia finisce in un amen.


Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2020
(100% pecorino): altro vitigno simbolo del territorio interpretato magistralmente con un profilo aromatico caratterizzato da percezioni di agrumi, mela smith, erbe aromatiche e idee salmastre. In bocca è scattante, dotato di affilata freschezza. Altro vino gastronomico da aprire a tavola quotidianamente senza sensi di colpa!



Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2014 (100% pecorino): se il “manico” del vignaiolo si vede nelle annate difficili come questa, allora posso dire che i Di Camillo sono ampiamente promossi perché tutto mi aspettavo meno che questo pecorino vivo, intrigante nel suo bouquet di frutta a polpa gialla, mimosa, agrumi canditi, rifiniture balsamiche e salmastre. Al sorso è ancora pieno, fresco, non cede di un millimetro soprattutto nel finale elegante e ben sintonizzato al naso.

Il colore del 2014!

Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2017 (100% pecorino): L’annata calda e siccitosa, così come accaduto al precedente vino, è stata interpretata al meglio regalando un pecorino in purezza succoso e “pacioccone” grazie ai richiami aromatici che vanno dalla pesca nettarina al bergamotto fino ad arrivare al miele e alle spezie dolci orientali. Palato di grande equilibrio tra sostanza alcolica e sferzante freschezza. Non ha grande persistenza ma ad avercene di bianchi del 2017 ancora così!


Tenuta I Fauri - Trebbiano di Abruzzo DOC “Baldovino” 2020 (100% trebbiano): si fa apprezzare per un profilo aromatico molto personale dove ritrovo sentori di buccia d’uva, felce, mela limoncella, maggiorana corredati da un velo di agrume e cenni di nocciola. Al gusto è ricco, bilanciato, ha chiosa fruttata e succosa che esalta la bevibilità di un vino contadino fino al midollo.


Tenuta I Fauri - Cerasuolo d’Abruzzo DOC “Baldovino” 2019 (100% montepulciano): vino di grande piacevolezza che profuma di fragoline di bosco, ribes, melagrana e tenui soffi floreali e minerali. Al palato si esprime con freschezza, sapidità misurata e relativa facilità di approccio. Una lieve presa tannica dà volume e concretezza ad un finale generosamente fruttato.


Tenuta I Fauri - Montepulciano d’Abruzzo DOC “Baldovino” 2019 (100% montepulciano): arredo olfattivo che regala note di prugne della California, more, talco, pepe nero e lieve liquirizia. Sorso vigoroso, vivace, con trama tannica abbastanza scalpitante e persistenza piacevole e succosa che sfuma in sentori di frutta di bosco.


Tenuta I Fauri – Montepulciano d’Abruzzo DOC “Ottobre Rosso” 2018 (100% montepulciano): interessantissimo al naso dove sprigiona sensazioni di confettura di ciliegie, rabarbaro, ginepro, fiori rossi, chiodi di garofano e grafite. Al gusto è pieno, avvolgente, con ottimo equilibrio tra le parti, offre percezioni stuzzicanti ed una trama tannica gradevole e levigata che favorisce la beva di questo montepulciano in purezza che sa fornire un tocco “easy” ad un vitigno non semplice da domare.



InvecchiatIGP: Torres - DO Catalunya Tempranillo “Coronas” 2000


di Lorenzo Colombo

L’azienda Miguel Torres si trova a Vilafranca del Penedès, in Catalogna, attiva sin dal XVII secolo dispone attualmente di oltre 1.300 ettari di vigneti nelle più importanti denominazioni del paese, ma anche fuori dalla Spagna ha possedimenti e tenute, in Cile dove la Torres si trova sin dal 1979, ed in California nella contea di Sonoma. Coronas è il marchio più antico dell’azienda, registrato sin dal 1907, viene utilizzato per l’unico vino prodotto sotto la DO Catalunya e nel Gran Coronas, quest’ultimo commercializzato sotto la DO Penedès.


Il vitigno

Il Tempranillo è uno tra i più diffusi vitigni al mondo; secondo i dati forniti dall’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino) e relativi al 2017, la sua superficie vitata ammontava a 231.000 ettari, posizionandolo al terzo posto, dopo Cabernet sauvignon e Merlot, nella classifica dei vitigni (da vino) più coltivati. A dispetto della sua grande estensione vitata e a differenza di Cabernet sauvignon e Merlot, il Tempranillo non è però un vitigno internazionale, limitando la sua presenza in un numero piuttosto ristretto di paesi, 17 sempre secondo l’OIV, mentre troviamo il Cabernet sauvignon in 29 diversi paesi ed il Merlot in ben 37.


Inoltre la maggior parte dei vigneti di Tempranillo si trovano in pochissimi paesi, la stragrande maggioranza del vitigno si trova infatti in Spagna (193.597 ettari), 17.014 ettari sono situati in Portogallo dov’è conosciuto col nome di Tinta Roriz e 6.140 Argentina (dati ricavati da Which Winegrape Varieties are Grown Where? e relativi al 2016.
Si può quindi affermare che il Tempranillo sia un vitigno prettamente spagnolo, o comunque iberico.


Le regioni dov’è maggiormente presente sono Castilla-La Mancha (68.370 ha), Castilla y León (34.700 ha), La Rioja (31.659 ha), Extremadura (20.948 ha), País Vasco (11.500 ha), etc. Anche in Spagna il vitigno assume diversi nomi, dipendentemente dalla regione in cui è coltivato, così nella Ribera del Duero viene chiamato Tinto Fino e in Catalogna Ull de Llebre.

Il vino

Il “Coronas”, come scritto all’inizio, è l’unico vino prodotto sotto la DO Catalunya, è composto da 86% Tempranillo e 14% Cabernet sauvignon, la vinificazione si svolge in vasche d’acciaio, mentre l’affinamento per nove mesi in barriques di rovere americano, questo almeno per il vino da noi assaggiato, per i vini delle annate più recenti vengono utilizzate sia barriques americane che francesi e l’affinamento viene prolungato a dodici mesi.


Vent’anni sono tanti per un vino, soprattutto se non è stato concepito per durare così a lungo, questo si nota già dal suo colore, granato-mattonato, intenso e compatto.
Mediamente intenso al naso, ampio ed elegante, vi si colgono tutti i sentori terziari dovuti al trascorrere del tempo, sottobosco, humus, terreno umido, cuoio, spezie, cannella e chiodi di garofano, ma anche note di cioccolato al latte e nocciolato.


La sua struttura appare un poco esile, il tannino morbido, buona la sua vena acida, un ricordo di prugna secca, armonico ed equilibrato nel suo complesso.
Un vino ancora assai piacevole e che ci ha pienamente soddisfatti, anche se pensiamo che abbia potuto dare il meglio di se qualche anno addietro.

Tenute Rubino - Brindisi Rosso DO Susumaniello “Oltremè” 2018


di Lorenzo Colombo

Questo vino succoso, di medio corpo, dalla piacevolissima beva e con un delizioso ed amaricante fin di bocca veniva sino al 2017 commercializzato come Igt Salento.


Le uve provengono da un vigneto messo a dimora su suolo sabbioso in Contrada Jaddico pochi chilometri a nord di Brindisi, vinificazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio.

Les Vignerons de la Moselle - "Grand Premier Cru" Coteaux de Grevenmacher 2019


di Lorenzo Colombo

In realtà, la degustazione di questo vino ci ha permesso di scoprire una zona viticola poco conosciuta e considerata (a torto) minore, il Lussemburgo. Prima quindi d’andare a descrivere il vino ecco qualche informazione su territorio, legislazione, azienda e vitigno.

La viticoltura in Lussemburgo

Poco meno di 1.300 ettari di vigneti che si snodano per una quarantina di chilometri lungo la riva sinistra della Mosella che segna il confine con la Germania, da Shengen sino a Wasserbillig nel territorio del cantoni di Remich e Grevenmacher, metà dei quali gestiti da soci di cooperative.
Sono 15 i vitigni ammessi in Lussemburgo, ma quelli principalmente coltivati sono nove, eccoli, in ordine d’estensione vitata: Rivaner, Pinot grigio, Auxerrois, Pinot bianco, Riesling, Pinot nero, Elbling, Chardonnay e Gewürztraminer.


I vigneti insistono su due differenti tipologie di suolo, nel cantone di Remich troviamo argilla marnosa (Keuper – foto 1) e pendii dolci, mentre in quello di Grevenmacher si trova calcare dato depositi marini, con presenza di conchiglie (Muschelkalk- foto 2) e pendii scoscesi.

Due le denominazioni previste dalla legislazione lussemburghese: AOP Moselle luxembourgeoise e AOP Crémant-de-luxembourg, quest’ultima riservata ai vini spumanti Metodo Classico.

L’Auxerrois

Con 194 ettari vitati (15% della superficie vitata del paese) l’Auxerrois è il terzo vitigno più coltivato in Lussemburgo, preceduto unicamente dal Rivaner, (nome locale del Müller Thurgau) e dal Pinot Gris (quest’ultimo vanta unicamente cinque ettari in più).


L’Auxerrois non è un vitigno molto diffuso, la superficie vitata mondiale nel 2016 era di 2.853 ettari. Il che lo poneva al 149° posto nella classifica dei vitigni (fonte: Which Winegrape Varieties are Grown Where?).

La quasi totalità del vitigno si trova in Francia (2.409 ha), soprattutto in Alsazia (2.348 ha), segue, a grande distanza la Germania con 213 ha (68 ha nel Baden, 68 nel Palatinato, 32 nella Mosella, 26 nel Rheinhessen), a seguire il Lussemburgo dove, nel 2016, se ne contavano 190 ettari, ce ne sono inoltre 38 ha in Canada. Spesso confuso con i Pinot, soprattutto il Pinot blanc -in realtà non ha nessuna parentela con essi- il vitigno predilige climi freddi e suoli calcarei.

Les Vignerons de la Moselle

Prima della Prima Guerra Mondiale la produzione di vino lussemburghese, tramite l’accordo doganale “Zollverein”, era assorbita nella quasi totalità dal mercato tedesco; dopo la fine del conflitto questo importante sbocco commerciale si era improvvisamente chiuso. Nel 1921 era quindi nata a Grevenmacher una prima cooperativa, con lo scopo di aiutare i viticoltori e trovare nuovi acquirenti dopo la conclusione dell’accordo, curandosi sia della produzione che della commercializzazione del vino. Nel corso degli anni erano nate altre cinque cooperative che, nel 1966 cinque di queste si erano unite per formare la Vinmonselle e nel 1989 se ne unì una sesta. Attualmente sotto il nome Les Vignerons de la Moselle si trovano 200 famiglie di viticoltori.


La produzione, riservata unicamente a vini bianchi, è suddivisa su tre diverse linee: la Gamme Aop è composta da sette diversi vini, sei di questi sono frutto di monovitigno mentre il settimo è un blend di Auxerrois, Pinot blanc e Pinot gris. La linea Les Premiers Crus è composta da dieci vini, anch’essi tutti da monovitigno, suddivisi nei due Premiers Crus lussemburghesi: Côtes de Grevenmacher e Côtes de Remich.


Infine la terza linea, quella più prestigiosa, ovvero Les Grands Premiers Crus, a sua volta suddivisa in Grands Premiers Crus e Lieux-Dits. La Grands Premiers Crus è composta da nove vini, anch’essi tutti da monovitigno, suddivisi tra Coteaux de Grevenmacher e Coteaux de Remich, tranne il Gewürztraminer il cui solo Cru è il Coteaux de Remich. Le linea Lieux-Dits è la più numerosa ed è composta da ben 25 vini, tutti monovitigno e tutti provenienti da uno specifico luogo, ovvero un Lieu-Dit.

Le definizioni

A questo punto urgono alcuni chiarimenti in merito alle diverse definizioni menzionate nei vini Premiers Crus e Grands Premiers Crus.

Côtes

La menzione “Côtes de” indentifica vini entry-level di qualità.
La resa in vigna non può superare i 100 ettolitri/ettaro che, nel caso dei vitigni Elbling e Rivaner sono elevati a 115 ettolitri/ha.

Coteaux

I vini “Coteaux de” sono caratterizzati dal vitigno e dalle zone di provenienza. Sono vini di qualità, provenienti da vigneti selezionati dei cantoni di Grevenmachen e di Remich su suoli di natura diversa: rocce calcaree per Grevenmachen e marne (keupériennes) per il cantone di Remich.
Inoltre i vigneti hanno rese più basse e la vendemmia dev’essere effettuata manualmente.

Lieu-Dit

In fine i “Lieux-Dit”, il vertice qualitativo per quanto riguarda i vini lussemburghesi, ovvero vini di terroir. Le uve provengono da singoli vigneti i cui nomi sono riportati in etichetta, sono caratterizzati da bassa resa e da rigorosa selezione, le vendemmie sono unicamente manuali.


Dopo questa lunga e speriamo non noiosa premessa eccoci finalmente al vino che abbiamo degustato, ovvero l’ Auxerrois Grand Premier Cru Coteaux de Grevenmachen del 2019.



I suoli calcarei, ricchi di conchiglie, ci donano un vino che fa della freschezza e della verticalità le sue armi vincenti. 

Il colore è paglierino scarico, limpido e luminoso.

Mediamente intenso al naso dove cogliamo note floreali e di frutta a polpa bianca, mela, il vino è minerale, verticale ed al contempo delicato, si notano inoltre leggeri accenni idrocarburici.


Fresco e verticale anche alla bocca, di struttura leggera, gli accenni d’idrocarburi si mescolano a sentori di frutta a polpa bianca e sfumature piccanti di zenzero, succoso e delicato, sapido ed elegante e dalla buona persistenza.

Brunello di Montalcino: il 2021 è stato da record!

Quasi 11,4 milioni di bottiglie di Brunello di Montalcino immesse sul mercato nel 2021 - il 37% in più rispetto al triennio precedente – con oltre 1 milione di Riserve (+108% sul 2020); prezzo medio dello sfuso a +28% e giacenze in cantina dell’imbottigliato ai minimi storici (-38% su dicembre 2020). Il 2021 è stato un anno entusiasmante per le vendite di Brunello ma anche del Rosso di Montalcino (+10% sul 2020, a 4,6 milioni di bottiglie), secondo l’analisi del Consorzio basata sui dati dell’ente certificatore Valoritalia relativi ai contrassegni di Stato distribuiti per le bottiglie da immettere sul mercato. 


Si chiude un biennio d’oro per il mercato del nostro vino di punta, con incrementi rispettivamente del 12% e del 27% – ha detto il presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino, Fabrizio Bindocci –, ora l’obiettivo è cementare il posizionamento conquistato. A fine febbraio saremo a New York con i nostri produttori per un’edizione statunitense di Benvenuto Brunello, mentre è allo studio un nuovo evento speciale dedicato al Rosso di Montalcino, un prodotto che conferma sempre più una propria identità e un potenziale importante”. 

L’analisi sulle fascette rileva come le ultime due super-annate in commercio (2015 e 2016) abbiano fatto segnare numeri record. Era infatti dal 2010 che non si superava il tetto di 11 milioni di bottiglie sul mercato, grazie anche a una domanda sempre più orientata verso i consumi di qualità. Nel complesso, nell’ultimo biennio sono state consegnate quasi 10,2 milioni di fascette di Stato relative all’annata 2015 e, in attesa della performance della Riserva al debutto quest’anno, oltre 9,4 milioni di contrassegni per la 2016. Un sold out che non ha limitato la richiesta - in occasione del nuovo Benvenuto Brunello di novembre - per la 2017, che conta già 3,1 milioni di bottiglie pronte a esordire sul mercato. Altissima, come al solito, la rappresentatività del Consorzio, i cui associati detengono il 98,4% dell’imbottigliato. Il Consorzio del vino Brunello di Montalcino riunisce 214 soci, per una tutela che si estende su un vigneto di oltre 4.300 ettari nel comprensorio del Comune di Montalcino (2.100 gli ettari a Brunello, contingentati dal 1997), in favore di quattro Dop del territorio.

InvecchiatIGP: Poggiotondo - Collefresco Vinsanto del Chianti DOC 2008


di Stefano Tesi

Da buon senese nutro sentimenti contrastanti verso uno dei prodotti più classici della Toscana, il vinsanto. La lunga frequentazione non aiuta, perché i ricordi familiari e non – sia quelli legati alle strette caratteristiche del vino, perché di vino si tratta, sia quelli legati alla sua utilizzazione, diciamo così, gastronomica – si accavallano. E devono fare i conti con mercati che cambiano, abitudini che mutano, stili che si evolvono.
 

Da un lato mi disturba la deriva un po’ cheap, diciamo pure liquorosa, che il consumo di vinsanto ha preso negli ultimi decenni, orientando così anche i consumatori verso l’orribile abitudine di inzuppare il cantuccio industriale in un prodotto zuccheroso da due soldi. Da un altro mi disturba il trend opposto, quello verso la sauternizzazione, che nel tentativo di conferire una “nobiltà consumabile” più ampia e ruffiana ha tolto assai spesso identità alla tradizione: quella secondo cui, più che da dessert, il vinsanto era una bevanda da aperitivo, da cortesia e da “conforto”, da cordiale quasi, che si beveva prima di uscire o si offriva a chi tornava. Un vinsanto pallido, piuttosto secco, elegante e in qualche modo delicato. Ognuno riconosceva al volo quello di casa propria. 

Nelle fattorie, del resto, la padrona di casa teneva le chiavi di tutto, tranne una: quella della vinsantaia, che invece restava fissa nelle tasche dei calzoni del padrone e guai a chi la toccava. Anche ciò faceva sì che il vinsanto fosse qualcosa di strettamente familiare, sempre ortodosso ma anche sempre diverso da tutti gli altri. La progressiva dolcificazione del vinsanto, fenomeno relativamente più recente, si è incrociata con la perdurante crisi dei vini dolci, con ciò che ne consegue. 


Ho fatto questa lunga premessa per dire che di vinsanti ne assaggio spesso, perfino li colleziono lasciandoli a invecchiare ulteriormente in cantina e mi diverto a fare confronti. Di rado però ne trovo qualcuno che mi rievochi, se non il gusto, almeno i piaceri e le sensazioni del passato. 

Nei giorni delle feste ne ho incrociato uno. 

Si chiama Collefresco, anno 2008. E’ un Vinsanto del Chianti doc e viene dal Casentino, zona di Subbiano. Lo produce l’avvocato Lorenzo Massart nella sua azienda di Poggiotondo, che avevo conosciuto parecchi anni fa e poi perduto di vista. 


Uva di Trebbiano e di Malvasia da vigneti sui 350 metri di quota, fatto in caratelli “di varie grandezze” dove resta cinque anni prima di andare in bottiglia, dice la scheda aziendale. 

Buono e confortante. 

Limpido ma non cristallino, di un colore ambrato scarico, appena velato, che non evoca certe tonalità caramellose oggi tanto diffuse e talvolta un po’ artificiose. E’ soprattutto al naso, però, che colpisce, con una trama granulosa, rarefatta e gentile di datteri schiacciati e di melata, con accenni di miele di acacia e di sulla. Nulla di troppo penetrante né di troppo intenso: è il bouquet che basta per sapere di antico. 


In bocca non è da meno. La piacevole granulosità olfattiva di traduce al palato in una dolcezza quasi cremosa, intensa ma misurata, niente affatto stucchevole, che produce un gusto lungo, lineare, composto. Perfino cangiante. 

Io l’ho gustato con dolci speziati come il panforte o i cavallucci e l’ho finito a piccoli sorsi, durante la successiva la conversazione. La sua pulizia non “incolla” infatti la lingua. Casomai, coi suoi 16°, la scioglie.  Peccato che ne abbiano fatte solo 620 bottiglie da 0,375 cl.

Lunae Bosoni - Spumante Brut Cuvée Lunae 2018


di Stefano Tesi

La tiratura limitata rende ancora più godibile questo spumante nato a Luni, ai piedi delle Apuane, al confine tra Toscana e Liguria. 


Fatto “per celebrare la nostra identità” dice Diego Bosoni. Non a caso le uve sono Vermentino e Albarola. Il risultato è un vino sapido, varietale, elegante, verticale e complesso. In sintesi: bene!

Le Cialde di Montecatini, il sapore della memoria (e del vinsanto)


di Stefano Tesi

Come tante signore della buona società, ogni anno e per mezzo secolo mia nonna paterna ha "passato le acque" a Montecatini, scendendo sempre nel medesimo elegante albergo, seguita dal terrificante carico di valigie destinate a contenere un guardaroba-base di almeno tre cambi d'abito al giorno. Le due settimane trascorse alle terme erano pertanto precedute dalle altrettante necessarie alla preparazione del bagaglio, tra nubi di frusciante carta velina. Di saltare il rituale appuntamento non se ne poteva nemmeno parlare. Primo, perchè tutto un gruppo di amici si muoveva in sincrono da mezza Toscana verso l'amena destinazione, secondo perchè mia nonna non era tipo che su certe cose fosse disposta a transigere. 

Sono certo che mio nonno, uomo buono e ben educato, l'abbia sempre accompagnata per quieto vivere e conoscenza dell'uso di mondo, ma ho la medesima certezza che tra cure idropiniche e salotti circostanti si annoiasse a morte, come dimostrano certe sue leggendarie gaffe compiute mentre, simulando interesse per la conversazione, in realtà pensava agli affari suoi e, più spesso, alle grane d'affari che aveva lasciato a casa. "Lei che ne pensa, cavaliere"?, gli chiese una volta una gran dama. E lui, appena scuotendosi, replicò con cortesia, a voce bassa: "Pere?!?". Sembra che mia nonna non l'abbia presa bene. 

Anche quando il consorte venne a mancare, nei primi ani '60, l'ava non perse l'antica abitudine: ai primi di settembre, cascasse il mondo, qualcuno dei familiari doveva accompagnarla a Montecatini. Necessitava quindi di un'ampia berlina per fare un viaggio comodo nonostante la mole dei bauli e le cappelliere a rimorchio. 


Abituata a una vita signorile ma severa, durante il soggiorno montecatinese mia nonna si dedicava ("come si conviene", diceva compuntamente) ad uno svago salottiero che consisteva in brevi passeggiate, the con le amiche, commenti più o meno perbenisti sul progresso che è regresso e sulla cacofonia della musica moderna, lauti pasti nel gran salone dell'hotel e frequenti puntate in pasticceria, ove con spirito gaudente si concedeva una delle sua grandi passioni: le cialde di Montecatini. 

Passione alla quale iniziò anche me quando, verso i sei anni, mio zio, principale condannato al trasporto della mamma, mi convinse a fargli compagnia nelle lunghe trasferte. 

Le cialde di Montecatini mi apparvero subito buonissime, con quella friabilità delicata, quella croccantezza invitante data dal trito di zucchero e mandorle contenuto tra le due sfoglie e quella dolcezza non stucchevole. Il loro profumo era inconfondibile ed era lo stesso, ovviamente, che aleggiava nel negozio nel quale la nonna immancabilmente le andava a comprare, la Pasticceria Bargilli. Che, ho scoperto poi, non solo le vendeva, ma le aveva inventate nel 1936: più o meno in concomitanza con l'inizio delle frequentazioni montecatinesi della mia congiunta. 

Devo ammettere che, tra me e lei, le divergenze sulle modalità di consumo delle cialde apparvero però da subito ampie e nette. 


Vezzosamente definite "biscotto da dessert" sulle belle scatole di latta che mia nonna teneva in casa e apriva con parsimonia solo per le grandi occasioni, secondo lei andavano spezzate delicatamente con le mani e consumate con lentezza, a bocconcini, meglio se seduti davanti a una cioccolata calda o a una china, nel mio caso al massimo un gelato, magari al Gambrinus, nel corso delle soporiferissime conversazioni che avevano alloppiato mio nonno prima e me poi. Mio zio no, ma solo perchè, conclusa la corvée del trasporto, se ne andava subito a gambe levate, dribblando i convenevoli delle amiche della madre. 

A mio parere, invece, il modo giusto era divorare le cialde, tutte e immantinente, a voraci morsi e fino a sazietà. 

Fino a ieri erano passati trent'anni dall'ultima volta che le avevo assaggiate, ovvero dall'ultima volta in cui avevo accompagnato mia nonna alle terme (in famiglia, si sa, certi ruoli o incombenze si ereditano). 

Poi le avevo un po' perdute di vista, nonostante le tante successive occasioni di visita nella cittadina termale. Chissà, forse non volevo rompere l'incantesimo dei sapori d'infanzia e di gioventù, o forse il ricordo di quelle passeggiate a fianco di lei ingioiellata e in stola di visone da pomeriggio, che mai, nemmeno a otto anni, mi permise mai di accompagnarla indossando i jeans o calzoni corti sportivi perchè, appunto, "non si conviene". Ma poi le cialde me le comprava. 

Non sapevo più nulla neppure della pasticceria Bargilli o di altre che le producevano. Mi chiedevo se esistessero ancora. Finchè quest'anno, a Natale, un amico che mi aveva sentito raccontare certi aneddoti me ne ha portato a sorpresa un pacco intero. Di fronte al mio stupore, mi ha detto che ora si trovano anche al supermercato. 

Non ci potevo credere.  Le ho lasciate lì a sedimentare qualche giorno, indeciso sul da farsi.  Nel frattempo ho frugato in soffitta, tra i cimeli, e dentro un cassone ho trovato quello che avevo in mente: la scatola di alluminio in cui, chissà quando, le cialde venivano vendute. Era impolverata e piena di cianfrusaglie. 


L'ho messa sul tavolo, come un trofeo. Poi sono andato in cantina, ho tirato fuori un vinsanto che tenevo da parte da tanto tempo immemorabile per qualche circostanza speciale, l'ho stappato e con una certa emozione ho aperto la confezione, marca Bargilli si capisce. 


Crunch, crunch: le ho trovate perfino più buone che allora. E irresistibili col vinsanto. Insomma, come direbbe frau Blucher: "Vi suggerisco di mettervi una cravatta. E di provarle".