La Ribona dei Colli Maceratesi, due volte più buona, ma col giusto tempo di affinamento


Nelle Marche il maceratino, tradizionalmente chiamato anche ribona per sottolineare il fatto che fosse due volte buona (Ri-Bona), è il vitigno più importante piantato nella zona di Macerata. Le sue origini sono antichissime e pare risalgono al periodo della Magna Grecia - nel 387 a.C. - quando i greci di Siracusa fuggirono dal tiranno Dionisio insediandosi lungo la costa dell’anconetano e nella zona dei colli maceratesi. E’ a partire dal XIX Sec., soprattutto all’interno dei bollettini Ampelografici, che si inizia a parlare scientemente di questa uva autoctona tanto che il Santini, nel 1875, descrive i vitigni della zona di Macerata rilevando una netta prevalenza di quelli a “frutto bianco o giallognolo”. Tra questi ultimi vi è l’indiscussa importanza del montecchiese (conosciuto anche come uva stretta o greco maceratino di Recanati) e, a seguire, del verdicchio e del trebbiano.


Bisogna aspettare la fine gli anni ’60 del secolo scorso, con la fine della mezzadria e il rinnovamento della viticoltura locale, affinchè questo vitigno, spesso confuso con greco, trebbiano e verdicchio, acquisisca finalmente unicità grazie agli studi del Professor Bruno Bruni, importante ampelografo marchigiano, che dopo averlo identificato nell’areale di Macerata, lo ha catalogato nel registro nazionale delle varietà di uva con il nome di maceratino o ribona che, successivamente, ha caratterizzato i vini bianchi della DOC “Colli Maceratesi” (min 75% di ribona anche nella tipologia spumante e passito) e della seguente "Maceratesi DOC Ribona" (min 85% di ribona anche nella tipologia spumante e passito).

Il territorio riferibile alla DOC "Colli Maceratesi Ribona"

Con soli 150 ettari rivendicati da 39 produttori per oltre 4 mila ettolitri di vino imbottigliato, sicuramente oggi questa DOC - nella tipologia Ribona - rappresenta oggi uno dei prodotti marchigiani più interessanti sul mercato anche perché, come vedremo successivamente, il vino grazie alle sue caratteristiche intrinseche possiede interessanti doti di poliedricità e longevità e la modifica approvata del disciplinare con l’introduzione della tipologia Riserva, a partire dalla vendemmia 2023, va sicuramente in questa direzione.
Grazie all’IMT diretto da Mazzoni, qualche settimana fa ho potuto visitare il territorio di Macerata e mi sono fatto una bella full immersion di Ribona prodotta dalle principali aziende della denominazione. 


Prima di passare al particolare della degustazione, quello che io ed altri amici e colleghi abbiamo notato è che questo vino, nell’annata corrente, risulta mediamente ancora troppo “scomposto” e di difficile interpretazione soprattutto per il consumatore medio italiano abituato a vini bianchi spesso “piacioni” ed immediati.


Il discorso cambia nettamente quando, invece, si degustano Ribona con almeno un anno di affinamento perché ci si rende subito conto che il giusto tempo di riposo dona a questo vino una armonia di insieme simile a quando tanti pezzi di un puzzle trovano la giusta collocazione svelando finalmente una immagine nitida e completa di ciò che ricercavamo. Passando alla degustazione vera e propria, dopo l’assaggio di 25 «Colli Maceratesi DOC Ribona» di varie annate, anche nella tipologia spumante, i migliori vini, a mio parere, sono stati i seguenti:


Boccadigabbia – Le Grane 2021: come riportato dallo stesso produttore, le uve utilizzate per questo vino sono coltivate nella antica contrada Montanello di Macerata, dove Pietro Paolo Floriani, uomo d’arme e architetto militare famoso per aver progettato la rocca Floriana di Malta, fece piantar vigne fin già dal 1626. Il miglior 2021 assaggiato per il semplice fatto che il vino, ancorchè giovanissimo, risulta assolutamente già godibile ed equilibrato esprimendo sbuffi aromatici di pera, tiglio e mandorla e, a seguire con la degustazione, una beva succosa attraversata da vivida sapidità.


Villa Forano – Monteferro 2020: le uve provengono dal vigneto di Appignano (MC) situato su una collina chiamata Monteferro dalla quale il vino prende il nome. Vino estremamente piacevole che con un anno di affinamento in più regala una complessità olfattiva giocata su toni di nespola, pesca gialla, mango, biancospino, erbe aromatiche. Sorso invitante, fresco, dagli sprazzi minerali e dalla lunga scia sapida.


Saputi – Camurena 2019: l’azienda, a conduzione familiare, è alla quarta generazione ed oggi è gestita da Alvaro Saputi con i suoi 2 figli, Leonardo vignaiolo specializzato in viticultura e Andrea responsabile commerciale. Rispetto ai ribona fermi prodotti, tutte con uve provenienti dalla zona di Colmurano, questo vino effettua una sosta sui lieviti per 8 mesi e questo gli dona sicuramente una marcia in più sia a livello aromatico, il cui ventaglio olfattivo spazia dalla pesca noce, alla rosa bianca fino ad arrivare al timo e alla selce, sia a livello gustativo dove il sorso risulta intenso con belle rispondenze fruttate arricchite da eleganti richiami erbacei.


Andrea Giorgetti – Flosis 2019: fondata nel 2015, questa nuova cantina potentina è diretta da Andrea Giorgetti, il proprietario, e dall’enologo Nicolò Marchetti che gestiscono i loro vigneti in contrada Monte Priori, sul crinale di San Girio. Il loro Flosis, che è l’antico nome del fiume Potenza che una volta alimentava i vigneti della zona, è stato per me una sorta di odio e amore perché se il millesimo 2021 è stato il Ribona più scontroso ed enigmatico degustato tra tutti, il 2019 è stato didatticamente illuminante perché ti fa capire, con tutte le differenze dell’annata, come questo vino possa evolvere e migliorare nel tempo soprattutto per quanto riguarda la definizione e l’accordo sia aromatico che palatale. La 2019, nello specifico, profuma di fiori di acacia ed agrumi e ha nella spinta sapida, quasi salmastra, la sua forza a livello gustativo.


Sant’Isidoro – Pausula 2014: questa bellissima cantina, situata all’interno di una antica dimora signorile delle colline maceratesi, gestisce i suoi 13 ettari vigneti di proprietà nel comune di Corridonia e dal 2016, partendo proprio dalla Ribona, ha avviato un progetto di agricoltura sostenibile. Dei vari vini posti in degustazione ho amato fin da subito questa 2014 che, nonostante tutto ciò che si è scritto su questo millesimo, è ancora assolutamente piacevole nonostante la sua essenzialità e qualche nota evolutiva che inizia a scorgersi. Al naso profuma di frutta estiva matura, di camomilla essiccata, fieno e zenzero. In bocca è ancora fresco, vitale, e lascia trapelare una pungente mineralità insieme ad una sensazione ossidativa che sfocia nel finale su ritorni di agrumi canditi e cotognata.


Il Pollenza – Angera 2012: la cantina, di proprietà del conte Aldo Brachetti Peretti, è una delle realtà più importanti e dinamiche delle Marche con i suoi 250 ettari di vigneti piantati all’interno dell’areale di Tolentino (MC) dove troviamo sia vitigni internazionali sia vitigni tradizionali ed autoctoni come la ribona che l’azienda, con la consulenza enologica di Ferrini, ha iniziato a produrre dal lontano 2010. Questa 2012, versata da bottiglia magnum, ha fatto strabuzzare gli occhi a tutti i fortunati degustatori che sicuramente erano inconsapevoli di trovarsi nel calice un grandissimo vino bianco italiano. Naso sfaccettato con imprinting salino abbracciato presto da sensazioni di ginestra, miele millefiori, mango, bergamotto e terra rossa. Bocca importante, elegante, ancora vivissima nella pienezza del corpo perfettamente bilanciato da freschezza e tenore sapido. Persistenza da tempo di record con bellissima chiusura su toni agrumati, leggermente salmastri.

InvecchiatIGP: Perillo - Taurasi DOCG Riserva 2008


di Luciano Pignataro

A dire il vero non so se un Taurasi, vino eterno, possa essere considerato invecchiato dopo appena 14 anni, ma diciamo pure di si. Almeno rispetto alla media dei rossi italiani. Questa longevità lo iscrive tra i vini strutturati che rendono spesso il bere indimenticabile e irrinunciabile. Michele è assistito adesso dal figlio Felice che ha studiato enologia e insieme curano la vigna di nove ettari, aglianico, coda di volpe e in piccola parte qualche altra varietà autoctona come la coda di volpe rossa. Lui stesso procede "cuoncio cuoncio", piano piano con attenzione: alle guide ha mandato quest'anno il Taurasi riserva 2010 e il Taurasi 2011: viaggia, insomma, con una media di dieci anni.


Questo dedicare il tempo giusto al vino lo rende unico nel panorama degli autentici vignaioli, tra i pochi insieme a Mastroberardino e Di Meo a rispettare l'Aglianico senza forzarlo in alcun modo. Siamo su un territorio irrorato dal Vesuvio, il suo è argilloso, calcareo ma anche tufaceo, a circa 500 metri, quasi sul tetto della denominazione, ma in questo caso possiamo dire che il global warming favorisce questa viticultura che è sempre stata abituata a combatte con il freddo più freddo e le escursioni termiche più incredibili se ci sistemiamo con la testa a Sud. Lento pede, fra un travaso e un assaggio, Michele caccia i suoi vini nonostante l'enorme pressione commerciale: poco meno di 20mila bottiglie per nove ettari sono il risultato di un anno in vigna, mentre nella cantina quasi non si cammina per lo spazio occupato dalle diverse annate oltre che dalla squisita Coda di Volpe.


Questa bottiglia era dimenticata a casa, dentro l'anta di un mobile, protetta dalla luce e dai colpi di calore. La tiriamo fuori volentieri perché abbiamo ospiti non campani e la accompagnano a un sartù di riso fatto a mestiere, ossia con ragù e piselli, e un pollo che ha camminato molto avanti e indietro fra le vigne degli Astroni prima di finire al forno. Il Taurasi riserva appare subito pronto, non ha sentori di ridotto, il tappo è perfetto, neanche residui in fondo alla bottiglia e non abbiamo bisogno di fare sceneggiate con il decanter. Lo versiamo a inizio pranzo in bicchieri empi e tanto basta per farlo respirare.

Michele Perillo

Colpisce la frutta matura, l'amarena, immersa in piacevoli note balsamiche e segnata da un tono fumè. al palato i tannini sono vivaci ma ormai domati, la freschezza si sente e si percepisce subito come prima sensazione, prima del ritorno al palato delle promesse del naso La chiusura è lunghissima, piacevole. Un vino di potenza, magari oggi un po' fuori moda, ma assolutamente coerente con il suo progetto, in perfetto equilibrio nelle sue diverse componenti, con un legno magico che fa da comparsa senza sgomitare ne al naso e tanto meno in bocca.


Il tocco magico di Michele fa la differenza, una sensibilità innata che solo chi conosce le proprie uve può vantare. 
Il 2008, annata perfetta, scorre adagio in un pranzo che si protrae sino al tardo pomeriggio. Fuori piove. Tutto perfetto.

Ippolito 1845 ha presentato a Roma il progetto “Taste the Art”


Taste the Art, il nuovo progetto di responsabilità sociale d’impresa della storica azienda Ippolito 1845, è stato presentato questa settimana in anteprima a Roma.
La città eterna, per la naturale bellezza e per il legame ancestrale con la cultura, simbolo universale di arte e storia, è stata il palcoscenico per il lancio dell’ambizioso progetto che unisce vino, arte e territorio.


Un progetto a cui teniamo molto, nato durante la pandemia, quando di fronte alle difficoltà del periodo abbiamo voluto rispondere con una visione positiva ed energica, attraverso una voglia di spensieratezza che si è concretizzata in una linea di sei vini in edizione limitata, i più iconici dell’azienda, che presentiamo al pubblico per la prima volta in un’elegante ed inedita cassa in legno” racconta Gianluca Ippolito, uno dei tre titolari dell’azienda.

L’idea prende vita dall’incontro con il talento artistico di Enrico Focarelli Barone, in arte Frelly, giovane e promettente illustratore calabrese in grado di reinterpretare in maniera nuova e originale i vini dell’azienda mediante raffinate illustrazioni in cui passato e futuro si fondono in una visione creativa, scanzonata e surreale.

La sfida per me è stata riuscire a coniugare all’interno delle etichette modernità e tradizione” racconta Frelly. “Ho voluto creare delle illustrazioni che nascessero dalle etichette dell’azienda, che ne mantenessero la riconoscibilità, ma che al contempo la reinterpretassero attraverso il linguaggio dell’arte e veicolassero elementi simbolici del nostro territorio per far conoscere ancora di più la bellezza e la straordinarietà della Calabria”.

Il valore culturale del progetto però non si ferma qui ma ha come punto fondamentale la finalità sociale e territoriale. La vendita delle bottiglie, infatti, contribuirà alla raccolta di fondi a sostegno del restauro di opere artistiche e storiche del territorio calabrese. “Vogliamo restituire qualcosa al territorio nel quale la nostra azienda opera e lavora da più di 170 anni. Una forma di sostenibilità sociale mediante la restituzione di una parte dei profitti alla comunità nella quale viviamo” spiega Paolo Ippolito.

Gianluca Ippolito, Enrico Foscarelli Barole e Paolo Ippolito

Proprio durante la presentazione è stata resa nota l’opera artistica oggetto di restauro. “Abbiamo ricevuto il consenso dall’amministrazione comunale per poter procedere al restauro di un’opera storica situata a Cirò Marina. L’opera è la Fontana del Principe, appartenuta ai principi Spinelli, una fontana monumentale con 3 archi, oggi abbandonata e in completo stato di degrado” rivela Vincenzo Ippolito. “Vogliamo creare intorno a questa fontana un’oasi verde aperta al pubblico ma soprattutto dare un segnale forte, dimostrare che la sinergia tra pubblico e privato può e deve cambiare la mentalità del territorio e che questo cambiamento porterà a benefici non solo economici ma soprattutto sociali e culturali”.

Ippolito 1845

Con oltre 170 anni di storia, la cantina Ippolito rappresenta la più antica realtà vinicola oggi esistente in Calabria. Ubicata nel centro storico di Cirò Marina, cuore della viticoltura calabrese, l’azienda include una tenuta agricola di oltre 100 ettari, distribuita tra dolci colline e soleggiate pianure a ridosso del mar Ionio, situata nella zona classica del Cirò. Da sempre la mission aziendale è il recupero e la valorizzazione dei vitigni autoctoni quali il Gaglioppo, il Greco Bianco, il Calabrese, il Pecorello ed in ultimo il Greco Nero. Attraverso la costante ricerca, l’impiego di tecniche innovative, il diretto controllo di tutti i processi produttivi, l’azienda ricerca nei suoi vini l’eleganza, l’esclusività e l’identità con il suo territorio; luoghi di rara bellezza in Calabria, come la tenuta a Cirò Marina, la tenuta Feudo, la tenuta Difesa Piana e la tenuta Mancuso.



Enrico Focarelli Barone - Frelly

Enrico Focarelli Barone, alias Frelly, è un illustratore freelance di origine catanzarese. Laureato in Illustrazione all’Istituto Europeo di Design di Roma(IED) si è specializzato in character design e disegno editoriale. Lavora da molti anni sia nel campo dell’editoria che in quello della pubblicità. Colori pastello, linee semplici e mondi surreali, sono il filo conduttore delle sue illustrazioni concettuali dove sogno e realtà si incontrano. Collabora con agenzie, magazine, quotidiani nazionali e non, tra cui: il Corriere della Sera, Il Foglio, Food editore, Kiplinger’s Magazine, The Good Life Magazine Italia.

Terre de La Custodia - Sagrantino di Montefalco 2016


di Luciano Pignataro

Cosa meglio di un Sagrantino nel pieno della sua forma dopo sei anni, vigoroso e fresco, su un pollo arrosto podista e vegetariano? 


Legno e frutto ben integrati al naso, tannini presenti ma setosi che rendono 
piacevole la beva. Chiusura lunga e precisa. La bottiglia finisce troppo presto.

Alla scoperta dei vini biologici della Cantina della Collina!


di Luciano Pignataro

La voglia di conoscere questa azienda ci è venuta assaggiando il suo Piedirosso, il vino che per me resta emblematico della regione. Sin dal primo sorso comunica leggerezza e voglia di stare insieme attorno a una tavola, i profumi di geranio e di frutta rossa fresca esplodono al naso: insomma un rosso sottile e leggero, proprio come la moda sta richiedendo in tutta Italia dove siamo stanchi di sovraestrazioni e surmaturazioni più che delle stesse barrique usate oltre misura.


Scopriamo così che il Turci, questo è il nome, è una delle tre etichette della piccola azienda. Le altre due sono l’Aglianico, non a caso chiamato Cerzeta che in dialetto vuol dire quercia, e il bianco da uve Greco, Scorza. Tutti. Tre sono Campania igt.
Si tratta di due vini di prodotti nell’agriturismo Terranova, un vecchio casale del ’70 appollaiato su una colina a circa 450 metri di altezza fra i comuni di Solofra e di Montoro, lì dove inizia la Valle dell’Irno. Siamo ancora in provincia di Avellino, ma assolutamente fuori dalle storiche docg, a due passi dalla provincia di Salerno in un’area sconosciuta dal punto di vista vitivinicolo ma molto famosa in passato prima per l’industria tessile avviata da imprenditori svizzeri nell’800, poi dalla industria delle pelli che è ancora viva nonostante i periodi di crisi e che fa sentire la sua presenza quando si attraversa il comune di Solofra dalla superstrada che collega Salerno ad Avellino con il suo tipico odore di Zolfo.

Maria Buonanno

L’azienda è di proprietà della famiglia Buonanno e al timone c’è Maria che ha subito impostato la conduzione delle viti seguendo il protocollo della certificazione biologica attestandosi su una resa che oscilla fra i 50 e il 60 quintali per ettaro.
Per la zona è una novità, perché sino nessuno aveva imbottigliato secondo criteri moderni, l’avventura è iniziata con il nuovo impianto nel 2007 che circonda a terrazzamenti il casale con l’inizio della produzione nel 2010. L’antica casa colonica, ampliata nel rispetto della sua storia, accoglie diverse attività: una spaziosa soffitta ospita mostre fotografiche, workshop e spettacoli musicali; la sala al piano terra accoglie grandi o piccoli eventi. Quanto alla cucina, è quella rigorosamente contadina del Sud dove hanno un grande ruolo soprattutto le patate e la cipolla ramata di Montoro, ottima per cucinare la Genovese, tipico piatto napoletano.


L’agriturismo si chiama Terranova, l’azienda vitivinicola la Cantina della Collina per evitare confusione. Si tratta di una controtendenza rispetto ad una delle pochissime aree del sud con cui si è registrato un processo di industrializzazione autoctono e non indotto con i fondi pubblici. Nell’immaginario collettivo locale, per capirci, non è un luogo dove si può immaginare questa oasi di pace e di tranquillità convinta. La vinificazione di tutti e tre i vini avviene senza lieviti selezionati, l’unico materiale usato è l’acciaio. Del Piedirosso abbiamo detto. Anche l’Aglianico garantisce una croccante freschezza al palato, ha naturalmente un peso diverso sul palato e lo consigliamo direttamente su piatti strutturati. Buono anche il Greco fuori denominazione: fresco, con una grande spinta.


Insomma una piccola chicca facile da raggiungere perché vicina al raccordo autostradale che si rivela come una bella sorpresa per chi ama la verità dei prodotti e delle persone senza troppe pippe mentali.

InvecchiatIGP: Contrada Salandra - Falanghina dei Campi Flegrei 2010


di Carlo Macchi

Non so se Giuseppe Fortunato, deus ex machina di Contrada Salandra, sia fortunato, ma sicuramente è una di quelle persone che unisce il machiavelliano dettato di “Virtù e Fortuna”. La sua virtù è stata quella di abbandonare la laurea in ingegneria in un cassetto e farsi portare dalla passione, prima per il miele e poi per la vigna. La sua fortuna è stata quella di “ritrovarsi tra le mani”, assieme a sua moglie Sandra, Contrada Salandra. 


“I vini di una terra non sono merci ma racconti di vita”
questo è l’inizio del bellissimo cammeo riportato in retroetichetta (che vi consiglio di leggere in toto)  e la falanghina dei Campi Flegrei 2010 che ho aperto, regalatami da Giuseppe alcuni mesi fa, racconta la storia di un uomo virtuoso e di un vitigno che nel tempo è cresciuto, e da uva  per vini facili e immediati è divenuta mezzo per misurare quanto possa essere bello e complesso lavorare questo vitigno in un terra particolare, vulcanica, instabile ma di una stabilità storica ineccepibile, come i Campi Flegrei. 
“Falanghina vino da bersi giovane” era quasi un luogo comune fino a poco tempo fa, ma mentre questo luogo comune nasceva e si fortificava Giuseppe produceva questo incredibile 2010.


L’ho avvicinato con curiosità e rispetto, ma con la sicurezza di aver già degustato diversi ottimi vini di Giuseppe con molti anni sulle spalle.

Il risultato è andato aldilà delle previsioni.

Colore dorato brillantissimo, quasi a voler subito mettere le carte in tavola sul fronte della tenuta. La vera sorpresa è stato il naso: come ritrovarsi in montagna e annusare l’aria fresca e pungente, ma piena di aromi balsamici, di erbe, di fiori. Una serie di sensazioni che unite a note di pietra focaia presentano chiaramente le possibilità di invecchiamento della Falanghina nei Campi Flegrei. 


La bocca ha bisogno di un attimo per aprirsi: non punta certo sulla freschezza ma sull’equilibrio e sulla sapidità e più resta nel bicchiere e più si fortifica, si concentra, si assesta. Lo stava facendo perché sicuramente, di sottecchi, aveva visto che le stavo preparando una prova di quelle terribili, abbinandola a delle bruschette di pane toscano (con tanto aglio…) e con sopra del cavolo nero sbollentato e condito con olio extravergine d’oliva appena franto. 


Un piatto che potrebbe distruggere qualsiasi vino, ma la finezza aromatica ha prevalso anche sull’aglio e la paciosa ma decisa profondità e persistenza al palato è andata oltre l’olio nuovo. 
Quindi non solo una Falanghina di 12 anni che regge il colpo, ma che è talmente cazzuta che va oltre un abbinamento cibo-vino ammantato di sadismo gastronomico. Insomma, questa volta fortunato sono stato pure io!

Rosso Toscano "Il Lupinello": meno di un litro non lo bevi!


di Carlo Macchi

Il nome poteva essere “Vedi che si fa con sangiovese, canaiolo e trebbiano?” ma l’hanno chiamato Il Lupinello. 


Ma che si fa con queste uve? Un concentrato di profumi fruttati e vinosi, nonché di fresca piacevolezza, un corpo leggero ma teso e netto. Bottiglia da un litro, perché meno non ne bevi.

Alla scoperta del Savatiano, il vitigno greco più antico al mondo


di Carlo Macchi

La parola greca Σαββατιανό vuol dire Savatiano e, per la cronaca, si legge Savatianò, con l’accento sulla “o” finale. E’ il vitigno greco più antico e più piantato e anche se adesso sappiamo pronunciarlo correttamente sfido chiunque a farmi una presentazione, anche breve, dei vini a base savatiano. Naturalmente anche io faccio del gruppo, anzi facevo, fino a quando il nostro Haris Papandreou non ha proposto alla redazione di Winesurf una degustazione di vini da questo vitigno.


Visto che da qualche parte bisogna iniziare vi suggerisco una parolina: “Retsina”. Scommetto che questa parola vi ha aperto un mondo. Il Savatiano è infatti il vino con cui veniva (e viene) fatta la Retzina, il vino resinato greco che, più che tipico, incarna l’idea piuttosto stantia che abbiamo del vino di questo meraviglioso paese. Lo so, cosa state per dire: la Retzina è un vino quasi sempre “cheap” e quindi anche il Savatiano è un vitigno non certo di altro profilo.
Se vi do ragione per quanto riguarda la bontà della Retzina, sul Savatiano e sulla strada verso la qualità che ha fatto negli ultimi 10-15 anni mi permetto di dissentire, anche alla luce di quanto abbiamo degustato.


Ma prima dei vini inquadriamo il vitigno e la zona di produzione. Siamo in Attica, praticamente la Grecia che più Grecia non si può, la terra attorno e sopra Atene.
Sicuramente il Savatiano è la qualità più coltivata in Grecia, anche perché un’ uva che resiste al caldo dell’Attica può star bene da tutte le parti. La forma d’allevamento classica è l’alberello. Per produrre la Retzina era ed è vinificato in purezza o con un’altra uva autoctona greca, il roditis.
I brutti ricordi di Retzina del passato parlano di Savatiano vinificati male, e quindi la resina serviva per coprire i difetti. I vini che abbiamo degustato noi, ben 26, erano (a parte 2) dei Savatiano non resinati, dove le caratteristiche del vitigno spiccavano.


Normalmente un Savatianò si presenta con un colore giallo paglierino, profumi di frutta bianca e tropicale nonché di fiori bianchi , un’acidità moderata e un corpo non certo spiccato. Un vino quindi da bere giovane, nell’arco di 2-3 anni, ma che in diversi casi può oggi arrivare a 6-8 anni di buona evoluzione. Questa evoluzione può essere legata anche al legno ma dai nostri assaggi la cosa non ha avuto conferma. Certo è che, legno o non legno, i Savatiano prodotti negli ultimi 7-8 anni possono maturare molto meglio che in passato.


Non per niente uno dei vini per me migliori dell’assaggio è stato la Cuvée Vouno 2017, di Mylonas, un Savatiano di cinque anni che proviene da una vigna di 60 anni e fermenta in acciaio, dove rimane sulle fecce fini per almeno 9 mesi . Al naso note di pietra focaia, timo e una sensazione più cupa che ricorda il legno, in cui non è mai stato. In bocca mostra una sapidità che completa la sufficiente freschezza.


Anche il Vientzi Single Vineyard 2019, di Papagiannakos (forse il primo cru di Savatiano) con viti di oltre 60 anni, ha la stessa nota di pietra focaia accanto a sentori floreali e in bocca è sapido, fresco, con un corpo medio ma elegante. Proprio un buon vino.


Entrambi questi vini li trovi attorno ai 15 euro online ma il Savatiano normalmente costa meno e il Savatiano 2020 di Aoton, dimostra che con 8 euro (online) si può bere benissimo. Lo produce un giovane enologo, Gkinis Sotiris, con viti di almeno 25 anni. Color giallo dorato, ha rotondità e pienezza importante, anche se in vista sin da subito abbiamo sapidità e freschezza. Profumi sulla frutta bianca matura e una bella lunghezza completano il quadro. Un vino buono adesso e sicuramente meglio da 2-3 anni.


Vi ho presentato tre vini non proprio d’annata per farvi capire come questo vitigno possa anche maturare qualche anno e questa pur breve evoluzione lo renda sicuramente più complesso e interessante. Infatti alcuni tra i vini giovanissimi del 2021 non si staccavano dai classici aromi che possiamo ritrovare in tanti bianchi e sinceramente non mi hanno lasciato una grande impressione.


Ha fatto eccezione, per gli incredibili e potenti profumi di succo di frutta alla pera (ma veramente, sembrava di aver aperto una bottiglietta!) il Naked-Truth 2021 di Mylonas, un vino che viene definito “espressione vera del Savatiano”, ma forse l’assenza di solfiti, sia durante i mesi di affinamento che all’imbottigliamento, giocano un ruolo basilare nella connotazione aromatica. In bocca il vino è morbido e manca un po’ dal punto di vista della freschezza.


Ma dovevamo giocoforza fare anche un “salto” sul fronte Retzina e abbiamo capito che pur con tutte le accortezze attuali, pur fatta con tutti i crismi, non si riesce a superare lo scoglio nasale, almeno per noi italiani. Insomma, una degustazione molto istruttiva, come quella che, tra qualche giorno, faremo del “nebbiolo greco” l’Agiorgitiko.

In chiusura, se qualcuno volesse acquistare qualche Saviatanò può andare su https://www.ellenika.it/ unico sito specializzato sui vini greci. Può anche, se capisce il tedesco, acquistare su https://stelios-weine.de/ .

Brunello di Montalcino 2018: la via che porta all'Essenza


Il 31° Benvenuto Brunello si è concluso da pochi giorni e, dopo nove giornate di degustazione, dove 137 cantine hanno presentato il Brunello 2018, la Riserva 2017 e il Rosso di Montalcino 2021, oltre a qualche referenza di Moscadello e Sant’Antimo, sono sempre più convinto che questa denominazione sia ormai un punto di riferimento qualitativo assoluto sia per i mercati esteri sia, soprattutto, per il mercato italiano.

Quanto scritto è emerso chiaramente dal report annuale di Wine Intelligence che, in occasione di Benvenuto Brunello, ha analizzato forza e riconoscibilità delle 46 principali denominazioni made in Italy, attraverso uno studio anche delle abitudini dei wine lover del nostro Paese. Il risultato è stato abbastanza netto: a fronte di una “nano-share” di superficie vitata pari allo 0,3% del vigneto Italia, il principe dei rossi toscani si posiziona in testa alla classifica superando colossi come il Chianti Docg, il Prosecco, il Chianti Classico e il Montepulciano d’Abruzzo, dimostrandosi un vero e proprio brand territoriale.


Come sempre, partecipando a
Benvenuto Brunello senza altri collaboratori, mi limito, per mancanza di tempo, ad esaminare l’ultima annata in commercio ovvero quella 2018 ha ricevuto dal Consorzio ben 4 stelle ben evidenziate, tra l’altro, nella bellissima mattonella collocata sul muro del Comune di Montalcino e disegnata dal grande Alex Zanardi.


Non è facile fornire una descrizione univoca del millesimo in questione perché, come tutti sanno, Montalcino è un areale piccolo ma dalle mille sfumature pedoclimatiche per cui, per venire a capo della questione una volta per tutte, non posso non farmi aiutare da chi il territorio lo conosce come le sue tasche ovvero dal grande enologo Maurizio Castelli che, a Montalcino News, ha dichiarato quanto segue: “Possiamo a questo punto brindare all’annata 2018, per come si è palesata dopo un’estate estremamente piovosa ed inclemente che ci ha messo serie preoccupazioni. Siamo arrivati all’inizio della vendemmia con un’uva che francamente era a rischio. Poi qualcuno o qualche cosa ci ha graziato e sono arrivati quei 10 giorni di temperature più alte e venti asciutti che hanno consentito alle nostre uve di arrivare ad una maturazione corretta. Ritengo l’annata 2018 un’annata interessante da un punto di vista aromatico, perché le piogge hanno raffreddato il terreno e di conseguenza i vini saranno di aromi più fini, più eleganti, sebbene non di grande struttura”.


Venendo alla degustazione di oltre 150 campioni di Brunello, divisi tra “base” e “selezione”, non si può essere non d’accordo con l’analisi di Castelli. La prima cosa che mi ha colpito, infatti, sono stati i colori di questa 2018 che ho trovato tra i più scarichi mai visti in tanti anni facendomeli paragonare, in molti casi, a qualche ottimo rosato italiano o pinot nero d’oltralpe. Coerentemente col quadro cromatico, anche i profumi del Brunello 2018 sono spesso declinati verso eleganti e sinuose nuances agrumate e floreali la cui leggiadria fa da contraltare a quanto abbiamo visto per la 2017 dove la carica aromatica era decisamente più scura, profonda ed intensa.


L’assenza di peso specifico della 2018, che non significa inconsistenza, la si ritrova anche al sorso dove molti vini risultano con strutture non troppo austere ma con tannini fitti, armoniosi ed acidità abbastanza importanti soprattutto per chi ha vendemmiato nella parte nord di Montalcino.

In generale, i 2018 saranno dei Brunello abbastanza atipici, simili alla 2011 o alla 2013 ovvero figli di una annata che può essere definita classica, impegnativa ma relativamente equilibrata, sicuramente rara visto i cambiamenti climatici in atto. Saranno dei vini da lungo invecchiamento? Non ho una risposta a questa domanda, quello che so è che oggi, mediamente, sono già pronti da bere e piacevolissimi. Chi ha interesse per i “vinoni”, quest’anno, deve cambiare territorio.


Fatte queste lunghe premesse, dopo due giorni di full immersion, i miei Brunello di Montalcino 2018 preferiti sono i seguenti:

Castello Romitorio – Brunello di Montalcino 2018: è il secondo anno consecutivo che segnalo i vini di questa azienda fondata nel 1984 da Sandro Chia. Sangiovese dal colore estremamente scarico ma grintoso per sensazioni agrumate e spezie orientali. In bocca ha sostanza, spessore e dinamicità.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2018: la famiglia Squarcia ha ormai imboccato da qualche anno la via dell’eccellenza non solo per il Brunello ma anche per il loro sublime Rosso di Montalcino. La 2018 si apprezza per le sue pennellate aromatiche di gelatina di ribes, essenze orientali, viola passita e suggestioni ematiche. Sorso saporito, equilibrato grazie ad un tannino rifinito.

Castiglion del Bosco – Brunello di Montalcino “Campo del Drago” 2018: come il mio amico e collega “IGP” Roberto Giuliani, anche io devo ricredermi circa i Brunello di questa importante azienda del territorio che, probabilmente, con la 2018 ha trovato la giusta misura soprattutto con questo Cru proveniente dalla vigna più alta (450 metri s.l.m.) del vigneto Capanna. Elegante caleidoscopio aromatico di spezie rosse, rosa passita e frutta a bacca rossa succosa. Assaggio vivace, piacevolissimo e ben bilanciato. Chiude lunghissimo.

Chiusa Grossa – Brunello di Montalcino 2018: una bella scoperta, perché non la conoscevo (sigh!) è stato il vino prodotto dalla famiglia Biscotto le cui uve provengono dalla zona di Sant’Angelo in Colle e Castelnuovo dell’Abate. Il Brunello 2018 sa di arancia amara, viola essiccata, legni nobili e iodio. Bella bocca, sapida, intensa e dal tannino ben dosato.

Gorelli – Brunello di Montalcino 2018: Giuseppe Gorelli nel territorio ilcinese è stato consulente per anni di importantissime aziende e da qualche anno ha deciso di mettersi in proprio gestendo circa 4 ettari di vigna sita nella parte nord-ovest di Montalcino. L’annata 2018 rappresenta il suo primo Brunello prodotto che incanta decisamente per un panorama aromatico di agrumi succosi, bacche rosse, ferro, refoli floreali e spezie. Succoso e nitido nella sua deliziosa complessità, fa della beva e della progressione sapida, quasi salata, il suo punto di forza.

Sanlorenzo – Brunello di Montalcino 2018: il vino di Luciano Ciolfi è sempre riconoscibilissimo anche in questa annata che di certo non ha favorito la potenza e la solarità del sangiovese di Montalcino. Questa 2018, invece, si fa apprezzare per materia fruttata, quasi scura, striature speziate, quasi piccanti, ed un ampio ventaglio minerale. Sorso di struttura, avvolgenza e sapidità. Un Brunello poco “sottile” ma grintoso che interpreta magistralmente i caratteri della zona sud-ovest di Montalcino.

Salvioni La Cerbaiola – Brunello di Montalcino 2018: chi proclama che la 2018 sia un’annata fatta di sangiovesi rarefatti dovrebbe bere il vino di questa storica cantina che come sempre tira fuori un Brunello ricco, generoso, tradizionale, dotato di intensi accenti di frutta matura, accompagnati da speziatura di pepe, anice stellato e macis a cui segue una possente nota ferrosa. Grandioso all’impatto gustativo, è sostenuto da tannini graffianti, da corpo, grinta ma al tempo stesso è elegantemente misurato nella sua scalpitante gioventù.

Fattoi – Brunello di Montalcino 2018: confesso di avere una ammirazione smisurata per la famiglia Fattoi che, senza mai clamore, riesce sempre ad interpretare le annate in maniera magistrale producendo, anno dopo anno, tra i vini più buoni di Montalcino. Non fa, ovviamente, eccezione questa 2018 sostenuto da aromi invitanti di frutta croccante, viola e sensazioni balsamiche quasi di macchia mediterranea. Scattante e penetrante al sorso, dal tannico serico.

Canalicchio di Sopra – Brunello di Montalcino “La Casaccia” 2018: il vino, che prende il nome dalla zona dove sorge la cantina azienda, è pura austerità grazie ad una impalcatura aromatica che vira verso sensazioni ematiche, di spezie rosse e ferro. Al gusto si mostra di grande piacevolezza essendo dotato di struttura suadente e carnosa in cui si assorbe un tannino ben fuso e una verve sapida a cui spetta l’onere di riportare armonia e proporzione. Finale sublime.

Tiezzi– Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2018: devo ammettere che quest’anno tra Poggio Cerrino e Vigna Soccorso, per qualità, è stata una bella lotta ma alla fine l’ha spuntata questo secondo Cru prodotto dalla famiglia Tiezzi che ho amato per espressive sensazioni di radici, piccole bacche rosse, rosa canina e un tono lievemente fumé. Eccellente l’incedere gustativo, calibrato veemente sapidità e sapienti tannini di fattura classica. Chiude piacevolmente succoso, ben ampliato da richiami di frutta rossa croccante.

La Signora dell'Uva



di Luca Dresda

Mi ha detto papone che oggi si va sui monti, si sale verso il fresco, ma io je l’ho detto che voglio la neve, voglio mangiare il freddo. Quella pulita e scavata di qualche centimetro. Dice che andiamo a conoscere la signora dell’uva. Una signora che fa l’uva e poi fa il vino. Che ci farà mangiare uva che non abbiamo mai assaggiato. Dolce e scrocchiarella. Ma io non mi fido. Lo dice solo per farmi stare buono e portarmi via dal ciaffi-ciaffi tra le onde, perché dice che troppo sole gli fa male. Che suda".


In macchina si sale e si sale. Tutte salite e curve. La strada non si vede. È stretta stretta. Non ce la faccio più, legato a sto seggiolino. Ma poi, papone si ferma sotto un albero mezzo secco dove c’è una signora piccolina che sembra Ilenia, la mia amica di scuola. Scendiamo tutti con le ciabattine e ce le cambiamo. “Sennò i sassolini ti fanno male” dice la mamma. Ma io non le voglio le scarpe chiuse. Mi fa caldo. Rivoglio i miei sandalini. Qui non c’è sabbia, c’è terra secca e piante picca picca. Fa più caldo che in spiaggia. Almeno lì ci si poteva mettere nel mare.

Foto: Andrea Federici

Dietro un monte si vede il fumo che sale. È un fuoco. Ci sono anche gli aerei dei pompieri che buttano l’acqua. I canadè. Dice papone che quelle che si vedono lontano sono montagne alte alte dove quando fa freddo c’è la neve. E mi ha promesso di portarmi. La signora dell’uva è vestita tutta di scuro e ha degli occhialoni grandi. Sorride a papone e poi gli dà un abbraccio di quelli che non finiscono più. Poi mi saluta e mi dice che ora mi farà sentire un po’ di odori. Strappa delle foglioline e ce le mette sotto il naso, papone mi dice tutti i nomi. Alcuni sono nuovi, altri li ho già sentiti nella casa colorata, la casa mia di Roma. Alloro. Timo. Rosmarino. Poi, la signora dell’uva, che si chiama Giovanna, ed è la prima Giovanna che conosco, a parte la zia Anna che è la più brava a fare i dolci, si mette a camminare. E non si ferma quasi mai. 


Cerco di raggiungerla con papà che gli vuole stare vicino, ma sbuffa e suda che tra poco cade a terra svenuto. Giovanna sale scalini di sassi e di pietre e poi strappa due o tre foglioline di una pianta che è la salvia, ma è molto più profumata della salvia che conosco io. Deve essere una super salvia. E a quel punto papone mi dice che posso prendere delle palline di uva dalla pianta. È un’uva nera nera, scura scura, ma i pallini non sono grandi, e papone mi dice che il semino si può masticare perché scrocchia ed è buono. Dolce. A volte non lo capisco. Nel seme, non c’è il succo dolce. Che si mangia a fare? Non è un biscotto. E neanche un crècher. Che lo mangiamo a fare? Va beh, lo faccio per lui che è tutto entusiasta. L’uva è buona. Mmm… Buona buona. Mi piace. E siccome mi ha detto che posso mangiarla, me ne prendo altra. E un’altra. Ora mi comincio a divertire. Prendo tutti i pallini neri da tutte le piante e via. La signora dell’uva dice che se continuo così non resterà niente. Ma non è vero. Qui è pieno di piante piene di uva.


Camminiamo ancora, e io sono stanco di camminare e mi faccio prendere sulle spalle per vedere meglio tutto quello che indica la signora dell’uva. Ci sono alberi nuovi nuovi, dice che uno fa i manghi, ma non ci sono i manghi appesi, quindi deve essere una di quelle cose che dicono gli adulti per farci aprire la bocca. Poi indica in basso in alto, di qua e di là, e ci fa vedere tutto il mondo che si vede da questo posto pieno di salite, e parla di tanti anni fa e di oggi che è tutto diverso e io intanto anche basta dei pallini di uva. Ho fame. E voglio giocare un po’. Alla fine, torniamo in macchina e scendiamo giù, verso le case. La signora dell’uva ci fa entrare in una stanzetta che sembra una grotta dove ci sono tante cose di metallo, macchine, casse, reti, bottiglie piene e vuote. E su un tavolino vedo molti bicchieri, come quelli di casa appesi a testa in giù, e le bottiglie del vino. Papone è sempre il solito. Ti fa camminare, ti fa stancare, ti dà qualche contentino e poi ti porta a bere vino, che è una cosa che io non posso ancora bere. Da grande voglio capire com’è questo vino che ora dicono che mi farebbe male. Ma anche a papà non sembra fargli proprio bene, eh. Ogni volta che il bicchiere diventa vuoto, gli viene un sorriso grande come la faccia in un pagliaccio e dice cose che non si capiscono, tutte mischiate.


A un certo punto arriva l’uomo della grotta e ci saluta. È alto, biondolino e tutto sorridente. Dice che ci vuole far vedere una macchina magica. Una macchina che veste le bottiglie. E io non vedo l’ora di andare a vedere, perché sicuramente mi diverto di più che a vedere papone che svuota bicchieri e parla parla parla che non si capisce che cosa dice. Ghé, si chiama, l’uomo della grotta. Dice che viene da lontano e che lui lavora come un mulo. Ma a me non sembra di vedere la coda. Poi ci fa vedere come la macchina magica veste una bottiglia e la prepara per uscire dalla grotta e andare a casa di tutte le mamme e i paponi. È veramente magica. Fa un rumore brutto, forse è un mostro cattivo? Forse devo chiamare Spiderman e fargli dare un cazzottone sulla capoccia e farla secca, come dice papone. Forse. Ma forse no. Quando la macchina smette di urlare e ruggire Ghé alza la bottiglia e ci fa vedere il vestito. È una maglietta rossa. Dice che si chiama Luvà. “La voglio”, gli dico. E lui, ridendo: “Kiedilo a tuo papà. Magari te la kompra.” È simpatico, Ghé. Dice che lui è l’amico di Giovanna, la donna dell’uva e che insieme sono la mamma e il papà del vino. Ma io non vedo bambini. “Lui è nostro bambino.” Mi risponde Ghè. Poi mi regala un vestitino rosso. Io corro di là da papone e mamma urlando come mai. “Guardate! Ghé mi ha regalato un vestitino per bottiglie!” Ed è tutto un ridere e saltare e urlare che non ci si capisce più niente. Solo Giovanna, la donna piccina dell’uva resta ferma e sorride appena. 


Ci guarda, forse è contenta, forse si è divertita anche lei con papone che parlava e parlava, mentre noi vestivamo le bottiglie. Ma adesso dicono che è l’ora di andare a mangiare. E si salutano. Una, due, tante volte. Papone dice che vuole tornarci. La donna dell’uva dice che è stato fortunato. E papone giù a ridere, che non si sa perché. E così ce ne andiamo a fare le pappe. E i paponi e le mamme sembrano tutti così felici che ho il sospetto che anche loro abbiano visto una magia. 

Foto: Pasquale Pace

E intanto, mentre scendiamo, la donna dell’uva e l’uomo della grotta ci salutano e diventano sempre più piccoli. Che adesso quasi assomigliano ai nonni di Firenze. Mi giro e gioco con il mio vestitino rosso.”

NOTA

In questo pomeriggio a Posaù e poi in cantina, abbiamo avuto occasione di assaggiare nell’ordine:

1. L’uva del vigneto. Talmente matura che veniva voglia di vendemmiarla subito. Ma fermandoci qualche giorno avremmo potuto partecipare attivamente.


2. Rossese di Dolceacqua 2021. Prima di tutto, bisogna sottolineare la perfetta temperatura di degustazione di un Rossese, in agosto. Fresco. Dissetante. Lenitivo. Ne è seguita una breve discussione, giocosa e ironica, visto che noi stessi, con amici, il giorno prima avevamo un po’ sfiorettato sull’argomento, ovviamente in totale disaccordo e con determinazione crescente a ogni bicchiere svuotato. Ci piace molto la modernità del pensiero filosofico secondo cui ognuno fa un po’ come cacchio gli pare. Ma… se parli di temperatura di servizio è sempre al netto del prendo una bottiglia, la porto in sala, la stappo, la verso e do il tempo ai commensali di assaggiarla. E poi… poi, quello che resta se ne va lentamente in un altro mondo termico che raramente viene controllato. Quindi, i primi bicchieri si bevono bene e con gli ultimi meno ci pensiamo e meglio è. Questo è il vino che raccomandiamo in spiaggia, al tramonto, con il plaid coperto di leccornie. Lo raccomandiamo in coppia o in tris, perché va giù troppo rapidamente. Cascata del Niagara.


3. Luvaira 2018. Confesso che forse è un vino che ho mitizzato troppo. A casa mia non manca mai. Ho qualche bottiglia nascosta nella cantina di mia madre che urla e implora di essere bevuta. La mia memoria papillare mi fa accogliere il 2018 con un po’ di stupore. Per la prima volta non sento un vino dal duplice carattere, pronto al godimento e allo stesso tempo che necessita attenzione e cura. Il giusto compromesso tra leggiadria e profondità. Un vino che chiede anche attesa, riflessione, un componimento di versi non solo da stornello. Per la prima volta, sento mancare l’aspetto più romantico e sensuale. Quella femminilità controllata che ti conquista anche senza essere smodata. A quanto pare la 2018 è stata un’annata proprio così. Pulita, elegante, ma con una dimensione più piccola, esile, anche se commercialmente ineccepibile. Sono di quelle annate sul cui futuro pochi scommetterebbero, tranne poi riservare a volte sorprese, come la 1966 del Chianti Classico o della Langa. Ma ormai lo abbiamo capito, quando in un vino si sente il carattere dell’anno, siamo di fronte a un prodotto vero, lavorato in vigna e non corretto in cantina. Anche se vorremmo che mantenesse il suo livello senza mai piegarsi ai capricci della natura. Lo voglio riassaggiare. Il ritorno.


4. Posaù 2020. Ecco il banale effetto “influenzale” di una visita in vigna che ha del poetico, del prosaico e dell’epico allo stesso tempo. Il Posaù lascia tutti a bocca… chiusa. In silenzio. Di là sentiamo gli strilli dei bimbi che chissà contro quale drago staranno combattendo all’interno delle fiabe di Goetz e il piacere di questo vino fuori dall’ordinario, quasi smaccatamente profondo, cornucopia di sentori, ricco e di grande allungo ci porta lontano. Non mi chiedete dove. Il senso di una giornata.


5. Curli 2019. Dopo avermi guardato con un ghigno dolce, Giovanna mi dice che lei non fa visite. Non dice che di solito non le fa. No. Lei non fa visite in vigna e in cantina. Punto. Non mi viene istintivamente di ringraziarla in ginocchio, come dovrei forse, ma mi rendo conto di essere un prescelto. Io, e company, ovvio. Mi rendo conto che sono qui e allo stesso tempo non dovrei esserci. Ci sono e non ci sono. E nel breve tempo in cui faccio questa riflessione, lei mi va a prendere questo ultimo regalo che mi fa scendere una lacrimuccia ribelle da un occhio a scelta. Deglutisco e mi preparo. L’aspettativa è enorme. Troppe cose si sono dette e scritte. Sarà veramente lui, il mito? Glielo chiedo prima di assaggiare. E lei non risponde. Mi guarda. Sfida la mia sfacciataggine. E poi, e poi… Curli non è solo un Rossese. Nasce Rossese e poi diventa un luogo in cui si incontrano molti protagonisti dei nostri viaggi e delle nostre sortite. Uno scambio senza fine di identità e di esperienze. C’è sicuramente tanta influenza, tanta sovrastruttura, eppure è davvero un vino denso di significati. Ma direi che il termine che più lo contraddistingue è solenne. Come una messa di Beethoven, penso. Come… ma a quel punto, Ale mi si aggrappa con tutto il peso alla camicia, mi dice che ha fame e che vuole salirmi a cavallo, sulle spalle, che quasi mi cade il bicchiere a terra… e mi riporta alla realtà.

Foto: Intralcio

Facciamo in tempo a fare alcuni brevi riassaggi casuali per mischiare le carte, e la complessità e il piacere di un incontro letteralmente non previsto ci prende a tutti la mano e ci lasciamo andare a saluti e contro saluti come quando si lasciano dei parenti dopo un’estate insieme, mentre ci avviamo a cenare a Bordighera vecchia da Magiargè, un posto che nessuno può farsi mancare se passa da quelle parti.

InvecchiatIGP: Tenuta Cantagallo - Colli Toscana Centrale "Gioveto" 2009


di Roberto Giuliani

Se da un Brunello di Montalcino o un Carmignano, o ancora un Chianti Classico, puoi aspettarti di trovare una bottiglia del 2009 in grado di essere apprezzata, da un’IGT Colli Toscana Centrale fai un po’ più fatica, sebbene qui siamo a Montalbano, che non è proprio un posto qualsiasi in campo vitivinicolo.


Aggiungiamo che questo Gioveto è stato sì chiuso in confezione da 6 bottiglie nel sottoscala al buio, ma certamente gli sbalzi di temperatura in tutti questi anni li ha subiti, di estati torride ne abbiamo avute, soprattutto la 2017 e la 2022 non hanno scherzato dalle mie parti. Eppure eccolo qui, sangiovese 60%, merlot 20%, syrah 20%, 12 mesi in barriques di Allier, un anno in bottiglia e poi in vendita. Quindi era già in commercio da più di 10 anni.

La Tenuta

In verità devo dire che ero abbastanza fiducioso di non rimanere deluso, in passato avevo già aperto vecchie bottiglie sia della Tenuta Cantagallo che di Le Farnete, ambedue di proprietà della famiglia Pierazzuoli, evolute molto bene, senza ossidazioni e cedimenti marcati. E anche in questo caso è andata bene, il vino è nel calice da più di mezzora e non sembra temere l’ossigeno, non si spegne nei profumi e non accenna a terziarietà spinte. Anche il colore è ancora compatto con riflessi rubini e buona profondità, solo all’unghia accenna al granato, ma è davvero poca cosa.


All’olfatto esprime belle note di prugna matura, confettura di more, ribes nero, pepe, cacao, tabacco, leggero cuoio, sottobosco, legno di liquirizia, incenso, riesce ad esprimere ancora una piacevole vena balsamica, il tutto in equilibrio ed estremamente piacevole.


Al palato c’è un velo di maturità, si sentono in parte quelle note che ricordano il goudron, la cenere, la polvere da sparo, ma la carica fruttata e speziata è ancora dominante e c’è una buona freschezza a sostenere una materia sostanziosa e profonda, segno che nelle intenzioni dell’autore la longevità era stata contemplata, altrimenti un anno di barrique lo avrebbe ammazzato...


Un rosso a tratti austero ma pieno di calore, avvolgente, il sorso non stanca, il tannino è perfettamente integrato e setoso, non ci sono sensazioni amare, quindi ci si può sbizzarrire senza paura con una bella fiorentina alta almeno 5 centimetri, anche se a questo punto io mi orienterei più verso le carni cotte lungamente, con intingoli speziati e scuri, perché questo Gioveto ha le spalle per reggere quasi tutto lo scibile alimentare.

Cantine Garrone - Vino Rosso "Munaloss" 2020


di Roberto Giuliani

Da quella meravigliosa terra che è la Val d’Ossola, un rosso base nebbiolo con un 20% di croatina che i fratelli Matteo e Marco Garrone vinificano solo in acciaio (una settimana di macerazione). 


Sa di viole, fragole, lamponi, guizzi agrumati, liquirizia e una bevibilità da urlo, fresco e pieno di energia.