Tasca d'Almerita e quel micromondo vinicolo chiamato Tenuta Regaleali

Di Andrea Petrini

Questa pandemia ha reso quasi insostenibile la mia voglia di tornare a viaggiare per cui, caro lettore, spero tu possa comprendermi se, al termine della diretta Zoom sui vini di Tasca d’Almerita, la mia unica necessità era quella di prendere il primo aereo disponibile per la Sicilia e proiettarmi in quel micromondo vinicolo chiamato Tenuta Regaleali.


Qui nel 1830 i due fratelli Tasca, Carmelo e Lucio, acquistarono 1200 ettari (diventati poi 500 a seguito della riforma agraria degli anni ’50), diventando custodi di questo territorio al centro della Sicilia, nell’antica Contea di Sclafani, a metà strada tra Palermo e Caltanissetta, Agrigento e Cefalù.


La tenuta, oggi, si estende per circa 550 ettari, e si trova in una fertile valle montuosa che da tempo immemorabile è dedicata all’agricoltura. Sebbene quest’isola verde interna sfoggi una vasta e rigogliosa gamma di colture, dalle olive al grano, documenti e prove archeologiche mostrano che la Vitis vinifera abbia da sempre una particolare affinità con Regaleali, e viceversa. Il primo riferimento alla “vigna di Racaliali” risale ad una cronaca del 1580 e, quando i fratelli Don Lucio e Don Carmelo Mastrogiovanni Tasca acquistarono la vasta tenuta feudale nel 1830, essa comprendeva anche un girato, un vigneto murato simile a un clos francese.


Regaleali, come detto, è una sorta di micromondo che si erge da 400 a 900 metri sul livello del mare, ha ampie escursioni termiche diurne associate a climi molto più settentrionali, ma presenta una qualità e un’intensità di luce distintamente siciliane, oltre che ad una varietà di terreni, aspetti e altitudini che si prestano a vitigni sia autoctoni che internazionali. Ma il mosaico di circa 25 varietà che attualmente cresce nella Tenuta non è frutto di un progetto impostato a priori da un enologo itinerante: è il risultato di una paziente sperimentazione durata otto generazioni, ognuna delle quali costruita sull’opera dei predecessori. Quando il conte Giuseppe Tasca piantò la vigna più pregiata di Regaleali con Perricone e Nero d’Avola, coltivati ad alberello tradizionale siciliano sulla collina di San Lucio nel 1959, stava gettando le basi di quello che è oggi Regaleali, osando sognare quello che sarebbe diventato il primo vino di un singolo vigneto della Sicilia, Riserva del Conte, che poi prese il nome di Rosso del Conte.


Vent’anni dopo, suo figlio Lucio Tasca, primo in Sicilia, fece una scommessa altrettanto visionaria quando, all’insaputa del padre, seguì l’intuizione che le varietà internazionali – Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot nero e Sauvignon Blanc - non solo sarebbero cresciute rigogliose, ma avrebbero anche assunto nuove sottili qualità aromatiche tanto da far diventare queste quasi autoctone.

Alberto Tasca

Per comprendere appieno questa realtà dalla mille sfaccettature, guidati da Alberto Tasca e da Corrado Maurigi (responsabile della Tenuta), abbiamo degustato sei vini che sono stati presentati con le nuove etichette dove il nome della Tenuta è posto oggi maggiormente in risalto per dare maggiore impulso all’identità territoriale delle cinque proprietà che compongono la Sicilia di Tasca d’Almerita: Tenuta Regaleali, culla di una Sicilia incontaminata e primordiale; Tenuta Tascante, con i suoi splendidi terrazzamenti sulle pendici dell’Etna; Tenuta Capofaro, un luogo dell’anima, scrigno della Malvasia delle Lipari; Tenuta Sallier de La Tour, la cantina liberty adagiata sulle dolci colline palermitane e, infine, Tenuta Whitaker, dove la viticoltura è immersa nelle vestigia fenice dell’isola di Mozia.

Di seguito i miei appunti di degustazione:

Tasca D’Almerita – Buonsenso 2020 (100% catarratto): l’Antisa, dal 2020 prende il nome di Buonsenso la cui espressione fa riferimento alla convinzione dei Tasca di dare il giusto valore agricolo ad una varietà storica e tipica del territorio come il catarratto. Per produrre questo vino le uve provengono da due vigneti con caratteristiche diverse: Piana Regina e Santa Costanza. Il primo, piantato su argille scure, fornirà struttura al vino mentre Santa Costanza, posto ad altitudine maggiore e su terreno sabbioso, completerà il Buonsenso donando la giusta dose di eleganza e complessità. Il vino, grazie all’altitudine delle vigne, prende i connotati aromatici quasi nordici grazie alle sue nuances di pompelmo rosa, litchi, melone bianco e salvia. Gustoso e intenso all’assaggio, ricco di richiami mediterranei con finale di pimpante freschezza che termina, appagante, su insistenti ritorni limonati e salini. Nota tecnica: vinificazione ed affinamento per 4 mesi in acciaio.


Tasca D’Almerita – Sicilia DOC Bianco “Nozze D’oro” 2018 (inzolia 66%, sauvignon Tasca 34%): questo blend è nato nel 1984 quando il Conte Giuseppe Tasca D’Almerita decise di festeggiare i 50 anni di matrimonio con la moglie Franca attraverso un vino che ripercorresse la storia di famiglia e della Tenuta. Vinificato attraverso lieviti selezionati nelle vigne della proprietà, il vino racconta il territorio di Regaleali attraverso un naso goloso che richiama la pesca gialla, i frutti tropicali, le spezie e il miele millefiori. Al palato risulta intenso, quasi vellutato, dotato di persistenza e piacevoli spunti di freschezza nel finale. Un vino che racconta l’amore non poteva essere altrimenti. Nota tecnica: vinificazione ed affinamento per 4-5 mesi in acciaio.


Tasca D’Almerita – Sicilia DOC Chardonnay “Vigna San Francesco” 2018 (100% chardonnay): uno dei vini più iconici della proprietà è sicuramente questo chardonnay in purezza che non rappresenta altro che la sfida di Lucio Tasca al mondo del vino attraverso un progetto che valorizzasse la Sicilia anche attraverso uno dei vitigni più celebrati e diffusi a livello globale. La Vigna San Francesco, una parcella di circa 5 ettari che si trova ad una altitudine media di 530 metri s.l.m., è stata piantata nel 1985 utilizzando cloni di chardonnay provenienti in parte dalla Borgogna. Il Vigna San Francesco, la cui prima annata è stata la 1989, in questo millesimo si esprime in tutta la sua solarità e il suo equilibrio grazie ad un ottimo bilanciamento tra la parte fruttata, dove ritornano prepotenti le note di papaia e agrumi canditi, e la parte del legno che dona allo chardonnay cremosità e sensazioni aromatiche di spezie dolci e piccola pasticceria. Al palato è potente ma al tempo stesso elegante, dotato di grandissima sapidità e allungo finale. Un vino che strizza l’occhio alla Borgogna e che alla cieca potrebbe dare tante soddisfazioni ad un pubblico esigente. Nota tecnica: fermentazione in barili di Rovere francese (Allier e Tronçais) da 350 litri e successivo affinamento: in barrique di rovere francese (Allier e Tronçais) da 225 litri, 100% nuovi per 18 mesi.


Tasca D’Almerita – Sicilia DOC Perricone “Guarnaccio” 2019 (100% perricone): il perricone, descritto per la prima volta nel 1735, viene allevato in Tenuta fin dal 1959 grazie allo storico vigneto di San Lucio la cui selezione ha permesso poi di costituire nuove vigne come questa, di circa 3 ettari localizzata a Ciminnita, nel palermitano, dove le piante fanno affondare le loro radici all’interno di un suolo argilloso con una piccola percentuale di sabbia in superficie. Questo perricone, detto Guarnaccio dai vignaioli di Regaleali, si presenta dinamico e vibrante nelle sue nuances di giuggiole, mora, lampone ed ancora sentori erbacei e di rosa. Al sorso è decisamente leggiadro, con un tannino ben gestito che garantisce una grande piacevolezza di beva. Vino assolutamente easy, moderno e dotato di grande capacità di abbinamento a tavola. Nota tecnica: fermentazione in acciaio e successivo affinamento in barrique di rovere francese (Allier e Tronçais) da 225 litri, al secondo e terzo passaggio, per circa 12 mesi.


Tasca D’Almerita – Sicilia DOC Cabernet Sauvignon “Vigna San Francesco” 2017 (100% cabernet sauvignon): uno dei vini simbolo di Tasca D’Almerita, l’emblema del lavoro e della lungimiranza di Lucio Tasca a Regaleali, è sicuramente questo cabernet sauvignon piantato nel 1985 nella parte alta della collina di San Francesco ad una altitudine compresa tra i 532 e i 585 metri s.l.m. Questo cabernet sauvignon, grazie anche alla modalità di affinamento in barrique nuove per 18 mesi, è da anni fedele a sé stesso e in questa annata, asciutta e decisamente calda, si presenta con un naso fitto di marasca, mirtilli, cacao, pepe nero, macchia mediterranea, cuoio, con spunti vegetali e di bergamotto a racchiudere il tutto. In bocca calore e struttura sono ben fusi, il tannino è magistralmente levigato e il finale, lungo, di torrefazione, conduce ad una armonica sinfonia finale. Nota tecnica: fermentazione in acciaio e successivo affinamento in barrique di rovere francese (Allier e Tronçais) da 225 litri, 100% nuove per 18 mesi.


Tasca D’Almerita – Contea di Sclafani DOC “Rosso del Conte” 2016 (52% nero d’Avola, 48% perricone): un altro vino iconico della Tenuta Regaleali è sicuramente il Rosso del Conte, nato nel 1970 grazie alla volontà del conte Giuseppe che volle per l’azienda un vino al tempo stesso longevo e di purezza territoriale. Questo storico blend di uve nero d’Avola e perricone, coltivate ad alberello nella vigna San Lucio si presenta nel bicchiere con una veste color rubino carico da cui, con personalità ed eleganza d’antan, si sviluppa un interminabile susseguirsi di aromi di prugna, sottobosco di castagno, rabarbaro, china, tabacco e sbuffi mentolati. Il sorso è ricco di sostanza, è suadente nella progressione ed innervato da fitti tannini e giovanile freschezza che invoglia continuamente la beva. Finale interminabile su richiami speziati. Piccola curiosità: il Rosso del Conte è stato il primo vino da singola vigna prodotto in Sicilia. Nota tecnica: fermentazione in acciaio e successivo affinamento in barrique di rovere francese (Allier e Tronçais) da 225 litri, 100% nuove per 18 mesi.

Il Verdicchio di Matelica: sei vini per scoprire un'eccellenza marchigiana!

Studio Marche continua le sue degustazioni on line alla scoperta dei grandi vini di questa Regione e, come da programma, il terzo appuntamento ha previsto come ospite d’onore il Verdicchio di Matelica, DOC dal 1967 e dal 2010 anche DOCG con il Verdicchio di Matelica Riserva.
Considerato da molti come un bianco travestito da rosso, per me il Verdicchio di Matelica, a differenza di quello dei Castelli di Jesi, non è altre che l’espressione più nordica e algida di questo vitigno grazie al suo particolare terroir di riferimento.


La denominazione, infatti, si estende su quasi 286 ettari attraverso i comprensori di 8 comuni (Matelica, Esanatoglia, Gagliole, Castelraimondo, Camerino e Pioraco nella provincia di Macerata; Cerreto D'Esi e Fabriano in quella di Ancona), nel cuore dell’Alta Vallesina, la sola vallata marchigiana con disposizione Nord-Sud. Un posizionamento parallelo e chiuso rispetto al mare e quindi alla sua azione mitigante, in cui si viene a creare un microclima diverso rispetto a tutte le altre vallate regionali: continentale nelle ore notturne e quindi capace di preservare al meglio l’acidità delle uve; mediterraneo durante il giorno, con un irraggiamento che esalta il contenuto zuccherino degli acini.

Matelica - Foto: wikipedia

Proprio queste particolari condizioni, unite ai terreni calcarei e all’altitudine dei vigneti (tra i 400 e gli 850 metri s.l.m.), influenzano il ciclo vitale del Verdicchio e conferiscono alle uve caratteristiche peculiari che identificano in maniera inequivocabile i vini di Matelica che, soprattutto per la versione “base”, come ho scritto precedentemente, risultano con un profilo più austero e meno solare rispetto ai vini dei Castelli di Jesi.


Matelica e il suo vino hanno anche un’altra peculiarità: sono pochissimi le aziende agricole che imbottigliano il Verdicchio, 26 per quanto riguarda la DOC e solamente 7 per la DOCG ma, nonostante questi bassi numeri, la qualità media dei vini è altissima visto che, con i suoi 19 prodotti premiati nel 2020, il Verdicchio di Matelica DOC e DOCG e il vino bianco italiano a maggior tasso di riconoscimenti in rapporto alla superficie vitata. Una eccellenza riconosciuta anche lo scorso anno da Eric Asimov sul New Tork Times: “Per coloro che si aspettano un semplice vino bianco – ha scritto -, (i Verdicchio di Matelica ndr) offrono piaceri senza complicazioni. Per coloro che desiderano di più, questi vini hanno una marcia in più. Non si può non tenerne in conto il grande valore".

Eric Asimov  - Foto: spanishwinelover.com

La degustazione, organizzata dall’Istituto Marchigiano di Tutela Vini, ha previsto la presenza di sei produttori in rappresentanza della denominazione. Di seguito, come sempre, le mie note di degustazione di vini degustati:

Villa Collepere – Verdicchio di Matelica “Grillì” 2019: questa piccola realtà di circa 4 ettari produce solo due vini ovvero questo Verdicchio e un Colli Maceratesi Rosso Doc. Questo vino, da vigneti posti mediamente a 400 metri s.l.m., è un piccolo vademecum del buon Verdicchio di Matelica da tutti i giorni essendo diretto, senza troppi fronzoli ma ricco delle sfumature aromatiche tipiche dei vini di Matelica: mela verde, sambuco, fiori bianchi. Al sorso conferma la sua tipicità garantita da un nobile mix di acidità e sapidità e da un allungo ammandorlato tipico del vitigno. Il vino fa 4 mesi di affinamento in acciaio più altri 9 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

Casal Lucciola – Verdicchio di Matelica 2019: Studio Marche mi ha fatto scoprire anche aziende che non conoscevo come Casa Lucciola, gestita dalla famiglia Cruciani, che dal 1998 è certificata biologica e dal 2014 pratica in vigna la biodinamica senza però essere certificata. Il Verdicchio di Matelica presentato incarna perfettamente il terroir di Matelica in quanto risulta al naso con quel profilo nordico di cui avevo scritto in precedenza presentando la denominazione. Ha un impatto olfattivo austero e nitido dove ritrovo l’agrume, la pesca bianca, l’uva spina, il mughetto, le erbe aromatiche assieme a tanta suggestione minerale. Al palato è compatto, elegante e sapido e termina con lenti effluvi che ricordano la florealità bianca e il lime. Il vino fa 9 mesi di affinamento in acciaio più altri 6 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

Colpaola – Verdicchio di Matelica 2019: l’azienda, relativamente giovane visto che il primo imbottigliamento risale al 2013, è di proprietà di Francesco Porcarelli ed attualmente è guidata da Stefania (moglie di Francesco) e da Laura Migliorelli (manager), una guida tutta al femminile che strizza l’occhio anche all’innovazione e al packaging visto che il loro unico Verdicchio di Matelica, da vigneti piantati a circa 650 metri s.l.m., è imbottigliato all’interno di una renana col tappo a vite. Non so se questa chiusura abbia fatto evolvere il vino più velocemente, ma ho trovato questo Verdicchio molto più fruttato e solare dei precedenti, con ricordi di scorza di cedro, pesca noce, ginestra e sprazzi erbacei di mandorla verde. Morbido e avvolgente l’impatto gustativo, che resta coeso e ravvivato da vivaci intarsi di sapidità salina. ll vino fa 4 mesi di affinamento in acciaio più altri 2 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

Foto: Simone Di Vito

Cantina Belisario – Verdicchio di Matelica “Vigneti B.” 2019: l’azienda non ha bisogno di molte presentazioni, è una cooperativa nata nel 1971 e con i suoi 300 ha vitati ed una cantina di 30.000 HL di capienza è il più grande produttore di vini della denominazione. Questo vino, il cui nome fa riferimento al fatto che è prodotto da sole uve provenienti da vigneti a conduzione biologica, ha olfatto pervaso da sentori di sambuco, papaia, pesca. Spiccano inoltre note di anice e mandorla amara. Bocca avvolgente, piena, segnata da un gioco di equilibri ben riuscito e da un finale lungo e balsamico di anice. ll vino fa 5 mesi di affinamento in acciaio più altri 6 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

Borgo Paglianetto - Verdicchio di Matelica “Petrara” 2019: nata nel 2008, questa importante cantina di Matelica può contare oggi su circa 30 ettari di proprietà a conduzione biologica. Il loro Petrara, il cui nome si ispira ad una antica zona della città di Matelica, è un Verdicchio di Matelica è intenso nei suoi aromi dove ritrovo la melissa, la frutta esotica, il floreale di ginestra e zagara e un accenno di pietra focaia. Il sorso è di grande personalità, invade il palato regalando equilibrio e sostanza sapida allo stesso tempo. Il ritorno, in retrolfattiva, di frutta matura e mandorla verde, non fa altro che amplificare la piacevolezza di questo vino. ll vino fa 6 mesi di affinamento in acciaio più altri 2 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

La Monacesca – Verdicchio di Matelica 2019: l’azienda, situata in contrada Monacesca, a 4 Km da Matelica, è condotta dal vulcanico Aldo Cifola che da anni rappresenta per me uno dei punti di riferimento per la denominazione. Il suo Verdicchio di Matelica “base” non può lasciare indifferenti per un impatto aromatico iniziale di pietra focaia che col tempo vira verso uno scenario più ampio e variegato di biancospino, camomilla, mandorla, kiwi e percezioni di erbe officinali. In bocca è carezzevole, elegante grazie ad una sferzante acidità e ad una composta alcolicità. Finale lunghissimo e si spessore per un vino che si lascia ricordare anche nel suo vestito più casual. ll vino fa 8 mesi di affinamento in acciaio più altri 4 mesi di bottiglia prima di uscire sul mercato.

Quartomoro –Vino Rosso "Intrecci di Vite MAI" 2012


di Lorenzo Colombo

Descrivere questo vino in 300 battute è impossibile, si riescono a malapena ad elencare le uve che lo compongono, si tratta infatti di un blend di vitigni tipicamente sardi: Carignano, Bovale, Muristellu, Cagnulari e Cannonau provenienti da vigneti ad alberello messi a dimora tra il 1925 ed il 1960. 


A questo punto non vi rimane che procurarvene una bottiglia.

Il Groppello di Revò ed El Zeremia: racconti di vino e di riscoperte


di Lorenzo Colombo

Augusto Zadra detto El Zeremia è stato un personaggio decisamente fuori dal comune, basti pensare che ha messo a dimora il primo bananeto della Val di Non.
El Zeremia nei suoi due ettari di vigneto si era focalizzato sul Groppello di Revò un vitigno locale praticamente scomparso che voleva far conoscere in tutto il mondo, purtroppo se n’è andato nel settembre del 2013 ed ha fatto solamente in tempo a veder realizzata la sua cantina ed assaggiare il primo vino, frutto dell’annata 2011, la sua eredità è stata presa dal figlio Lorenzo, coadiuvato dalla giovane enologa Erika Pedrini, figlia di Domenico, uno dei tre fondatori dell’azienda Pravis. Anche Lorenzo a quanto pare non ha scelto la strada più facile, infatti nel 2018 ha messo a dimora un altro antico vitigno a rischio di estinzione, il Maor, detto anche Groppello bianco.


Quattro i vini prodotti per un totale di 7.000 bottiglie, due dei quali da Groppello di Revò, uno giovane, vinificato in acciaio e l’altro affinato in barriques per dodici mesi, le uve per quest’ultimo provengono da un vigneto ultracentenario, con vini ancora non innestate, gli altri due vini sono prodotti con uve Johanniter, un vitigno appartenente ai PiWI, ossia non soggetto alle malattie fungine, di tratta di un vino bianco fermo ed uno spumante prodotto con il Metodo Classico.

Il Groppello di Revò

Confuso con i vari Groppello della sponda bresciana del Garda il Groppello di Revò è stato recentemente riconosciuto come vitigno a se stante ed è stato inserito nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite nel maggio 2004, unico elemento in comune con gli altri Groppello è dato dalla compattezza del grappolo.


Il vitigno, il cui nome deriva dal paese di Revò, divenuto frazione del comune di Novella il 1° gennaio 2020, è autorizzato nella produzione di tre vini ad Igt del Trentino, la sua superficie vitata nel 2010 risultava essere di 12 ettari mentre la produzione vivaistica di barbatelle ha raggiunto un picco di 6.000 unità nel 2008 per poi affievolirsi (nel 2018 se ne sono prodotte 360 unità).
 

Vitigno antico, la cui presenza è attestata da documenti risalenti al ‘500, durante il periodo di appartenenza del Trentino all’impero austro-Ungarico la sua produzione era arrivata ai 50 mila ettolitri, ora non se ne producono che 200 ettolitri, ad opera di un piccolo gruppo di vignaioli tra i quali appunto l’Azienda El Zeremia che è stata la principale artefice della su riscoperta. 
Tra le cause della quasi scomparsa del vitigno sono da annoverare certamente il flagello della fillossera e l’acquisizione del Trentino da parte dell’Italia, con spostamento dell’importanza del vino in favore della frutticoltura. Altra caratteristica particolar del Groppello di Revò è data dal fatto che, contrariamente alla maggior parte dei vitigni autoctoni trentini, generalmente allevati a Pergola, per lui si è sempre utilizzato il filare.

Il vino

La limitatissima produzione deriva da un vigneto di 0,2 ettari situato sulle sponde del Lago di santa Giustina, in località Sperdossi del comune di Revò, a 700 metri d’altitudine e con elevata pendenza, su suolo sabbioso di natura calcarea, le viti, allevate a Guyot ed esposte a Sud-Est hanno un’età variabile dai 100 ai 120 anni e danno una resa di 30-40 q.li/ha.


La vendemmia viene effettuata nella prima decade del mese d’ottobre, la vinificazione, effettuata in vasche d’acciaio, prevede una macerazione per due settimane, mentre l’affinamento s’effettua in barriques nuove per 12 mesi.


Iniziamo subito col dire che non è un vino di facile approccio, manca di quella morbidezza, di quella ruffianeria e di quella neutralità accattivante che lo fa piacere al grande pubblico, soprattutto ai consumatori che nel vino vedono unicamente un effimero piacere.  Si tratta invece di un vino che va assaporato innanzitutto con la testa.



Il suo colore è granato trasparente, mediamente intenso. Nessuna esplosività al naso, i sentori sono di frutta rossa selvatica, con note terrose di sottobosco umido, cuoio, ricordi d’erbe aromatiche, leggeri accenni speziati e vanigliati ricordano che è stato affinato in barriques.

Foto: Andrea Aldrighetti

Asciutto al palato, mediamente strutturato, quasi esile, nuovamente cogliamo le sue note selvatiche, il tannino ruspante, accenni di caffè e di pepe, la vaniglia ed il legno si colgono meglio che al naso, probabilmente necessiterebbe di più tempo per armonizzarsi meglio. Un vino che, piaccia o meno non passa certo inosservato.

Alla scoperta del Pinot Nero dell'Oregon!


di Rachele Bernardo

Che cosa ha il Pinot Noir dell’Oregon che lo rende così speciale? Gli esperti di vino discutono spesso al riguardo e noi vi faremo capire i motivi!


Parlando di Pinot Noir, è chiaro che solo poche regioni al mondo hanno dimostrato risultati eccezionali con quest'uva antica e l'Oregon rientra in questo piccolo club.
La storia del Pinot Noir inizia nella regione francese della Borgogna e risale almeno al I secolo d.C., è lì che è fiorito nonostante la sua tendenza ad esser un vitigno difficile da coltivare, con basse rese e varie malattie da evitare. Sebbene l’uva di Pinot Noir viene allevata in altri luoghi, i risultati non sono sempre eccezionali.


L’Oregon viene spesso indicato come la Borgogna del Nuovo Mondo, affermando che alcuni vini hanno un carattere "borgognone", ma se pensassimo bene al concetto di “terroir” ci renderemmo conto di quanto sia errata questa affermazione. La realtà è che la terra ed il clima dicono come coltivarlo e terroir diversi richiedono tecniche diverse.
I produttori dell'Oregon non producono vini che imitano la Borgogna, ma vini che riflettono il terroir unico dell'Oregon.


Vi sono somiglianze e differenze tra questi territorio, partendo dal clima più marittimo, con più umidità, che determina l’esposizione dei vigneti principalmente a sud in Oregon.
Anche il suolo fa la sua parte, la Willamette Valley ha suolo vulcanico (chiamato Jory) con sedimenti marini e basalti, ma non calcare. All’interno di ogni regione c’è eterogeneità: a livelli più bassi si trovano i terreni Missoula Flood che sono più ricchi di nutrienti e tendono a produrre con vigore; nella parte più collinare della Dundee Hills Ava, il suolo vulcanico è ricco di argilla e ferro, i vini di questi terreni esibiscono una certa terrosità e mineralità che sono diventate la loro firma; il suolo sedimentario, chiamato localmente Willakenzie, ha una consistenza secca simile al talco e nelle AVA di Ribbon Ridge, Yamhill-Carlton e McMinnville, conferisce ai vini struttura e capacità di invecchiamento; infine c'è il loess, un terriccio limoso mosso dal vento che spesso dona ai vini un finale pepato su frutti di ciliegia rosso vivo.


Gli attributi che rendono questa valle adatta alla crescita del Pinot Noi, con gradevole clima fresco, includono la protezione offerta dalle Cascade Mountains a est, le montagne Coast Range a ovest e una serie di colline più basse all'estremo nord della valle.


La Willamette Valley American Viticultural Area (AVA) dell'Oregon è riconosciuta come la zona migliore dell’Oregon, dove il Pinot ha prosperato per esplorare il suo vasto potenziale. Il freddo rappresenta la condizione climatica di partenza per la coltivazione di un’uva che in fasce climatiche più temperate o in zone più soleggiate sembra perdere il suo stato di grazia. L'industria dell'Oregon Pinot Noir trova le sue radici in California, con viticoltori che non erano stati in grado di produrre Pinot eccezionali nel loro clima caldo e secco.

Superati gli anni del proibizionismo, il comparto vitivinicolo riparte lentamente, per prendere poi velocità negli anni ‘60 coadiuvata da investimenti di aziende francesi e da pioneristici impianti di Pinot Noir a nord verso le condizioni di crescita più fresche e umide della Willamette Valley. Nel 1965 questa era solo un'area rurale a sud di Portland, punteggiata da alcune piccole città e in gran parte coperta da foreste e da poche colture alimentari.

È stato in tale contesto che un appassionato di Borgogna, David Lett, ha deciso che questo sarebbe stato un posto perfetto per piantare il Pinot Noir. Lasciò la California settentrionale con qualche migliaio di talee e si diresse verso Dundee, al centro della Willamette Valley. Alcuni anni dopo fu seguito da altri due pionieri Chuck Coury e Dick Erath. Ognuno di loro ha condiviso la visione del potenziale di questa zona per coltivare il Pinot Noir.

Nel 1979 la convinzione si è trasformata in realtà quando il Pinot Noir Riserva Eyrie Vineyards di David Lett 1975 vinse il massimo dei riconoscimenti per il Pinot Noir alle Olimpiadi del vino di Parigi, battendo molti nomi di spicco della Borgogna. Nel 1983 la Willamette Valley ha ottenuto lo status ufficiale di American Viticultural Area ("AVA").


Ora è riconosciuta in tutto il mondo come una delle migliori regioni vinicole dal clima fresco. Dopo decenni di sperimentazione, la valle oggi comprende sette sub-AVA. In ognuna si produce uno stile distinto di Pinot Noir, basato sulle differenze di terreno, elevazione, aspetto, agricoltura e scelte del produttore di vino; ogni regione sa trasmettere una vibrazione diversa.


La Willamette Valley ospita i due terzi delle cantine e dei vigneti dello stato, quasi 800 aziende vinicole e questo vitigno continua ad essere il protagonista della scena del vino. I progressi nelle pratiche di vigneto e gli aggiustamenti della vinificazione hanno temperato e addomesticato gli enormi Pinot Noir prodotti inizialmente. L'obiettivo è la complessità piuttosto che la potenza pura. Nel tempo anche la California ha scoperto alcune regioni di coltivazione dal clima più fresco, favorevoli al Pinot Noir (la Sonoma Valley) ma in Oregon l'uva produce risultati migliori, vini di qualità e di grande finezza, con tannini setosi e una complessità di sapori. Sono vini rossi sfumati, con un'elevata acidità che non sempre esplodono di frutti vigorosi.

Willamette Valley

Vi sono più fattori da considerare nello stile di questo Pinot: il tempo inclemente in primavera e in autunno; la posizione del vigneto: la nebbia mattutina nella Willamette Valley che indica come i pendii esposti a sud sono ideali; la complessità e il corpo derivante dall'invecchiamento della quercia: alcuni produttori utilizzano però botti di rovere francese di alta qualità per un invecchiamento più lungo. Il rovere francese aggiunge al vino note di cannella, chiodi di garofano e vaniglia. 

Quasi il 90% del Pinot Noir prodotto in Oregon proviene dalla Willamette Valley AVA, un'ampia valle orientata da sud a nord sul lato orientale della Coast Range of Oregon.  All'interno della Willamette Valley ci sono 7 sottoregioni più piccole che sono diventate l'epicentro della scena vinicola del Pinot in Oregon. Le montagne fungono da leggero cuscinetto per la fredda costa dell'Oregon, ma la valle sperimenta alcune delle condizioni più umide di altre regioni vinicole.


Le montagne Chehalem sono, in effetti, le colline a sud-ovest di Portland. I vigneti, in questa località, stanno vivendo una crescita eccezionale a causa della loro vicinanza alla città. Alcuni dei più audaci vini Pinot Noir (con sentori di ciliegia, tè nero e cannella) provengono dalle montagne di Chehalem AVA. Produttori: J. Christopher, Raptor Ridge, Rex Hill, Sineann, Ponzi Vineyards, J. Albin.

Ribbon Ridge si trova in realtà nelle montagne di Chehalem, ma poiché si dirama sul versante meridionale delle montagne, con un terreno e un tipo di clima leggermente diversi, ha guadagnato il proprio AVA. Ribbon Ridge produce Pinot Noir con sapori intensi di mirtillo rosso e note rustiche terrose. Produttori: Beaux Freres, Brick House, Patricia Green

Dundee Hills (aromi di lampone e tè nero)
Alcuni dei vigneti più antichi si trovano in questa zona, tra cui Eyrie Vineyards, che fu il primo a impiantare viti di Pinot Noir nel 1965. Vi sono anche Chardonnay e spumanti. Dundee Hills ha un'alta densità di viticoltori: Four Graces, Domaine Serene, Roco Winery, Archery Summit, White Rose, Eyrie Vineyards, Willful, Torii Mor

I migliori vigneti di Yamhill-Carlton si trovano sulle basse colline a sud-ovest di Ribbon Ridge. In questa zona molto estesa, il clima è più caldo nelle ore pomeridiane, nei vini si riscontrano aromi fruttati di amarena. Produttori: Big Table Farm, Shea Vineyards, Anne Amie Vineyards, Wilakenzie Estate, Penner Ash, Soter, Belle Pente.

Un'area in crescita prende il nome dalla città pittoresca di McMinnville. I vigneti esposti a sud promettono di produrre un Pinot Noir ricco di ciliegia scura e prugna. L’angolo di inclinazione dei vigneti fa la differenza nel sapore dei vini, alcuni sono molto rustici con note di pino ed erbe aromatiche. Produttori: NW Wine Company, Hyland Estates, Yamhill Valley Vineyards.

Eola-Amity Hills (prugne, ribes e spezie)
Questa zona vinicola si estende lungo una bassa serie di colline che conducono a sud, verso Salem. Tutti i migliori vigneti sono sui pendii esposti a sud-est, uno scenario fantastico perché le pianure esplodono con fattorie di luppolo che sfociano poi nei vigneti in collina. Il Pinot Noir delle colline di Eola-Amity ha ricchi sapori di prugna e ribes con sottili aromi di spezie. Produttori: Cristom, St. Innocent, Evesham Wood.

Una nuova regione vinicola, Van Duzer Corridor, si trova all'interno della Willamette Valley, a ovest di Salem, e vicino a Eola-Amity Hills AVA. È una grande area in crescita in Oregon, con sei cantine vincolate e quasi 1.000 acri piantati (405 ettari). Il corridoio Van Duzer prende il nome da una fessura nella catena costiera che conduce all'Oceano Pacifico. Il passaggio provoca un effetto di induzione che aspira aria fresca nella Willamette Valley dall'Oceano Pacifico. I venti iniziano a raffiche alle 14:30 del pomeriggio. "È quasi un timer” e donano benefici alle uve: l’aria fresca rallenta la maturazione e aiuta a mantenere l'acidità, facendo si che i coltivatori di Van Duzer Corridor possano raccolgliere l'uva circa una settimana o più dopo tutti gli altri. Inoltre conferiscono all'uva bucce più spesse, il che aumenta la concentrazione di colore, gli aromi e il potenziale tannico. Dopo la pioggia, i vigneti si seccano rapidamente, il che riduce la pressione delle malattie.


Per degustare un ottimo Pinot Noir dell'Oregon è meglio prestare attenzione all'annata. A differenza di alcune zone climatiche più calde, il vino dell'Oregon dipende molto dal tempo. La differenza di gusto tra le diverse annate può essere sorprendente. Le annate più fresche producono vini più eleganti e magri che invecchiano bene, mentre le annate più calde producono vini più ricchi, fruttati e opulenti. Come si può immaginare, non è stato facile selezionare tra tante bottiglie eccellenti.

Ma qui ci sono alcune mie scelte:

Acrobat Pinot Noir 2016, da uve coltivate sulle colline e nelle valli dell'Oregon occidentale della Willamette Valley


Erath Pinot Noir 2016: Erath, uno dei pionieri della Willamette Valley dell'Oregon e principale produttore della regione di Pinot.


Patricia Green Cellars Volcanic 2017: viti clone Pommard di Pommard di 44 anni e il Dijon 115 di 18 anni; sito piantato nel 1990, influenze vulcaniche del suolo Dundee Hills.


Willamette Valley Vineyards, Whole Cluster Pinot Noir 2017: un mix di cloni di Pommard e Wädenswil, tutti fermentati con interi grappoli (compresi i raspi) che vengono delicatamente convogliati in serbatoi di acciaio inox, riempiti poi con CO2 (Macerazione carbonica)


Anche per il Pinot Noir si parla di selezione clonale. I produttori di vino si sono resi conto che i diversi cloni danno luogo a diversi livelli di qualità e gusti nel vino. Alcuni cloni di Pinot Noir producono vini audaci e robusti mentre altri sono di colore chiaro con aromi floreali più sorprendenti. Ci sono oltre 40 diversi cloni di Pinot Nero documentati nel Catalogo delle varietà e dei cloni di vite e circa 15 di questi cloni sono popolari in tutto il mondo per la loro qualità.


Oltre ai grandi vini, l’Oregon offre una natura strepitosa. A due passi dalla Willamette Valley, la West Coast americana si affaccia sul Pacifico. Volendo proseguire verso le regioni vinicole più a sud (The Rogue e Umpqua Valley) vale la pena di seguire il tracciato della Highway 101, strada leggendaria che mostra una meraviglia dietro l’altra. Procedendo verso sud il litorale si fa scosceso, con una successione di baie, scogliere, faraglioni e fari. Newport ha un centro storico vivace, un mercato del pesce colorato e ospita l’Oregon Coast Aquarium. Dall’alto delle scogliere di Yachats si possono avvistare i profili imponenti delle balene, mentre nelle aree sabbiose intorno a Cape Perpetua si incontrano i leoni marini.

Coos Bay

Coos Bay, 50 miglia di dune vive, è un paesaggio in continua trasformazione e un paradiso per le passeggiate, perfetto per i bagni di sole e la contemplazione della natura. Se la costa è spettacolare l’entroterra non è da meno. A tre ore dal mare c’è Crater Lake: il cono del vulcano oggi custodisce il cobalto e il viola del lago. Lo sguardo vola per chilometri in ogni direzione fino alla catena di vulcani innevati che caratterizza il Far West: Shasta, Mount St. Helens (che esplose in un’apocalittica eruzione nel 1980), Mount Hood, Mount Rainier. Raggiungere le altre regioni vinicole, WallaWalla e Columbia, significa percorrere lo straordinario Columbia River Gorge. Qui la potenza scultorea dell’acqua ha disegnato il grande canyon che taglia la nera colata di lava preistorica, al confine tra l’Oregon e lo Stato di Washington. 

Multnomah Falls

Pareti verticali che precipitano per centinaia di metri, imponenti cascate, verdi e fitte foreste pluviali. La più spettacolare delle cascate è Multnomah Falls, un salto nel nulla di 192 metri di altezza.

Dievole - Chianti Classico 2017


di Stefano Tesi

Capita di trovarsi d’accordo con critici famosi dei quali di solito non si condivide nulla. E’ il caso di questo bel Chianti Classico (bio), che rintuzza le inside dell’annata calda e siccitosa con un frutto netto e diretto e una impronta varietale per niente disturbata dall’accenno surmaturo. 


In bocca è elegante e verticale, insomma benone!

Tutto il mondo del Roero, e dei suoi vini, a portata di click!


di Stefano Tesi

La storia geologica d’Italia è anche un po’ la storia del vino e delle sue regioni d’elezione. Nello specifico del Roero, l’enclave più settentrionale di quello che si potrebbe chiamare (con Barolo e Barbaresco) il trittico piemontese del Nebbiolo, la “colpa” della sua nascita – se non tutta, buona parte – fu di quando, sei milioni di anni fa, il Po arrivava fino in Calabria e si gettava nello Ionio. E poi del Tanaro che, 250mila anni fa, invece di svoltare a est subito oltre l’odierna Alba, puntava dritto verso dove sarebbe sorta Torino.




E’ da quest’intreccio di fiumi che deviano, nonché di mari che si alzano e si ritraggono, lasciandosi alle spalle sedimenti, rocce e affioramenti, che prese vita il suolo su cui oggi fioriscono le colline, le rocche e i vigneti che connotano questo territorio, elevato a DOCG nel 2004. E dal 2013 tutelato da un consorzio, presieduto da Francesco Monchiero, che raccoglie 236 soci, dei quali 155 produttori. 
La denominazione (circa 7 milioni di bottiglie, delle quali oltre il 60% destinato all’esportazione) contava nel 2020 un totale di 1.180 ha, di cui 907 ad Arneis e 273 a Nebbiolo. Il marcato squilibrio di ettaraggio tra i due vitigni-pilastro della docg non è sfuggito a noi occhiuti IGP, invitati la settimana scorsa ad un interessante seminario on line organizzato specificamente per noi da Gheusis, l’ufficio stampa consortile.
La domanda è sorta allora spontanea: il rapporto tra le superfici di Nebbiolo e Arneis è di 1:4, non è che del secondo se ne produce un po’ troppo?

Mappa Geologica


Francesco Monchiero non ci ha girato intorno: “Si tratta della coda dell’effetto emulativo conseguente alla riscoperta dell’Arneis”, ha detto. ”Il vitigno era attestato dalle nostre parti già dai documenti della fine del ‘400, ma negli anni ’70 del Novecento era a un passo dalla scomparsa. La sua rinascita, che ha anche coinciso con l’avvio della produzione secca, ha spinto i viticoltori a piantarne parecchio ed un po’ ovunque, spesso in zone meno vocate visto che le aree migliori erano riservate al Nebbiolo. Da qui una certa proliferazione che tuttavia, fin dalla sua nascita, il consorzio sta cercando di governare”. 

MGA del Roero

Un percorso evolutivo che è anche alla radice dei molti stili dei Roero Bianco (cioè Arneis), dimostrata dai sei campioni propostici in degustazione: “L’identità del nostro vino sta cambiando ed aprendosi a ventaglio per tutta una serie di ragioni: già il disciplinare ne prevede tre tipologie (Bianco, Bianco con Menzioni Geografiche Aggiuntive e Bianco Riserva), comincia poi a pesare anche l’età delle vigne, visto che ormai ne abbiamo alcune di oltre trent’anni – spiega Monchiero – e il fatto che stanno mutando pure le tecniche di vinificazione. Difficile quindi codificare una fisionomia precisa per questo vino”. 

Grappolo di Arneis

Per non parlare del quid pluris dato dalle ben 135 GMA riconosciute dal disciplinare: “Solo il 25% del nostro territorio fa parte di una di esse e solo il 50% della superficie vitata è all’interno di una MGA”, chiarisce il presidente, “mentre nel 2017 il 10% del Roero Bianco e il 40% del Roero Rosso risultavano rivendicati con MGA”.

Grappolo di Nebbiolo

Conquistati nel panorama vinicolo nazionale un’identità commerciale e uno spazio proprio tra le pur ingombranti DCOG vicine, la scommessa per la denominazione è ora duplice: da un lato assecondare anche sotto il profilo agronomico un filone “green” che sembra sempre più ineludibile (“abbiamo approvato l’idea di una progressiva abolizione dei diserbi chimici”, dice Monchiero” e stiamo cominciando ad applicarla”) e dall’altro sviluppare il territorio in chiave di più marcata destinazione enoturistica.


Nasce in quest’ottica il progetto dei Wine Tour tra i CRU del Roero, in collaborazione con l’Ecomuseo delle Rocche del Roero: escursioni a piedi o in bici, disegnati a margherita, alla scoperta dei vigneti di maggior attraverso quattro itinerari che toccano anche i punti di maggiore interesse paesaggistico e naturalistico, centri storici, botteghe artigiane, gastronomie, ristoranti e strutture ricettive. Il tutto con una guida interattiva: un’app gratuita con una voce che accompagna i visitatori sul percorso, raccontando curiosità e aneddoti.


Oltre a parlarne, ovviamente, durante il seminario il vino lo si è anche bevuto, grazie alla selezione di sette Roero Bianco e di cinque Roero Rosso, che da un lato hanno confermato la varietà di stili e di inclinazioni all’interno della DOCG, dall’altro hanno ribadito la tendenziale eleganza che il territorio conferisce ai prodotti.

Ecco l’elenco dei vini assaggiati, sul dettaglio dei quali scenderanno i colleghi IGP:

- Ridaroca, Roero Bianco 2020

- De Stefanis, Roero Bianco 2020 “Radius”

- Casetta, Roero Bianco 2020 “Raiz”

- Montaribaldi, Roero Bianco 2020 “Capural”

- Cauda, Roero Bianco 2019

- Paitin, Roero Bianco 2019 “Elisa”

- Battaglino, Roero 2018 “Colla”

- Careglio, Roero Rosso 2011

- Cascina Chicco, Roero Rosso Riserva 2012 “Valmaggiore”

- Antica Cascina dei Conti di Roero, Roero Rosso Riserva 2015

- Almondo, Roero Rosso 2016 “Bric Valdiana”

- Ca’ Rossa, Roero Rosso Riserva 2017 “Mompissano”

Anteprima del Chiaretto di Bardolino 2021: i cinque migliori vini da acquistare!

In tempi di pandemia, con tutte le restrizioni legate ai viaggi e al distanziamento sociale, in Italia molte Anteprime del vino come, ad esempio, quella del Chiaretto di Bardolino che è stata ripensata dal Consorzi in una veste tutta nuova divisa in due fasi. La prima ha coinvolto la stampa italiana e internazionale, oltre che i blogger e gli influencer del mondo del vino mentre la seconda fase dell’Anteprima del Chiaretto, invece, coinvolgerà i produttori e i ristoranti della città di Verona nel mese di maggio, quando prenderà il via anche la seconda edizione di 100 Note in Rosa, manifestazione che animerà le serate estive della città scaligera, della provincia e della riviera gardesana con i migliori talenti musicali di Verona.


Io ho partecipato alla prima fase che, nel dettaglio, ha visto l’invio da parte del Consorzio di 50 campioni di Chiaretto di Bardolino della nuova annata ricondizionati in bottigliette di vetro di Vignon® del contenuto di 5 cl, ovvero il quantitativo normalmente servito nelle degustazioni professionali. 


Assieme ai campioni di Chiaretto di Bardolino, verranno inviati anche degli assaggi di formaggio Monte Veronese Dop e un libricino, che ho chiamato il Bignami Rosa, dedicato al Chiaretto.


Prima di addentrarmi nei miei migliori assaggi, è opportuno, soprattutto per chi non conosce molto questa tipologia di vino, dare qualche informazione in più sul Chiaretto ovvero il vino rosa della sponda orientale del lago di Garda, in provincia di Verona il cui nome deriva dall’aggettivo latino “clarum”, che significa “chiaro".


Le origini del Chiaretto risalgono all’epoca imperiale romana, quando vennero istituite le province della Gallia Cisalpina, che comprendeva il lago di Garda, e della Gallia Transalpina, che includeva la Provenza. In entrambe le province, i Romani svilupparono la viticoltura attraverso il modello agricola della “villa rustica” e l’introduzione degli antichi torchi da vino. L’uso del torchio non prevede un contatto prolungato tra il mosto e le bucce dell’uva (che contengono le sostanze coloranti), per cui i vini prodotti in epoca antica nelle due Gallie erano di colore rosa. Il più antico documento locale che menziona la parola "Chiaretto" legata al vino è l’edizione del Vocabolario della Crusca stampato a Verona nel 1806. In tale vocabolario della lingua italiana si includevano mille vocaboli raccolti nel territorio veronese e uno di questi era proprio la parola Chiaretto riferita al vino.


Il Chiaretto di Bardolino ebbe il riconoscimento della DOC nel 1968 all’interno della denominazione di origine del Bardolino (il nome allora utilizzato era Bardolino Chiaretto). Fu una delle prime DOC italiane.


Con la vendemmia 2014, i produttori di Chiaretto hanno messo in atto la Rosè Revolution, orientata a valorizzare il colore delicato delle uve autoctone locali e a mettere in luce i profumi agrumati della Corvina Veronese, l’uva principale del territorio, quando viene vinificata utilizzando una pressatura molto soffice. Nella primavera del 2021, con la modifica del disciplinare di produzione, la denominazione ha adottato ufficialmente il nome Chiaretto di Bardolino, rimarcando ancora di più la forte identità territoriale del vino rosa veronese.


Da un punto di vista strettamente produttivo, il disciplinare di produzione prevede che il Chiaretto di Bardolino sia prodotto con uve autoctone della zona, ossia la Corvina Veronese, ora utilizzata fino al 95% dell’uvaggio, e la Rondinella (min. 5%) le cui bucce, povere di antociani, hanno una naturale vocazione alla produzione di vini di colore chiaro soprattutto se c’è stato un breve contatto del mosto con la buccia dell’uva.


Fatta questa opportuna premessa, dei cinquanta campioni degustati durante l’Anteprima, tutti mediamente di buon livello, solo cinque, però, sono stati quelli che mi hanno davvero emozionato e che, a mio parere, hanno raggiunto un livello di complessità e territorialità davvero esaltanti che si traducono spesso in corredi olfattivi ricchi di erbe aromatiche, di agrumi e frutti di bosco mentre il palato, freschissimo, in alcuni grandi Chiaretto è corredato da note saline davvero corroboranti e tipiche delle vigne coltivati su suoli di origine morenica come quelli interessati da questa denominazione.


Di seguito, in ordine assolutamente causale, la mia TOP 5:

Cantina Caorsa – Chiaretto di Bardolino Classico 2020: non so se sia stata la sorpresa maggiore in questa Anteprima ma questa cantina, di proprietà del Consorzio Agrario del Nordest, ha prodotto un Chiaretto di Bardolino estremamente godibile soprattutto al sorso che, contrapponendosi ad un naso molto delicato su note di ribes e lampone, si impone per impatto vigorosamente agrumato a cui segue una vibrante scia salina che richiama il territorio e, soprattutto, il bicchiere successivo.

Gorgo – Chiaretto di Bardolino Bio 2020: da uve rigorosamente biologiche nasce questo vino che mi ha colpito per un corredo aromatico che richiama le spezie rosse piccanti, la gelatina di lamponi, la rosa e il pompelmo. Al sorso entra inizialmente misurato poi esplode dopo qualche secondo in una cannonata fresca che non lascia il palato per minuti.

Le Tende - Chiaretto di Bardolino Bio 2020: un altro Chiaretto da uve biologiche, coltivate nella zona di Lazise, che ho scelto di premiare per la sua eleganza quasi provenzale, per il suo essere rigoroso e signorile nelle suo sfumature di rosa appassita, lavanda e buccia di frutta fresca. Piacevolissimo al sorso grazie dove irrompe un treno di acidità e un vortice di salinità, quasi lacustre, che non dà tregua alla persistenza.

Le Muraglie – Chiaretto di Bardolino “Birò” 2020: tra i cinquanta campioni, probabilmente, questo è stato il vino che ha dimostrato al naso, sempre a mio parere, la maggiore complessità. E’ un Chiaretto dove nel bicchiere esplode nettamente un abbraccio olfattivo tra effluvi di petalo di rosa, pesca, spezie rosse, lampone, pompelmo rosa e succo di melograno. Bocca di speculare bellezza, compatta, salina, termina tra sospiri di agrumi e frutti rossi.

Lenotti – Chiaretto di Bardolino Classico “Decus” 2020: gelatina di acqua di rose, confetto, litchi, mandarino ed erbe aromatiche si fondono in un armonioso concerto olfattivo. Al palato risuona la stessa musica, leggiadra e ritmata dal gioco contrappunto acido-sapido che fa da detonatore ad un sontuoso finale di agrumi e sale.