Anteprima del Chiaretto di Bardolino 2021: i cinque migliori vini da acquistare!

In tempi di pandemia, con tutte le restrizioni legate ai viaggi e al distanziamento sociale, in Italia molte Anteprime del vino come, ad esempio, quella del Chiaretto di Bardolino che è stata ripensata dal Consorzi in una veste tutta nuova divisa in due fasi. La prima ha coinvolto la stampa italiana e internazionale, oltre che i blogger e gli influencer del mondo del vino mentre la seconda fase dell’Anteprima del Chiaretto, invece, coinvolgerà i produttori e i ristoranti della città di Verona nel mese di maggio, quando prenderà il via anche la seconda edizione di 100 Note in Rosa, manifestazione che animerà le serate estive della città scaligera, della provincia e della riviera gardesana con i migliori talenti musicali di Verona.


Io ho partecipato alla prima fase che, nel dettaglio, ha visto l’invio da parte del Consorzio di 50 campioni di Chiaretto di Bardolino della nuova annata ricondizionati in bottigliette di vetro di Vignon® del contenuto di 5 cl, ovvero il quantitativo normalmente servito nelle degustazioni professionali. 


Assieme ai campioni di Chiaretto di Bardolino, verranno inviati anche degli assaggi di formaggio Monte Veronese Dop e un libricino, che ho chiamato il Bignami Rosa, dedicato al Chiaretto.


Prima di addentrarmi nei miei migliori assaggi, è opportuno, soprattutto per chi non conosce molto questa tipologia di vino, dare qualche informazione in più sul Chiaretto ovvero il vino rosa della sponda orientale del lago di Garda, in provincia di Verona il cui nome deriva dall’aggettivo latino “clarum”, che significa “chiaro".


Le origini del Chiaretto risalgono all’epoca imperiale romana, quando vennero istituite le province della Gallia Cisalpina, che comprendeva il lago di Garda, e della Gallia Transalpina, che includeva la Provenza. In entrambe le province, i Romani svilupparono la viticoltura attraverso il modello agricola della “villa rustica” e l’introduzione degli antichi torchi da vino. L’uso del torchio non prevede un contatto prolungato tra il mosto e le bucce dell’uva (che contengono le sostanze coloranti), per cui i vini prodotti in epoca antica nelle due Gallie erano di colore rosa. Il più antico documento locale che menziona la parola "Chiaretto" legata al vino è l’edizione del Vocabolario della Crusca stampato a Verona nel 1806. In tale vocabolario della lingua italiana si includevano mille vocaboli raccolti nel territorio veronese e uno di questi era proprio la parola Chiaretto riferita al vino.


Il Chiaretto di Bardolino ebbe il riconoscimento della DOC nel 1968 all’interno della denominazione di origine del Bardolino (il nome allora utilizzato era Bardolino Chiaretto). Fu una delle prime DOC italiane.


Con la vendemmia 2014, i produttori di Chiaretto hanno messo in atto la Rosè Revolution, orientata a valorizzare il colore delicato delle uve autoctone locali e a mettere in luce i profumi agrumati della Corvina Veronese, l’uva principale del territorio, quando viene vinificata utilizzando una pressatura molto soffice. Nella primavera del 2021, con la modifica del disciplinare di produzione, la denominazione ha adottato ufficialmente il nome Chiaretto di Bardolino, rimarcando ancora di più la forte identità territoriale del vino rosa veronese.


Da un punto di vista strettamente produttivo, il disciplinare di produzione prevede che il Chiaretto di Bardolino sia prodotto con uve autoctone della zona, ossia la Corvina Veronese, ora utilizzata fino al 95% dell’uvaggio, e la Rondinella (min. 5%) le cui bucce, povere di antociani, hanno una naturale vocazione alla produzione di vini di colore chiaro soprattutto se c’è stato un breve contatto del mosto con la buccia dell’uva.


Fatta questa opportuna premessa, dei cinquanta campioni degustati durante l’Anteprima, tutti mediamente di buon livello, solo cinque, però, sono stati quelli che mi hanno davvero emozionato e che, a mio parere, hanno raggiunto un livello di complessità e territorialità davvero esaltanti che si traducono spesso in corredi olfattivi ricchi di erbe aromatiche, di agrumi e frutti di bosco mentre il palato, freschissimo, in alcuni grandi Chiaretto è corredato da note saline davvero corroboranti e tipiche delle vigne coltivati su suoli di origine morenica come quelli interessati da questa denominazione.


Di seguito, in ordine assolutamente causale, la mia TOP 5:

Cantina Caorsa – Chiaretto di Bardolino Classico 2020: non so se sia stata la sorpresa maggiore in questa Anteprima ma questa cantina, di proprietà del Consorzio Agrario del Nordest, ha prodotto un Chiaretto di Bardolino estremamente godibile soprattutto al sorso che, contrapponendosi ad un naso molto delicato su note di ribes e lampone, si impone per impatto vigorosamente agrumato a cui segue una vibrante scia salina che richiama il territorio e, soprattutto, il bicchiere successivo.

Gorgo – Chiaretto di Bardolino Bio 2020: da uve rigorosamente biologiche nasce questo vino che mi ha colpito per un corredo aromatico che richiama le spezie rosse piccanti, la gelatina di lamponi, la rosa e il pompelmo. Al sorso entra inizialmente misurato poi esplode dopo qualche secondo in una cannonata fresca che non lascia il palato per minuti.

Le Tende - Chiaretto di Bardolino Bio 2020: un altro Chiaretto da uve biologiche, coltivate nella zona di Lazise, che ho scelto di premiare per la sua eleganza quasi provenzale, per il suo essere rigoroso e signorile nelle suo sfumature di rosa appassita, lavanda e buccia di frutta fresca. Piacevolissimo al sorso grazie dove irrompe un treno di acidità e un vortice di salinità, quasi lacustre, che non dà tregua alla persistenza.

Le Muraglie – Chiaretto di Bardolino “Birò” 2020: tra i cinquanta campioni, probabilmente, questo è stato il vino che ha dimostrato al naso, sempre a mio parere, la maggiore complessità. E’ un Chiaretto dove nel bicchiere esplode nettamente un abbraccio olfattivo tra effluvi di petalo di rosa, pesca, spezie rosse, lampone, pompelmo rosa e succo di melograno. Bocca di speculare bellezza, compatta, salina, termina tra sospiri di agrumi e frutti rossi.

Lenotti – Chiaretto di Bardolino Classico “Decus” 2020: gelatina di acqua di rose, confetto, litchi, mandarino ed erbe aromatiche si fondono in un armonioso concerto olfattivo. Al palato risuona la stessa musica, leggiadra e ritmata dal gioco contrappunto acido-sapido che fa da detonatore ad un sontuoso finale di agrumi e sale.

I Borboni - Vino Spumante di Qualità Asprinio Brut


di Luciano Pignataro

Sono ormai 30 anni che questo spumante cavalca l'onda del successo oltre le mode. La bella azienda della famiglia Numeroso fu infatti la prima ad intuire le potenzialità dell'Asprinio spumantizzato le cui uve sono allevate secondo il sistema dell'alberata aversana.


Una bollicina inesauribile, cedro 
puro, freschissima, appagante, lunga. Viva l'estate!

A Montevetrano c'è un Core grande così!


di Luciano Pignataro

Il progetto Core nasce nel 2011: dopo aver tenuto un solo grande vino sul mercato, parliamo del Montevetrano, Silvia Imparato decide di affiancargli un rosso da aglianico come vino di ingresso. Fu una scelta molto meditata, una scommessa all'epoca piena di incognite ma che alla fine è risultata oculata e intelligente. 

Silvia Imparato - Foto: Pignataro wine blog

Il Montevetrano, lo ripetiamo per l'ennesima volta, è un vino cult per tanti appassionati, fu lanciato alle stelle da Parker che apprezzò la declinazione meridionale del taglio bordolese di cabernet sauvignon e merlot a cui si è aggiunto negli anni il merlot. Un vino evento, perché la benedizione del guru americano creò una aspettativa infinitamente superiore alla offerta ed è così che andata avanti la storia traghettando sia la moda barrique che quella no barrique, lieviti selezionati e lieviti indigeni, autoctoni internazionali, eccetera eccetera. Il motivo che è nel fatto che si tratta di un grande vino pensato da Riccardo Cotarella che nel corso degli anni evolve in maniera pazzesca.


Per la Campania volle dire molto: quando uscì nel 1992 la prima versione nel senso comune la Campania era solo terra di pizze, pasta e mozzarella, magari poi anche di limoncello. Il vino non era contemplato fra le virtù di una regione che pure era stata famosa nell'antichità ai tempi dell'antica Roma grazie alla generosità del suolo vulcanico. 
Il Montevetrano dimostrò che non solo era possibile fare un grande vino rosso anche al Sud, ma che era possibile realizzarlo con uvaggio internazionale e raggiungere successi inimmaginabili.

Gaia Marano

Adesso l'azienda placidamente sdraiata sul poggio di una collina alle porte di Salerno si presenta rafforzata con l'ingresso di Gaia Marano, figlia di Silvia, rientrata definitivamente da Milano dove ha lavorato come designer nella moda (Benetton e Dolce&Gabbana) per occuparsi specificamente del progetto Core. Un segnale importante per tutti gli appassionati di una continuità aziendale attraverso il passaggio generazionale che è sempre il tema delicato delle aziende italiane in generale e di quelle di vino in particolare. Non sempre le nuove generazioni sono infatti disposte ai sacrifici e alla vita dura di chi le ha precedute e i tempi sono difficili. Diciamo difficili sul piano economico, ma il sentire comune oggi assegna al lavoro nella terra un valore prioritario come mai era successo prima in Italia e sono davvero tanti i giovani del Sud che hanno ripreso con orgoglio antiche proprietà dimenticate per inseguire sogni di compassi e toghe.
Poco prima dell'arrivo di Gaia il progetto si era arricchito di un bianco da uve Fiano e Greco, uve perfettamente conosciute da Riccardo e i due vini, il bianco e il rosso, sono stati presentati di recente nello splendido Palazzo Gentilcore nel cuore di Castellabate, l'antica sede del comune ripresa con amore e passione da Chiara Fontana, docente di diritto tributario all’Università Federico II di Napoli, e Giovanni Riccardi, avvocato amministrativista.


Un gioco di parole, Core e Gentilcore, co-branding si dice alla milanese. La voglia di stare insieme in un momento difficile nel paese di Benvenuti al Sud dove il tempo si dilata perché non viene più misurato se non dal sorgere del Sole e dal suo tramonto. Qui, nella Locanda Pancrazio del delizioso albergo da 13 stanze, i due vini sono stati ben abbinata dalla cucina del giovane Mattia Mattei.

Core Bianco 2019 Campania igt

Come abbiamo detto, è un vino che nasce dal blend di Fiano e Greco le cui uve sono lavorate solo in acciaio con sosta prolungata sulle fecce. Le due uve in qualche modo compensano i caratteri, il greco regala forza rustica e struttura, il Fiano è promessa di grande evoluzione olfattiva nel corso degli anni. Entrambe partono da acidità elevata, appena appena ridimensionata dall'anno passato in acciaio e bottiglia. Un vino dunque ancora giovane, giovanissimo, dai sentori agrumati e di frutta a pasta bianca, una grande verve regalata da freschezza inesauribile che lo rende adatto non solo alla cucina di mare o alla mozzarella ma anche a piatti molto strutturati, pensiamo alla genovese napoletana tanto per dirle una. Per i bianchi noi siamo fissati, siamo convinti che fra quattro o cinque anni questa bottiglia, figlia di una buona notta climatica, regalerà bone emozioni. In rete lo si trova sui 15 euro.


Core Rosso 2018 Campania Igt

Le uve di Aglianico vengono dal Beneventano, qui il difficile vitigno del Sud è sicuramente meno scorbutico di quello irpino, parte con un equilibrio maggiore anche se i tannini costituiscono sempre il problema principale di chi lo affronta in cantina. Dopo la fermentazione in acciaio trascorre quasi un anno in botti grandi di rovere per poi affinarsi ulteriormente in bottiglia. E' un aglianico colloquiale, per certi versi quasi immediato nella sua bevibilità grazie ad un tannino presente e ficcante ma ben addomesticato. In questa sua prima fase di vita ottimo su piatti di eccesso (parmigiana, ragù, carni brasate e alla brace, paste al forno, formaggi stagionati). Nel corso degli anni, come sempre succede all'Aglianico, diventerà un signore elegante più disposto al compromesso. In rete lo si trova sui 17 euro.


Due grandi vini, insomma, ad ottimo rapporto qualità prezzo come si diceva una volta. Da bere soprattutto da soli davanti alla luna che illumina il cielo pulito del Cilen
to.

Oddero - Langhe Nebbiolo 2018


di Carlo Macchi

Mentre i profumi di violetta mi avvolgevano ho pensato a Dulcamara e allo stupendo sì balsamico elisire. Quando la verace ma vellutata tannicità del nebbiolo ha dato gioia al mio palato non ho avuto dubbi: un vero e proprio elisir "da amare"! 


La macchia sull’etichetta non è nebbiolo ma una mia furtiva lacrima, a fine bottiglia.

Alla scoperta dell'Etna Spumante DOC, il Metodo Classico del Vulcano!

di Carlo Macchi

Vi sono luoghi che uniscono e altri che dividono. L’Etna è sicuramente uno di quelli che più unisce: mette assieme il mare e la montagna, il fuoco e il ghiaccio, la paura del vulcano con la gioia di camminarlo e ammirarlo.


Da anni vi cammino sopra e ammiro non solo lui ma soprattutto i produttori di vino che lo sfidano continuamente e nello stesso tempo ne sfruttano le infinite e millenarie risorse, sparpagliate in luoghi di una bellezza che rende muti. I vini etnei invece non rendono muti anzi, non per niente sono sempre più ricercati dagli appassionati.


Molti conoscono gli Etna Rosso e gli Etna Bianco, non molti magari conoscono gli Etna Rosé ma credo che pochissimi abbiano avuto a che fare con gli Etna Spumante. In realtà si possono fare, per disciplinare, solo da 10 anni: sono dei metodo classico che devono rimanere sui lieviti per almeno 18 mesi e nascono, sempre per disciplinare, da almeno un 70% da nerello mascalese e per il rimanente da altre uve autoctone etnee, sia bianche (carricante e catarratto soprattutto) che rosse.


Nei giorni scorsi ho partecipato ad una degustazione online dove il Consorzio Etna ha presentato questa tipologia, che non solo è agli esordi (anche se è nata 10 anni fa) ma ha anche l’umiltà di ammetterlo. Tanto per capire: ci sono 24 produttori che fanno Etna Doc Spumante e in totale arrivano appena a 150.000 bottiglie. Solo 1400 ettolitri rispetto alla produzione della Doc che è di 32000: nemmeno il 5% del totale.


Ci sono due modi per parlarvi della degustazione: quello dove si osserva una tipologia agli esordi e quello dove si osserva una tipologia.
Il primo permette e vuole che si sia di manica leggermente più larga, che si punti sui fattori positivi sperando che in futuro i punti interrogativi si sciolgano come la neve sull’Etna: il secondo cerca di vedere più lontano e di dare alcune indicazioni che potrebbero servire alla crescita.
Intanto è interessante cercare di capire il perché di una denominazione che in pratica è composta solo da blanc de noir. Infatti, il Nerello Mascalese adesso arriva al 70% dell’uvaggio ma nel prossimo futuro verrà ritoccato ad 80%. La risposta è, se vogliamo, abbastanza semplice: i sei metodo classico degustati provenivano da vari versanti: nord, nord-est e sud-est e tutti da altezze che partivano dai 620-650 metri per arrivare fino a 750, quote a cui il nerello mascalese non sempre riesce a raggiungere perfetta maturità. Così si è pensato di sfruttarne le caratteristiche di acidità e di pH per allargare la gamma dei vini etnei.


L’idea è stata intelligente e i vini degustati hanno mostrato, pur tra logiche diversità, che i produttori si stanno impegnando con serietà e cognizione di causa. Solo un vino aveva una lieve riduzione, che poi è andata stemperandosi durante l’assaggio. I vini erano freschi ma con bollicine un po’ rustiche, che può essere visto come un peccato di gioventù o come una caratteristica. Il corpo era più che sufficiente, con una chiusura leggermente amara, che sinceramente gli dava un tocco particolare.


Adesso cerchiamo di vedere oltre e facciamoci una domanda “Perché dovrei bere un Etna DOC Spumante?” Se è perché sono in zona e mi sembra giusto bere una bollicina locale o perché amo la Sicilia va tutto bene, ma una crescita non si può basare su “voglie” che possono passare come sono venute. Una tipologia deve avere caratteristiche riconoscibili e deve essere ben identificabile anche dal punto di vista merceologico: purtroppo i sei vini degustati erano molto diversi l’uno dall’altro non solo in bocca o al naso ma anche negli zuccheri residui. Considerate che l’Etna Doc spumante può andare da Brut a Extra dry, in teoria quindi da 0 grammi di zucchero (un vino infatti era praticamente secco) a 17 e questo è un range troppo ampio per chi si affaccia oggi sul mercato. Inoltre, non esiste ancora una regolamentazione per i millesimati. Visto che questi spumanti, giustamente, non vengono regalati ma hanno prezzi in enoteca che vanno dai 15-16 ai 25-26 euro a bottiglia e quindi in linea con quelli di altre denominazioni più blasonate, credo che il consumatore abbia diritto di capire fin da subito che cosa sta andando a bere. Inoltre, il disciplinare (per me giustamente) sta per introdurre anche la possibilità di produrlo con uve bianche come carricante e catarratto e quindi si va incontro ad ulteriori diversificazioni.


Credo che a questo punto serva una chiara presa di coscienza da parte dei produttori, sia a livello normativo che a livello produttivo. I vini sono nella media di altre denominazioni più blasonate e almeno uno dei sei era veramente buono ma “la mano” per produrre bollicine non si crea in un anno, soprattutto perché fare vini spumanti richiede un approccio completamente diverso dal produrre bianchi o rossi.


Concludendo, che sull’Etna (se si eccettuano alcune storiche realtà che li producono da molti anni) si facciano degli spumanti metodo classico è una notizia interessante. Per questo ho appoggiato le bottiglie su un quotidiano e così le ho fotografate, perché oltre alla notizia di oggi credo che ne sentiremo parlare in futuro.

La figura femminile nel racconto storico del vino


Di Rachele Bernardo

"Al vino spetta il ruolo di fedele compagno di viaggio della società primordiale attraverso la storia, un onnipresente testimonianza dell’umana civiltà”


Ripercorrere la storia del vino significa scrivere la storia dell'umanità. La vite è stata una delle prime piante coltivate dalle civiltà sumere, assire, babilonesi, egizie e cartaginesi.
Diverse pitture parietali egiziane, risalenti all’epoca imperiale mostrano scene di raccolta e pigiatura dell’uva.

La coltivazione della vite regolava i rapporti commerciali tra l’Egitto e altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo (scambi di grano, vino ed olio), dapprima con i mercanti cretesi e poi con i fenici ed i greci.


La vite europea (Vitis vinifera sativa) appartiene alla Famiglia delle Ampelideae, genere Vitis. La Vitis vinifera presenta due sottospecie: Vitis vinifera silvestris, spontanea e selvatica e Vitis vinifera sativa, ermafrodita.

Le varietà che coltiviamo oggi derivano dalla vite selvatica, modificata attraverso millenni di selezioni ed incroci avvenuti naturalmente e attuati dall’uomo. Sin dalla sua scoperta nella zona del Caucaso, dove sono state ritrovate tracce di coltivazione della vite e di anfore risalenti a varie epoche, comprese tra il 5000 ed il 1000 a.C., il vino ha rivestito, in tutte le società in cui a mano a mano si è diffuso, un ruolo di primaria importanza, in particolare per gli uomini.

Il rapporto vino-donna in quelle stesse società era controverso e basato su una serie di divieti di farne consumo, che potevano comportare estreme conseguenze giuridiche per la trasgredente.

Furono i Fenici a portare cloni di Vitis Vinifera Sativa e il vino in Grecia e poi in Sicilia. La nostra penisola si dimostrò adattissima alla coltivazione della vite, tanto che in poco tempo venne chiamata Enotria, la terra del vino.


In tutta la zona dell’Italia meridionale colonizzata dai Greci (Magna Grecia) vi fu una vera e propria fioritura della civiltà del vino: vicino Sibari venne costruito un “enodotto”, cioè un condotto di argilla che convogliava il vino nella zona portuale dove veniva raccolto in anfore e poi imbarcato.

Nel periodo in cui ebbero a coesistere in Italia la civiltà greca e quella etrusca, tra le due ci fu quasi una frontiera nascosta che differenziò anche le tecniche di coltivazione della vite.


Gli Etruschi tendevano ad accostare la vite ad alberi di medio e alto fusto permettendo così alla pianta di arrampicarsi (pratica diffusa ancora presso Aversa, non lontano da Napoli, per la produzione dell’Asprinio di Aversa, dove la vite è maritata al pioppo, mentre i Greci, le cui tecniche di coltivazione si erano già affinate, utilizzavano sostegni morti (pali di legno). In virtù degli intensi contatti con i popoli del Mediterraneo orientale, dove la cultura viticola era già più evoluta, gli Etruschi poterono affinare le tecniche produttive e importare anche nuovi vitigni di origine orientale (il cui processo di domesticazione erano iniziato in epoca ben più remota nell’area del Caucaso). La pratica di Vite maritata fu sviluppata dagli Etruschi, anche nella parte centro-settentrionale d’Italia. Le viti venivano allevate su pioppi, aceri, olmi, castagni.

Virgilio, nelle Georgiche (29 a.C.) parla della viticoltura della sua terra (Mantova) e racconta che le viti erano maritate all’olmo. In origine le viti non erano potate e tendevano a crescere molto, ad avere tralci lunghissimi. La raccolta dell’uva era effettuata con le mani, con scale apposite appoggiate agli alberi, oppure usando strumenti dal manico molto lungo. La vite maritata è rimasta nella cultura viticola italiana fino ai nostri giorni, in tutti quei territori dove in antichità era arrivata la civiltà etrusca.


In provincia di Avellino si può ancora vedere “La Starseta” o pergola avellinese: viti alte maritate ad alberi e distanziate tra di loro. Tale apparato ha avuto origine a causa degli appezzamenti piccoli e frammentati tra i vari proprietari, e dalla necessità di contenere tutto nella stessa area (viti, orto, alberi da frutta e ulivi).

Gli Etruschi furono grandi navigatori e commercianti. Con la produzione di anfore etrusche da trasporto, vino ed olio divennero beni di largo consumo.


La funzione del vino presso gli antichi Greci si collega principalmente alla parola simposio, dal latino symposium, che trae origine dal greco sympòsion (syn “con” e posis “bevanda”).

Il vino era l’attore principale del simposio, i Greci lo consideravano dono divino, regalato da Dioniso agli umani per porre rimedio ai loro affanni; ne esaltavano i vantaggi e celebravano la felicità che il bere portava, sempre senza abbandonarsi all’eccesso.

“Portami un orcio, ragazzo,
ch’io tracanni d’un fiato,
mescimi dieci misure
d’acqua e cinque di vino,
perché di nuovo io celebri
senza violenza Dioniso
[…]
(Anacreonte)


Il vino rappresentava un particolare momento della vita sociale della Grecia antica. I partecipanti si riunivano per discutere di politica, arte, filosofia, ma anche per scambiarsi idee ed opinioni; si trattava di un luogo in cui si sviluppava la cultura, accompagnando le discussioni con cibo e vino.

Platone (che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi) racconta che una coppa di vino veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare.


Un vero e proprio rito, scandito da atti programmati in anticipo con una forte dimensione religiosa, oltre che relazionale e culturale; il vino non era solo la bevanda che procurava sollievo agli uomini, ma un mezzo attraverso il quale l’uomo entrava direttamente in contatto con gli Dei.

I Greci deploravano l’ubriachezza, la consideravano non degna di un uomo civilizzato, evitarne le conseguenze negative era fondamentale!

Tra l’altro il vino puro della Grecia era molto alcolico, non a caso veniva sempre servito con acqua, talvolta si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto.
Al simposio non era ammessa la presenza delle donne...salvo alcune eccezioni: le etère, che suonavano l’aulòs e danzavano.

Anche nella cultura dell’antica Roma, a tutte le donne era rigorosamente vietato bere vino e la trasgressione di questo divieto era punita con severità: lo storico Valerio Massimo racconta che un cavaliere di nome Egnazio Mecenio uccise a bastonate la propria moglie solo per averla trovata ubriaca. Secondo la moralità del tempo il bere vino conduceva le donne direttamente all’adulterio: per gli antichi si trattava quindi, di una pratica che poteva nuocere alla purezza femminile.

Dionisio di Alicarnasso, narra che Romolo stabilisce questa regola poiché “l’adulterio è origine di follia e l’ubriachezza è origine di adulterio“.

Solo nell’età imperiale fu concesso alle donne di bere il vinum passum, cioè il vino passito, e in genere i vini dolci.
Al modello della “pudica e domiseda matrona romana”, che viveva all’ombra del focolre domestico, si contrappone la più libera donna etrusca: raffinata, elegante ed indipendente. Il benessere economico della società etrusca faceva sì che, già in età arcaica (dal VI secolo a.C.) le donne cominciassero ad “uscire” dalle mura domestiche per partecipare in maniera sempre più attiva alla vita pubblica.
Dunque, trascorrevano molto tempo in società, partecipavano a eventi mondani, gare sportive e spettacoli. Nelle scene raffigurate in numerosi affreschi, le donne etrusche sostenevano lo sguardo degli uomini, senza arrossire. Nel mondo romano antico, il vino era il rimedio agli affanni, Orazio ricorda che dà anche libero sfogo ai sentimenti nascosti.

Per i romani era piacevole lasciarsi trasportare dai piaceri del vino che, scendendo nelle vene diffondeva nel corpo una gradevole sensazione di ebbrezza, che contribuiva a creare speranze e ad allontanare preoccupazioni, tensioni e malinconie.


La civiltà Romana è stata la civiltà chiave nello sviluppo del vino in molti aspetti. I Romani possono essere considerati i padri della regolamentazione giuridica (introdussero il diritto di proprietà della terra, garantendone i confini attraverso il catasto e la centuriazione), del commercio del vino e della moderna viticoltura, con la crescente consapevolezza della vinificazione, anche se le prime influenze sulla viticoltura della penisola italiana possono essere fatte risalire agli antichi Greci e agli Etruschi. Nelle mani dei Romani, il vino diventa democratico, disponibile per tutti, dal più basso schiavo al contadino e fino naturalmente all’aristocratico.

Di fatto il vino era una necessità vitale per i romani, lo bevevano tutti i giorni. Si “pasteggiava” con il vino, lo si abbinava alle pietanze. L’antipasto tipico (gustatio) comprendeva uova, olive, frutti di mare, verdure ed era innaffiato di mulsum, il vino mielato.


Questo spinse a diffondere la viticoltura e la produzione di vino in tutte le zone dell’impero, al fine di garantire un approvvigionamento stabile per i soldati romani e per i coloni.


I Romani amavano molto l’odore di vino e sperimentavano diverse tecniche per migliorarne il bouquet, come piantare erbe (lavanda e timo) nei vigneti, pensando che i sapori si sarebbero trasferiti, attraverso il terreno, nell’uva.

Naturalmente il vino di qualità migliore era riservato alle classi superiori di Roma. Il vino più prestigioso era il Falernum che si distingueva per la sua capacità di invecchiamento. Fu il più famoso vino prodotto nell’antica Roma, venduto in tutto il mondo, anfore di Falernum venivano inviate in Britannia, Gallia, Hispania, Cartagine ed Alessandria d’Egitto. 
Fu il vino offerto da Cleopatra a Cesare dopo la vittoria.
Nelle rovine dell’antica Pompei è stato trovato un listino prezzi sulla parete di un termopolio che dichiara:

“Per un asse puoi bere vino
per due assi si può bere il migliore
e per quattro può bere Falerno”


Pompei era uno dei centri vinicoli più importanti del mondo romano. L'area era sede di una vasta distesa di vigneti e fungeva da importante città commerciale con le province romane all'estero oltre ad essere la principale fonte di vino per la città di Roma. 

Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia scriveva che la coltivazione della vite, aveva una tale supremazia da superare le ricchezze di ogni altro paese.


Opere di altri scrittori romani classici, in particolare Catone, Columella, Plinio, Orazio, Palladio, Varrone e Virgilio, fanno luce sul ruolo del vino nella cultura romana, nonché sulle pratiche vinicole e viticole contemporanee.


Sia Plinio il Vecchio che Columella offrono un quadro preciso dei vitigni sviluppati nel corso del tempo dai Romani. La grande varietà di tipologie di arbusto ( Plinio ne conteggia più di 160), si divideva principalmente in vitigni nobili et ignobili, ovverosia in vitigni di grande qualità e vitigni dalla produzione massiccia, ma di basso pregio.

Il “De re rustica” di Columella è da considerarsi un trattato di agronomia del primo principato (Columella morì nel 70 d.C.) arrivato a noi completo. Alcune di queste influenti tecniche si possono trovare nella vinificazione moderna.


Questi includono la considerazione del clima e del paesaggio nel decidere quali varietà di uva piantare, i benefici dei diversi sistemi di allevamento della vite, gli effetti della potatura e delle rese del raccolto sulla qualità del vino, nonché tecniche di vinificazione come l'invecchiamento “sur lie” dopo la fermentazione e il mantenimento delle pratiche igieniche durante tutto il processo di vinificazione per evitare contaminazioni, impurità e deterioramento. Avevano intuito anche l’importanza della temperatura nel corso della vinificazione.


L’economia trasse giovamento da questo settore in continua espansione e i mercanti romani colsero le opportunità di scambi commerciali con le tribù native delle terre conquistate, in particolare con i Galli e gli Spagnoli.

La capacità di invecchiamento era una caratteristica molto apprezzata dei vini romani e di conseguenza le annate vecchie raggiungevano prezzi molto alti.

I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano esaltati sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti.


Un’altra tecnica largamente praticata era quella di affinare alcuni vini in anfore, in soffitte dove veniva convogliato del fumo, dette fumarium, per conferire un aroma di affumicatura.

Verso la fine del I sec. d.c., l’anfora iniziò ad essere sostituita dalla “botte”, trasportabile anche da due soli uomini e caricabile sui carri. Il Nord Italia e l’Europa Occidentale sede delle cultura celtica erano grandi fabbricatori di botti e una cronaca romana di Vitruvio riferisce che l’imperatore Massimino, attraversando l’Isonzo, con le sue truppe costruì un ponte di fortuna legando insieme migliaia di botti.


Nell’antica Roma esistevano già locali dove mangiare e bere vino, si chiamavano taverne o anche popine.
L’ambiente era molto grande e vi erano tavoli dove le persone potevano mangiare sedute. Le taverne erano fumose e spesso sudice, ma offrivano qualche piccolo intrattenimento alla clientela.


Durante i fastosi banchetti dei Romani si rendeva indispensabile la presenza di un esperto, l’“haustores”, potremmo dire il sommelier di oggi, che decideva la quantità di acqua che bisognava aggiungere al vino in base al menù. Talvolta veniva utilizzata anche acqua di mare per rendere il vino meno dolce e meno denso.


I Romani usavano, inoltre, i “tagli” tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l’asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il multimediale, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.

Riguardo alle donne, sin dalle origini c’è stato il divieto di bere vino (“Mos Maiorum”); anche annusarlo era reato. Una delle prime "leges regiae" (quella attribuita a Romolo da Dionigi di Alicarnasso) stabiliva i motivi per i quali una donna poteva essere condannata a morte su insindacabile giudizio dei parenti stretti o del marito…

Questi poteva esercitare lo "ius osculi", il diritto di bacio; farsi trovare con l'alito pesante poteva significare, per le donne romane, essere vittime dell'etilismo.

A partire dal 250 d.c. iniziò un periodo di decadenza per Roma e anche per la produzione di vino, infatti fu introdotta una tassa che obbligava i produttori di vino a consegnarne una parte all’impero per le razioni dei soldati e per rifornire la popolazione a prezzo politico. Così molti viticoltori cambiarono attività. Guerre civili e spopolamento fecero il resto e, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, fu a rischio la coltivazione della vite in Italia, solo l’avvento dei monasteri ne comportò la ripresa.

Durante i primi anni del Medioevo, nei territori un tempo occupati dai Romani, lo sviluppo della viticoltura si ebbe in gran parte nei conventi: lentamente si trasformano in veri e propri centri vitivinicoli ad opera di monaci, che sin dall'inizio, si dedicarono alla nobile arte del vino, in quanto elemento indispensabile durante il rito della mensa eucaristica. L'epoca medioevale vide anche un progresso nella qualità del vino; mentre quelli antichi erano quasi sempre tagliati con acqua e resi più gradevoli con l'uso di erbe e aromi, il vino appare nella forma in cui lo consumiamo ancor oggi. I monaci gestirono vigneti monastici, aiutando nella creazione delle qualità oggi esistenti.


In Europa nel Medioevo cambia la figura del “dispensatore delle bevande” che non si dedica più a servire i commensali nei banchetti, ma scende in cantina, dando inizio così alle prime pratiche di organizzazione del servizio. Nei monasteri francesi compaiono due figure quella del “cellier”, un monaco responsabile della cantina, e quella del “caviste” monaco subalterno che si occupa di mescere il vino a tavola.

Nel Cinquecento si mettono in luce nuove figure professionali: gli addetti all’acquisto, alla conservazione e al servizio dei vini. Il “dispensiere-cantiniere”, era responsabile del prodotto dal momento dell’acquisto al momento del consumo. Il “bottiliere” si occupava del servizio del vino e “curava la tavola” Egli, inoltre aveva la mansione di assaggiare le bevande prima di servirle per verificare che non contenessero veleni.


La parola sommelier nasce in Francia dalla parola latina “sagmarium” che indicava il responsabile del trasporto dei vini con animali da soma; termine utilizzato nel Medioevo per poi trasformarsi in Sommelier nel XVI sec. presso la corte del Re Sole.

Dall’Ottocento in poi la funzione del sommelier diviene pubblica con la nascita e la diffusione dei grandi ristoranti.

Il Sommelier oggi è un professionista in grado di effettuare un’analisi organolettica delle bevande al fine di valutarne la tipologia, la qualità, le caratteristiche, le potenzialità di conservazione, soprattutto in funzione del corretto abbinamento vino-cibo.


Si sceglie questo percorso professionale per passione e si apre dinanzi un mondo: il vino è qualcosa di incantevole non solo nel bicchiere. Si programmano viaggi, si visitano aziende, produttori, luoghi, si conoscono persone che ci regalano emozioni. Non è facile da spiegare, ma in un calice di vino ci sono cosi tante cose da scoprire! E più si conosce più la passione cresce. Occorre essere curiosi e non smettere di ricercare. Portare il vino in tavola è una sorta di rituale: aprire correttamente la bottiglia, servire il vino ad una giusta temperatura, abbinare i cibi tipici con i vini che meglio li accompagnano in modo da favorire l’esplorazione del territorio...tutto può amplificare l’emozione di ciò che si berrà.


Le donne Sommelier sono ormai una realtà in crescita esponenziale; l’universo femminile è sempre più protagonista nel mondo del vino: produttrici, enologi donne, sommelier, giornaliste, ristoratrici, buyer...Nel 1988 è nata in Italia ‘L’Associazione Nazionale Le Donne del Vino’ che promuove la cultura del vino ed il ruolo delle donne nella filiera produttiva enologica e della società tutta.

Alle donne si deve anche un rinnovamento nel linguaggio del vino, grazie ad uno spiccato intuito e coraggio verso i cambiamenti. Questo rappresenta un valore aggiunto per tutto il settore vitivinicolo, anche per l’immagine del Made in Italy nel mondo.

Cascina Castlet - Piemonte Moscato Passito Avié 2015


di Roberto Giuliani

Da una storica azienda di Costigliole d’Asti, un Moscato Passito che racconta tutto fuori e dentro, l’etichetta con l’impronta femminile dorata, il nome che significa “veglia”, i profumi di albicocca candita, nocciola, banana sciroppata ed erbe aromatiche.


Al gusto vivo, non stucchevole, appassionante.