Il coraggio del tempo: la lezione del Fiano di Avellino "Alessandra" secondo Roberto Di Meo


di Luciano Pignataro

Se mai un giorno dovessi smettere di scrivere di vino, mi piacerebbe essere ricordato per l’unica vera battaglia culturale vinta, dopo almeno due decenni in cui abbiamo battuto e ribattuto sempre sullo stesso chiodo.
Quale? Quella sulle virtù del Fiano di Avellino nel lungo periodo, che lo mettono alla pari con qualsiasi altro vitigno a bacca bianca, in Italia e all’estero.
Ci sono voluti esattamente 17 anni per arrivare a inserire la dicitura “Riserva” nella Docg del 2003. Questo risultato, ottenuto nel 2020, è stato possibile grazie a decine di degustazioni, ma soprattutto grazie a quei produttori che ci hanno creduto. Produttori che hanno reso evidente, con i loro vini, l’incredibile forza evolutiva di questo vitigno, capace col tempo di passare da vino gastronomico e dissetante a emozione pura.


Tra questi c’è sicuramente Roberto Di Meo, con il quale – lo racconto spesso – facendo una degustazione a metà anni ’90, compresi le potenzialità dei bianchi irpini e campani. Il Fiano ha una differenza fondamentale rispetto a Greco, Falanghina e Coda di Volpe: non ha bisogno di essere pensato per vivere a lungo, supera i dieci, i venti anni con estrema naturalezza, anche se lavorato con semplicità. Il merito di Roberto Di Meo è quello di aver avviato un progetto coerente, che gli ha permesso di entrare in tutte le carte dei vini che contano. Il Greco “Vittorio”, il Fiano “Per Erminia”, il “Colle dei Cerri” sono bianchi davvero in grado di affrontare qualsiasi batteria.


Negli ultimi giorni mi è capitato di bere il Fiano di Avellino “Alessandra”, dedicato alla figlia, in due annate: 2012 e 2013. Tenete conto che ora è in commercio la 2015, perché questa etichetta esce solo dopo una decina d’anni di affinamento.
Tra le due annate, al di là delle differenze climatiche, c’è una linea di demarcazione per due motivi: con la più recente il “Fiano Alessandra” cambia etichetta e, al tempo stesso, assume la dicitura Riserva.


La vigna è a Salza Irpina, nei pressi dell’azienda, a circa 550 metri di altezza, con una resa di circa 50 quintali per ettaro – meno della metà di quanto previsto dal disciplinare. Per completare le informazioni: il suolo è argilloso-calcareo, la pressatura è soffice, seguono macerazione sulle bucce, fermentazione a temperatura controllata, sosta in acciaio per 8 anni e ulteriore affinamento in bottiglia per 12 mesi.


La 2012 è un po’ più ampia, di corpo; la 2013 è ancora freschissima, fine, elegante.
Abbiamo bevuto questi due bianchi nel modo migliore: a tavola, con amici, accompagnandoli a una buona cucina di mare, in due occasioni diverse ma ravvicinate. Non sono un teorico dell’acciaio a tutti i costi: anzi, penso che un buon legno dosato possa rendere invincibili i grandi vini. Ma il punto è che il binomio Fiano e botte va ancora studiato con attenzione: ci vorrà tempo per trovare la giusta quadra. Ecco perché vi diciamo che questo Fiano non sorprende gli appassionati, perché parla un linguaggio familiare e si affida unicamente alla qualità dell’uva.


Il risultato, in entrambi i casi, è un vino dai sentori di fumé, frutta ancora croccante con rimandi agrumati, note mentolate; al palato, nel 2013 domina la freschezza assoluta, mentre nel 2012 è più importante, vibrante, ma fa da spalla alle altre componenti, lasciando anche spazio al piacere avvolgente dell’alcol. Due grandi vini di un’etichetta posizionata verso l’alto – circa 65 euro in uscita – ma ancora al di sotto di tanti bianchi francesi che costano di più, molto di più, senza avere la stessa complessità. Con questa cuvée, Roberto alza ulteriormente l’asticella dei bianchi in Italia, accanto ai grandi della categoria. Ma – ed è una mia opinione personale – siamo solo all’inizio.

InvecchiatIGP: Gradis’ciutta - Collio DOC Chardonnay 2006


di Carlo Macchi

Non è la prima volta che Robert Princic, deus ex machina di Gradis’ciutta, tira fuori dalla cantina vecchie annate a raffica. Lo fece lo scorso anno con il Pinot Grigio e lo ha rifatto quest’anno con lo Chardonnay, arrivando fino al 1998 passando attraverso 2024, 2020, 2017, 2016, 2014, 2012, 2010, 2008 e 2006. Tra le annate che avevo davanti, ognuna con caratteristiche anche sorprendenti, dopo qualificazioni, semifinali e finale (con un cremoso e dinamico 2012), ho selezionato lo Chardonnay 2006.


Prima di parlare del vino due parole sull’azienda: Gradis’ciutta è a San Floriano del Collio e coltiva la classica e ampia gamma di uve che ogni friulano di collina non può non “mettere in campo”: quindi, Ribolla, Malvasia, Pinot Grigio, Sauvignon, Friulano, Chardonnay tra i bianchi, Cabernet Franc e Merlot tra i rossi, oltre ad una serie di uvaggi e di bollicine molto interessanti. La parte del leone la fanno i monovarietali bianchi, vini d’annata che però dimostrano di poter reggere nel tempo, e alla grande.

Robert Princic

Ne è prova provata questo Chardonnay 2006 “base”, quindi fatto per essere bevuto da giovanissimo. Vinificazione in acciaio e poi subito in bottiglia, senza la minima intenzione di arrivare fino ad oggi, quasi a 20 anni dalla “nascita.
La prima cosa che mi ha colpito e quasi sorpreso è stato il colore, un dorato brillante e vivo che poteva benissimo appartenere ad un vino di 15 anni più giovane. Il naso all’inizio ha un po’ stentato, ma poi si è sistemato su una maturità austera, che portava anche a note di burro e brioche, non nascondendo un accenno di frutto maturo. 


In bocca invece il registro cambiava e dalla maturità si tornava alla giovinezza, con sapidità e freschezza sorprendenti. Un corpo non certo importante ma equilibrato portava ad una insospettata persistenza.
Che dire, lo chardonnay non è mai stato il mio vitigno preferito ma questo 2006, per finezza e complessità degna di un vino di categoria e prezzo molto più elevato, mi ha veramente sorpreso.

Honey GourMet: la bollicina che nasce dal miele


di Carlo Macchi

Non di solo vino vive l’uomo e così eccovi un non vino. Tranquilli, non è dealcolato ma nasce dal miele.
 

La prima cosa che mi ha colpito non è tanto il fine profumo di miele ma la finezza della bollicina, la sua cremosità e persistenza, raggiunta dopo 30 mesi di affinamento in legno e in bottiglia.

I vini bianchi italiani, non solo del 2024, cosa ci stanno dicendo?


di Carlo Macchi

Anche lo scorso anno, in questo periodo, dedicammo un articolo ai bianchi italiani d’annata e non, basandoci sulle degustazioni che stavamo facendo per la guida vini di Winesurf. Quindi mi sembra giusto farlo anche quest’anno sia con l’obiettivo di presentare le caratteristiche dell’annata 2024 trovate nei calici di quasi 1000 bianchi d’annata, ma soprattutto per lanciare alcuni spunti sui bianchi italiani, giovani e non.


Per quanto riguarda l’annata 2024 la prima notizia, cosa che era chiara sin dallo scorso ottobre, è che non siamo di fronte ad una grande annata ma quasi sicuramente (non certo grande consolazione) superiore, in molte parti d’Italia, a quella relativa ai rossi. Se infatti i secondi sono stati spesso vendemmiati negli intervalli tra una serie di piogge i bianchi in generale hanno beneficiato del gran caldo dei mesi estivi pur beccandosi una serie di piogge a fine maturazione che in diversi casi hanno “diluito” la concentrazione ma apportando maggiore finezza ai profumi.


A proposito di profumi: mi spiace dirlo ma in molte parti d’Italia per i vini d’annata non aromatici ormai non si può più parlare di “riconoscibilità del vitigno” ma solo di riconoscibilità dei sistemi di vinificazione e affinamento, almeno per quanto riguarda i primi 8-10 mesi dalla vendemmia, periodo in cui vengono degustati da tutte le guide. Andando verso il secondo anno e oltre le cose cambieranno ma per quanto riguarda appunto tanti vini non aromatici o semiaromatici (e in parte anche per questi) prevale più la mano di cantina che l’uva che vi arriva. Questo, viste anche le annate che si stanno susseguendo non è necessariamente un male, ma in un momento in cui le parole come terroir, unicità, parcella, vanno per la maggiore è abbastanza strano constatare, in generale, l’esatto contrario. Di passaggio un’altra annotazione, oramai bere i bianchi italiani d’annata è un errore madornale, perché i miglioramenti tecnici in vigna e in cantina portano a vini che hanno bisogno di almeno 10-12 mesi per distendersi e assumere le giuste e apprezzabili caratteristiche.


Ma veniamo ai bianchi 2024 e proviamo a dare qualche consiglio, fermo restando che ancora i nostri assaggi non sono completi (mancano nomi importanti come Soave, Vermentino di varie zone, Gavi, Etna Bianco e altri) e che, per fortuna, da qualche anno degustiamo almeno il 40/50% di vini di annate precedenti, cosa che, visto quanto detto sopra, ci fa molto piacere. Una segnalazione particolare va fatta sicuramente per i Verdicchio dei Castelli di Jesi Superiore, vini che riescono nella titanica impresa di essere buoni sin da subito e dopo diversi anni. Forse non è l’annata migliore ma comunque abbiamo trovato buone strutture e aromi che quasi sempre riportano al vitigno. Visti anche i prezzi abbordabili è un consiglio che diamo senza se e senza ma. Di seguito ci piace segnalare anche, in ordine sparso, Arneis, Vernaccia di San Gimignano, Sauvignon altoatesini, Custoza, Greco di Tufo, Pinot Bianco del Trentino, Friulano sia del Collio che dei Colli Orientali. Naturalmente non facciamo nomi e cognomi, perché quelli potrete trovarli sulla nostra guida online ma crediamo che in questo ampio spettro troverete sicuramente buone cose da bere.


Torniamo un attimo ai bianchi italiani in generale per confermare quanto avevamo scritto lo scorso anno. Oramai la qualità media è salita moltissimo ma, anche andando in annate precedenti, mancano quelli che potremmo definire grandi bianchi. Questo è strano perché una bella fetta di bianchi italiani non solo, come detto, deve invecchiare almeno 1-2 anni per esprimersi bene ma può invecchiare almeno 5-8 anni migliorandosi anno dopo anno. Nonostante questo, mancano quelle punte che ti fanno sobbalzare e che 10-15 anni fa erano presenti come fari nella nebbia. Inoltre, il fatto che sempre più aziende propongono bianchi di 2-3-4 anni agli assaggi denota che la voglia per puntare al grande bianco c’è. Quindi è un bel dilemma e non si tratta di uso o non uso del legno ma forse di un cambiamento climatico che da una parte crea incertezze e problemi, e dall’altra innalza Ph, abbassa acidità e quindi crea situazioni diverse rispetto al passato. Però queste sono, come diceva la canzone, “solo parole” e aspettiamo con grande piacere contributi in tal senso. A proposito di legno e non legno: dopo anni di utilizzi inferiori e meglio mirati ci ha fatto pensare trovare molti bianchi altoatesini, in particolare Chardonnay e Pinot Bianco di annate precedenti al 2024, con dosi di legno indubbiamente eccessive e ridondanti. È forse un segnale di “ritorno al passato?”
E di segnali ve ne abbiamo lasciati tanti così, ripetiamo, aspettiamo i vostri pareri perché se c’è una certezza è che noi, sul vino e oltre, di certezze ne abbiamo pochissime.

InvecchiatIGP: Barone Ricasoli - Casalferro 1997


di Roberto Giuliani

Per l’Invecchiato IGP ho scelto un vino che rappresenta fortemente la nuova visione che negli anni ’90 aveva preso piede soprattutto in Toscana, a Montalcino come in Chianti Classico. Ma la millenaria storia dei Ricasoli, proprio qui al Castello di Brolio a Gaiole in Chianti, ha vissuto un periodo del tutto particolare, infatti tra gli anni ’70 e ’90, la storica cantina e il noto marchio erano stati ceduti a terzi, che purtroppo non ne hanno fatto tesoro, anzi, l’hanno quasi ridotta in rovina, vini compresi. Per fortuna nel 1993 il barone Francesco Ricasoli, che investendo tutto quello che aveva e, forse, anche qualcosa in più, ha ripreso possesso dell’azienda e riacquistato il marchio, riuscendo in pochi anni a darle nuovo lustro, grazie al coinvolgimento di Filippo Mazzei di Castello di Fonterutoli, dell’enologo Carlo Ferrini e dell’ex direttore marketing della Duca di Salaparuta Maurizio Ghiori.


Il Casalferro è indubbiamente il simbolo di questa rinascita, prima annata 1993, sangiovese in purezza, ma la ’97 rappresenta anche il cambio di nome aziendale da “Castello di Brolio” a “Barone Ricasoli” (oggi semplicemente “Ricasoli”) e una piccola modifica nell’uvaggio con l’ingresso di una quota di merlot (oggi ormai solo merlot). Ora, per onestà devo dire che i vini firmati da Ferrini, soprattutto in quegli anni, non mi entusiasmavano, la sua mano a mio avviso si sentiva troppo, era più facile capire che un vino era di Carlo Ferrini che la sua provenienza, almeno per me. Del resto era un’epoca in cui il lavoro in cantina era fondamentale, tanta innovazione in macchinari e legni e, forse, non ancora abbastanza esperienza nell’utilizzarli, finivano a volte per indirizzare troppo il carattere dei vini verso il mercato del momento, penalizzandone le caratteristiche più intrinseche e distintive.


Detto ciò, è sempre un’emozione stappare una vecchia bottiglia, in questo caso di 28 anni. Nessun problema nell’estrazione del tappo, che risulta umido fino a un terzo dei suoi 5 cm. di lunghezza, con la parte a contatto con il vino tendente al viola-nerastro. Come da prassi, lo verso con delicatezza e lo lascio ossigenare a lungo, ascoltandone i profumi di tanto in tanto. 


Il colore è un granato ancora di buona intensità e luminosità, al naso appare un po’ statico, nonostante si stia ripulendo della prevedibile riduzione, non trapela una gamma ampia di profumi, sembra piuttosto stabilizzato su confettura di frutta, mallo di noce, tabacco, fumo, cuoio, leggero sottobosco e poco altro, non si muove da lì, non è cangiante e l’ossigeno non rivela nuovi sentori se non qualche cenno ossidativo.


Il sorso però mette in mostra una notevole freschezza, sembra molto meno “anziano”, non ha raggiunto l’armonia e a questo punto non credo ci arriverà mai, ma ha spinta e non mostra alcuna fatica, il tannino ha grana fine e un assetto preciso e ben inserito nella. Il tempo lo ha reso un vino meno voluminoso, per certi versi più apprezzabile, indubbiamente ha tenuto piuttosto bene, peccato per qualche limite sul piano olfattivo.

I Garagisti di Sorgono - Rosato Mandrolisai Doc "Garage" 2023


di Roberto Giuliani

Alla mitica Enopizzeria Avenida Calò: Monica, Cannonau e Muristeddu allevati ad alberello, un piccolo capolavoro che ti trascina in quella terra magnifica che è la Sardegna. 


Colpisce per le note affumicate, agrumi intensi e maturi, verve minerale; in bocca è un'esplosione di sapore. Finito in un baleno!

La Locanda del Poeta a Collalto Sabino: mangiare bene in un luogo incantato


di Roberto Giuliani

Abitando da più di vent’anni a Fiano Romano, alle porte della Sabina - rinomato territorio che si estende a nord-est di Roma, i cui confini anticamente valicavano Umbria e Abruzzo, ma che oggi ha il cuore nella Provincia di Rieti – posso dire di averlo approfondito sia dal punto di vista storico-paesaggistico che da quello enogastronomico. Ho perso il conto dei numerosi borghi che ho visitato e rivisitato, ormai scoprirne altri è diventato quasi impossibile. Così le mie gite serali o nei fine settimana, diventano più selettive, scelgo i luoghi che più mi hanno colpito o, come in questo caso, quelli più alti e freschi. Sul percorso che porta al ridente Comune di Collalto Sabino (uno dei più alti del Lazio, infatti sfiora i 1000 m. s.l.m.) mi piace fermarmi a mangiare alla Locanda del Poeta, sia per la posizione in cui è collocata, all’interno di un parco lontano da qualsiasi rumore, sia per la cucina davvero gustosa.


Erano un po’ di anni che non ci andavo, ho trovato i locali ingranditi e una gastronomia ancora più stimolante. Qui si lavora quasi esclusivamente con i prodotti del territorio e dell’orto bio, la tradizione sabina viene reinterpretata con un tocco di originalità, senza però stravolgimenti o voli pindarici, i piatti sono concepiti per dare piacere, soddisfazione, e ci riescono piuttosto bene. La cucina sabina è sorprendente per varietà e per influenze storiche, basti pensare che qui sin dall’800 si fanno risotti, chi lo avrebbe mai pensato? C’è poi una forte tradizione della pasta fatta in casa, con nomi spesso originali e curiosi come “cecamariti”, “falloni”, “frascarelli”, “fregnacce”, “ciufulitti”, “gnucchitti pilusi”, “curioli”, “mafriculi”, “jacculi” e tanti altri. La Sabina è fortemente collinare, tappezzata di ulivi, frutteti, boschi di querce, faggi, cerri, prati e pascoli; nonostante la vicinanza con la capitale è riuscita a preservare un territorio stupendo, ricco di fauna, tant’è che è bene percorrerne le vie con molta attenzione, capita spesso di incontrare volpi, tassi, istrici, cinghiali e persino mucche, quindi massima cautela, soprattutto di sera!


Ma tornando alla Locanda del Poeta, che la famiglia Lattanzio porta avanti dal 2006, il luogo in cui è collocata è uno dei più suggestivi che si possano trovare, circondata da boschi, vi si affaccia un piccolo lago dove si possono vedere numerose tartarughe acquatiche, gli unici suoni che si ascoltano sono quelli degli uccellini, delle rane e degli animali da cortile. Si può mangiare nell’ampia sala interna, circondata da vetrate che consentono di ammirare il panorama da ogni lato, oppure sotto un altrettanto spazioso gazebo in legno nelle serate fresche.

Fazzoletto di primo sale in pasta fillo

Il menu offre una scelta abbastanza ampia, tra gli “Sfizi della Valle” abbiamo scelto il “Fazzoletto di primo sale in pasta fillo con mele, noci e miele di castagno” e “Gazpacho di pomodoro, baccalà cotto al vapore, mayo al basilico e frutti rossi”. Due antipasti molti diversi ma ugualmente vincenti, almeno per il nostro palato; temevo che i Fazzoletti (ben quattro!) fossero un po’ pesanti, invece li ho trovati perfetti, asciutti e con un sapore equilibrato, piacevolmente accompagnati dalle sensazioni agro-dolci offerte dai frutti e dal miele. Gustosissimo il gazpacho, che mi ha veramente sorpreso (purtroppo ho dimenticato di fotografarlo…), un piatto altamente rinfrescante e balsamico, perfetto per il periodo estivo.

Maltagliati con baccalà, capperi ed olive

Non essendo dei gran mangioni né io né mia moglie, abbiamo scelto di passare ai primi e lasciare i secondi alla prossima occasione: “Tagliolini con ragù di cortile a modo nostro” e “Maltagliati con baccalà, capperi e olive”. I tagliolini erano veramente saporiti, cottura perfetta, le carni deliziose e ben amalgamate con la pasta; i maltagliati altrettanto buoni, unico neo una presenza un po’ esigua del baccalà.

Tagliolini con ragù di cortile

Ci siamo concessi di chiudere con un “Tiramisù della Locanda con savoiardo fatto in casa”, che ho apprezzato molto per la dolcezza contenuta.
La carta dei vini tocca varie regioni, forse manca un po’ di originalità nella scelta dei produttori, ma c’è ampio spazio per trovare vini più che adeguati a ricarichi onesti, noi abbiamo scelto il Cerasuolo d’Abruzzo di Marramiero che si è comportato benissimo con tutte le portate. Un pasto completo (antipasto, primo e secondo) viene a costare dai 40 ai 50 euro vini esclusi. La prossima volta non mancheremo di provare i secondi a base di carne.

La Locanda del Poeta
Via Turanense, km. 39,400 Collalto Sabino (RI)
Tel: 329 2428900
Aperto a pranzo e cena tutti i giorni

InvecchiatIGP: La Guardiense – Sannio DOP Fiano “Janare” 2016


Nel mondo del vino italiano, spesso aleggia un pregiudizio difficile da estirpare: quello secondo cui le cooperative sarebbero sinonimo di produzione industriale e qualità mediocre. Una visione ormai superata dai fatti, soprattutto quando si osservano realtà come La Guardiense, che da oltre sessant’anni rappresenta una delle eccellenze più virtuose del Sud Italia. Fondata nel 1960 a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, grazie all’iniziativa di 33 viticoltori lungimiranti, La Guardiense è diventata oggi una delle cooperative vitivinicole più importanti del Paese, sia per dimensioni che per visione strategica. Conta circa 1000 soci che coltivano oltre 1500 ettari di vigneti, situati in una zona collinare dal grande valore ambientale e viticolo, incastonata tra i monti del Matese e il Taburno, nel cuore della Valle Telesina. Ogni anno produce 150.000 ettolitri di vino e circa 6 milioni di bottiglie, distribuite in Italia e nel mondo.


A fare la differenza, oltre ai numeri, è la scelta di puntare con forza sulla qualità, sulla sostenibilità e sull’innovazione, mantenendo però saldo il legame con la tradizione contadina del Sannio. Sotto la guida del presidente Domizio Pigna, e grazie anche alla collaborazione con Riccardo Cotarella, la cooperativa ha avviato un profondo processo di modernizzazione, investendo in tecnologie all’avanguardia, ricerca agronomica e valorizzazione delle varietà autoctone come la Falanghina, il Greco, il Fiano e l’Aglianico.

Domizio Pigna e Riccardo Cotarella - Ph: Matesenews.it

Questa cooperativa dimostra che fare vino in forma associativa non significa rinunciare all’eccellenza, anzi. Prova ne è questo Fiano 2016 che ho degustato recentemente facente parte del progetto Janare che rappresenta una scommessa nella sperimentazione di tecniche agronomiche, finalizzate a valorizzare i vitigni principi del territorio. Il nome del progetto è tutt’altro che casuale.


Le Janare, nella tradizione popolare sannita, erano le seguaci di Diana, dea della luna e degli incantesimi notturni, custode delle selve, dell’agricoltura e delle donne. Secondo il mito, queste donne del Sannio erano indomite al punto da essere ritenute streghe, le cui pratiche rituali erano legate ai cicli della natura e alla magia ancestrale del territorio. Il progetto Janare non è solo un tributo alla forza femminile e alla cultura contadina del luogo, ma anche una dichiarazione di intenti: fare vino che esprima l’anima più autentica e mistica del Sannio.


Tornando a questo Fiano, ciò che colpisce immediatamente — prima alla vista, poi al naso e al palato — è l’integrità sorprendente del vino, che conserva energia e vitalità nonostante siano trascorsi quasi dieci anni dalla vendemmia. Al naso non cede nulla alla stanchezza dell’evoluzione terziaria: si apre invece su note fresche e nitide di mela, pera, fiori di campo e fieno, in un bouquet ancora integro e vibrante. Al sorso è pieno, perfettamente equilibrato, con una struttura che unisce eleganza e spinta acido-sapida. Nessuna concessione alla morbidezza fine a sé stessa: qui è la grinta minerale a guidare la beva, rendendo questo Fiano non solo longevo, ma profondamente espressivo del territorio meraviglioso come il Sannio.

Castello di Torre In Pietra – Lazio Fiano IGT “Macchia Sacra” 2023


Versione mediterranea del Fiano laziale, il Macchia Sacra, che prende il nome dall’antico bosco mitologico che protegge il Castello, profuma di agrumi e timo, con tocchi salmastri. 


Al palato è ricco, con vertiginosi ritorni iodati che stanno a ricordare il vicino Mar Tirreno verso cui affacciano le viti.

Clos Regain e il Jurançon che non ti aspetti


Il Jurançon, situato nel sud-ovest della Francia, ai piedi dei Pirenei, nella regione della Nouvelle-Aquitaine, è una delle zone vinicole più suggestive e al tempo stesso meno conosciute del Paese. La coltivazione della vite risale all’epoca romana, ma fu nel Medioevo, grazie al lavoro dei monaci benedettini, che la produzione vinicola assunse maggiore rilevanza. La fama del Jurançon si consolidò nel 1553, quando il vino fu usato per bagnare le labbra del neonato Enrico di Navarra, futuro Enrico IV di Francia, durante il battesimo: un gesto simbolico che gli valse l’appellativo di “vin royal”. Da allora, il Jurançon divenne simbolo di prestigio, molto apprezzato nelle corti nobiliari francesi.


Oggi il Jurançon è una zona vinicola che continua a distinguersi per la qualità dei suoi vini, grazie all’unicità del suo territorio situato attorno alla città di Pau, favorito da un microclima ideale dovuto alla protezione dei Pirenei e all’influenza del fiume Gave de Pau. I suoli variegati — marne, argille e calcari — donano ai vini una marcata mineralità, mentre le forti escursioni termiche tra giorno e notte favoriscono una perfetta maturazione delle uve.


La maggiore particolarità del Jurançon è la sua capacità di produrre sia vini secchi che dolci, sebbene la denominazione sia maggiormente conosciuta per questi ultimi. Il segreto della sua unicità risiede nei vitigni impiegati, tra i quali spiccano senza dubbio il Petit Manseng e il Gros Manseng (in misura minore troviamo anche Courbu Blanc, Petit Courbu, Camaralet de Lasseube e Lauzet), tutti caratterizzati da una spiccata aromaticità e da un’acidità che dona freschezza al vino.

Petit Manseng

Il Petit Manseng, in particolare, è il vitigno che meglio rappresenta l’identità della denominazione, ed è utilizzato per la produzione di grandi vini da vendemmia tardiva grazie al suo grappolo spargolo e alle particolarissime condizioni climatiche della zona, che impediscono lo sviluppo di muffe sugli acini. I forti venti che soffiano dai Pirenei fino alla valle permettono infatti un lento appassimento in pianta (passerillage), un fenomeno raro in altre aree vitivinicole.

Michel Boutin

Qualche tempo fa ho scoperto, grazie all’enologo Julien Seigneurie e alle dritte del mitico Guido Invernizzi, i vini della cantina Clos Regain, fondata da Michel Boutin, un canadese originario del Quebec che, innamoratosi del territorio, decise di trasferirsi nel Jurançon con l’intenzione di creare una cantina capace di produrre vini tanto tradizionali quanto contemporanei.


Se da una parte sono rimasto sbalordito per l’equilibrio sopraffino dei vini dolci di Clos Regain – cosa tutt’altro che scontata quando c’è una bella percentuale di zucchero residuo in gioco – il mio coup de cœur è andato senza dubbio al Clos Regain Sec 2022, che, grazie a un sapiente assemblaggio tra Petit Manseng e Gros Manseng, dona al vino un sorprendente equilibrio di sapori e una personalità davvero travolgente. Il naso, infatti, è di straordinaria territorialità ed esprime una girandola di profumi che spaziano dal tiglio alla pesca percoca, fino ad arrivare alle erbe aromatiche, agli agrumi e alla pietra focaia, il tutto in un quadro di leggiadra armonia. 


Al sorso è sostanzioso ma, al tempo stesso, ha una trama perfettamente bilanciata, espressa da una pingue morbidezza sostenuta da un’acidità affilatissima. Chiude il quadro gustativo un finale minerale decisamente interessante, così come il rapporto qualità/prezzo di questo vino che, se riuscirete a trovarlo, vi lascerà senza parole.

Nota tecnica: vino vinificato in acciaio inox. Dopo la fermentazione, il vino viene lasciato a riposare sulle fecce fini per qualche mese e sottoposto a regolari bâtonnage.

InvecchiatIGP: – Henri Bourgeois - Sancerre “Etienne Henri” 2012


di Lorenzo Colombo

La famiglia Bourgeois pratica la viticoltura da dieci generazioni nel villaggio di Chavignol, nella Loira centrale, ma la svolta che ha portato al successo l’azienda è dovuta a Henri Bourgeois che, negli anni ’50 del secolo scorso, si concentrò nella produzione di Sancerre nei due ettari di vigna situati a Chavignol. Negli anni ’60 i figli di Henri, Jean-Marie e Rémi, si aggiunsero al padre e acquistarono altri vigneti portando l’azienda ad essere conosciuta dapprima in Francia ed in seguito in tutto il mondo.


Attualmente l’azienda che è gestita da Arnaud, Lionel e Jean-Christophe Bourgeois, dispone di 72 ettari, suddivisi in 120 parcelle tra le appellations Sancerre e Pouilly Fumé e si è espansa anche al di fuori della Francia, acquistando nel 2001 90 ettari di terreni, nella regione di Marlborough in Nuova Zelanda e fondando l’azienda Clos Henri produttrice di notevoli Pinot noie e, naturalmente, Sauvignon.

Il vino

I vigneti sono situati su suoli composti da argille silicee e calcare sulle colline dei villages di Chavignol e Sancerre, la densità d’impianto è molto alta e gli intefilari sono inerbiti. La vinificazione è molto semplice, ovvero pressatura soffice e fermentazione in vasche d’acciaio dove il vino s’affina sui lieviti per circa sei mesi prima d’essere imbottigliato.


Si presenta con un color oro. Media la sua intensità olfattiva, ampio e complesso al naso, affascinante, minerale, verticale, ricorda i sassi bagnati, frutta tropicale, frutta a pasta gialla, arancia candita, mandorle, crema pasticcera, note vanigliate, leggeri accenni d’idrocarburi.


Dotato di buona struttura e verticalità, sapido e fresco, spiccata note minerali, acidità pronunciata, leggeri accenni speziati, pesca gialla, agrume maturo, mandorle, lunga la persistenza.

Alessio Brandolini - Provincia di Pavia Igt Bianco “Il Bardughino” 2023


di Lorenzo Colombo

Dapprima colpisce l’etichetta, opera del poliedrico artista Beppe Pasciutti, poi nel bicchiere si coglie la delicatezza del vino, frutto di uve Malvasia provenienti da San Damiano al Colle.


Fresco, sapido, asciutto, leggermente aromatico con note floreali, di frutta a polpa bianca e d’erbe officinali.

La Val di Cembra e il Müller Thurgau


di Lorenzo Colombo

Era da qualche anno che non salivamo nella valle del porfido, l’occasione di è presentata nella seconda metà del mese giugno quando Stefania Casagranda - conosciuta qualche mese addietro durante un evento a Milano - che si occupa tra altre mille cose dell’Ufficio stampa dell’Ufficio stampa Müller Thurgau: Vino di montagna, ci ha invitati a partecipare come commissari della 22ª edizione del Concorso Internazionale Vini Müller Thurgau che si è tenuta lo scorso 19 giugno a Cembra. Ma il concorso, che metteva in competizione 64 vini di diversa provenienza (45 trentini, 8 altoatesini, 1 proveniente dalla Valle d’Aosta e 10 dalla Germania) e che vedeva la partecipazione di 18 degustatori (19 in realtà), suddivisi in 3 commissioni, è stato solo l’inizio di questo interessantissimo viaggio in Val di Cembra, iniziato per l'appunto giovedì 19 con una serata nella Risto-Pizzeria Durer, a Segonzago, locale decisamente consigliato e che vede una clientela proveniente anche dalla città di Trento per la varietà e l’originalità delle sue pizze. Per il pernotto eravamo ospitati presso l’Agriturismo Maso Valfraja, un’oasi di pace a pochi minuti dal centro di Cembra, circondato da boschi e vigneti, dove al mattino Andrea ci preparava la colazione con le uova delle sue galline.


Detto del concorso, tenutosi il 20 giugno mattino e dopo il pranzo presso l’Agritur Le Cavade, con salumi, tortel de patate e smacafam, nel pomeriggio ci aspettava un tour panoramico in e-Bike tra i vigneti terrazzati, con partenza da Villa Corniole dove Maddalena Nardin si ha proposto alcuni dei suoi vini, il Trento Doc Salísa Zero Riserva del millesimo 2018, e il Dolomiti Igt Kròz Bianco 2020, frutto di un blend in parti uguali tra Chardonnay e Müller Thurgau. Dopo un paio d’ore di pedalata tra le vigne siamo infine giunti presso Cembra Cantina di Montagna dove, ovviamente, ci attendeva un’altra degustazione con il Trento Doc Riserva Oro Rosso ed un paio di Trentino Doc Riesling di diverse annata.


Dopo un’intensa giornata è infine giunta l’ora di cena tenutasi presso la Distilleria Pilzer, con le specialità di carne della Macelleria Palazzi che ci ha proposto tre costate di diversa provenienza e frollatura, oltre allo Speck dell’Imperatore, di loro invenzione. Durante e dopo la cena Bruno Pilzer ci ha a lungo intrattenuti raccontandoci il suo percorso di distillatore e le prossime novità in cantiere, non poteva naturalmente mancare la visita al reparto degli alambicchi.


Il sabato mattina è riservato alla visita all’interessantissimo Museo del Porfido di Albiano, peccato sia aperto unicamente su prenotazione e per gruppi di almeno 15 persone; una piacevole, inaspettata ed emozionante sorpresa è stata quella di vedere tra le numerose foto esposte di città più o meno importanti con strade e piazze pavimentate con porfido estratto dalle cave di Albiano, la piazza del mio paese di nascita, Vedano al Lambro. Ci ha guidati alla scoperta del museo Maurzio Gilli, sindaco di Albiano, che ci ha quindi condotti con una breve ma piacevolissima passeggiata tra boschi e castagneti sino al Parco faunistico per vedere i cervi, sempre con lui siamo poi stati a pranzo presso il Ristorante Borgo Antico, hotel e ristorante inaugurati nel novembre dello scorso anno. Nel pomeriggio abbiamo partecipato al Trekking enogastronomico Baiti en festa (vedi), organizzato dall’associazione Cembrani Doc, altra piacevole passeggiata inframmezzata purtroppo da un acquazzone che ci ha colti in campo aperto tra due tappe del percorso.


Nella mattinata di domenica 22 abbiamo effettuato la visita guidata alla Chiesa di San Pietro con le pareti (ed i soffitti) completamente ricoperti da affreschi di diverse epoche e quindi ci siamo trasferiti al grazioso Lago Santo dove abbiamo pranzato presso l’omonimo Rifugio prima d’intraprendere il viaggio verso casa. Parte delle esperienze da noi vissute -che avranno creato un poco d’invidia-possono essere godute partecipando alla 38ª edizione della rassegna “Müller Thurgau: Vino di Montagna” in programma dal 4 al 6 luglio prossimi.