De Zhuang e la scoperta dell'hotpot migliore di Roma


Frequentando spesso Quartino ed Astemio Wine & Food, due wine bar di Roma situati nel quartiere multietnico dell'Esquilino, Marco Wu, proprietario dei dei due locali e neo ambasciatore di Beviamoci Sud Roma, mi ha sempre spinto ad andare a trovare due suoi cari amici che da qualche tempo avevano aperto un fantastico hotpot a due passi da Piazza Vittorio. Alla sue perseveranza ho sempre bleffato facendo finta di sapere cosa sia un hotpot e la mia faccia tosta è andata avanti finchè, finalmente, non sono passato per la prima volta a visitare De Zhuang dove Giorgia Chen, figlia di ristoratori cinesi ma è cresciuta in Italia, è la grande padrona di casa.

Appena entrato la prima domanda che ho fatto alla giovane ristoratrice è stata proprio quella che tutti voi lettori vi aspettavate: "Giorgia, ma che cosa è l'hotpot?"

L’hotpot è una pentola di brodo bollente posta al centro del tavolo. Nasce come cucina povera dei marinai che nei porti trovavano ristoro con un buon piatto caldo, anche se questo significava riutilizzare gli scarti. Un concetto che oggi più che mai rientra nel tanto in voga ma soprattutto etico “no waste”. I pro dell’hotpot però a quanto pare si riversano anche nelle sue funzioni benefiche che, tramite i suoi brodi bollenti e talvolta piccanti, liberano il corpo dell’umidità trattenuta, soprattutto nelle stagioni calde.



Essenziale è però la pentola ed infatti nella piccola Cina di Via di San Vito a Roma è quella che va scelta per prima: con 1 o 2 gusti (piccante e/o dolce) o con 9 griglie che, realizzata nei tempi antichi, preservava in cottura la netta separazione dei sapori delle interiora degli animali. Si passa poi alla scelta del brodo: pomodoro e funghi porcini (ideale per un’esperienza orientale in pieno stile vegetariano), piccante e non.


Ed è questa la vera chicca dell’indirizzo romano: i 6 gradi di piccantezza fino ad un massimo di 75 gradi. Un’intensità di piccante data dall’olio del grasso animale, tutto fatto in casa, brevettato e registrato dalla casa madre come “Il grado di piccantezza del Signor Lu” - “Chi l’ha detto che il piccante si divide solo in basso, medio e alto?”.


Dopo questa spiegazione, Giorgia invita me e gli altri ospiti al tavolo perchè iniziamo a mangiare all'insegna della massima condivisione perchè cucinare e “pescare” dal piatto di qualcun altro, divertirsi, giocare con i sapori e scoprire, è il vero concept del locale.


A tavola la grande protagonista è la carne – sakura – di agnello o manzo e le interiora (coda e intestino di maiale, sanguinaccio) ma, per chi non gradisce, vi è anche una vasta proposta di pesce, verdura e pasta (spaghetti di soia, gnocchi con patate rosse cinesi) da accompagnare, se si vuole, a tante buonissime salse (satai, sesamo, ostrica, arachidi, soia, universale).


Il menù alla carta propone anche piatti già cotti (involtini, riso saltato con manzo o uova e ravioli) e dolci, a partire dalla gelatina con frutta cinese. Tante poi le bevande da accompagnare, birre e vino rosso ideali per contrastare il brodo caldo.


La sala, dagli spiccati arredi orientali e nei toni del rosso, ospita fino a 80 coperti distribuiti per 20 tavoli, tra i quali alcuni più riservati rappresentano la vera eccezione dello spirito dell’hotpot, nato invece, come già detto, per condividere.

Giorgia

Insomma da De Zhuang io mi sono davvero divertito e ho mangiato benissimo per cui il mio invito è quello di passare a trovare Giorgia il prima possibile perchè qua non c'è nulla di turistico e a Roma, credetemi, non è assolutamente scontato.

CONTATTI
Via di San Vito 15/16 Roma
TEL. 06 57297420
Aperto tutti i giorni a pranzo e a cena, tranne il martedì

InvecchiatIGP: La Scolca - Gavi Dei Gavi DOCG Riserva 'D'Antan' 2009


di Luciano Pignataro

Pregi e difetti di un paese anarcoide come il nostro: tutti a fare bollicine dalle Alpi alla Sicilia, dal Tirreno alla Ionio, con tutti i vitigni possibili e immaginabili. Siamo ben lontani dall’ordine cartesiano gallico anche se poi ritorna sempre nei nostri discorsi come esempio inimitabile, diciamo pure onirico. Intendiamoci, anche in Italia alcuni territori hanno raggiunto traguardi straordinari, ma l’aspetto più interessante per gli appassionati è anche scoprire le potenzialità che ciascun vitigno autoctono riesce poi ad esprimere con la spumantizzazione, meglio se con il metodo classico.


La Scolca percorre una strada autonoma da cento anni, dal 1919 per la precisione, molto prima che le bollicine e i vitigni autoctoni diventassero una moda o una tendenza dalla quale non si può prescindere. E diciamo la verità, se il Cortese ha raggiunto alti livelli espressivi è anche grazie alla perizia con cui Giorgio Soldati è riuscito, anno dopo anno, a dare valore a questo vitigno nel cuore di Gavi.


Parliamo della Gavi Dei Gavi DOCG Riserva 'D'Antan' 2009, provato di recente, ottenuto da uve selezionate con lieviti indigeni, lavorate in acciaio e messo in commercio in genere solo dopo dieci anni di affinamento (l’ultimo è il 2010). Colpisce in primo luogo la spettacolare complessità olfattiva che varia dalla dolcezza dei frutti esotici all’agrumato (cedro), in una piacevole cornice di note balsamiche e di leggere affumicature, ancora tostatura e zafferano, note di pasticceria. Perfetta la corrispondenza fra naso e palato dove prevalgono la sapidità (nessuna concessione alla dolcezza) e una freschezza incredibile e inaspettata che gratifica la beve e invoglia al sorso successivo. Stupendo il finale, preciso e pulito. Il vino è di buon corpo, il perlage fine e suadente, inarrestabile.


Una bellissima bottiglia che sintetizza bene l’incontro fra padronanza tecnica e le potenzialità di questi vigneti collinari, coltivati seguendo i principi della biodinamica, che rendono stupendo e ordinato il paesaggio.

Valdibella - Nero d'Avola "Respiro" DOC Sicilia 2020


di Luciano Pignataro

Libero dagli eccessi di legno, dalle surmaturazioni, da trucide estrazioni, il Nero d’Avola torna a respirare. I mezzi giustificano il fine? 


Era tempo che non bevevo questo rosso siciliano finalmente fresco con avidità senza stancarmi, la bottiglia finisce subito. Uno dei bei progetti della cooperativa che rispetta l’ambiente.

Elena Fucci e il suo Titolo alla prova del tempo


di Luciano Pignataro

Abbiamo seguito sin dalla nascita questa azienda del Vulture che ha segnato una svolta decisa nel territorio imponendo uno stile vincente, leggibile all’esterno e distensivo. In effetti, la maggior parte dei produttori di Aglianico chiede sempre un impegno mentale e uno sforzo palatale quando si approccia a questo vitigno austero che domina l’Appennino Meridionale e che ormai si affaccia sul Tirreno, sullo Ionio e sull’Adriatico con sempre maggiore insistenza.
Avete presente il senso di libertà quando si procede in controesodo, quando hai la strada vuota e di fianco ci sono lunghe file di persone che hanno deciso di fare tutti la stessa cosa allo stesso momento? Bene questa è la metafora che ben raffigura i vini di Elena Fucci.


Il padre insegnante era indeciso se vendere o meno la bella proprietà, si era in una fase di crisi nella quale non si vedevano prospettive, fu allora, siamo ai primi anni di questo millennio, che Elena decise di studiare Enologia a Pisa.  
Sin dalla 2004 il suo vino inizia a distinguersi subito dagli altri per la bevibilità, la capacità di risolvere i tannini, riuscire ad estrarre un buon frutto e regalare una piacevolezza immediatamente leggibile al vino. Una inversione di tendenza rispetto al modello imperante nel Vulture, e che sino a pochi anni prima era stato tale anche in Campania, di procedere a lunghe estrazioni, magari puntare anche su surmaturazioni, caricando oltre modo un vitigno che ha già tanto di suo.


Il Global Warming di questo ventennio ha poi favorito le aree più fredde, dove l’uva aveva difficoltà a raggiugere la piena maturazione e bisognava aspettare sino a novembre per la vendemmia esponendo il raccolto a gravi rischi.
Trentamila bottiglie da un vigneto complessivo di nove ettari a circa 500 metri su livello del mare, proprio alle falde del Vulcani che eruttò da sette bocche in maniera spaventosa circa 700mila anni fa lasciando tracce ben visibili di quel frullato geologico.

Solo da poco la produzione è stata diversificata, con un Aglianico lavorato in anfora e lo Sceg da vigne ultra settantenni salvate dall’abbandono proprio grazie a questo progetto. Sceg è una parola di derivazione albanese che indica il frutto del melograno, simbolo di fortuna e di speranza sin dall’antichità. Non dimentichiamo infatti che Barile è uno dei tre paesi (gli altri sono Ginestra e Maschito) nati con gli insediamenti degli albanesi in fuga dall’avanzata degli Ottomani. Tra gli ultimi nati, merita una citazione anche Titolo Pink.


L’occasione per tornare sulle storie di questa terra onirica e ancora tutta da scoprire è stata la degustazione organizzata al Maschio Angioino nel corso dell’ultima edizione di Vitigno Italia nel corso della quale Elena ha portato cinque annate più una.


TITOLO 2005

Procediamo dalla più antica che conferma quanto scritto sopra e, in genere, la forza dell’Aglianico che resta impassibile di fronte allo scorrere del tempo. Ancora fresco, di buon frutto croccante, lungo e piacevole nel finale

TITOLO 2006

Annata equilibrata e matura, il frutto si presenta integro, appena un po’ più maturo rispetto all’annata precedente. Il sorso è lunghissimo, la chiusura precisa e pulita.

TITOLO 2013

Facciamo un salto indietro di appena dieci anni e troviamo questo campioncino in ottima forma, pimpante, ricco di energia, con una buona acidità. Colpisce la sua grande bevibilità, Elena spiega che nel frattempo hanno leggermente cambiato il protocollo usando botti leggermente più piccole delle barrique. Sempre, comunque, in questo vino, legno e fritto sono perfettamente integrati.

TITOLO 2015

Bellissima annata che regala un vino integro, puro, leggero, equilibrato, dotato di grande verve, assolutamente al passo con i tempi. Anche in questo caso finale lungo e piacevole che invoglia a ripetere il sorso.

TITOLO 2020

Il vino prodotto durante i momenti difficili del Covid e delle chiusure, quando si viveva l’incertezza per il futuro. Anche questo, come i precedenti, coperto dai punteggi alti da parte di tutte le guide, un rating che porta Titolo sempre nella top 50 dei rossi più premiati d’Italia.

TITOLO 2017 in Magnum

Fuori degustazione, una magnum della 2017, annata sicuramente complicata e non facile da gestire, che però si presenta in ottima forma, con note di frutta fresca, rimandi basamici, buccia di arancia, appena un po’ di fumè. Al palato tannini setosi, buona acidità, chiusura lunga e piacevole.

CONCLUSIONE

Oggi Titolo è la risposta moderna agli eterni problemi dell’Aglianico: vini che vanno messi in cura dimagranti e lavorati acino su acido per cacciare vi le note verdi e amare sempre in agguato e pronte a guastare la festa. Un vino che può permettersi il lusso di costare un po’ di più per dare il giusto valore ad un lavoro interamente artigianale che oggi trova la sua celebrazione in una cantina perfettamente eco-compatibile che è diventata tappa obbligata per gli appassionati.

InvecchiatIGP: Collemattoni - Rosso di Montalcino 2013


di Carlo Macchi

Oramai il Rosso di Montalcino è un vino di cui si parla molto e su cui i produttori ilcinesi, con il consorzio in testa, stanno puntando.


L’idea è quella di un vino rosso giovane ma gagliardo, che presenti anche buone capacità di invecchiamento. Questa “versione” del Rosso di Montalcino sembra accettata da tutti ma in passato non è stato certo così. Si andava da rossi abbastanza leggeri e freschi a dei veri e propri Brunello travestiti da Rosso.
Questo Rosso di Montalcino 2013 fa sicuramente parte della seconda tendenza o forse (sto scherzando) è un Brunello che è stato etichettato come Rosso di Montalcino.


Certo è che dalla potenza olfattiva, dove ancora del buon legno deve essere completamente armonizzato e la nota balsamica e officinale è imperante ma mediata da fini note fruttate, ci si aspetta qualcosa di diverso e “di più” da un Rosso di Montalcino. Forse sarà merito anche dell’annata 2013, una delle poche fresche degli ultimi 10 anni, che mantiene in perfetta giovinezza la parte aromatica.


Al palato ritroviamo non solo freschezza ma una potenza importante con tannini adesso dolci ma presenti. Devo ammettere che in generale i vini di Collemattoni si esprimono meglio col tempo ma questo Rosso di Montalcino è ancora giovane e promette di rimanerlo per diversi anni. Se ne avete qualche bottiglia in cantina provate a stapparla tra cinque/sei anni e sono convinto che direte “Ma che bel Brunello!”

Tenuta di Castellaro - Terre Sicilane IGT "Eùxenos" 2021


di Carlo Macchi

I migliori anni della nostra vita. Gustando un vino delle Eolie torno sempre al brano di Renato Zero, perché in quelle isole, d’estate, ho avuto il privilegio di passarceli. 


Così quando ho assaggiato questa Malvasia delle Lipari in purezza maturata in anfora non dico che ho pensato “Il miglior vino della mia vita” ma…

Sicilia en Primeur, le impressioni di un enosauro di nome Carlo


di Carlo Macchi

Lo ammetto prima a me stesso e poi a voi tutti: quando mi presento a manifestazioni come Sicilia en Primeur mi sento come un dinosauro del vino (si dirà enosauro? Boh!) e mi rendo conto che il mio punto di vista, di assoluta retroguardia, mi porta a vedere le cose in maniera “antica” o forse sbagliata, non so.


Per questo non mi è facile parlare di una manifestazione come Sicilia en Primeur, in quanto oltre che enosauro sono anche responsabile di una guida vini con la conseguenza che, da maggio a novembre, i tempi miei e dei collaboratori di Winesurf sono dettati dagli assaggi per la guida. Venire a Sicilia en primeur è come stare in ferie per cinque giorni, in meravigliose ferie aggiungo, ma siamo in un periodo in cui dobbiamo “produrre” assaggi e per assaggi intendo “da guida”, cioè seriali e alla cieca e in questi bellissimi cinque giorni di assaggi di quel tipo abbiamo potuto farne molto pochi.


Se dovessi creare un format adatto a me e a pochi altri dinosauri del vino invertirei il programma, mettendo tre giornate di degustazioni bendate (del resto con quasi 300 vini da dover degustare “blind” è il tempo che ci vuole) , una di visite in cantina e una di incontro con i produttori (leggi banchini o, come si dice oggi, walk around tasting). Ma capisco che Sicilia en Primeur nasce per presentare, partendo dal vino, la Sicilia a 360° con la sua storia, i suoi panorami, la sua gastronomia e la sua gente. Questo mix la rende inossidabile ed è giusto che continui così. I colleghi esteri devono godersi questo mix per riproporlo poi sulle loro testate e presentare con varie sfaccettature e punti di vista i vini siciliani e la SICILIA.


L’ho scritto in lettere maiuscole perché questa è una terra maiuscola, nel bene e nel male: la grandezza dei suoi monumenti, dei monumentali panorami, delle sue sempre più organizzate aziende viticole in qualche caso fa a cazzotti con le monumentali buche presenti in tante strade, che rendono il girare per quest’isola un’impresa che richiede tempo, attenzione e pazienza.
Poi arrivi in cantina, giri per le vigne, assaggi i vini e dimentichi tutto, perché l’ospitalità è calda, vera, sincera, in qualche caso indimenticabile: come quando degusti ai piedi del Tempio della Concordia ad Agrigento (dopo averlo visitato!) oppure giri per colline è vigneti che si estendono a perdita d’occhio interrotti solo da pochissime case e piante d’olivo. Ti senti dentro a storie e mondi molto più grandi di te e sono momenti che valgono qualsiasi viaggio. Questo è il valore impagabile di Sicilia en Primeur e lo capisce anche un dinosauro come me.
Ma veniamo “all’angolo del dinosauro” cioè ad un punto sugli assaggi fatti in questi giorni, bendati o alla cieca.


La prima cosa da dire è praticamente scontata e cioè che la media qualitativa si è indubbiamente molto elevata, più nei bianchi che nei rossi. Sarà merito della tanto vituperata DOC Sicilia? Difficile dirlo in due parole ma sicuramente una DOC che non viene lasciata a se stessa porta sempre benefici e sinergie importanti. Questo in Sicilia e in qualsiasi parte dello stivale.


Cresce il livello medio e forse per questo vengono a mancare, in parte, quei vini dove rimanevi sorpreso e ammirato. Questo, lo ripeto, accade più per i rossi che nei bianchi. Quest’ultimi, grazie soprattutto al catarratto e, per quanto riguarda l’Etna, al Carricante, mostrano delle potenzialità che per assurdo rischiano di spostare alcuni concetti radicati dei vini siciliani. Il primo è che i bianchi di questa terra meravigliosa vanno bevuti nell’anno o poco più, mentre oramai è chiaro che se vuoi apprezzare un bianco siciliano, delle Eolie o di Pantelleria, devi aspettare almeno un anno. Spostare in avanti il punto di fruizione di bianchi anche a base grillo e inzolia può creare problemi di vendita ma forse, da buon enosauro, vedo problemi dove molte cantine vedono possibilità. Sicuramente i migliori assaggi della mia Sicilia en Primeur sono tra i bianchi e anche scambiando pareri con colleghe e colleghi mooooooolto più giovani di me ho recepito buone sintonie in tal senso.


Tra i rossi si assiste ad uno sviluppo del nero d’avola verso una bevibilità non scontata, cioè non verso rossi rotondoni e piacioni ma puntando a equilibri (anche provando a tenere l’alcolicità sotto controllo) che in passato erano molto meno presenti. Questo per me è un gran passo avanti, almeno per questo vitigno, perché se ci mettiamo a parlare di uve come syrah il discorso cambia molto e ci porta verso vini dove l’alcolicità e la pienezza sono forse troppo evidenti. A questo punto mi viene da pensare che avere in casa un vitigno da secoli ti porta a capirlo meglio di quelli che sono arrivati da qualche decina d’anni.


A proposito di uve “locali” sono stato colpito dalla straordinaria e profonda piacevolezza di alcuni Frappato, che riescono a sviluppare anche profumi di rosa, impensabili in passato.


Ho lasciato volutamente da ultime due parole sulla zona che ormai passa quasi avanti al termine “Sicilia” cioè l’Etna. Qui mi permetto di rimandarvi ai nostri assaggi, che faremo anche grazie all’aiuto del Consorzio Etna DOC e alle conseguenti riflessioni che vi proporremo tra poco tempo (almeno per bianchi e rosati). Siamo comunque in un momento importante e il futuro di questo territorio si giocherà per me nei prossimi 3-5 anni. In questo periodo, se si capirà dove dover frenare (leggi prezzi e bottiglie pesanti) e dove andare avanti con molta calma (vedi nuovi impianti), si arriverà a renderlo veramente un unicum enoico invidiabile, che potrebbe anche essere un volano commerciale per tutta la Sicilia.


Pur se sono un enosauro ho gli occhi e quindi non mi è per niente sfuggita la difficoltà di organizzare un evento del genere. Per questo mi sembra giusto ringraziare Assovini Sicilia a nome di tutte le associazioni e Consorzi che hanno permesso la sua realizzazione e Just Sicily e Ab-Comunicazione per averla rese praticamente possibile.

A questo punto sono pronto per la prossima glaciazione.

InvecchiatIGP: Vigneti Villabella - Villa Cordevigo Rosso 2005


di Roberto Giuliani

La storia di Vigneti Villabella affonda le sue radici nel 1971, quando Walter Delibori e Giorgio Cristoforetti fondarono l’azienda. Nel 2002 i due soci, già proprietari dei vigneti circostanti, acquisiscono Villa Cordevigo a Cavaion Veronese, che dopo nove anni diventa anche Wine Resort.


Questo Rosso Veronese IGT, classe 2005, proviene proprio da quei vigneti ed è composto da corvina per il 60%, cabernet sauvignon e merlot per il 20% ciascuna, vendemmiate tardivamente e leggermente appassite; affina in botti di ciliegio da 7 ettolitri e tonneaux. Prima di descriverlo ci tengo a precisare alcune cose: quella in mio possesso è una magnum, la gradazione alcolica dichiarata è del 14,5%, è rimasta conservata dal 2008 a oggi nella propria confezione in legno, coricata, al buio, ma non in cantina, quindi ha subito per 15 anni un’escursione termica fra inverno ed estate di almeno 15 gradi.

L'azienda vista dall'alto (foto:italysfinestwines.it)

La condizione del tappo era perfetta, l’ho estratto senza difficoltà, appena versato ho percepito subito note molto evolute, che paventavano un vino stanco, in declino, tanto da aver pensato fosse meglio passare ad altra etichetta. Invece è bastato farlo respirare per una decina di minuti e la musica è cambiata radicalmente, lasciandomi ben sperare.


Il colore è ancora bello compatto, certamente granato ma intenso e profondo, senza evidenti flessioni sul bordo; ve lo sto raccontando in diretta, cosa che trovo decisamente più interessante, perché posso dirvi man mano come si “muove”. Intanto quei sentori di stantio, di funghi cotti, di straccio bagnato, sono letteralmente spariti, lasciando spazio a un frutto maturo ma non marmellatoso, si coglie la prugna, la marasca, arrivano note speziate di cardamomo, cannella, tracce vegetali mature, cacao, sbuffi di tabacco e pelle conciata, richiami al sottobosco ma non in direzione dei funghi, piuttosto di piante umide. Interessante scoprire che al suo interno ha ancora tracce floreali, certamente di petali appassiti, ma nel complesso non è affatto fiacco, si sveglia sempre di più, magari riuscissimo anche noi umani a ringiovanire solo ossigenandoci…

La cantina (foto: italysfinestwines.it)

All’assaggio emerge chiaramente l’indirizzo espressivo indotto dall’appassimento, il frutto è in confettura e rilascia sensazioni dolce che lo fanno accostare a molti Amarone, senza però averne né gli eccessi alcolici né la muscolarità, ma mostrando un bell’equilibrio e una bevibilità più che apprezzabile, tanto che, non ditelo a nessuno, ne prendo un altro sorso.

Vigneti (foto: italysfinestwines.it)

È la freschezza che mi lascia maggiormente stupito, nel senso che c’è proprio una spinta acida che dà slancio al sorso, come a dire “sono ancora qui, non mollo”, e più passano i minuti più sembra ringiovanire! Sarebbe stato il vino ideale per Benjamin Button (ricordate “Il curioso caso di Benjamin Button, alias Brad Pitt?).

Baccagnano - Ravenna IGP Sangiovese "52 Fuochi" 2020


di Roberto Giuliani

In quel di Brisighella nascono anche sangiovese come questo, prodotto da Marco Ghezzi che da subito ha scelto di adottare i tappi a vite per i suoi vini. 


Il 52 Fuochi è una gioia per i sensi, fruttatissimo, succoso, fresco, con una balsamicità naturale, di quelli che bevi benissimo anche in estate.

Barbacarlo e Montebuono, i vini di Lino Maga dagli anni ’80 a oggi


di Roberto Giuliani

A Terre di Vite, manifestazione tenutasi lo scorso fine settimana a Bomporto (MO), uno dei seminari più interessanti è stato dedicato alla famiglia Maga condotto da Sandro Sangiorgi (una presenza fissa a Terre di Vite), al quale non potevo assolutamente rinunciare. E ho fatto bene, sia perché il noto giornalista di Porthos era in gran forma (tanto che la degustazione si è protratta ben oltre i limiti per via delle numerose domande poste dai partecipanti), sia perché il Barbacarlo e il Montebuono presentati dal 1989 al 2019, scegliendo delle precise annate di riferimento, era un’occasione davvero ghiotta per approfondire due vini che rappresentano davvero qualcosa di leggendario.


So che c’è una specie di contrapposizione fra chi li ama e chi no, ma a mio avviso questo dipende proprio dal fatto che non sono vini “facili” ma hanno bisogno di essere conosciuti nelle loro diverse sfaccettature ed evoluzioni. Non è un caso che proprio la 1989 sia stata l’annata che mi ha fatto davvero emozionare.


Ma scendiamo nel dettaglio: i vini presentati erano sette, che poi sono diventati otto, quindi non tantissimi, ma le intenzioni non erano quelle di fare una classica verticale, bensì di prendere a riferimento alcune annate e mettere a confronto due vini diversi ma con un’impronta comune, quella fortemente voluta da Lino Maga e oggi portata avanti dal figlio Giuseppe.


Siamo a Broni, in una zona del tutto particolare dell’Oltrepò Pavese (che nessuno del luogo scrive con l’accento sulla “o”, cosa a mio avviso più corretta visto che il nome è legato al fiume più grande d’Italia, che ne è privo, mentre stranamente il disciplinare lo prevede con l’accento, ma Lino Maga in etichetta non lo ha mai messo), le vigne si trovano su una collina dalle pendenze che metterebbero a dura prova chiunque (70% di media), dove il suolo è tufaceo-sassoso a una quota di circa 300 metri s.l.m.


Terra che un vero contadino come Lino conosceva a menadito e sapeva lavorare, accompagnato dall’inseparabile sigaretta, una costante nella sua vita. Qui risiedono croatina, uva rara e ughetta (già, come il nome della mia compianta gatta…), le rese d’uva per ettaro nelle vigne di Maga sono lontane anni luce da quelle di chiunque altro, sia per sua scelta, sia perché con quel tipo di suolo e pendenza non potrebbero che essere basse, mediamente 30-35 quintali per ettaro, meno di un terzo di quanto consente il disciplinare dell’Oltrepò Pavese. Ma tanto i suoi vini sono sempre stati piuttosto indipendenti, alcune annate sono uscite come DOC Oltrepò Pavese Rosso (e in quel caso diventavano Vigna Barbacarlo e Vigna Montebuono), altre come IGT Provincia di Pavia (senza menzione vigna).

Ma veniamo al racconto di questa degustazione.

Innanzitutto Sangiorgi ha voluto che i vini fossero coperti, perché era importante non sapere quale fosse il Barbacarlo e quale il Montebuono, né avere riferimenti sull’annata. Si sapeva solo che si partiva dai più vecchi per arrivare ai più giovani, per una ragione molto semplice: i vini recenti sono più aggressivi e tannici, mentre gli “anziani” più sottili, equilibrati, giocati su sensazioni più ampie ma sussurrate, degustarli al contrario avrebbe certamente penalizzato quest’ultimi.


Questo tipo di situazione è ben diverso dalle degustazioni in batteria, durante le quali devi leggere un vino appena versato in uno-due minuti. Qui puoi lasciarlo respirare a lungo, sentirlo e risentirlo più volte, hai davvero la possibilità di conoscerlo anche nei suoi lati più nascosti, quelli che si rivelano solo dopo decine e decine di minuti. Potessimo farlo sempre, probabilmente tante valutazioni sarebbero leggermente diverse…

1) Oltrepò Pavese Rosso Montebuono 1989: cangiante come non mai, parte con note speziate e di erbe aromatiche, un frutto maturo che richiama l’amarena caramellizzata, ma anche la ciliegia; ferroso, ematico, scorza di arancia amara, tocchi fumé, vaghi richiami al fungo e al sottobosco. Al palato ha ancora una bella vitalità, tutto il suo carattere terragno emerge con forza, il tannino aggredisce con brevi tocchi per poi immergersi nel frutto. Un vero spettacolo per i sensi.

2) Oltrepò Pavese Rosso Barbacarlo 1989: va detto che nella storia di questi due vini, il Barbacarlo ha quasi sempre adombrato il Montebuono, a mio avviso ingiustamente, questa degustazione me lo ha chiaramente confermato. Meno disponibile nella fase iniziale, poi mostra un bouquet equilibrato ma non così ampio e variegato come il precedente, ha un bel timbro balsamico, un frutto ben espresso e non surmaturo, una speziatura più delicata, qui amarena e ciliegia si alternano in modo ritmato; l’assaggio rivela molto più sulla bellezza di questo vino, più passano i minuti e più sale, coinvolge, mostrando un equilibrio straordinario e una freschezza che mai ti farebbe pensare a un vino di 34 anni. Il tannino è perfettamente inserito nella polpa che non scalpita ma si spalma sulle pareti della bocca, rilasciando inebrianti sensazioni. Monumentale.

3) Oltrepò Pavese Rosso Montebuono 1996: bottiglia sfortunata, nella mia fila, per fortuna ce n’è un’altra, purtroppo però ci sono molti depositi e il vino non è del tutto fruibile, peccato perché rivela comunque un bel frutto vivo e una piacevole vena balsamica. Anche al palato esprime una notevole vivacità e freschezza, i suoi 27 anni non si sentono per nulla, ha i tratti della grande annata pur non essendo una bottiglia felicissima.

4) Oltrepò Pavese Vigna Barbacarlo 2002: un’annata micidiale un po’ in tutta Italia, salvo rare eccezioni, piovosa per lunghi periodi, con una pausa abbastanza prolungata solo dopo i primi di ottobre. Chi ha aspettato e raccolto più avanti (e Maga è uno di questi) ha ottenuto un vino certamente più esile ma di grande fascino. Tutta quella forza e spinta di cui il Barbacarlo è capace, qui trova una dimensione altra, giocata sulla freschezza e su una grande purezza di frutto con anche cenni floreali. Un vino fortemente godibile, per nulla stanco.

5) Barbacarlo 2018 (Provincia di Pavia Rosso IGT): da qui si sente netto lo stacco con le altre annate, siamo in piena fase scalpitante, c’è maggiore materia, toni scuri sia nel colore che nella tipologia di frutto, non solo amarene ma anche prugne. Al gusto racconta il breve vissuto iniziale attraverso una spiccata vena acida e un tannino aitante, tanto frutto succoso che ne favorisce già una invitante bevibilità.

6) Barbacarlo 2019 (Provincia di Pavia Rosso IGT): che dire, rubino cupo, un’amarena avviluppante con intarsi di mora di rovo e prugna, ciliegia nera, arancia sanguinella. Il sorso evidenzia tutta la sua energia giovanile, eppure, nonostante sia un puledro scalpitante, l’abbondanza di frutto riempie di sapore le pareti della bocca nascondendo in parte la tensione acido-tannica in un contesto di assoluto piacere.

7) Montebuono 2019 (Provincia di Pavia Rosso IGT): impressionante esempio di quanto questo vino non sia affatto secondo al Barbacarlo, anzi, proprio con questa annata sprigiona tutta la sua bellezza, evidenziando una purezza espressiva che lascia senza parole. Tutto in divenire, certo, ma la tessitura è magistrale, perfetta, rifinita come non mai. Costi quel che costi prendetene qualche bottiglia finché siete in tempo perché vi darà enormi soddisfazioni.

8) Montebuono 2005 (Provincia di Pavia Rosso IGT): a sorpresa e non previsto ecco un millesimo di rara bellezza, a mio avviso un’annata di quelle che molti hanno riscoperto solo dopo anni, poiché nella fase iniziale, penso soprattutto ai tanti assaggi fatti in Langa, dava vini molto essenziali, senza smancerie, diretti e molto veri, territoriali, un’annata che potremmo definire classica (oggi sempre più rara). Anche il Montebuono rientra in quest’ottica, con tutti i suoi tratti caratteristici comunicati senza strillarli ma con una notevole progressione dove vince l’eleganza rispetto alla potenza.


N.B. Chi conosce Sandro Sangiorgi sa bene che è un personaggio del tutto particolare, dalla capacità narrativa indiscutibile, ma anche amante di sperimentazioni che lo portano a spingersi ben oltre il linguaggio del vino. In questa occasione, ad esempio, ha voluto proporre ai partecipanti, di affiancare alla degustazione del tutto autonoma (35 minuti di tempo), un estratto da tre noti lavori di Mozart che, a suo avviso, ben si adattavano a questi due vini: Il Flauto Magico, magnificamente eseguito dai Berliner Philharmoniker (oggi Berliner Philharmonisches Orchester) sotto la direzione del grande Karl Böhm; un movimento dell’ultimo concerto per piano e orchestra n.27 in si bemolle maggiore K.595, e una serenata di cui purtroppo non ricordo il numero. Con me ha sfondato una porta aperta, visto il mio grande amore per musica e vino!

InvecchiatIGP: Argiano – Brunello di Montalcino 1979


Argiano, il cui nome si pensa possa essere origine romana evocando il dio Giano (Ara Jani), fa parte senza dubbio della storia più profonda e tradizionale di Montalcino tanto che la sua tenuta risale al 1580 quando i Tolomei iniziano a costruire sia villa Bell’Aria sia la cantina. Nel corso dei secoli la Tenuta passò di proprietà fra varie famiglie nobiliari fino ad arrivare al 1992 quando passo sotto la proprietà della contessa Noemi Marone Cinzano che introduce importanti innovazioni nella gestione dell’azienda vinicola e alla quale si deve il rilancio del nome Argiano dando impulso, con l’aiuto del grande Tachis, alla nascita del Solengo, il grande Super Tuscan di Montalcino. Si arriva così ai giorni nostri, col passaggio di proprietà nel 2013 e la guida dell’azienda nelle mani di Bernardino Sani, che dal 2015 ne firma anche i vini e che, dal 2019, ha fatto sì che l’azienda sia la prima a Montalcino ad aver bandito tutte le plastiche monouso oltre che praticare un’agricoltura organica e rigenerativa.


Attualmente l'estensione totale dei vigneti è 57ha, ripartiti su vari disciplinari, varietà e cloni. Il vitigno preponderante è, ovviamente, il Sangiovese, che occupa circa 40ha, ma troviamo anche piante di Merlot, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot utili per la produzione del Solengo.

Tenuta Argiano

In occasione del Paestum Wine Fest ho avuto l’occasione, grazie ad una verticale storica, di degustare l’annata 1979 del Brunello di Montalcino di Tenuta Argiano che, lo anticipo, è stato un viaggio a ritroso nel tempo emozionante anche perché l’annata riporta ad un periodo storico dove il territorio non aveva ancora avuto il successo straordinario che oggi tutti riconosciamo a Montalcino e al suo Sangiovese. 


Il colore si presenta vitale e luminoso con questo manto granato estremamente affascinante che anticipa un naso affatto stanco nonostante la sua evoluzione aromatica dove si percepisce la frutta rossa disidratata, rabarbaro, infusi di erbe aromatiche per poi aprirsi verso echi di cera, incenso, tabacco, polvere di cacao e noce moscata. Bocca ancora in perfetta forma, signorile e di gran classe, il tannino è perfettamente fuso nel corpo del vino che rimane dinamico e dotato di progressione sapida. Chiude, lunghissimo, su sensazioni speziate e balsamiche.


Concludendo, il Brunello di Montalcino 1979 di Argiano è una foto emblematica dell’essenza di Montalcino, un territorio capace di dare origine a questi gioielli che possono riscoperti nel corso del tempo in maniera davvero esaltante.

L’Erm – Erbaluce di Caluso DOGG “Jyothi” 2021

La nouvelle vague dell’Erbaluce di Caluso, in passato così bistrattato, passa anche per Borgomasino, nel Canavese, dove Jyothi Aimino, piemontese di origini indiane, coltiva tre ettari suddivisi tra nebbiolo ed erbaluce. 


Questo vino è essenza del territorio ma è al tempo stesso spensierato. Brava Jyothi!

Cantina Terlano e quella gemma preziosa chiamata Terlaner Primo I Grande Cuvée


Nella mia intensa attività di degustatore ho compreso che ci sono territori naturalmente vocati per la produzione di uve a bacca bianca e, al contempo, ci sono aziende vitivinicole che, per questione di opportunità e, ovviamente, di cuore, non fanno altro che dare libero sfogo alla loro “anima bianchista” producendo grandi vini che sfidano il tempo e le mode. Questo binomio perfetto, in Italia, trova la perfetta collocazione in Alto Adige, tra Merano e Bolzano, con la Cantina Terlano.


Fondata nel 1893, questa cooperativa sociale conta oggi 143 soci che coltivano un totale di circa 190 ettari. Posizionata all’interno di un cratere vulcanico millenario, i suoi vigneti sono piantati all’interno di un suolo costituito prevalentemente da porfido quarzifero ricco di minerali che insieme alle particolari condizioni micro e macroclimatiche regalano una straordinaria longevità ai vini tanto che il loro archivio enologico, che conta oltre 100.000 bottiglie, è uno scrigno ricolmo di rarità dove si possono trovare varie annate dal 1955 ad oggi (in realtà ci sono anche bottiglie che risalgono a fine ‘800).


La gamma di produzione Terlan include i vini della linea Tradition, i vini della linea Selection e il grand vin Terlaner I Grande Cuvée. Ogni anno la cantina esce anche con il Rarity “Metodo Stocker”, un vino che dopo tanti anni di maturazione sui lieviti fini fa emozionare i suoi appassionati.

Gasser e Kofler

Grazie alla presenza di Klaus Gasser, direttore vendite e marketing, e Rudi Kofler, responsabile tecnico, poco tempo fa ho avuto la fortuna di partecipare a Roma alla presentazione dell’ultima annata del Terlaner I Grande Cuvée che, secondo l’azienda, è la più alta espressione dei tre vitigni identitari di Terlano: Pinot Bianco, Chardonnay e Sauvignon Blanc.


Nato nel 2011 rappresenta pienamente la filosofia dell’azienda ed è oggi il bianco più prezioso della collezione perché, come eccellenza, viene prodotto solo nelle annate migliori, solo quando tutti i fattori climatici sono talmente favorevoli e ben combinati tra loro da far risaltare in pieno il Terroir di provenienza che viene esaltato dalla combinazione di questi tre grandi vitigni in grado di far emergere l’essenza di una tradizione ultracentenaria, svelare il cuore più nobile dell’uvaggio storico.
Rudi Kofler, spiega, infatti, come “il Pinot Bianco, presente per il 60-70% a seconda dell’annata e della qualità, detenga la quota maggiore tra i tre vitigni e rappresenti la spina dorsale della cuvée, garantendo freschezza, una elegante tessitura e una buona struttura acida. Lo Chardonnay copre, invece, il 20/30%, regalando consistenza e morbida profondità. Il Sauvignon Blanc, la cui quota oscilla solitamente tra il 2 e il 5%, è il partner che completa l’uvaggio con le sue raffinate caratteristiche aromatiche.”


Per comprendere al meglio come si è arrivati all’ultima annata prodotta, la 2020, Rudi e Klaus ci hanno permesso di comprendere le potenzialità evolutive del Terlaner I Grande Cuvée grazie ad una piccola verticale di questo vino presentato anche nelle annate 2016, 2018 e 2019.


La 2016 (75% Pinot Bianco, 23% Chardonnay e 2% Sauvignon) ci viene descritta dallo stesso Rudi come una annata non facilissima in Alto Adige, caratterizzata da un anticipo vegetativo seguito da una gelata primaverile, fortunatamente non troppo dannosa, e con precipitazioni ricorrenti e superiori alle medie stagionali durante l’estate che per fortuna è terminata con giornata calde e asciutte che hanno permesso una vendemmia ottimale. Il vino nel calice, se dovessi fare un paragone artistico, ha caratteri boteriani, ha sinuosità ed abbondanza di “ciccia”, leggermente tostate, smussate da tocchi di fiori di acacia, gelsomino e lieve mineralità gessosa. Al palato mostra tutta la sua classe e la sua morbida struttura. Pieno, bilanciato e fresco, dal lunghissimo finale di frutta matura. Un vino che ha un suo stile, che piaccia o meno.


La 2018 (65% Pinot Bianco, 32% Chardonnay e 3% Sauvignon) è stata abbastanza estrema dal punto di vista meteo perché ad un inverno freddo e piovoso si è alternata una stagione estiva dal clima torrido ed interrotta da ingenti piogge ad inizio settembre. Rispetto alla precedente annata, il vino sembra decisamente diverso, come se a Terlano avessero deciso di cambiare filosofia di produzione abbandonando certe grassezze del vino che ora nel calice si compone di richiami aromatici che spaziano tra l’agrume mediterraneo al salgemma fino ad arrivare a sensazioni di gelsomino e pietra focaia. Palato teso, intenso, di rigorosa linearità che sfocia in un finale sapidissimo.

Il Terlaner I Grande Cuvée 2019 (70% Pinot Bianco, 28% Chardonnay e 2% Sauvignon) figlio di una annata inizialmente fredda tanto da ritardare la fioritura che è terminata solo a fine maggio. Subito dopo le temperature si sono fatte torride, a ridosso dei 40 gradi, fino ad agosto dove temporali frequenti hanno sì portato refrigerio ma, al tempo stesso, anche danni nella conca di Bolzano e Gries. La vendemmia è cominciata con tempo ottimale nelle prime settimane di settembre, quindi un po’ in ritardo rispetto alle ultime annate. L’analisi organolettica del vino ci mostra che la strada tracciata con la 2018 continua ad essere percorsa per cui nel calice ritroviamo un vino agile, dalla sostenuta verticalità e dalla rigida aristocraticità. Aromaticamente è ricco di richiami ai fiori bianchi, alle erbe di montagna, al salgemma, il tutto impreziosito da un tracciante agrumato di bergamotto. Al sorso è tutta tensione e progressione, con un finale inarrestabile quasi iodato.


L’annata 2020 di Terlaner I Grande Cuvée, descritta di persona da Kofler durante la presentazione stampa, è figlia di una stagione estremamente complicata che, soprattutto a causa di un mese di giugno freddo e piovoso, ha messo a dura prova i nervi dei vignaioli che, con buona dose di pazienza e sapienza contadina, alla fine sono riusciti a ottenere dei risultati di tutto rispetto. Ancora giovanissimo nel calice, il Terlaner I Grande Cuvée ci ha fatto sobbalzare dalla sedia per la sua grande luminosità associata ad un’ottima dose di energia dove un naso nordico e mediterraneo al tempo stesso anticipa un sorso penetrante e già molto espressivo in termini equilibrio. Chiude con una leggera nota fumè. Da conservare ancora per anni ma buonissimo anche ora!