Castello Bossi - Barbaione Metodo Classico


di Stefano Tesi

Mica facile oggi farsi sorprendere da un metodo classico chiantigiano a base di Sangiovese. 


Ci riesce quest’intrigante dosaggio zero, col naso intenso di crosta di pane, note fumè e biscotti Lazzaroni (i profumi della memoria), lasciati sospesi nel retrogusto e tenuti a bada dall’acidità e dalla verticalità del sorso.

Avete mai partecipato ad una "orizzontale" di bistecca?


di Stefano Tesi

A quindici anni istoriavo il diario Vitt con artistiche graduatorie dei migliori cinque gruppi, chitarristi, bassisti, cantanti, tastieristi e batteristi del rock.

Poi ho smesso.

E da allora in nessun settore mi sono più dilettato in punteggi o classifiche assolute, per via del fatto che quelle graduatorie tendono a lasciare scolpite per sempre nella pietra, come verità immutabili, giudizi il cui scopo e natura è, viceversa, quello di evolversi nel tempo e in relazione alle circostanze.


Sono rimasto quindi un po’ sorpreso quando qualche tempo fa ho ricevuto l’invito a partecipare a una “verticale della bistecca”. Nel senso, ho inteso lì per lì, del tipo di carne migliore per cucinarne una. Argomento tanto spinoso quanto complesso, soprattutto in Toscana dove la ciccia dà sempre vita a dibattiti accaniti quanto, spesso, surreali. Quando mi sono presentato alla sede della tenzone, la classica Osteria Cipolla Rossa, in pieno centro storico fiorentino, ho potuto però rincuorarmi subito.

Massimo Manetti e Marco Benvenuti

Primo, perché l’appuntamento aveva tutte le caratteristiche di una serata gaudente, anziché quello di un’inquisizione carnivora. Secondo, perché non si trattava affatto di una “verticale”, ma casomai di una “orizzontale”: i commensali erano chiamati infatti a giudicare, fra tre bistecche di razze bovine diverse (di cui si conoscevano i tempi di frollatura, stando forse in ciò la “verticalità”), quale risultasse la più gradevole al palato. Terzo, e soprattutto, perché la circostanza era improntata al massimo relativismo: fermi restando la cottura sulla medesima brace e la mano del medesimo cuoco, era ovvio che qualunque classifica avrebbe potuto riferirsi solo ed unicamente a quella serata.


Massimo Manetti, titolare del ristorante e della storica Macelleria Manetti Massimo, nata nel 1892 e divenuta il punto di riferimento per la carne al Mercato Centrale di Firenze, non ha girato intorno al perché dell’iniziativa: “Per parlare di cibo, e a maggior ragione di bistecca”, ha detto, “occorre conoscerla. E l’unico modo per farlo è assaggiare. Ecco come mai abbiamo deciso di metterne a confronto, in parità di condizioni e qui, nel locale tipico che gestiamo da quindici anni e di cui quindi abbiamo tutto sotto controllo, tre di razze diverse: Maremmana, Black Angus e Chianina. In modo da offrire in parallelo la possibilità di valutare la provenienza, le caratteristiche, la sapidità delle diverse varietà. A Firenze del resto la bistecca c’è sempre stata, come la tradizione ci insegna. Ma l’appellativo “alla Fiorentina” è venuto dopo, lo ritroviamo nell’Artusi”, ha aggiunto. “E la bistecca può essere nel filetto o nella costola. Denominatore comune lo spessore e la cottura al sangue. Nella costola la presenza dei grassi assicura maggiore sapidità e più tenerezza. Per noi la bistecca più buona e più saporita è dunque quella nella costata”.

Ed eccoci all’assaggio.

Decisivo davvero il metodo prescelto: la tre bistecche sono arrivate non contemporaneamente ma in sequenza di cottura, quindi sempre alla stessa temperatura e solo quando era già terminata la degustazione del campione precedente. Stessa brace e stesso cuoco, come detto, quindi tutto identico tranne la carne.


Nessuna ha deluso, ma non solo a parere del sottoscritto la più gradita è risultata la Maremmana, grazie alla sua marcata sapidità unita a una consistenza in bocca quasi scioglievole e tuttavia asciutta, tenera al morso e facile al taglio, succulenta ma al tempo stesso compatta e ricca di un retrogusto lungo, incisivo, mai ingombrante. Decisamente più tenace in bocca si è rivelata la carne di Black Angus, bella rossa, senza dubbio molto gustosa e saporita, ma meno suadente della precedente, sebbene assai “bisteccosa” sotto l’aspetto strettamente tattile.


Marcata, come previsto, l’identità e la personalità della Chianina, senza dubbio la più tosta delle tre bistecche per via della sua consistenza più elastica e filamentosa ed il suo gusto profondo, deciso. Buonissima, ma a conti fatti meno convincente della meno celebrata Maremmana.

Ed ora si apra il dibattito…

InvecchiatIGP: Galardi - Terra di Lavoro 2007


di Luciano Pignataro

Ogni generazione ha il suo calciatore preferito e assolutizza i propri gusti sulla base del proprio vissuto estendendoli a chi è stato e a chi sarà. Con il vino italiano, con tutto il rispetto che dobbiamo a qualche etichetta dei decenni che hanno preceduto lo scandalo del metanolo, è possibile parlare in termini assoluti dal punto di vista cronologico perché dopo il 1986 abbiamo vissuto una viticoltura completamente nuova attraverso la moda delle barrique e quella delle no-barrique, del vetro, del cemento, delle anfore, dei vini filtrati e non filtrati, dei lieviti selezionati e di quelli indigeni e tralasciano di entrare nelle mode dei sistemi di allevamento, della selezione dei cloni. Tirando le somme, possiamo fare una nostra Hall of Fame, di vini cioè che dovrebbero restare per sempre nell’immaginario collettivo.


Fare questa selezione per i rossi della Campania è sicuramente un po’ più facile, essendo questa una regione essenzialmente bianchista. Non sono pochi comunque i rossi di grande spessore, ma le specificità dell’Aglianico ha fatto da filtro facendone passare alla fine pochi. Tra questi non vi è dubbio che il Terra di Lavoro di Galardi, prima edizione 1994, è uno dei più grandi in assoluto, leggibile anche fuori dalla regione, forte di una complessità straordinaria dal punto di vista olfattivo e gustativo. Ottenuto da uve Aglianico e Piedirosso coltivate alle falde del vulcano spento di Roccamonfina (dove nasce la Ferrarelle) parte sempre un po’ lento per evolversi in maniera spettacolare dopo quattro, cinque anni.


Di questa etichetta mai però avremmo dato importanza alla 2007, abbiamo anche riletto gli appunti di degustazione scritti nel corso di una verticale fatta con Riccardo Cotarella, l’enologo della piccola azienda di Sessa Aurunca che oggi non supera le 30mila bottiglie da dieci ettari di terreno vitato: non era l’annata che aveva brillato di più nel 2010. Riprovata nella seconda verticale nel 2018 già presentava un carattere diverso e più convincente:
L’impressione iniziale è quello di tuffare il naso in un cesto di frutta e spezie dolci. Grafite in sottofondo. Non tarda la componente balsamica. Al gusto è diretto e schietto nel mostrarsi più giovane dell’età che ha. Un “trentenne palestrato" e ruggente. Al palato è rampante anche nel tannino. Spiccata sapidità dalla verve fresca e percettibile. Particolare il ritorno di zolfo anche al gusto. Buona la componente acido-sapida. Il fin di bocca richiama in modo netto gli aromi della macchia mediterranea.

Allegra Selvaggi - Galardi

La 2007 è una annata generalmente amata dagli enologi per le sue caratteristiche tranquille: certamente annata calda che ha consentito una regolare maturazione delle uve grazie alle piogge giuste al momento giusto. Calda perché per certi versi richiamava la 2003, prima vera annata torrida e tropicale di questo millennio, ma appunto, più regolare al punto di consegnare nelle cantine frutta fresca, matura e sana.


La riproviamo nelle migliori condizioni possibili: con un gruppo di cari amici in una giornata di sole adatta a festeggiare il mio onomastico in quel di Sant’Agata sui Due Golfi, con la cucina sincera e semplice dello Stuzzichino. Dalla bella cantina si decidere di spendere questo rosso 2007 su un pollo vegetariano, cresciuto sgambettando nell’Orto Ghezzi seguito dalla famiglia Di Gregorio e ne godiamo in pieno quello che secondo noi è lo zenit del vino: profumo di frutta matura con rimandi di sottobosco, note lievi di cenere e di fumé, grandissima freschezza al palato, allungo meraviglioso nel finale che resta nella memoria papillosa per un tempo lunghissimo che lascia spazio alla voglia di ripetere subito il sorso.


Un grandissimo vino di valore assoluto, straordinario, in uno spettacolare rapporto fra qualità e prezzo. Un consiglio a tutti gli appassionati: fate incetta di queste bottiglie come se non ci fosse un domani.

A Roma arriva la Sardegna di Vinodabere


Conoscere la produzione vitivinicola di un'isola affascinante come la Sardegna; girare tra i banchi di assaggio ed apprezzare la varietà enologica che questa terra sa offrire; incontrare di persona gli artigiani del vino e degustare oltre 170 etichette. Tutto questo succederà a Roma a La Sardegna di Vinodabere, alla sua prima edizione, che si terrà sabato 21 e domenica 22 gennaio all'Hotel Belsaty.


Saranno 40 le cantine sarde selezionate dal team della testata Vinodabere diretta da Maurizio Valeriani profondo conoscitore della produzione locale, che condurrà i visitatori in un viaggio alla scoperta di tante aree diverse tra loro, ovvero Alghero, Gallura, Mamoiada, Mandrolisai, Ogliastra, Orgosolo, Oristanese, Sorso, Sulcis ed il sud della Sardegna. Alcuni di questi stessi territori saranno anche i protagonisti delle masterclass in programma sabato 21 gennaio. Scopo di questa manifestazione, al suo primo anno di vita, è quello di promuovere una viticoltura dove ancora tanto è da scoprire, attraverso l'assaggio di vini prodotti da realtà anche di piccole dimensioni e meno conosciute, oltre che da cantine note in tutto il Mondo.

Tra bollicine, bianchi, rossi e rosati La Sardegna di Vinodabere sarà una esperienza vinosa fatta di mille colori, sfumature ed odori: un tour in una terra fatta di storia e di tradizioni, con lo sguardo attento e curioso sul futuro.

Programma

Sabato 21 gennaio ore 9:00: Masterclass “Il Carignano del Sulcis ed il piede franco” – condotta da Dario Cappelloni e Maurizio Valeriani. Costo 25 euro. Prenotazioni https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Sabato 21 gennaio ore 10:30: Masterclass “Mamoiada e la viticoltura di montagna” – condotta da Dario Cappelloni, Antonio Paolini e Maurizio Valeriani. Costo 25 euro. Prenotazioni https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Sabato 21 gennaio ore 12: Masterclass “Mandrolisai e la vocazione enoica di un territorio nel cuore della Sardegna” – condotta da Dario Cappelloni e Maurizio Valeriani. Costo 25 euro. Prenotazioni https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Sabato 21 gennaio ore dalle 15 alle 16,30

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa. Ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Sabato 21 gennaio ore dalle 16,30 alle 20,30

Apertura banchi di assaggio per il pubblico (kit di degustazione 25 euro con calice incluso; acquisto on line a 20 euro https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere). Per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Domenica 22 gennaio ore dalle 10 alle 12,30

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa. Ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Domenica 22 gennaio ore dalle 14 alle 19

Apertura banchi di assaggio per il pubblico (biglietto di ingresso 25 euro con calice incluso; acquisto on line a 20 euro https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere). Per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Per il kit di degustazione per l’ingresso cumulativo nelle due giornate il costo è 40 euro, acquisto on line a 30 euro https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Veuve Fourny Et Fils - Champagne 1er Cru Grands Terroirs


di Luciano Pignataro

Sentori agrumati di cedro a cui corrisponde una sorprendente e moderna freschezza al palato. Questo Champagne, bevuto a Capodanno, è una cuvèe di tre annate dove Chardonnay (80%) e Pinot Noir provengono da 9 ettari piantati dai fratelli Charles-Henry ed Emmanuel nella zona Vertus, nella Côte des Blancs, 


Insuperabile rapporto qualità e prezzo.

Cantine Olivella e le due anime del Piedirosso sul Vesuvio


di Luciano Pignataro

Pur amando l’Aglianico nelle sue diverse declinazioni alla domanda su quale sia il rosso tipico della Campania non posso che rispondere: Piedirosso. Si tratta di una varietà conosciuta solo dagli addetti ai lavori, si avvicina a quei rossi leggeri e bevibili come il Pelaverga, la Lacrima di Morro d’Alba, la Bonarda ed è per questo che veniva usato, insieme ad altre varietà locali simili come lo Sciascinoso, per tagliare l’aglianico. Un grande vino come Terra di lavoro, è appunto il frutto di un taglio otto a due tra Aglianico e Piedirosso.

foto: vino.tv

Si tratta di un varietà non particolarmente amata dai contadini perché poco prolifica, e neanche dai vinificatori perché ha sempre avuto problemi di riduzione e di scarsa pulizia al naso. Da una ventina di anni, grazie al lavoro di giovani enologi possiamo dire che è diventata la grande novità della Campania ovunque venga coltivato e vinificato con attenzione: il suo profumo è di geranio e di frutta fresca, inconfondibile anche a chi non ha fatto una sola lezione di approccio al vino, al palato è bevibile perché ha tannini sottili che si risolvono molto facilmente. Un vino antico ma anche moderno perché ama il caldo e il suolo sabbioso vulcanico, si è ben allocato nei Campi Flegrei, il territorio a Nord di Napoli che è un frullatone di terra, acqua e fuoco e, appunto, sul Vesuvio. E’ presente da protagonista nella doc Campi Flegrei e in quella Lacryma Christi del Vesuvio, talvolta con un saldo di aglianico.

Ciro Giordano

Tra le Cantine che hanno saputo valorizzarlo c’è Cantina Olivella a Sant’Anastasia, un paesone sul versante nord del Vulcano, famoso un tempo per il mercato di carni ovine e per il Santuario della Madonna dell’Arco, luogo di culto che raccoglie decine di miglia di persone ogni anno. Il progetto di Cantina Olivella nasce ufficialmente nel 2005 anche se al lavoro sui dodici ettari è la terza generazione. Questa azienda a noi è sempre piaciuta per il rigore filologico del progetto che non ha mai ceduto a sollecitazioni commerciali: l’azienda è sempre stata concentrata sulle uve tipiche del territorio vesuviano, la Catalanesca e il Caprettone per i bianchi, il Piedirosso e altre varietà a bacca rossa per i rossi.
Ecco allora il Piedirosso in una doppia versione che questa azienda propone da quest’anno.


"Vipt" 2021 Piedirosso Vesuvio Rosso DOP

Si tratta della etichetta classica aziendale, con una fermentazione moto semplice in acciaio e il riposo in bottiglia sino alla primavera. In queste condizioni Il Piedirosso esprime al meglio la sua fragranza fruttata e floreale ed è ideale sui piatti della tradizione contadina dell’orto vesuviano o su una semplice pasta al pomodoro.


Vesuvio Rosso 2020 DOP

Questa è la nuova etichetta in cui l’uva è in purezza ma viene lavorata in anfora. Una sperimentazione che l’azienda ha fatto anche sulla catalanesca e delle due stavolta ci è sembrata più convincente proprio quella in rosso. Si tratta infatti di un Piedirosso che non ha perso la freschezza ma ne acquisisce in profondità e anche, soprattutto all’olfatto.


Due piccoli grandi vini di una viticultura rispettosa dell’ambiente, si tratta infatti di uve certificate biologiche, che esprimono biodiversità senza scorciatoie. Imperdibili per entrare nell’anima della gente che vive alle falde del vulcano, o, come la chiamano loro, ‘a Muntagna.

InvecchiatIGP. Querciabella - Batàr 2012


di Carlo Macchi

Il fatto di essere vecchi ha pochissimi vantaggi ma uno è sicuramente quello di “aver presenziato” , alla fine degli anni ’80, all’esplosione di questo chardonnay e pinot bianco (se non sbaglio però le prime annate era solo chardonnay) fermentato e maturato in legno piccolo. Infatti Il Batàr di Querciabella è sicuramente uno dei bianchi toscani più famosi, un vero è proprio Supertuscan bianco sin dalla prima annata nel 1988. Come per ogni grande vino, specie negli anni in cui polemiche tra tradizionalisti e innovatori si sprecavano, si crearono due schieramenti: da una parte chi vedeva in questo vino la via italiana ai grandi bianchi borgognoni (allora non tanto di moda) chi invece lo accusava di essere un vino pretenzioso, dove il legno marcava troppo il vino.


Non siamo qui adesso per dire chi aveva ragione o torto, anche perché a Querciabella se ne sono sempre ampiamente strafregati, continuando per la loro strada che è passata anche attraverso la conversione alla biodinamica all’alba del nuovo secolo. Dicevo che la prima annata è stata la 1988, bevuta molti anni fa rimanendone impressionato, ma allora fare grandi bianchi in Toscana era un po’ come camminare sulle acque, un miracolo. Poi l’ho incontrato altre volte, con giudizi alterni: sia verso la fine del secolo che nei primi anni del nuovo mi era sembrato una brutta copia molto legnosa delle prime edizioni, mentre con il passare degli anni mi erano arrivate voci di un suo “alleggerimento” sul fronte dei legni e della struttura.


Per questo quando in cantina mi sono imbattuto in questo 2012 non c’ho pensato un minuto e l’ho portato in casa. Certo valutare un bianco di un’annata tra le più calde di questo caldo secolo a dieci anni dall’uscita non è certo fargli un favore ma ricordate il vecchio detto “Quando il gioco si fa duro i duri entrano in gioco”?. Con il Batàr 2012 è successo proprio questo.


Il colore era quasi dorato e il naso all’inizio quasi recalcitrante a dare segnali di vita. Ma era solo un attimo di snobbismo enoico, il farsi attendere di una bella donna che fa parte di ogni serata che si rispetti. Così dopo un po’ sono cominciate ad uscire note di crema, vaniglia accanto e sempre più intensi aromi di frutta bianca. Poi è stato il momento delle erbe e delle spezie e mano a mano che il vino si apriva e si scaldava si fondevano le sensazioni, senza però mai diventare aggressive o troppo marcate. “Eleganza, eleganza, eleganza” sembrava suggerirmi il vino. Certo è che niente denotava aromi cotti o maturi e tutto era giocato su un registro non certo urlato ma sussurrato.


Ma il meglio mi aspettava in bocca, con una sapidità quasi debordante accanto a un corpo importante ma non certo “pantagruelico”. Il legno dava segnali di vita, ma solo per indicare la strada, il resto lo facevano una freschezza soffusa e una persistenza notevole. Dava l’impressione di un vino leggero ma invece in bocca non finiva mai.


Insomma, questo Batard 2012 mi ha fatto capire che, per dirla con una battuta che “è l’eleganza del pinot bianco che traccia il solco, ma è la forza dello chardonnay che lo difende”.

De' Ricci - Vino Nobile di Montepulciano 2019


di Carlo Macchi

Color rubino scarico ma brillante, naso con frutta rossa matura accanto a spezie finissime. Bocca leggiadra, giustamente tannica, fresca, mai aggressiva. 


Una seta fatta vino. Assaggiato bendato e mai avrei detto Nobile di Montepulciano, perché una finezza del genere è hors categorie in quella zona.

Alla scoperta dello Xinomavro, il rosso più elegante della Grecia


di Carlo Macchi

Sono almeno due anni che Haris Papandreou, il nostro agente all’Avana per il vino greco ci ripete che “Lo Xinomavro assomiglia molto al Nebbiolo”. 


Per questo, quando ce ne siamo trovati di fronte una ventina, non dico che ci aspettavamo una bella serie di “quasi” Barolo ma una cosa simile. Invece le cose sono andate diversamente, ma prima di dirvi cosa è successo alcune notizie sul vitigno. La parola Xinomavro è l’unione dei termini “Acido” (xino) e “nero” (mavro), anche se gli acini e soprattutto il vino che ne deriva non è proprio di una colorazione intensa. Viene coltivato nella Macedonia Centro-Occidentale, soprattutto nella zona di Naoussa, da cui è partito per trovarsi poi a suo agio anche nelle vicine zone di Amynteo, Goumenissa, Siatista e Rapsani.


In realtà negli anni ’60 del secolo scorso era coltivato solo nella zona di Amynteo, perché Naoussa era stata colpita dalla fillossera a inizi ‘900 e da allora i vigneti non erano stati ripiantati. Il primo rempianto a Naoussa fu nel 1968 e oggi ci sono quattro DOP (oltre a Naoussa Amynteo, Goumenissa, e Rapsani) a base Xinomavro.

La degustazione

L’assaggio che la redazione di Winesurf ha fatto a fine novembre aveva 18 vini da 9 cantine diverse. La cosa che ci ha stupito di più è stato trovarsi davanti, all’inizio ad alcuni Xinomavro vinificati in bianco e rosé, sicuramente non il miglior modo per avvicinarsi a questo vitigno.
Le cose sono migliorate nettamente passando ai rossi, sia giovani che con qualche anno di invecchiamento. Mentre assaggiavamo i primi l’idea che quest’uva assomigliasse al Nebbiolo (se si lascia da parte il colore non certo intenso) si scioglieva come neve al sole, anche perché la potenza non è certo paragonabile al vitigno di Langa e i tannini sono molto più levigati e rotondi. Però una cosa che Haris ci aveva detto c’era e cioè un aroma di pomodoro che scompare però dopo qualche anno di invecchiamento. Una caratteristica molto particolare che caratterizza veramente il vitigno e non dipende assolutamente da scarsa maturazione in quanto non è affiancato da note vegetali ma da sentori fruttati.


Ad un certo punto, attorno al decimo vino degustato abbiamo cominciato a guardarci come tra giocatori di poker, attendendo che qualcuno parlasse, ma niente è successo sino al tredicesimo vino, uno Xinomavro in purezza del 2012 di Apostolos Thymiopoulos, quando quasi all’unisono abbiamo esclamato: “Ma questo sembra un Sangiovese!” In effetti sia il colore non certo rubino intenso, che le note aromatiche che soprattutto la trama tannica e la presenza al palato erano quelle di un ottimo sangiovese chiantigiano.


In definitiva: lo Xinomavro, si è dimostrato un vitigno estremamente eclettico, con caratteristiche che variano a seconda dei territori dove è coltivato che da un punto di vista altmetrico vanno dai 150-200 metri di molte vigna di Naoussa sino ai quasi 700 della DOP Amynteo. Lasciando un attimo da parte le versioni in bianco e rosé sono vini profumati, di non grande intensità colorante, dotati di profumi particolari che vanno dal pomodoro alle spezie, con una buona (ma non eccessiva) tannicità e una freschezza precisa ma non marcata. Maturano bene e sicuramente negli ultimi anni progressi tecnici in vigna e in cantina gli permettono di invecchiare bene per diversi anni.


In chiusura oltre allo Xinomavro 2012 di Thymiopoulos ci piace sottolineare anche:

XinomavRAW 2020, Oenops. Xinomavro in purezza: Colore rubino scarico, bei profumi di pomodoro e china, di media potenza con tannini giovani e ancora ruvidi ma dal finale dolce.


Kali Riza 2019 Amynteo DOP, Kir-Yianni. Vino che nasce quasi a 700 metri di altezza da xinomavro in purezza, ha un’equilibrata freschezza e i classici aromi del vitigno ben amalgamati a frutta rossa. In bocca è rotondo e armonico, con tannini ben fusi.


InvecchiatIGP: Gianfranco Fino - Negramaro Salento “Jo” 2012


E’ deontologicamente non consigliato scrivere di un vino quando hai un affetto smisurato verso chi lo produce ma, statene certi, non sarà l’amicizia con Gianfranco e Simona Fino a farmi scrivere bene del loro Negramaro “Jo” 2012 perché, oggettivamente, ho avuto la fortuna di degustare un grande vino. Come molti sanno, la storia vitivinicola dei coniugi Fino nasce quasi venti anni fa, nel 2004, quando il richiamo della Terra li ha spinti ad acquistare un piccolo vigneto di primitivo ad alberello di quasi un ettaro e mezzo con lo scopo di produrre vini dalla forte identità territoriale ma, al tempo stesso, in grado di dare una scossa qualitativa importante e decisiva all’immagine dei vini pugliesi.


L’amicizia con Severino Garofano, grande enologo che ha cambiato per sempre il destino del negroamaro, spinse Fino nel 2006 ad acquistare una vecchia vigna ad alberello di 60 anni di questo vitigno autoctono pugliese in località San Pietro in Bevagna, nel Salento, sulla costa ionica del Tarantino.

Simona Natale e Gianfranco Fino. Credit:italysfinestwines.it

Dare un nome al loro vino da negroamaro in purezza, piantato su terra aspra e rossa, è stato abbastanza facile, lo hanno chiamato “Jo”, che significa Mar Jonio, lo stesso mare su cui si affacciano queste viti ma anche Jonico, uno dei sinonimi di questo vitigno le cui uve, solitamente, vengono vendemmiate nella terza decade di settembre con attenta selezione dei grappoli, e con un trasporto in camion con cella isotermica. Una volta arrivate in cantina, e dopo un’ennesima selezione sul tavolo di cernite, si effettua una macerazione in acciaio inox con contatto bucce mosto da 2 a 3 settimane, controllo della temperatura del cappello di vinaccia, 2 délestage al giorno. Dopo la svinatura il vino viene passato in barriques di rovere per un anno e imbottigliato senza l’ausilio di chiarificanti e senza precipitazioni tartariche. Dopo circa 12 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia viene immesso al consumo.


“Jo” 2012 è figlio di una annata difficile, calda e abbastanza secca ma, nonostante questo, Gianfranco e Simona, grazie alla conoscenza del loro terroir, sono riusciti a “tirar fuori” un Negroamaro di grande fascino.


Il naso, ancora giovane e scalpitante, è molto complesso e animato da fragranze intense di succo di arancia rossa, cola, erbe mediterranee e, col passare del tempo, si schiude su articolate e più scure note empireumatiche e di liquirizia amara. Al gusto non manca sostanza e personalità, il vino nonostante il suo calore intrinseco e sospinto da una vitale freschezza e da un fine tannino che rendono la beva dinamica e goduriosa.


La 2012 dello “Jo” è un vino per chi ama coccolarsi e, a volte, per sentirci meglio soprattutto con noi stessi.

Kellerei Kaltern - Lago di Caldaro Classico Superiore Kalterersee 'Quintessenz' 2021


Da vino popolare a prodotto mediocre fino a diventare una chicca da intenditori, la schiava in questi ultimi trenta anni ha vissuto varie vite e, anche grazie alla Cantina di Caldaro, è tornata ad ottimi livelli. 


Il Quintessenz è una schiava dal frutto rosso terso e succoso e dalla beva compulsiva!!

Il Sylvaner secondo Abbazia di Novacella


Di Abbazia di Novacella e dei suoi vini mi appassionai enormemente già lo scorso anno quando, per la Top 50 di Food & Wine Italia, scrissi la scheda tecnica dell’azienda che viene annoverata tra le più antiche cantine attive al mondo. Sita a Varna, in Valle di Isarco, a poca distanza da Bressanone, la struttura, sin dalla sua fondazione, datata 1142, non era altro che un importante monastero agostiniano che ha sempre contato su una importante attività vitivinicola grazie ai numeri vigneti, oltre che masi agricoli e terreni, che nel corso della sua storia ha acquisito tramite tra le più antiche cantine attive al mondo donazioni, lasciti, acquisti e permute.


Oggi Abbazia di Novacella gestisce due aziende agricole: la prima si trova a Novacella e dispone di 6 ettari di vigneti, 12 ettari di frutteti e 0,2 ettari di erbari; in questo luogo si trovano i vigneti posizionati più a nord d’Italia, posti ad altitudini che variano tra i 600 e i 900 metri sul livello del mare. Le forti escursioni termiche tra il giorno e la notte e la presenza di terreni particolarmente magri, ciottolosi e sabbiosi, morenici di origine glaciale, fanno di questa zona il terroir d’elezione per vini bianchi pregiati e dai finissimi profumi varietali. A Novacella sono coltivati i vitigni a bacca bianca Sylvaner, Müller-Thurgau, Kerner, Grüner Veltliner, Pinot Grigio, Riesling, Gewürztraminer e Sauvignon Blanc.


La seconda azienda agricola, sempre di proprietà del convento, è la Tenuta Marklhof, può contare su 22 ettari a vigneto, 13 ettari a frutteto e 24 ettari a bosco distribuiti da Corniano e Bolzano. La tenuta, tradizionalmente chiamata la “Casa dei vini Rossi”, è situata su un colle a un’altitudine di 420 metri s.l.m. dove vengono coltivate varietà a bacca rossa come Schiava, Pinot Nero e Moscato Rosa. Nella calda conca di Bolzano, invece, posta a 250 metri di altitudine, i terreni sabbioso-limosi sono culla del Lagrein, tradizionale vitigno autoctono altoatesino.


Tra i vitigni a bacca bianca coltivati da Abbazia di Novacella, sicuramente al Sylvaner è riservato un posto speciale poiché, come spiega Werner Waldboth, direttore vendite della cantina, la conca di Bressanone rappresenta il terroir per eccellenza di questa varietà grazie ad un particolare terroir che consente a quest’uva di sprigionare la sua classica carica aromatica fruttata e minerale, insieme a un timbro acido e sapido al palato.

Werner Waldboth

Abbazia di Novacella dedica all’allevamento del Sylvaner 7,75 ettari: di questi solo 1,75 ettari sono destinati alla selezione denominata Praepositus le cui uve provengono da vigneti considerati veri e propri Cru.
L’Alto Adige-Südtirol Valle Isarco Sylvaner Doc Praepositus, è stato protagonista a Roma di una interessante verticale di 4 annate – 2006, 2013, 2016 e 2021 che è stata preceduta da una novità, almeno per me, ovvero la degustazione dell’Extra Brut Metodo Classico “Perlae”, spumante ottenuto per la prima volta da uve Sylvaner in purezza che in questa prima versione, che fa 24 mesi di affinamento sui lieviti, è stato sboccato il 31 Ottobre 2022. La degustazione del vino spumante è assolutamente positiva, si tratta di un metodo classico con perlage piacevole, dotato di un naso accattivante ed austero al tempo stesso che ricorda i fiori bianchi, gli agrumi e la mandorla verde. Sorso molto sapido, fruttato e con un’onda lunga di freschezza agrumata.


L’altra star della giornata, a mio parere, è stato l’Alto Adige-Südtirol Valle Isarco Sylvaner Doc Praepositus 2006, un vino assolutamente strepitoso che, dopo 16 anni dalla vendemmia, conferma le sorprendenti, quanto sottovalutate, doti evolutive del Sylvaner a cui serve il giusto tempo di evoluzione per definirsi e rendersi armonico ed equilibrato.


Questa 2006, assolutamente ancora integro anche al colore, ha un piglio olfattivo aristocratico e variopinto che spazia dalle affilate percezioni di agrume, mughetto ed erba falciata, a morbidi magnetismi di mela golden, muschio, asparago, per poi concludere sensazioni di zenzero ed acqua salmastra. Il sorso è ancora generoso, vivo, giocato su rara eleganza ma, al tempo stesso, capace di presidiare il palato per molto tempo soprattutto grazie ad un affondo sapido di grande dinamismo. Grande vino!!

InvecchiatIGP: Baron di Pauli -- Gewürztraminer "Exilissi" 2002


di Lorenzo Colombo

Situata a Caldaro la Tenuta Baron di Pauli era famosa già al tempo dell’impero asburgico quando riforniva la corte coi propri vini, che finivano persino sulla tavola degli zar di Russia. L’azienda attualmente dispone di 14 ettari di vigneti situati in due diversi appezzamenti, il vigneto Arzenhof, nove ettari situati a Caldaro e il vigneto Höfl unterm Stein, di cinque ettari, a Söll (Sella), presso Termeno. La produzione annuale è di circa 60.000 bottiglie. La proprietà è di Georg Di Pauli, la cui famiglia la detiene da 300 anni.



Il vino

Le uve per la produzione del vino che ci accingiamo a degustare provengono dal vigneto Höfl unterm Stein che potrebbe essere tradotto in “piccola tenuta sotto il sasso”, situato a Sella, frazione di Termeno, località nota per la sua particolare vocazione al Gewürztraminer.


Il vigneto, con esposizione sud-est si trova tra i 480 e 550 metri d’altitudine, il terreno è ghiaioso, calcareo argilloso, le viti hanno più di 30 anni, sono allevate a pergola con resa per ettaro è di 30 - 40 ettolitri. La vendemmia viene effettuata tardivamente, con l’uva ben matura e leggermente appassita, dopo la diraspatura viene macerata a freddo per una giornata, la fermentazione , con lieviti indigeni, avviene in fusti di rovere da 500 litri dove poi il vino matura per circa un anno sulle fecce fini. Il residuo zuccherino varia in base all’annata, non sappiamo quanto fosse quello del vino degustato, ma la sua forbice negli anni è piuttosto ampia e può variare dai 7 gr/litro nelle ultime annate sino ai 20 gr/litro nelle annate d’inizio anni 2000. Dall’annata 2015 il vino s’avvale della menzione Riserva. All’epoca i vini erano curati da Helmuth Zonin, mentre ora la parte enologica è affidata a Andrea Moser e Thomas Scarzuola.

La degustazione

Chi ci segue da tempo sa che non siamo grandi estimatori dei Gewürztraminer, o per meglio dire di quelli giovani, caratterizzati da una decisa irruenza, vini che hanno “troppo” di tutto, troppo profumo, troppo alcool, troppa struttura, troppa morbidezza, troppo residuo zuccherino ed altro ancora. Quando invece hanno qualche anno sulle spalle la loro irruenza s’accheta e, se si tratta di prodotti di qualità, emergono note decisamente più discreta ed eleganti, questo attorno ai sei, sette anni d’età.


Il vino che abbiamo assaggiato per la rubrica InvecchiatIGP di anni però ne ha ben venti e prima d’aprilo avevamo già preparato un sostituto, nel caso, assai probabile, di trovare un prodotto a fine vita. D'altronde si sa che quando ci si accinge a degustare vini con diversi anni sulle spalle il rischio di doverli abbinare al lavandino è sempre piuttosto alto, ed anche in questo caso il primo vino scelto (un Lugana del 2006) si era rivelato non adatto allo scopo.


Appena stappata la bottiglia del nostro Gewürztraminer abbiamo trovato il tappo bagnato per buona parte della sua lunghezza - la bottiglia è stata sempre conservata coricata  -, non certo un buon segno, inoltre annusandolo (il tappo) dava qualche segno d’ossidazione.


Versiamo comunque il vino nel bicchiere ed il suo colore è decisamente ambrato, seppur limpido e luminoso. Lo accostiamo, scettici al naso ed invece ciò che percepiamo è un’estrema pulizia con note che spaziano dalla crema pasticcera, al panettone con canditi, scorza d’arancio candita, miele, fichi al forno, confetto con mandorle, uvetta passa. Sarebbe stato decisamente interessante averne una bottiglia d’annata recente per verificare le sue caratteristiche in gioventù.


Passiamo alla parte gustativa e troviamo tutta la tipicità del vitigno, morbido, aromatico, strutturato, alcolico (16,5% vol. è il valore in etichetta e questo certamente, unito al residuo zuccherino è uno dei fattori della sua longevità), cogliamo sentori d’agrumi maturi ed accenni speziati piccanti, note di canditi, fichi secchi, mandole. Lunghissima infine la sua persistenza.

Bellicoso - Barbera d’Asti “Merum” 2020


di Lorenzo Colombo

Strutturato, potente, alcolico, dagli intensi sentori di frutto scuro e dalle note vanigliate, di tabacco dolce e di liquirizia.


2.000 le bottiglie di questa Barbera “amaroneggiante” di ben 16 gradi alcolici realizzata da Bellicoso Antonio, misconosciuto (almeno per noi) produttore in Montegrosso d’Asti.