A Pancia Piena, lo street food fiorentino tra lampredotto e champagne


La tradizione del “cibo da strada” in Italia esiste e resiste da secoli, fortissima in alcune zone, andando a tratteggiare nel profondo non solo la storia gastronomica, ma in generale la fisionomia stessa di alcuni luoghi. Firenze ne è un esempio e la piccola realtà di “A pancia Piena” rappresenta l’evoluzione contemporanea del conservare tradizioni andando ad aggiungere, con ingegno e qualità, alternative gourmet e, soprattutto, una proposta di vini di alto livello che spaziano dallo Champagne ai vini toscani locali.


Truck-chiosco lungo la statale che attraversa il piccolo borgo delle Sieci in provincia di Firenze, Iuri Ronchi ed Emanuele Nenci, soci e fondatori di “A Pancia Piena”, hanno fatto crescere nel tempo una proposta gastronomica di tutto rispetto, aggiungendo al tradizionale panino al Lampredotto, rivisitato anche in differenti gustose versioni, deliziosi primi piatti e una selezione accurata di vini. Questo percorso di ricerca di innovazione della “cucina da strada”, pur conservando la precisa identità dello street food, li ha portati a conquistare di recente il titolo di Campioni Regionali Toscani nella guida del Gambero Rosso Street Food 2024. “Un’emozione incredibile visto il ricco panorama toscano che vanta nello street food una tradizione che si perde nei secoli mantenuta in vita grazie a tantissimi chioschi”, dichiarano Iuri ed Emanuele.


Diciannove anni fa, la nostra amicizia e la voglia di creare qualcosa insieme ci ha portato a realizzare A Pancia Piena. Uno street food, senza pretese, ma che offrisse qualità, prodotti di stagione e che con semplicità parlasse con schiettezza e “toscanità”, un luogo dove entrambi, mettendoci ai fornelli potessimo offrire ristoro a chi passava per le Sieci”, racconta Iuri Ronchi.


Mantenere in vita la cucina povera toscana è sempre stato il loro obiettivo e farla apprezzare anche ai più giovani per conservare la memoria sul gusto di un tempo che ha fatto grande la storia della cucina toscana. Oltre a trippa, bollito e lampredotto, panini dall’alto profilo qualitativo con l’utilizzo creativo di ingrediente locali. Fatica l’inverno e fatica l’estate ma sempre con il sorriso sulle labbra perché offrire ristoro è per loro offrire molto di più.


Ingrediente segreto del successo un’ineguagliabile simpatia e ironia tipica toscana, anche nella scelta dei nomi dei panini, che li ha portati ad essere conosciuti e amati. Andare a mangiare “A Pancia Piena” per molti è andare da amici, sentirsi a casa. “La nostra clientela è composta da persone che si muovono per lavoro, passanti di ogni genere e tipo, persone del luogo che ci conoscono e che sono nostri clienti e amici da quando abbiamo parcheggiato qui la prima volta” continua Iuri. “Poi, per noi, funziona tanto il passa parola. È comune sentirci dire da un cliente che è lì perché lo ha consigliato un amico. Passa parola che, nel tempo, ha portato anche ad una clientela che appositamente si muove per venire qui e questa è certamente una grande soddisfazione”.


Ma non solo panini o piatti gourmet, la particolarità che rende forse unico questo Food Truck è la possibilità di abbinare ai piatti un’ampia scelta di vini al calice, un’enoteca all’aria aperta che accontenta i degustatori più esigenti, dallo Champagne ai vini locali come il Chianti Rufina: “Negli anni in cui partiva il progetto di “A Pancia Piena”, cresceva anche la mia passione per il vino – spiega Emanuele Nenci – mi fu regalata da un amico una bottiglia di Montesodi che all’epoca fu davvero una scoperta. Da lì ho iniziato a cercare di assaggiare più Sangiovese possibile, andando con il tempo a costruirmi una piccola cantina composta dai principali IGT e denominazioni della toscana. Poi nel 2008 ho fatto il mio primo viaggio in Borgogna e Champagne e dà lì è partito tutto, ho scoperto decisamente un nuovo gusto, un nuovo stile di fare vino che mi ha letteralmente conquistato e in questo mio viaggio ho portato anche Iuri.”


Essere sulla rotonda significa continuare ad evolvere sempre senza fermarsi mai. Come dice Emanuele infatti, “ci sentiamo due persone aperte alle novità e al cambiamento. La nostra amicizia, che potremmo definire un matrimonio, ci ha portato davvero lontano, rispetto a quello che pensavamo. Credo che questo camioncino sia la nostra identità, questa rotonda è come casa, e se è vero che la mente e la volontà sono la forza più grande che possediamo, guardando da qui, lì dove c’è la rotonda c’è il mare e dietro ci sono le dolomiti… Forse ci ingrandiremo, forse svilupperemo nuovi progetti, di certo non c’è niente, ma una cosa è certa: per noi aver sconvolto le regole del “cibo da strada” con una selezione di vini tipica di un ristorante è stato rivoluzionario e questa rivoluzione non finirà mai”.

InvecchiatIGP: Avignonesi Merlot di Toscana IGT Toro "Desiderio" 1995


di Luciano Pignataro

Ci potrebbero essere forti sospetti su questa scheda, ossia che sia dettata da un atteggiamento snob (perché parlare del merlot di una azienda famosa per il Sangiovese e per il Nobile di Montelpuciano?) o da semplice esibizionismo visto che parliamo di un vino di quasi 30 anni fa.
Invece vuole essere solo il racconto ai lettori che seguono il nostro giovane gruppo di una bevuta inaspettata e straordinaria, rubata alla splendida cantina di Nino Di Costanzo, patron del bistellato Dani Maison a Ischia.


Prima di tutto, togliamoci la curiosità del nome un po’ kitsch, per Desiderio è davvero il nome di un toro da 16 quintali vissuto oltre un secolo fa presso la fattoria Le Capezzine di Avignonesi che, a dire della famiglia, avrebbe dettato le regole nella definizione genetica moderna della razza Chianina.
Ricordavo di una buona annata in Toscana 1995, più di qualcuno fece la previsione di una annata longeva. E questo Merlot, che tra l’altro l’azienda ha ripreso chiamandolo semplicemente Desiderio, conferma la previsione di quanti scommisero sulla durata dei rossi.


Il rosso ci viene offerto dal sommelier del ristorante dopo una entusiasmante batteria di bianchi locali, tra cui un Forastera 2009 che fino all’ultimo poteva essere il protagonista del mio turno del sabato di Invecchiato.
Poi ho optato per il Merlot perché altri bianchi invecchiati, sapidi e con note di idrocarburi certamente ne troverò a Ischia, mentre questa bottiglia vanta pochissimi esemplari in circolazione e quindi merita la memoria scritta da affidare al grande minestrone web.


I vini di fronte al tempo o resistono o migliorando. Quindi iniziamo con il dire che sicuramente questo Toro Desiderio ha migliorato: ce lo rivela subito il colore, un rosso rubino carico ben lontano dal solito mattonato che in genere i rossi regalano dopo tanti decenni di vita in bottiglia. 
Il naso ha sprizzato energia a go go, dalla frutta matura e croccante ancora presente, alle note di tabacco, caffè, carruba, un po’ di cenere. Siamo in presenza di un grande vino complesso, una bottiglia in cui il Merlot sale in cattedra senza discussioni e afferma la sua assoluta predisposizione a piacere oltre ogni misura, oltre ogni aspettativa, a prescindere da dove viene. Perché il segreto, per questo come per altri vitigni, è sempre nel giusto dosaggio del legno e ci appare straordinaria la misura usata in questo caso proprio mentre in Italia imperversava il cosiddetto gusto internazionale. La fusione tra frutto e legno è magica, perfetta, come pure la corrispondenza raggiunta, supponiamo sin dai primi anni trattandosi di Merlot, tra naso e bocca. 


Infatti al palato le note balsamiche si materializzano nella freschezza, nella verve di una beva dissetante, si dissetante e siamo spiazzati dalla modernità di concezione di un rosso pensato e imbottigliato 28 anni fa.
Un grande vino che siamo contenti di aver tracannato senza pietà sino all’ultima goccia. Sulla parmigiana di agnello di Nino poi…è cche vo’ dico a fa?

Santa Barbara - Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore 'Moss Blanc' 2020


di Luciano Pignataro

Con questo bianco fermentato in barrique Stefano Antonucci punta alla grande sfida delle longevità del Verdicchio che tanta soddisfazione ha già regalato a chi ci ha creduto. 


Nasce da un antico clone aziendale, 
3000 bottiglie, questa è la seconda edizione. Pieno, fruttato, fresco e potente. Da aspettare.

Il Pinot Nero dell'Alto Adige e dell'Oregon nella visione di Martin Foradori Hofstätter e David Adelsheim


di Luciano Pignataro

In una fase storica in cui il mondo ripiomba improvvisamente nel ‘900, per non dire ‘800, c’è chi mantiene una visione d’insieme, aperta, colloquiale e curiosa.
Martin Foradori ama la mossa del cavallo, spiazzare non per stupire ma soprattutto per non annoiare. Ecco allora l’idea di presentare a Roma e a Milano ad un gruppo ristretto di giornalisti il suo incontro con il Pinot Nero dell’Oregon mettendosi audacemente in gioco con uno dei produttori più raffinati e pignoli della West Coast. Noi abbiamo goduto del confronto da Armando al Pantheon, la meta obbligata di tutti i politici italiani, per una sera con la sala impegnata con qualcosa di decisamente migliore e più interessante ovvero il rapporto fra il Pinot Nero dell’Alto Adige e quello dell’Oregon.

Martin Foradori e David Adelsheim

Il confronto è stato con il produttore David Adelsheim: insieme hanno proposto un dulello molto interessante, un vero e proprio parallelo internazionale che parte dalla tenuta Barthenau della famiglia Foradori Hofstätter, nel cuore dell’altopiano di Mazon, in Alto Adige, e giunge Oltreoceano, nelle Chehalem Mountains, Willamette Valley, a sud di Portland (Oregon) dove ha sede la tenuta Adelsheim. Una comparazione tra due zone di produzione del Pinot Nero e una comune visione sull'importanza del terroir, dei singoli vigneti e della qualità senza compromessi.


Martin Foradori Hofstätter rappresenta la continuazione di una storia lunga quasi due secoli iniziata dopo la seconda metà dell’Ottocento quando il luminare della chimica organica Ludwig Barth, cavaliere di Barthenau, decide di piantare alcune vigne di Pinot Nero nella tenuta che ancora oggi porta il suo nome. A dare un nuovo impulso a questa sua intuizione sarà, circa un secolo dopo, proprio la famiglia del produttore di Tramin -Termeno.

Tenuta Adelsheim

David Adelsheim dell'omonima tenuta, è un autentico pioniere del Pinot Noir in Oregon. Egli è stato, già alla fine degli anni '60, tra i primi produttori a decidere di coltivare questo vitigno in quest’area. Una vera icona dell’enologia Made in USA.


In degustazione alcune etichette iconiche delle due aziende. Tenuta J. Hofstätter ha presentato i suoi due Cru di Pinot Nero: Vigna S. Urbano 2017 e 2007 e il Vigna Roccolo (solo 1000 bottiglie da vigne di 80 anni coltivate a pergola) dell’annata 2017. A raccontare la filosofia del viganaiolo altoatesino nella produzione di un’altra varietà simbolo del suo territorio, il Gewürztraminer, il Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait 2009, altro vino iconico (10 anni sui lieviti fini, solo 1000 bottiglie) dell’azienda prodotto questa volta sulla sponda opposta della valle dell’Adige rispetto a Mazon, ovvero nella frazione di Söll, a Tramin – Termeno.


David Adelsheim ha presentato una selezione delle sue etichette punta di diamante: il Pinot Noir Ribbon Springs Vineyard 2019 (prodotto nella denominazione Ribbon Ridge, perla enologica nella contea di Yamhill) e il Pinot Noir Quarter Mile Lane Vineyard 2019 e 2008 che nasce nell’AVA delle montagne di Chehalem. Della stessa denominazione anche lo Chardonnay Staking Claim. Vera chicca il Pinot Noir Elizabeth’s Reserve (Yamhill County) del 1986.


A parte i due bianchi che meriterebbero un pezzo a parte, possiamo tirare le somme di qualcosa che in fondo già sappiamo: il Pinot Nero è un vitigno di grande stoffa, capace, quando trattato con il giusto equilibrio, di esprimere eleganza e finezza in un bicchiere cerebrale, che richiede necessariamente l’attenzione di chi beve. Ho pochi titoli per parlarne, i Pinot dell’Oregon che avevo assaggiato sinora non mi avevano mai meravigliato: ben fatti, ma spesso con sentori di legno un po’ troppo in evidente mentre quelli dell’Alto Adige spesso tendono a giocare con la dolcezza e la esuberanza del frutto risultando così abbastanza monocordi. Questo ovviamente in linea generale.

Martin Foradori

I rossi di Martin Foradori mi sono sempre piaciuti per questa continua tensione che esprimono, figli di una viticultura chirurgica attenta, praticata su un territorio sicuramente vocai per le escursioni termiche e per la sua purezza assoluta. Il 2007 mi ha fatto pensare come sia necessario aspettarli un poco in più rispetto alle uscite dettate dai tempi commerciali. Una attesa che compensa la pazienza con belle emozioni.


I rossi di David, serviti per primi in base al principio dell’ospitalità, mi hanno davvero colpito e incantato, in particolare il Quarter Mile Lane 2019, finissimo, prezioso, minerale, lungo, con una chiusura perfetta.


Una bella esperienza, decisamente inusuale, un bel confronto che alla fine ci fa riflettere su come sarebbe bello un mondo senza confini. Ma per avere questa aspirazione bisogna essere uomini di cultura, uomini di vigna.

InvecchiatIGP: Mancinelli - Lacrima di Morro d'Alba 1993


di Carlo Macchi

Dovendo preparare una serata sul tema Verdicchio d’antan scendo in cantina per cercare bottiglie di questo grande vino bianco marchigiano che abbiamo dieci o più anni e così nella parte dedicata alle Marche trovo una bottiglia di Lacrima di Morro d’Alba, del 1993! Trent’anni precisi per un vino che viene considerato da bere giovanissimo è una sfida che non posso non raccogliere e così prendo la bottiglia, avvolta in cellophane trasparente e penso di usarla a fine degustazione.


Ritrovare questa bottiglia mi ha fatto anche tornare indietro di trent’anni, a quello che , se ricordo bene, fu il mio primo o secondo viaggio da giornalista nella terra del Verdicchio. Ero ospite dell’ASSIVIP, associazione tra produttori marchigiani che per molti anni è stato l’unico ente per la promozione del territorio e che ha fatto indubbiamente del gran bene alla terra del Verdicchio. In momenti in cui la promozione era molto più “artigianale” rispetto ad oggi l’Assivip ha rappresentato un punto fermo e dinamico per la conoscenza dei vini e del territorio marchigiano, con una visione molto aperta alle innovazioni della promozione.


Ma torniamo alla Lacrima di Morro d’Alba e al suo produttore, Stefano Mancinelli. La Lacrima è un vitigno particolarissimo: ha una grande aromaticità ma un corpo non certo da corazziere. Ha però finezza, che contrasta con la “pantagruelica” forma del grappolo, molto grande, compatto e quindi sottoposto spesso a problemi sanitari. Il vitigno prende il nome dal comune dove se ne trovano il maggior numero di ettari, Morro d’Alba, posto sulle morbide colline marchigiane non lontano da Jesi e dal mare. Stefano Mancinelli ha sempre creduto in questo vitigno e scavando nella memoria mi ricordo di belle discussioni con questo profumatissimo vino nel bicchiere. Mi ricordo anche di grappoloni dove le vespe, in periodo di vendemmia andavano a nozze. Insomma, siamo di fronte ad un’uva difficile da coltivare e con un mercato molto ristretto, tanto che da diversi anni si è pensato di darle più longevità permettendo il taglio con piccole percentuali di montepulciano.


Ma il mio vino del 1993 di montepulciano non ne aveva visto nemmeno un chicco. L’apertura della bottiglia non ha creato problemi ma purtroppo togliere il cellophane ha portato con sé la distruzione della retroetichetta ( e di parte dell’etichetta) con l’anno di produzione e quindi dovrete fidarvi della mia parola.


Il tappo, come detto, era bagnato ma in buone condizioni e un piccolo assaggio “preventivo” mi ha fatto capire che il vino sarebbe stato una grande e positiva sorpresa. Così arriviamo a fine serata e presento la bottiglia ad un pubblico che appena ha sentito parlare di 1993 ha alzato gli occhi al cielo. Quando però invece degli occhi hanno alzato il calice con il vino la sorpresa si è dipinta su tutti i volti, il mio compreso.


Il colore era rubino scarico con note aranciate ma il naso aveva finezza e potenza, proponendo note floreali, soprattutto di petalo di rosa e poi di spezie, con qualche reminiscenza fruttata e ricordando da vicino tanti ottimi pinot nero borgognoni che, mi sia permesso l’inciso, nel 1993 non è che abbondassero sul mercato. In bocca era indubbiamente di poco peso ma non scivolava via, proponendo una lineare persistenza che, momento dopo momento, si arricchiva di secondi e di sensazioni. E’ stato definito “una perla preziosa” un vino “intimo”, “setoso” “un dolce abbraccio” “un’allegra malinconia”. Io posso solo dire che profumi del genere, con questa purezza e finezza, li ho sentiti raramente e non è la prima volta che la Lacrima di Morro d’Alba me li propone.


Un grazie a Stefano Mancinelli è d’obbligo e un pensiero a quanto potrebbe dare al mondo degli amanti del vino questo vino/vitigno è altrettanto doveroso. Certi vini non vanno rivalutati, vanno assaggiati.

Balbiano - Freisa di Chieri 2022


di Carlo Macchi

Luca Balbiano in cantina di spumeggiante non ha solo la sua Freisa di Chieri, ma anche un museo di meravigliosi giocattoli.


La Freisa frizzante 2022 è fruttatissima al naso, vellutata ma decisa al palato. Un
vino unico, di cui è impossibile non bere un secondo calice, forse un terzo, un quarto…

Consorzi di Tutela e giornalisti del vino vanno sempre d'accordo? Sembra di no!


di Carlo Macchi

L’interessante articolo del collega Ernesto Gentili sulle “degustazioni di gruppo” svoltesi pochi giorni fa a Bolgheri ha molti punti in cui mi trova allineato. Sfrutto quindi le sue parole per cercare di andare oltre e di pormi quesiti che nei prossimi anni, secondo me, saranno sempre più sentiti.


Prima di tutto inquadriamo la cosa: il Consorzio Vini Bolgheri ha “proposto con forza” (per non dire ha obbligato) tutte le guide online, siti, blogger, insomma tutti quelli che pubblicano degustazioni sul web a degustare in due giornate i vari vini (bianchi, rosati e rossi) della denominazione, nonché un bel numero di IGT Rossi. 
Vi domanderete cosa c’è di strano in questo “groupage”, fermo restando un servizio inappuntabile, sale adeguate, fresche, insomma perfette per la degustazione professionale. Quindi niente da dire sull’organizzazione e lo svolgimento pratico degli assaggi, anzi il consorzio va lodato e tutte le persone che hanno lavorato alla realizzazione dell’assaggio vanno ringraziate una ad una.


La domanda che però ci è sorta spontanea durante la degustazione, almeno a noi di Winesurf, agli amici della guida ONAV e, last but not least, a Ernesto Gentili (e non so a quanti altri) è stata “Ma tutto questo dispiego e dispendio di energie servirà veramente allo scopo per farsi un quadro chiaro sulle nuove annate bolgheresi


Ernesto Gentili ha trovato da ridire (giustamente) sull’impossibilità di riassaggiare una seconda volta i vini, noi di Winesurf invece ci siamo sentiti costretti a degustare vini rossi importanti strutturati, con dosi di legno non indifferenti, almeno quattro mesi prima del periodo in cui eravamo abituati a farlo.
Voi direte che queste alla fine sono questioni di lana caprina, ma permettetemi di dissentire e di spiegarvi, facendomi e facendovi delle domande. Un giornalista quando degusta per una guida è, in pratica, in cerca di notizie. Queste notizie sono le nuove annate dei vini e quindi il momento dell’ assaggio è quello della scoperta, della valutazione/veridicità della notizia-vino, che poi andrà pubblicata con la certezza di aver fatto un buon lavoro.


Per fare un buon lavoro molti degustatori hanno bisogno di assaggiare in condizioni e con tecniche assolutamente personali, che possono sembrare anche singolari o “da fighetti” ma che alla fine danno garanzia al degustatore di aver fatto un buon lavoro e al lettore di avere fiducia in quanto il giornalista scrive sui molti vini che recensisce. 
D’altronde un consorzio di tutela, che spesso è l’ente che “raccoglie le notizie/vini” per i giornalisti-degustatori, impegna non poche risorse, anche finanziarie, nel farlo e quindi dovrebbe essere il primo a volere che le degustazioni si svolgano nel miglior modo possibile per i degustatori, in modo che questi possano essere convinti e sicuri di quanto hanno degustato.


Ecco, con questi “groupage”, alcuni degustatori, tra cui noi di Winesurf, sono stati costretti a riparametrarci, a valutare vini importanti in condizioni per noi non perfette, con lo strisciante dubbio di non aver fatto il lavoro al meglio e con la certezza di non poterlo rifare. 
Quindi non si è trattato tanto di una costrizione (capiamo che i consorzi sono oberati di richieste e che i costi e lo stillicidio organizzativo nel tempo mette e dura prova le pur ottime risorse umane) ma di una degustazione in cui molti degustatori, visti i tempi di degustazione, il momento temporale dell’assaggio e alcune scelte organizzative, sotto sotto si portano dietro qualche dubbi o sul loro lavoro. Consideriamo anche che non stiamo parlando di vini semplici in un’annata semplice: i Bolgheri Superiore del 2020 sono adesso vini da affrontare con le molle perché le loro strutture, potenze, legni stanno iniziando a distendersi. Inoltre la 2020 è stata un’annata calda e quindi i vini, ancor meno freschi del normale, risultavano ancor più difficili da valutare.


Quali possono essere in futuro le soluzioni? I consorzi devono o non devono venire incontro ai degustatori o sono quest’ultimi che hanno il compito di adeguarsi a condizioni e situazioni che vedono le guide vini sempre meno importanti e dove magari conta più una foto con coscia e vino rispetto ad un lavoro lungo e difficile che dura mesi? 
Non è facile trovare una soluzione, non è facile capire fin dove sia giusto avanzare, arrivare e/o adeguarsi, da entrambe le parti.

InvecchiatIGP: San Fabiano Calcinaia "Cerviolo Rosso" 1997


di Roberto Giuliani

Gli anni ’90 sembrano così lontani, allora i supertuscan avevano adombrato gli altri vini della regione, soprattutto perché spuntavano prezzi per altri inimmaginabili. A quel tempo c’era l’imbarazzo della scelta, la strada aperta da Tignanello, Sassicaia, Ornellaia, trovava sempre più compagni d’avventura, tanto che si scherzava sulle desinenze in “aia”, “ello”, “eto” che fioccavano ogni anno in zone assai diverse della Toscana.


Uno di questi era sicuramente il Cerviolo Rosso di San Fabiano Calcinaia in quel di Castellina in Chianti, allora composto da sangiovese, cabernet sauvignon e merlot, ma oggi proposto con il petit verdot al posto del sangiovese, tutto internazionale così non ci sono dubbi. Anche il prezzo è cambiato, allora lo trovavi in enoteca attorno alle 40mila lire, oggi la 2014 costa 25 euro acquistata in azienda, un prezzo correttissimo. Nella mia cantina era rimasto questo 1997 (online si trova a circa 60 euro), dove il sangiovese era ancora il vitigno principale, 18 mesi in barrique.


Sorprendente la tenuta del tappo in sughero, sarebbe potuto andare avanti per altri vent’anni, segno che allora si trovavano ancora quelli di qualità elevata.


Ma veniamo al vino, figlio di quella che fu classificata “annata del secolo”, che non era vero ma certamente faceva gioco in un momento in cui queste tipologie andavano a ruba, soprattutto all’estero: non è il primo che apro per InvecchiatIGP, fino ad ora non ci sono state sorprese, del resto a caval comprato si guarda in bocca e pure da tutte le altre parti!


Dunque… il colore emana una buona luce, è un granato non concentrato con leggero cedimento all’unghia; beh, facciamolo respirare diamine, è stato chiuso in bottiglia per quasi 25 anni! Dicevamo… prugna cotta (poi però si rinfresca), funghi, sottobosco, tabacco, leggero cuoio, felce, una punta di rabarbaro, legno di liquirizia, tracce ferrose, ematiche. Terziario, ovviamente, ma in continuo movimento, vivo. Al palato emerge un frutto dolce, inatteso, c’è una rotondità notevole ma la freschezza dice ancora la sua evitando scivoloni stucchevoli, il tannino manco a dirlo si è fuso perfettamente; non è un vino che possa dare ancora in futuro, non direi proprio, al momento però è integro e ha una bevibilità considerevole, grazie a una struttura non massiccia e a un’acidità confortante. Non aspetterei ancora per berlo, infatti entro domani sarà già finito.

Pasquale Pelissero - Langhe Favorita "Emanuella" 2022


di Roberto Giuliani

Complimenti a Ornella Pelissero per questa Favorita Emanuella 2022 davvero coinvolgente, dalle intense note di rosmarino ed erbe mediterranee, gelsomino e frutti gialli.


Bocca salina, minerale, piena, di struttura, un’espressione eccellente dalle vigne di Neive nel cuore delle Langhe!

Nerafera, la Trattoria di Cultura Contadina che ama la Bufala


di Roberto Giuliani

Quando si parla di allevamento di bufale nel Lazio viene automatico pensare all’agro pontino, l’unica zona storicamente dedicata che realizza prodotti di notevole livello, certamente non pensi all’alta Sabina! Eppure è proprio nelle campagne dell’alto Lazio che la famiglia Marti ha iniziato vent’anni fa l’attività casearia con “Le perle degli angeli” a Magliano Sabina (RI), dove l’ulivo è di casa ma certamente non la mozzarella di bufala. A dire il vero, nel 2003 l’azienda era partita col solo allevamento di bufale da latte, una sessantina, ma dal 2009 ha iniziato a produrre mozzarella, ricotta e formaggio.


La scelta delle bufale non è stata casuale, ma per allevare mucche da latte avrebbero dovuto affrontare l’annoso problema delle “quote latte”, che non si presenta invece con le bufale. Niente inseminazione artificiale ma monta naturale grazie a due tori selezionati, da subito Paola Marti ha voluto che le bufale facessero una vita il più normale possibile, lasciandole spazi ampi per pascolare, non forzando mai la produzione di latte, accettando il ciclo naturale degli animali, quindi con periodi di maggiore produzione e periodi più scarsi.


Il caseificio ha lavorato sempre con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), i mercatini rionali e qualche piccolo negozio, mantenendo il giusto equilibrio fra produzione e vendita. Nel 2019 però, la voglia di Paola di aprire una piccola osteria prende il sopravvento, pur non avendo esperienza di cucina professionale, la voglia di proporre la qualità dei prodotti derivati dalle bufale era tanta, così nasce NeraFera, in quella che precedentemente si chiamava “Locanda Casole”, ubicata a Otricoli (TR), splendido borgo e primo paese umbro, raggiungibile percorrendo la Flaminia (SS3) proprio da Magliano Sabina, una distanza di pochi chilometri.


Purtroppo, essendo un’attività a conduzione famigliare, Paola e sua figlia Giorgia hanno dovuto ridurre drasticamente il lavoro nel caseificio, portando le bufale a soli 10 esemplari, unico modo per poterlo seguire. Oggi, quindi, l’osteria è diventata il lavoro principale e la produzione casearia serve direttamente il locale.
Se volete assaporare la produzione della famiglia Marti, quindi, dovete andare all’osteria NeraFera, come ho fatto io, e devo dire che ne è valsa la pena.


Le sale in cui si sviluppa il locale sono davvero invitanti, un piccolo gioiello, l’arredamento è essenziale come è giusto che sia per un’osteria, per fortuna non ci sono foto e quadri a tappezzare le pareti che sanno tanto di turismo di basso livello.


La prima cosa che ho chiesto è stata la mozzarella di bufala, una volta venuto a Otricoli non potevo non assaggiarla. Bene, consistenza perfetta, fuoriuscita di latte durante il taglio, perfetto effetto “cruch” durante la masticazione, sapore davvero ottimo, ben oltre le aspettative, una mozzarella succosa, sapida, che chiama l’ottimo pane fatto in casa.


Come primo ho puntato su “Spaghetti di grano antico con pesto di basilico, stracciatella di bufala e pomodorini confit”, un piatto gustoso, per nulla pesante, adatto ai primi caldi di questa estate arrivata in ritardo, ma che tempo ci farà sudare sette camicie…


Come secondi si sono fatte apprezzare la bistecca di bufala per le carni tenere e saporite, ma soprattutto le “Polpette di carne di bufala con sugo e pecorino”, quantità notevole e un sapore intenso e coinvolgente, che mi ha convinto una volta per tutte che la carne di bufala non ha niente da invidiare a quella di mucca.


Come è scritto nel menu, anzi nel “magnù”, i dolci li sa solo la cameriera, tradotto “cambiano di giorno in giorno secondo la disponibilità delle materie prime”.
Io ho puntato su una “Brioche con gelato alla crema e nocciolino” da leccarsi i baffi (che io ho, quindi garantisco di averlo fatto ripetutamente!), anche se la brioche era l’unico prodotto non dell’azienda, devo dire che era fatta molto bene e perfetta da godere con il gelato.


Per quanto riguarda le bevande (scherzosamente Glu Glu), la parte del leone spetta ai vini (per fortuna), gran parte dei quali provenienti dalle zone circostanti.


Io ho scelto l’Otricolaia 2018 dell’azienda omonima, ottenuto da sangiovese, ciliegiolo e canaiolo, fruttato ed equilibrato, perfetto con le carni, anche se a mio avviso un po’ caro per le sue caratteristiche (36 euro). Tranquilli, la maggior parte dei vini in carta costa decisamente meno.


Insomma, Otricoli (che significa “monte sacro”), che partendo dal raccordo anulare si raggiunge in circa 40 minuti, merita assolutamente una visita, fra l’altro vi segnalo che ogni anno nel paese si tiene una rievocazione storica romana “Ocriculum AD 168”. Ora sapete anche dove potete fermarvi per mangiare con gusto, in un ambiente piacevole e curato, con la bufala al centro della cucina con tutte le sue varianti.

I vini calabresi conquistano il pubblico romano di Vinoforum


Roma, 21 giugno 2023 - Taste of Calabria, non solo uno claim ma uno spazio fisico al’interno di quest’ultima edizione di Vinoforum a Roma, dove si è potuto conoscere, incontrare, dialogare e degustare i vini del Consorzio di Cirò e Melissa e il Consorzio Terre di Cosenza Dop.


Uno spazio unico e condiviso per volontà di entrambi i Consorzi con l’obiettivo di una presenza forte e sinergica capace di parlare al grande pubblico della Calabria, dei suoi territori, dei suoi vini e della gente che lo produce con passione antica. E la grande affluenza durante le 10 giornate di Vinoforum 2023 è stata la conferma del grande interesse che i vini calabresi cominciano a riscuotere, soprattutto tra gli addetti al settore e nei giovani winelovers.

Molta curiosità intorno a brand come Cirò e Terre di Cosenza, due marchi importanti per l’enologia meridionale che dimostra di anno in anno qualità produttiva e che hanno brillato in questa kermesse del gusto, dando ai visitatori l'opportunità di scoprire la ricchezza e l'autenticità dei vini della regione.

Come sottolinea Gennaro Convertini presidente Enoteca Regionale: “Guardando alle tendenze in atto, riteniamo utile essere presenti in questo genere di eventi che sdoganano il vino dal mondo chiuso degli esperti per portarlo ad una dimensione di convivialità e maggiore fruibilità anche verso i gruppi più giovani di consumo, meno esperti e alla ricerca di piacevolezza e divertimento. Abbiamo pertanto scelto in questi dieci giorni di comunicare non solo il vino ma l’intero territorio calabrese, cercando di stabilire un rapporto empatico con il pubblico, raccontando un territorio accogliente, in cui il buon cibo e il buon vino si fondono con tutta le ricchezza di storia, territorio e biodiversità che la Calabria offre. La collaborazione tra i due consorzi, Terre di Cosenza DOP e Cirò DOP, che hanno condiviso lo stand e gestito in comune le attività, dimostra inoltre la volontà di tutti di fare emergere un prodotto “Calabria”, caratterizzato da elementi di novità, bellezza, ospitalità e supportato da grande qualità delle produzioni, prerequisito indispensabile per esistere oggi nel mondo del vino.”

Non ha dubbi sull’importanza di partecipazione Raffaele Librandi, presidente del Consorzio di tutela dei vini Cirò e Melissa, che dichiara: “Questo è il nostro secondo anno al Vinoforum e per questa edizione abbiamo voluto con impegno una presenza più ampia, più lunga e sicuramente sinergica e più attiva. Ecco perché abbiamo realizzato un unico stand e un unico calendario di proposte culturali e di promozioni sui vini calabresi con Terre di Cosenza Dop. Roma è un palco di grande appeal, che guarda con entusiasmo eventi di questo genere, una città vitale, aperta e inclusiva, che sta dimostrando grande interesse e curiosità sempre crescente verso i nostri vini e su cui come Consorzio vogliamo investire sempre di più con una presenza costante e di promozione per l’intera regione Calabria, che necessità di una conoscenza più attenta e meno stereotipata”.

Tre giorni di promozione enogastronomica

Terre di Cosenza Dop e Cirò Doc sono stati i veri protagonisti in particolare nell’ultimo weekend con tre giorni di attività di promozione enogastronomica. Tre giorni di degustazioni dedicate per raccontare e far conoscere meglio le denominazioni di Cirò Doc e Terre di Cosenza Doc, atraverso un focus sui due territori e sulla tradizione enologica calabrese alla scoperta di Gaglioppo e Magliocco, dei bianchi antichi come il Greco e la Malvasia e dei rosati di tradizione.

Tre le aree dedicate all’interno dello stand dei Consorzi: il consueto desk dove hanno sfilato numerose etichette delle cantine aderenti ai due consorzi e attivo dal primo giorno, un’area tasting e un’area food.

La prima pensata come un salotto del vino dove si sono susseguite degustazioni originali e informali con il racconto ogni sera dei due Consorzi e delle loro attività, della storicità del territorio e del lavoro di promozione che stanno sviluppando per far conoscere sempre di più il vino di Calabria. Le degustazioni sono state curate da Andrea Petrini (storico wineblogger con il suo Percorsi di Vino) che ha raccontato il Cirò in Rosa e i bianchi raffinati di Terra di Cosenza e dal giornalista enogastronomico Luca Grippo, nominato ambasciatore del Cirò nella scorsa edizione del Cirò Wine Festival, che ha condotto il pubblico presente in un viaggio dal Gaglioppo al Magliocco alla scoperta di due grandi vini rossi della Calabria.


La seconda dedicata ai primi piatti della tradizione calabrese ha visto la partecipazione dello chef Maurizio Vainieri del ristorante Brace e Gusto a Roma che ha preparato tre primi piatti abbinati rispettivamente a delle etichette selezionate, come le Casarecce alla Calabrese in abbinamento ai rosati di gaglioppo e Magliocco il venerdì 16; lo Spaghettone Alici e Mollica in abbinamento ai bianchi (Greco Bianco e Malvasia per Terre di Cosenza e Cirò Bianco) il sabato 17 e per l’ultimo giorno domenica 18 I Paccheri Cacio e ‘nduja in abbinamento ai due vini simbolo Cirò Rosso e Magliocco.

Curiosità e successo per i vini dei due Consorzi calabresi

Entrambi i consorzi hanno portato in degustazione una selezione di vini che rappresentano appieno il carattere distintivo della Calabria. Il Cirò, con la sua longeva tradizione vinicola, ha deliziato il palato degli ospiti con le eleganti note di vini rossi e bianchi di grande complessità. Terre di Cosenza, invece, ha stupito con la sua vasta gamma di vini dal Magliocco Rosso, molto apprezzato, al rosato passando dallo storico Greco Bianco e Malvasia, l’espressione variegata del suo ampio territorio e delle sue numerose sottozone.

Durante l'evento, i rappresentanti dei consorzi hanno avuto l'opportunità di incontrare il pubblico appassionati di vino, offrendo loro una profonda conoscenza del territorio e dei vitigni autoctoni. La passione e l'entusiasmo dei produttori hanno catturato l'attenzione del pubblico, suscitando curiosità e interesse per le tradizioni vinicole calabresi.

Consorzio di Cirò e Melissa e Terre di Cosenza si affermano come grandi protagonisti dunque di un grande interesse - con oltre 2500 presenze al desk durante la manifestazione, a cui si aggiungono tutti i partecipanti alle degustazioni guidate e quelle nell’area food - e su cui si impegnano nel continuare a crescere e a promuovere questo movimento del vino del Sud Italia. Come racconta la stessa responsabile Terre di Cosenza in questo Vinoforum 2023, Barbara Fasano: “E’ stata senza dubbio una manifestazione partecipata, nonostante i primi giorni di pioggia che hanno costretto alla sospensione delle attività. Il pubblico molto giovane dimostra una grande voglia di conoscere il mondo del vino e abbiamo registrato grande interesse nei confronti dei vini del Terre di Cosenza. La percezione è che il magliocco, molto richiesto nel corso delle serate, sia ormai un vitigno che indentifica in modo netto le nostre produzioni, segno che il lavoro svolto in questi anni dal consorzio sta dando buoni frutti (nonostante la “giovane età” del consorzio stesso, nato solo nel 2014) così come il lavoro svolto dai nostri ristoratori che stanno contribuendo a far conoscere la Calabria del buon vino e del buon cibo al di fuori dei confini regionali. Menzione particolare per lo stupore che sempre accompagna la degustazione dei nostri bianchi, che appaiono come una grande novità per il grande pubblico, abituato a considerarci una terra di vini rossi. Vinoforum ci lascia ancora una volta la consapevolezza che i vini di Terre di Cosenza sanno stupire e appassionare e soprattutto che il riconoscimento e il consumo del buon vino non è esclusivo appannaggio di esperti e intenditori, bensì un piacere universale.”

Presente in questi giorni di promozione dei due Consorzi a Vinoforum 2023 anche Paolo Ippolito, consigliere del Consorzio di Cirò e produttore che ha incontrato winelover, giornalisti e semplici curiosi per raccontare il suo territorio storico, una produzione enologica millenaria e un vino che è identitario per la regione Calabria.

“Di questi tre giorni – racconta – mi porto dietro la consapevolezza e la conferma che il Cirò e più in generale il vino della Calabria è stato sdoganato dai confini regionali. Da alcuni anni ci stiamo impegnando sul territorio e fuori a promuovere la doc, i nostri vini e un’area di produzione con una storia lunga, oserei dire invidiabile, ma che spesso non si conosce come altre zone italiane. Il nostro impegno come Consorzio e come produttori deve essere quello di raccontarci, di comunicarci per farci conoscere e apprezzare in eventi come questo pensati per il grande pubblico così come in quelli più di settore e prettamente commerciale, perché serve dare voce alla Calabria e ai suoi vignaioli appassionati”.

CONSORZIO VINI CIRÒ E MELISSA - Costituito nel 2003, dai produttori e vignaioli di Cirò e poi nel 2007, la tutela e la valorizzazione viene estesa anche alla DOC Melissa, territorio contiguo alla DOC Cirò. E’ uno strumento di tutela, di tracciabilità e di concreto sostegno alle produzioni vitivinicole locali, il Consorzio opera con l’intento di tutelare e valorizzare un vino, la cui identità è legata alla storia, alla cultura di un territorio, da sempre definito “terra di vini”. Uno dei suoi principali impegni è quello di garantire al consumatore una maggiore sicurezza sui metodi di produzione. Le Terre delle DOC, Cirò e Melissa, nella provincia di Crotone, sono da sempre, da quando si hanno le prime testimonianze, scritte e tramandate dalla tradizione, terre di Vigneti, Vitigni e Vini. L’antico e profondo legame fra queste terre e la Viticoltura si evince da continui scavi archeologici che portano alla luce resti fossilizzati di foglie di vite preistoriche e di antichi Palmenti. Le terre del Cirò e del Melissa sono un distretto vitivinicolo che affonda le sue radici nell’antichità, quando Crotone, detta anticamente Kroton, era città egemone della Magna Grecia. I primi coloni greci che approdarono in queste terre s’incantarono per il clima e la bellezza dei luoghi. Le coste ioniche della Calabria apparvero così propizie e amene agli occhi degli antichi “viaggiatori” da indurli a risiedere in queste terre e chiamarle “Magna Grecia”. L’unicità dei vini Cirò e Melissa è strettamente legata al territorio ed ai suoi vitigni autoctoni. Ed è proprio l’insieme di: suolo, clima, vitigno, conoscenze contadine, tecniche agronomiche ed enologiche sottoposti a un lungo e lento processo evolutivo, a differenziare un vino, rendendolo irripetibile. I vignaioli operano nel pieno rispetto della tradizione e dell’ambiente. I vigneti, posati su dolci colline a ridosso del mare Ionio, esposti ai venti di scirocco e tramontana, beneficano di un clima secco e ventilato. I terreni del Cirotano, sabbiosi e profondi permettono di ottenere un vino di grande struttura ed eleganza. Procedendo verso sud, nel territorio del Melissa, i terreni diventano freschi e argillosi e danno vita a vini più delicati e aromatici. La collocazione tra mare e montagne della Sila crea escursioni termiche tra il giorno e la notte. Questo fa sì che i grappoli maturino lentamente, raggiungendo in tal modo il pieno sviluppo degli aromi e del gusto.

CONSORZIO DI TUTELA VINI DOP TERRE DI COSENZA - Terre di Cosenza DOP nasce ufficialmente nel dicembre del 2014 attraverso la parte numerose aziende vitivinicole della provincia. La sua costituzione segna una tappa importante del percorso di valorizzazione delle produzioni viticole del territorio iniziate da un gruppo cosentini attraverso il recupero di tradizioni che le Terre di Cosenza vantano da secoli. Percorrere le vigne del territorio cosentino è come entrare in un suggestivo caleidoscopio di uve: quelle nere del e del Mantonico Nero dell’Esaro, dell’Arvino e del Greco Nero del Savuto, quelle bianche come il Greco, la Malvasia, il Moscatello di Saracena, il Mantonico Bianco, la Guarnaccia Bianca e il Pecorello. Uno scenario ricco e diversificato che si sviluppa su un paesaggio altrettanto variegato, con il Pollino a nord, il gruppo dell’Orsomarso che dirada verso la costa tirrenica ad ovest e la ionica ad est, la Valle del Crati a sud e la Valle del Savuto nella estrema fascia meridionale. Qui la coltura della vite risale abitanti di queste terre prima della colonizzazione greca dell’VIII secolo a.C., che porta con sé nuovi vitigni e conoscenze produttive. In questo percorso millenario la tradizione agricola si incontra con la tecnologia e con un nuovo fermento imprenditoriale che nel XX secolo ha dato nuovo produzione che ha portato al riconoscimento della DOP Terre di Cosenza.