InvecchiatIGP: Giorgio Grai - Alto Adige Pinot Bianco Riserva 2001


di Carlo Macchi

Gli amici certe volte ti stupiscono, come Giuseppe che ti arriva, bel bello, con alcune bottiglie di Giorgio Grai e dice “Carlo queste sono per te!”

Giorgio Grai, che ci ha lasciato circa tre anni fa, credo che nel mondo del vino italiano e non solo ne abbiano sentito parlare tutti. Un personaggio di quelli scomodi, ruvidi, ma con un palato quasi assoluto. Magari non avrà fatto un giorno di vendemmia in vita sua, come dice un famoso produttore altoatesino, ma sicuramente il vino lo conosceva e lo sapeva riconoscere. Aveva un palato eccezionale, ha lavorato per grandi nomi e, naturalmente, per sé stesso, producendo e imbottigliando vini con il suo nome e cognome. Comprava quello che riteneva adatto, niente di meno, lo seguiva nel tempo, magari creava vari assemblaggi e poi decideva cosa imbottigliare. Del resto, quello in cui non era secondo a nessuno era assemblare vini e trovare sempre il miglior equilibrio possibile.


In questo rasentava la perfezione e la cosa si comprendeva meglio dopo che il vino si trovava in bottiglia da qualche anno. Così quando il mio caro amico Giuseppe, notaio a Ravenna, appassionato e conoscitore di vini come pochi mi ha detto “C’è anche un "Pinot Bianco 2001” sono rimasto a bocca aperta. Non ho retto molto e dopo qualche giorno l’ho aperto. Prima però mi sono soffermato sulla retroetichetta che recita da una parte 12.5°, e questo nel 2001 ci poteva anche stare. Poi leggo la data di imbottigliamento e vedo: 2015.

Ci penso un attimo e realizzo di avere in mano un Pinot Bianco altoatesino di più di venti anni, creato forse dal più grande “mescolavin” (tanto per ricordare anche il grande Giacomo Tachis) di vini bianchi italiano, che è stato imbottigliato “solo” 14 anni dopo la vendemmia.


Mi aspetto mirabilie mentre lo stappo e il colore conferma subito che sono di fronte a qualcosa di particolare: giallo paglierino dorato ma certamente non molto spinto sulla nota dorata, dimostra la freschezza del vino. Freschezza che si conferma in bocca dove profumi minerali e floreali si intrecciano, portando avanti note di pietra focaia accanto a udite, udite, sentore di mela verde. La caratteristica principale del naso è però l’eleganza e la complessità aromatica, mai sparata o eccessiva.


In bocca non sai cosa aspettarti e all’inizio, per la sua freschezza sottotraccia mi delude quasi. Però basta aspettare un po’ e dal fine palato viene fuori una sapidità notevole abbinata ad una note dolce, che assieme a una profonda fermezza gustativa rende il vino lunghissimo e, indovinate, elegantissimo.

Chiude con una nota quasi dolce che un po’ ti sconcerta ma ormai ho capito che con questo vino non esiste un punto fermo, tutto cambia. Se Eraclito coniò la famosa frase che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume io adesso affermo che non si può bere due calici uguali dello stesso Alto Adige Riserva Pinot Bianco 2001 di Giorgio Grai, anche se vengono dalla stessa bottiglia.

Grazie Giuseppe!

Poggio Gualtieri - Chianti Rufina Riserva Terraelectae 2018


di Carlo Macchi

Non ho mai amato i vini di questa storica cantina nella Rufina: poi ho assaggiato questa Riserva. Naso finissimo, con frutto e sentori speziati per niente toccati dal legno. Bocca austera ma lineare, con tannini setosi. 


Un Rufina che fa le scarpe a tanti rossi iperblasonati, dal Barolo al Brunello e oltre.

Trattoria Belotti: mangiare bene in Franciacorta


di Carlo Macchi

La Franciacorta e le sue bollicine sono un territorio enoico giovane, e la proposta gastronomica franciacortina (se lasciamo un attimo da parte il lago d’Iseo e i suoi molti ristoranti per turisti) varia tra locali nati da poco, magari modaioli, e alcuni cavalli di razza molti dei quali conosciuti, ma non tutti.


Una tra le perle sconosciute o quasi della Franciacorta si trova a Ome, nella zona meno turistica e frequentata del comprensorio ed è la Trattoria Belotti. E’ trattoria già da fuori, con “un tratturo” stretto per arrivarci che la nasconde ai benintenzionati che vorrebbero mangiare piatti semplici ma concreti e stupendamente cucinati. Continua ad essere trattoria quando entri nel grande ma disadorno piazzale esterno, che si anima solo d’estate e lo è all’interno con apparecchiature linde e precise, senza vezzi, tavoli e sedie robuste, clima amicale e tranquillo.


Lo è soprattutto nella proposta gastronomica incentrata su alcuni piatti bresciani ma soprattutto su classicità da osteria, tipo gli antipasti misti con sottaceti e sottoli (fatti da loro) o le tagliatelle ai funghi. Però le tagliatelle, fatte da loro, o i casoncelli (idem, ve li consigliamo con il bagoss) sono buonissimi e hanno quella morbida consistenza e pienezza della pasta fatta in casa.

Casoncelli

Sui secondi, se vogliamo lasciare un attimo da parte il manzo all’olio, presente in tutte le carte dei ristoranti locali, il nostro consiglio casca sul coniglio al forno con polenta ma soprattutto su una stratosferica gallina in umido con i funghi e polenta: un piatto commovente tanta è la bontà e la consistenza della carne. Veramente buono anche lo stracotto d’asino al vino rosso. Piatti “da trattoria di una volta” cucinati con tempi lunghi, da apprezzare in tempi altrettanto lunghi magari con un buon vino accanto.

A proposito di vini, a parte i Franciacorta di un’ottima cantina che confina praticamente con il ristorante, la carta si restringe ad alcuni rossi di territorio, Cellatica in testa. La particolarità e che si tratta di vini giovani, gastronomici, proposti a prezzi di vera d’affezione, che non fanno rimpiangere rossi di altre zone più famose.

La Gallina

Se, dopo antipasto, primo e secondo vorrete chiudere con il dolce (ma vista l’abbondanza delle porzioni potrebbe essere difficile) provate la torta di mele e ci ringrazierete. Alla fine, dall’antipasto al dolce non arriverete ai 40 euro, vini esclusi, ma per un normale pranzo la cifra si attesterà sui 30 euro, sempre vini esclusi.

Sono stato da Belotti almeno quattro o cinque volte, ogni volta ho mangiato benissimo ma mi sono sempre tenuto, egoisticamente, per me il “segreto” di questa vera trattoria. Anche l’ultima volta, assieme ai redattori di Winesurf che erano con me, avevamo deciso di tenere nascosta una simile chicca al grande pubblico. Però non ce l’ho fatta a resistere, perché la Trattoria Belotti va provata.

InvecchiatIGP: Gaja - Barolo Sperss 1993


di Roberto Giuliani

Se non ricordo male ho degustato questo Barolo di Angelo Gaja 22 anni fa, ricordo che ne fui impressionato, grande eleganza, profondità e una complessità davvero esemplare. Allora c’era ancora la nostra moneta e lo pagai circa 70mila lire. Oggi si trova online a prezzi decisamente diversi, da un minimo di 290 a oltre 420 euro, cifre non astronomiche per un suo vino, ma figlie anche di un’annata non straordinaria in Langa, anche se personalmente continuo a ritenere sbagliato sentenziare in modo generalizzato qualsiasi millesimo, tante sono le variabili in un Paese davvero eterogeneo come il nostro.


Di certo aprirne un’altra bottiglia oggi, a 29 anni dalla vendemmia, mi provoca qualche brividino, per fortuna il tappo ha retto bene, umido per un terzo ma del tutto integro una volta estratto. 
Non mi soffermo a parlare di un mito dell’enologia come Angelo Gaja, conosciuto in tutto il mondo e personaggio fondamentale sul piano della comunicazione in un’epoca in cui non esistevano internet, cellulari, social e via discorrendo; ricordo solo che, non senza aver ricevuto numerose critiche dai più duri e puri, fece di tutto per far cambiare i disciplinari di Barolo e Barbaresco; senza arrivare agli estremismi di Rivella a Montalcino, quello che gli interessava era introdurre la possibilità di una percentuale di altre uve a fianco del nebbiolo (3%), barbera in particolare, motivandone a lungo le ragioni. Ovviamente non è importante la percentuale, ma il fatto di consentire anche se di pochissimo l’ingresso di altre uve in questi due storici vini. Una volta effettuata la modifica, non è poi così difficile intervenire gradualmente per aumentarla o meno. La faccenda non è andata a buon fine, così Mr. Gaja ha preferito declassare il Barolo DOCG Sperss in Langhe DOC Sperss, forte del suo nome e dell’eccellente apprezzamento dei suoi vini all’estero. Il Langhe Sperss, infatti, vede al fianco del nebbiolo una quota variabile di barbera secondo l’annata, tra il 5 e il 10%.


Questo invece è proprio un Barolo, senza discussioni, lo si capisce già dal colore, un granato dall’impressionante lucentezza, premessa di una probabile ottima salute del vino. E in effetti, una volta versato e atteso qualche minuto di rito per farlo ossigenare, sbaraglia subito qualsiasi dubbio sulla sua integrità, sentire ancora la presenza di viola e rosa dopo quasi trent’anni è già di per sé un fatto straordinario. Ma quello che più mi ha impressionato è la perfezione del frutto, senza alcuna sbavatura ossidativa (né all’inizio, né dopo un’ora dall’apertura), frutto bellissimo, ancora “fresco”, tanto da ricordare molto bene la ciliegia, non candita e non in confettura ma solo matura, al punto giusto. Poi la liquirizia, una deliziosa venatura balsamica, fatico a cercare tracce di un terziario spinto, di goudron, funghi, cuoio, cenere ecc.


Davvero impressionante, potrebbe essere un Barolo di meno di 10 anni, impossibile ipotizzarne di più. Ma vediamo se al palato è altrettanto sorprendente: niente, inutile tentare di sentire quello che non c’è, l’unica traccia un po’ più evoluta, ma parliamo di quisquilie, è nella lunga persistenza retrolfattiva, un accenno, come a dire “sto pensando di mettermi la canottiera, c’è qualche spiffero…”. Per non parlare del tannino, un velluto sotto un cesto di frutta, pura poesia! La speziatura è raffinata, amplessi fra ginepro e pepe rosa, una punta di chiodo di garofano e solo sul finale un afflato di goudron. Che vino…


Ma oggi, con i mutamenti climatici e le nuove tecniche di viticoltura e vinificazione, siamo ancora in grado di fare vini così longevi e in salute? Lascio alle nuove generazioni di enopatiti il compito di scoprirlo.

Strappelli - Cerasuolo d’Abruzzo 2021


di Roberto Giuliani

A Torano Nuovo (TE), Guido Strappelli coltiva in bio 12 ettari di vite. Il suo Cerasuolo strappa l’applauso per il bellissimo gioco di piccoli frutti rossi che invadono i sensi al naso e al gusto, ha slanci floreali; un sorso tira l’altro in modo davvero pericoloso, finale perfetto e non amaricante.

Terre di Vite: la Xª edizione all’insegna della rinascita con 150 vignaioli da tutta Italia


di Roberto Giuliani

Uno dei tanti problemi recati dai provvedimenti necessari a contenere la diffusione del sars-cov2 è stato sicuramente quello della distanza sociale, che come ben sappiamo ci ha fatto trascorrere 2 anni in una situazione di limbo in cui ogni giorno cambiavano regole e restrizioni. Difficile dimenticare i periodi delle regioni in verde-giallo-rosso, le fasi in cui non potevi uscire di casa, poi dal comune di residenza, poi dalla regione, poi dall’Italia. Mascherine, vaccini 1,2,3 e 4, delivery, greenpass, riaperture, focolai e nuove chiusure, eventi annullati, cinema e teatri chiusi, scuole chiuse a singhiozzo, ristoranti e negozi sul lastrico, drammi famigliari e le mille altre problematiche che hanno occupato la cronaca per tutto questo tempo. 

Certo, vedere da Fazio il Burioni in collegamento da casa, con il covid a una settimana dalla quarta dose del vaccino, dà adito a numerose riflessioni… 

Ma non siamo qui per parlare di virus, bensì del ritorno di Terre di Vite, evento nato nel 2009 dalla fervida mente di Barbara Brandoli, al quale ho dato con gioia la mia collaborazione per tutte le edizioni successive. Quest’anno, dopo 2 anni di fermo per le ragioni precedentemente enucleate, siamo ripartiti carichi e decisi a fare una decima edizione davvero superba, con un tema scelto non a caso: “Rinascita”, inteso “come volontà di lasciarci alle spalle un periodo difficile per tutti e come prospettiva positiva e costruttiva orientata ad un futuro più fluido. Un trait d’union che accomunerà i seminari, le degustazioni guidate, le mostre e le performances artistiche che animeranno le giornate di sabato 22 e domenica 23 ottobre”. 


Tante novità, a partire dalla location, che questa volta sarà la splendida Villa Cavazza a Bomporto (MO), spazi enormi in un ambiente accogliente e ricco di storia (all’interno anche un museo degli attrezzi per la vinificazione e un’acetaia storica). Mai come in questa edizione si è pensato a qualcosa che andasse ben oltre la presenza di vignaioli e vini a banchi d’assaggio, allargando la prospettiva a convegni, laboratori, masterclass, musica e proiezioni di docu-film. 

Sabato e domenica dalle ore 11 alle ore 20 potrete degustare (e acquistare) i vini di 150 vignaioli provenienti da tutta Italia. 

Come di consueto ci sarà il direttore di Porthos Sandro Sangiorgi, al quale sono affidati un seminario e due degustazioni guidate. Al Prof. Giovanni Dinelli sarà affidato un seminario sui grani antichi aperto al pubblico. Il sabato 22 ottobre ci saranno i ragazzi de “Il Tortellante” di Massimo Bottura che ci dimostreranno in diretta come nasce il tortellino attraverso un piccolo laboratorio di pasta fresca. La domenica 23 ottobre, ospiteremo gli Chef di “Modena a Tavola” che si alterneranno proponendo piatti della tradizione e non, che andremo ad abbinare in diretta ad alcuni vini dei vignaioli presenti. Due giorni che includono anche due masterclass sull’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. a cura del Consorzio Produttori Antiche Acetaie e Associazione Esperti Degustatori a cura dell’Associazione Esperti degustatori di Modena ABTM e ad ingresso libero per i visitatori della manifestazione. Non mancano le proposte culturali che prevedono la proiezione, in entrambi i giorni, del Docu-Film “Motor Valley - viaggio nella terra dei motori” del regista Stefano Ferrari e del Docu-Film “Pre-British–Il Marsala prima del Marsala” del regista Andrea Mignolo. Per la parte letteraria, la presentazione del libro “Pennellate Estensi...viaggio intorno al vino” con la presenza delle autrici. La musica dei ragazzi del progetto Pedala Piano a fare da colonna sonora per gli assaggi nel giardino della villa si alternerà nei due giorni con la voce talentuosa della cantante Giorgia Morandi. L’offerta gastronomica sarà come di consueto dedicata alle eccellenze gastronomiche del territorio attraverso la presenza di alcuni food truck e banchetti con specialità emiliane posizionati nella corte interna della villa. 

Vi lascio al dettaglio del programma, ma prima voglio ricordarvi che fino al 21 ottobre potrete acquistare in prevendita QUI i biglietti d’ingresso a 22 euro anziché 25, o per tutti e due i giorni a 40 euro. (Ricordo anche che nel costo del biglietto sono compresi la tracolla e il calice). 

Per ulteriori info: terredivite.it

InvecchiatIGP: Perla del Garda – Lugana DOC “Madre Perla” 2009


Tra gli addetti ai lavori, che siano enotecari, ristoratori o giornalisti enogastronomici, spesso vi è il pregiudizio che alcuni vini bianchi, spesso figli di denominazioni di origine “minori”, siano adatti solo ed esclusivamente ad essere consumati nell’arco di un anno solare altrimenti il vino “non è più buono”, come se la qualità fosse un requisito agganciato al tempo che passa e non, invece, al momento in cui vengono vendemmiate e lavorate le uve di provenienza. 


La DOC Lugana, purtroppo, fa parte di queste DOC ancora poco considerate dal punto di vista qualitativo nonostante gli sforzi di un Consorzio che, anno dopo anno, in maniera coesa e lungimirante, sta cercando di comunicare la buona qualità media dei vini di questo territorio che ha una doppia appartenenza regionale visto che l’areale di produzione è posto a cavallo tra i comuni di Sirmione, Pozzolengo, Desenzano, e Lonato in Lombardia e Peschiera del Garda in Veneto. 


Nella Lugana il microclima, influenzato positivamente dalle brezze temperate del lago di Garda, è mite e abbastanza costante, con poche escursioni termiche tra il giorno e la notte. Una “culla climatica” perfetta per valorizzare le peculiarità di un’uva particolare come la Turbiana che, forse non tutti sanno, appartiene alla grande famiglia dei “trebbiani”. 


Perla del Garda è una delle tante aziende del territorio che da oltre venti anni a Lonato in Garda, provincia di Brescia, sta portando avanti una viticoltura di qualità senza compromessi che, grazie al lavoro di Giovanna ed Ettore Prandini, ho potuto verificare personalmente quando davanti ai miei occhi si è materializzata una bottiglia di Lugana DOC “Madre Perla” 2009 (100% turbiana). 


Dal colore giallo appena dorato, appena si mette al naso si capisce che questo Lugana è capace di emozionare anche il degustatore più smaliziato grazie ad una giovinezza e ad una qualità decisamente oltre la media. Il motivo è semplice: il naso, decisamente austero, rimanda a tocchi aromatici di cerali, mandorla tostata, castagne, sidro, glicine appassito, miele d’acacia e cenni empireumatici. Questa annata, particolarmente fresca e piovosa, è ancora viva ed elegante al sorso mantenendo, allo stesso tempo, una bevibilità a dir poco disarmante per i suoi 13 anni portati alla stragrande. 


Un Lugana sfolgorante che spegne le speranze e accende le certezze verso una denominazione che, se si è curiosi e poco pregiudiziosi, non smetterà mai di stupire!

Duca di Salaparuta – Etna Rosso “Lavico” 2020


Un’azienda storica, con quasi 200 anni di età, e un nuovo progetto incentrato sulla Tenuta Vajasindi, alle pendici dell'Etna, puntando su Carricante e Nerello Mascalese. 


Questo Rosso, proveniente dalla parte del nord del vulcano, è pura austerità che accompagna il sorso in un mix di frutta, spezie e sensazioni empireumatiche. Un vino già maturo e da bere subito!

Pio Cesare presenta l'annata 2018 di Barolo e Barbaresco


Se parliamo di Langhe, probabilmente, Pio Cesare è una delle prime realtà vitivinicole di qualità che un appassionato può nominare se non altro perché in quella Terra ha fatto la storia del vino. L’azienda nasce nel 1881 ad opera del fondatore, Cesare di nome e Pio di cognome, ed ancora oggi, ad Alba, rimane l’unica cantina operativa nel centro della città. Non solo. Dopo oltre 140 anni, Pio Cesare è ancora saldamente una impresa famigliare e, dopo la prematura morte di Pio Boffa avvenuta lo scorso anno, oggi le redini dell’azienda sono passate nelle mani della quinta generazione rappresentate dalla ventitreenne Federica Rosy, sua figlia, e dal nipote Cesare Benvenuto che già da tempo lavorava in Pio Cesare. 

Federica e Cesare - Foto: Ansa

Parlando proprio con Federica, durante una assolata giornata romana dove l’azienda ha presentato l’ultima annata di Barolo e Barbaresco, si capisce subito che, nonostante la giovane età, la figlia di Pio Boffa abbia già le idee molto chiare sulla filosofia di produzione. 


"Siamo proprietari di circa 75 ettari di vigneti situati in posizioni di grande pregio nelle Langhe (come ad esempio a Treiso e San Rocco Seno d’Elvio nella zona del Barbaresco e a Serralunga d’Alba, Grinzane Cavour, La Morra, Novello e Monforte d’Alba nella zona del Barolo) e il nostro obiettivo è rispettarli nella loro singolarità e rappresentarli nel loro insieme, fondendo le caratteristiche di ciascuna zona. Questo ci consente di produrre vini veramente “completi” ed assolutamente fedeli e rappresentativi dello stile dell’intera appellazione del Barolo e Barbaresco. È questa, da sempre, la nostra firma che si rivela anche nell’annata 2018, una vendemmia di grande qualità: una delle annate più vicine al concetto di tradizione e classicità del Barolo degli ultimi decenni e sono proprio queste le due parole chiave dello stile Pio Cesare”. 

La 2018 è stata caratterizzata da un inverno freddo e nevoso, che ha reintegrato le riserve idriche del suolo, buone precipitazioni primaverili e un’estate stabile senza eccessi di calore. Un autunno soleggiato con escursioni termiche notturne ha accompagnato lentamente la maturazione dell’uva fino al livello ottimale e alla raccolta dell’ultimo grappolo... “Alla Natura non si poteva davvero chiedere di più”, sorride Federica. Le uve di Nebbiolo da Barolo e Barbaresco sono state raccolte rigorosamente a mano tra il 5 e il 13 ottobre e hanno raggiunto la cantina che si trova (unica!) nel centro storico della città di Alba. Qui con la massima delicatezza, i grappoli delle diverse parcelle vengono sapientemente assemblati ancor prima della fermentazione secondo la “ricetta” di famiglia e poi iniziano il loro percorso di vinificazione. 


Dopo lunghe macerazioni sulle bucce per almeno 30 giorni a temperature controllate, inizia il processo di affinamento che dura per circa 3 anni, di cui almeno 24 mesi in botte grande di rovere francese e dell’Est Europa con un piccolo passaggio in barrique soltanto nei primi 12 mesi di affinamento. Segue poi un lungo riposo in bottiglia di circa 9 mesi” spiega Federica. “Dedichiamo al nostro Barbaresco Pio lo stesso periodo di affinamento del Barolo Pio (ovvero 1 anno in più rispetto al minimo richiesto dal disciplinare) perché entrambi questi vini sono figli dello stesso grande vitigno, il Nebbiolo, e soprattutto perché provenendo principalmente dal comune di Treiso e dalla vigna Il Bricco di Treiso, caratterizzata da un’altitudine elevata e da un clima più fresco, il nostro Barbaresco Pio ha bisogno di più tempo affinché i tannini si possano ammorbidire ed il vino raggiunga il pieno equilibrio tra acidità e frutto”. 


Degustando il Barbaresco 2018, nonostante la giovane età, si percepisce nettamente la precisione stilistica dell’azienda che ritrovo in un olfatto strepitoso di ribes e melograno che lascia col tempo e l’ossigenazione spazio alla viola e alla rosa. Al gusto esprime tutta la sua classe e l’equilibrio dei migliori; ha proporzione, precisione e finezza tannica, e in chiusura una lunga scia di piccoli frutti rossi leggermente maturi. 


Il Barolo 2018, elegante ed austero, sfoggia un impianto olfattivo articolato di superba finezza e complessità; complesse note sapide e fruttate lasciano spazio a sentori quasi salmastri intrecciati a note di mora di rovo, ciliegia, viola appassita, genziana e sbuffi speziati. Il sorso ha già una buona beva, più dinamico che massiccio, con grana tannica solida ma fine, in un contesto di rara piacevolezza per un Barolo appena uscito sul mercato.

InvecchiatIGP: Bellaria - Provincia di Pavia IGT "La Macchia" 1998


di Lorenzo Colombo


Il vino che andiamo ad assaggiare per la rubrica settimanale InvecchiatIGP è di un’azienda che purtroppo non esiste più, la Bellaria di Paolo Massone


Cominciamo dal nome, un aneddoto, raccontato da Gianluca Ruiz de Cardenas, produttore oltrepadano, amico di Paolo Massone la cui azienda risiede nella stessa frazione, Mairano, del comune di Casteggio, dove ha (aveva) sede anche la Bellaria. Dunque Ruiz de Cardenas, grande appassionato di Borgogna e di Pinot nero, sostiene che il nome La Macchia sia stato da lui suggerito a Paolo in quanto traduzione dal francese di La Tache, Grand Cru del comune di Vosne-Romanée, nella Côte de Nuits, nonché monopole di Romanée Conti. Cosa curiosa, dato che La Macchia è prodotto con uve Merlot. 

L’azienda Bellaria 

Un documento, presso la camera di commercio di Pavia, attesta che l’azienda è stata condotta, sin dal 1840, dalla famiglia Massone, Paolo Massone, che è stato anche presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, l’ha gestita sino al mese d’agosto 2019, anno in cui l’ha poi venduta. 
La Nuova Bellaria è il nome che è stato dato all’azienda dai nuovi proprietari, la famiglia Zaffarana e Federperiti, Filippo Zaffarana è infatti co-fondatore, nel 1992 di questa associazione, nonché suo presidente da oltre vent’anni.
L’azienda è stata trasformata in Resort, pur continuando la produzione di vino, che però non viene commercializzato sugli usuali canali di vendita, ma è possibile acquistarlo unicamente in azienda. 

Il vino 

La Macchia veniva prodotto con uve Merlot provenienti da un vigneto messo a dimora nel 1990 su suoli di natura argillosa, allevato a Guyot con densità d’impianto di 5.000 – 6.000 ceppi ettaro. La prima annata di produzione è stata la 1997, anno in cui, per puntare sulla qualità assoluta del vino s’è passati da una produzione media per ceppo si quattro chilogrammi ad una di 1,5 chilogrammi tramite drastici diradamenti. L’ultima annata di produzione del La Macchia è stato il 2005, anno infausto per Paolo Massone, che in un solo anno ha vissuto la perdita di più familiari.  Nel 2019, come sopra specificato la decisione sofferta di vendere, anche perché i figli avevano scelto un’altra strada. 


Ora Paolo, col quale abbiamo avuto una conversazione telefonica alcuni giorni fa collabora col vecchio amico Gianluca Ruiz de Cardenas nella sua azienda. 
Al telefono ci ha detto che le annate migliori per i suoi vini sono state quelle a cavallo degli anni 2000 ed in effetti, consultando una vecchia guida abbiamo constatato che La Macchia 2000 aveva ricevuto il prestigioso riconoscimento dei 2 Bicchieri Rossi dalla guida Vini d’Italia del Gambero Rosso-Slow Food, non ci resta quindi che provarlo, se riusciremo a scovare qualche bottiglia di quell’annata, a tal proposito, nella ricerca nella nostra cantina abbiamo scovato un Bricco Sturnèl 1998, Cabernet sauvignon con l’aggiunta di un 20% di Barbera, ci ripromettiamo quindi d’assaggiarlo quanto prima. 

L’assaggio 

La bottiglia, tenuta rigorosamente coricata per anni in cantina, si presentava nuda, sia l’etichetta che la controetichetta erano integre ma completamente staccate, l’apertura s’è rivelata un poco laboriosa, siamo infatti riuscire a togliere il tappo in tre step. 


La prima impressione, vedendo il tappo quasi completamente colorato dal vino, non è stata delle migliori, comunque lo stesso non denotava alcun segno olfattivo di degradazione. Scaraffando il vino ecco un altro buon segno dato dal colore ancora molto bello, data l’età, granato di buona intensità con unghia leggermente sfumata verso l’aranciato.


Integro al naso, discretamente intenso, elegante ed ampio, con frutto ancora in evidenza (ciliegia matura e prugna), si colgono in sequenza note balsamiche, accenni di sottobosco e spezie dolci, vaniglia, sentori di noci, sbuffi di pepe.


Dotato di discreta struttura, asciutto, con trama tannica ancora in bell’evidenza, legno ancora presente ma ben integrato ed assolutamente non fastidioso (ricordiamoci che eravamo negli anni dove l’uso del legno, barriques soprattutto, era gestito con disinvoltura), morbido ma con buona vena acida, accenni di caffè in polvere, cioccolata calda, vaniglia e poi ancora la frutta rossa, lunga la sua persistenza su sentori di liquirizia. 

Un grande vino del quale sentiamo la mancanza.

Pratello - Garda Doc "Riesling" 2020


di Lorenzo Colombo

Da vecchie viti di Riesling provenienti dal Colle Brusadilì, nel comune di Padenghe del Garda, a 300 metri d’altitudine, su suolo argilloso di natura morenica si ottiene questo vino dal colore giallo dorato e dai sentori di frutta tropicale con accenni piccanti e con note d’idrocarburi.




Castello Bonomi, tutto il bello della Franciacorta


di Lorenzo Colombo

Castello Bonomi fa parte, dal 2008 di Casa Paladin, una realtà di proprietà della famiglia Paladin, che dispone di tenute in diverse regioni italiane: la casa madre Paladin, in Veneto, Bosco del Merlo, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, Fattoria di Castelvecchi nel Chianti Classico, Casa Lupo in Valpolicella ed appunto Castello Bonomi in Franciacorta.


Situata nella parte più meridionale della Franciacorta, a sud del Monte Orfano, la tenuta dispone di 24 ettari a vigneto che nelle sue parti più alte si sviluppa su gradoni sino ai 275 metri d’altitudine, tutti i vigneti sono inerbiti, potati a Cordone speronato e condotti in regime biologico. I vigneti sono suddivisi in 32 parcelle, 22 di Chardonnay e 10 di Pinot nero e ciascuna di queste viene vinificata separatamente per poi compiere un certosino lavoro di assemblaggio che andrà a costituire i vari vini.


La tenuta prende il nome dall’edificio a forma di castello (sino ad alcuni anni addietro si chiamava Castellino Bonomi) in stile liberty costruito a fine ‘800 dall’architetto Antonio Tagliaferri, per conte di Andrea Tonelli, acquista in seguito dall’ingegner Bonomi, tuttora proprietario dell’edificio, che negli anni ’90 recuperò i vigneti terrazzati già preesistenti.


La produzione annuale è di circa 150.000 bottiglie, centomila delle quali sono di Franciacorta, prodotto in nove diverse etichette, durante la nostra visita in azienda, accompagnati da Martina Paladin abbiamo potuto degustare cinque di questi vini, ecco le nostre impressioni:

Franciacorta Brut Cuvée 22

Il nome del vino deriva dalle 22 parcelle aziendali di chardonnay dalle quali provengono le uve per la sua produzione. Si tratta del vino d’ingresso dell’azienda e dell’unico Franciacorta non Millesimato prodotto, la fermentazione avviene in vasche d’acciaio ed il processo di spumantizzazione prevede una sosta sui lieviti minima di 24 mesi (erano 30 nel caso del vino da noi assaggiato).
22 euro il suo prezzo in azienda.


Il colore è paglierino scarico luminoso. Fresco al naso, fruttato, sentori di pesca bianca ed accenni di lieviti. Cremoso e sapido, dotato di buona struttura, bel frutto, pesca e accenni di mela, lievi note tostate e lunga persistenza.
Per essere il vino d’ingresso si può certamente affermare che siamo su alti livelli.

Franciacorta Brut CruPerdu Millesimato 2017

70% Chardonnay e 30% Pinot nero. Parte dello Chardonnay fermenta in barriques dove matura per circa otto mesi, il periodo d’affinamento in bottiglia è di almeno 60 mesi. Il vino deve il nome alla riscoperta, nel 1986, nei pressi di un bosco, di alcune piante di vite coperte dai rovi, da cui Cru Perduto. In azienda viene venduto a 26 euro.


Si presenta con un colore paglierino piuttosto scarico, quasi color platino. Intenso al naso dove spicca un frutto giallo maturo unito ad accenni vanigliati, si coglie inoltre una certa nota evolutiva nel vino che sfocia in sentori di mela matura. Cremoso al palato, strutturato e molto intenso, sapido e dotato di spiccata vena acida, tagliente, quasi citrina, percepiamo sentori agrumati di pompelmo e limone, buona la sua persistenza.

Franciacorta Cuvée 1564 Brut Nature Millesimato 2017

45% Chardonnay, 45% Pinot nero e 10% Erbamat, oltre 40 i mesi di sosta sui lieviti. Prima annata di produzione per questo vino nella cui composizione rientra un 10% di Erbamat (percentuale massima ammessa dal disciplinare di produzione) ed il cui nome deriva appunto dall’anno in cui il vitigno viene citato per la prima volta da Agostino il Gallo che così scrive “Albamate, atteso che fanno vin più gentile d’ogni altro bianco: ma perché tardano à maturare, non è perfetto sin’al gran caldo, & più quando ha passato un anno. Ma taccio le altre uve bianche, per havervi ragionato delle migliori”.


L’Erbamat è un vitigno che è stato inserito nel disciplinare di produzione del Franciacorta nel 2009 e che può essere utilizzato nella quantità massima del 10%, seppur in crescita il vitigno rappresenta una percentuale assai bassa del vigneto franciacortino, se ne posso infatti contare al momento solamente una trentina d’ettari. Il vitigno si presenta con un grappolo dalle dimensioni piuttosto importanti e si configura come un vitigno a maturazione tardiva, la vendemmia, infatti, avviene sino ad oltre un mese dopo rispetto alle altre varietà ed a causa della sua bassa fertilità basale dev’essere potato a Guyot.


Castello Bonomi è stata una delle prime aziende a credere ed a lavorare su questo vitigno, spumantizzandolo in purezza, tanto che è l’unica realtà franciacortina che può vantare una verticale completa dal 2011 al giorno d’oggi.
Il colore è paglierino luminoso di media intensità. Buona la sua intensità olfattiva, al naso si colgono sentori d’erbe officinali uniti a leggeri accenni aromatici.
Fresco e sapido, con spiccata vena acida, leggeri accenni tostati e lunga persistenza. Un vino che ha come dote migliore la coerenza tra naso e bocca. E’ stato prodotto unicamente in Magnum.
Nota: Della Cuvée 1564 sono state prodotte anche in passato alcune annate dove la percentuale di Erbamat era decisamente più consistente (30% - 40%), ovviamente questi vini non sono usciti con la denominazione Franciacorta, ma unicamente come VSQ Cuvée 1564 Millesimato.

La Riserva Lucrezia

La Riserva Lucrezia costituisce il vertice della produzione aziendale, viene prodotto unicamente nelle migliori annate stabilendo in base all’andamento climatico la tipologia di Franciacorta che andrà ad occupare. Nel 2007 è stato prodotto nella tipologia Rosé (Etichetta Rosé) utilizzando unicamente Pinot nero, nel 2008 è uscito in due versioni: Etichetta Bianca, blend di 70% Pinot nero e 30% Chardonnay e Etichetta Nera, Pinot nero vinificato in bianco (vino assaggiato) e nel 2009 si è prodotta la tipologia Saten (Etichetta Bianca), ovviamente con uve Chardonnay in purezza (altro vini di cui scriviamo sotto).

Franciacorta Saten Riserva Lucrezia Etichetta Bianca 2009

Chardonnay in purezza, da vigneti d’oltre 30 anni d’età, fermentazione in barriques con periodici batonnages, una parte del vino s’affina poi in vasche d’acciaio, a primavera s’effettua il blend e quindi il vino viene posto a rifermentare in bottiglia dove rimane per almeno 120 mesi.


Color giallo paglierino luminoso. Buona l’intensità olfattiva, note vanigliate, pasticceria, crema pasticcera, leggeri accenni affumicati.
Morbido e strutturato, sapido, note affumicate, legno percepibile, lunghissima la persistenza. 1.500 le bottiglie prodotte, vendute in azienda a 85 euro.

Franciacorta Riserva Lucrezia Etichetta Nera 2008

Un Blanc de Blancs da Pinot nero in purezza, con uve provenienti dai vigneti aziendali più vecchi situati a 275 metri d’altitudine, prodotto unicamente nelle migliori annate s’avvale d’una sosta sui lieviti di oltre 120 mesi.


Paglierino di buona intensità. Mediamente intenso al naso, discreto, fine, dotato di notevole eleganza, frutto a polpa gialla. Sapido e cremoso, complesso, elegante, composto, dotato di notevole equilibrio, bel frutto, mela, leggeri accenni tostati, lunghissima la sua persistenza. Un grande vino, dotato di rara eleganza ed equilibrio, ne sono state prodotte 2.200 bottiglie, vendute in azienda ad 85 euro.

InvecchiatIGP: Marchesi di Barolo - Barolo "Vinclap" 1943


di Stefano Tesi

Guai a parlar male delle vecchie zie. Anche di quelle che quando andavi a trovarle ti inchiodavano col rosolio e i racconti della Belle Epoque, se poi tra tante cianfrusaglie ti lasciavano bottiglie d’epoca di cui ignoravano il valore e che quindi avevano conservato per un’esistenza intera – e bene o purtroppo anche no, sempre involontariamente si capisce – nella fresca penombra di un’odorosa cantina. Se poi le bottiglie in questione oggi si rivelano d’epoca davvero, diciamo con più di mezzo secolo di vita, l’affare si può ingrossare. Al netto dei fatali rischi naturali dettati dall’età, si capisce.


È lo strano caso di questo Barolo Vinclap del 1943, ritrovato in garage tra decine di altre bottiglie di cui spero di poter presto riferire, con l’etichetta distaccatasi dal vetro e rimasta lì integra, appoggiata allo scaffale, come una foglia d’autunno.
Così l’ha prelevata, tra i lasciti, un mio caro amico, nipote di cotante zie.

E ha deciso di testarlo con e la sua famiglia.

Dopo breve ricerca , del vino ho scoperto esistere due versioni, una intestata agli “Antichi poderi dei Marchesi di Barolo” e un’altra, quella de quo, intestata alla Vinclap (acronimo di Vini Classici del Piemonte) con riportato in etichetta “Antichi poderi dei Marchesi di Barolo”. Non ho avuto modo né tempo di indagare più a fondo e di capire le differenze tra le due varianti, né sulla pur intrigante questione della quotazione (in rete si va dai 150 ai 300 euro) delle bottiglie, perché mi pareva inutile e perfino irrispettoso verso un vino di quasi ottant’anni, sopravvissuto a una guerra e che, lo sottolineo o anzi di più, si è rivelato alla fine non solo bevibile, ma perfino godibile. Il che, per tante comprensibili ragioni non era affatto scontato.

Il livello del liquido pareva accettabile e ciò era incoraggiante.
La stappatura, eseguita con mille cautele, è stata più semplice del previsto. Il tappo, per quanto assai corto rispetto agli standard odierni, si è rivelato sostanzialmente integro.


Io e il mio amico abbiamo officiato alla cerimonia sospesi tra l’emozione, la curiosità e i timori. Sulle prime, portato al naso il vino pareva andato, nonostante il colore ancora relativamente pieno e vivo.

Mai, però, dare per morti i grandi vecchi.

Si decide così di concedergli fiato per un’oretta. Diciamo una rianimazione.
E lui risorge. Quasi resuscita, direi.

Lo fa ovviamente come fanno certi anziani parecchio anziani, alternando momenti di lucidità ad altri di appannamento, in una cangianza rutilante che però ha riempito di rabbocchi sorpresi i nostri bicchieri durante il pranzo.



Non ho voglia di addentrarmi nel dettaglio, anche perché le mutazioni, a tratti radicali, si sono susseguite davvero ogni dieci minuti e sono state tante. Ognuna a suo modo piena di pneus, il soffio vitale. Per un paio d’ore nei calici si è avvertito, col disincanto anche dissacrante della circostanza, “di tutto”, come in un bel volo a planare (cit.) sovrastato dal compiacimento e dall’emozione dell’imprevisto successo. Naso e palato hanno potuto esercitarsi, scandagliare.
È stata un’esperienza altamente formativa sul Barolo, sul Nebbiolo e soprattutto sulla libertà mentale che ti aiuta quando avvicini i sensi a qualcosa da cui ti aspetti di tutto e niente.

C’è chi li chiama miracoli enologici, chi magia del vino.

In ogni caso, grazie zia!

La Combàrbia - Vino Nobile di Montepulciano DOCG 2018


di Stefano Tesi

Il Nobile di Montepulciano è un’amante che ora ti esalta e ti gratifica, ora ti tradisce e ti delude. In ciò sta il brivido. 


Qui siamo nella prima categoria: tipico fin dal colore, profumi giusti e ricchi, bocca lunga e composta, profonda ma viva. Bella bevuta e bravi l’enologo Giuseppe Gorelli e il produttore Gabriele Florio. 

Monte Oliveto e i suoi vini di Abbazia


di Stefano Tesi

La settimana scorsa, su questa rubrica, l’ottimo Luciano Pignataro si interrogava sul significato da dare all’espressione “vino elegante”. 

Per parte mia voglio rilanciare e chiedere: che vuol dire, invece, “vino territoriale”?  

In teoria è facile rispondere: dicesi territoriale il vino che rispecchia il territorio in cui nasce e viceversa. 

Ma in pratica? 

In pratica credo sia difficilissimo: per farlo con serietà di argomenti è necessario possedere una conoscenza così specifica e particolare di suoli, luoghi, climi, odori, essenze, usi, tecniche e così via possibile solo a chi )o quasi) nelle zone interessate ci vive ed è perciò capace di cogliere sfumature e sentori “ambientali” altrimenti non individuabili. 

Ebbene, di recente ho avuto l’opportunità di assaggiare dei vini che ho davvero trovato territoriali. E lo dico a ragion veduta, in quanto prodotti più o meno a casa mia, nelle Crete Senesi. 

Abbazia di Monte Oliveto

Si tratta di quelli dell’Abbazia di Monte Oliveto, il grandioso complesso monastico fondata nel 1317 dal beato Bernardo Tolomei e casa madre degli Olivetani, congregazione obbediente alla regola di San Benedetto: “Ora, labora et lege”. Regola che i monaci osservano alla lettera. Sono infatti monaci-agricoltori e pertanto, da sempre, anche vignaioli. 

Perdersi qui e ora nell’inesauribile aneddotica su questo luogo straordinario, dall’atmosfera profondamente mistica, rischierebbe però di distogliere l’attenzione dal vino in sè. Anche se per comprenderlo a fondo occorre anche sapere che, come forse da nessun’altra parte, nella grande fattoria olivetana la compenetrazione tra agricoltura, missione, tradizione, stile di vita è assoluta. E in nessun caso se ne potrebbe prescinderne. “Il rapporto lavoro-liturgia è per noi vitale”, spiegano l’economo generale don Antonio e in responsabile della produzione vinicola don Andrea. “Per restare al comparto vitivinicolo, basti dire che ogni operazione in vigna e in cantina, dall’inizio della vendemmia all’imbottigliamento, fa sempre riferimento a precise ricorrenze liturgiche”. 

Molto più recente, circa vent’anni fa, è invece la messa a dimora del vigneto specializzato per la produzione di vino destinato al mercato: cinque ettari e mezzo in un unico corpo, su un suolo in prevalenza argilloso esposto ad est, sul versante della collina che guarda verso Chiusure e San Giovanni d’Asso, nel cuore della grande tenuta facente capo all’Abbazia, come racconta l’enologo Gianni Terzuoli (uno che, tanto per rendere l’idea del senso della continuità insita nel modello olivetano, proviene da una famiglia a servizio dell’Abbazia da sette generazioni). Varietà coltivate: Vermentino, Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon. 

Ancora più recente la svolta qualitativa, con l’abbandono della cantina storica nelle viscere del monastero (ora trasformata in affascinante luogo di vendita diretta e di degustazione, nonché tappa obbligata della visita al grande complesso), la realizzazione della nuova, il passaggio al biologico (“il biodinamico non è invece di nostro interesse”, specificano i monaci), e un restyling enologico generale i cui frutti si sentono, eccome, nel bicchiere. 


La prima di queste evidenze è la coerenza stilistica tra i vari vini. Il che non guasta, vista anche la vastità della produzione: ben otto etichette, cui si aggiungono liquori, distillati e amari, tra i quali la tradizionale Flora a base di erbe. 

La seconda evidenza è appunto la territorialità. Ho trovato corrispondenza tra le caratteristiche intrinseche dei vini e le aspettative dettate dalla conoscenza dei luoghi di produzione: la sensazione di calore e di compattezza, la mancanza di fronzoli e di concessioni alle mode commerciali, insomma una personalità marcata ma non per questo ostica, o tecnicamente inadeguata, o compiaente. Schiettezza è forse l’espressione più giusta. 

Ecco una carrellata degli assaggi che più ci hanno convinto: 

- In Albis 2021 Toscana Igt, un Vermentino al 100% decisamente fuori dal comune, oro pieno all’occhio, naso screziato con note quasi mature e accenni di ginestra e fiori di campo, bocca sapida e consistente, appena amarognola: un vino godibile e terragno, anzi “territoriale”; 

- Sancte Benedicte 2021 Toscana Igt, Sangiovese 100% fatto solo in acciaio: è il rosso “d’ingresso” della gamma ma spicca per ricchezza olfattiva e pulizia, molto diretto e verace, gratificante nonostante la gradazione importante (14°); 


- “1319” 2018 Toscana Igt, fatto col 60% di Sangiovese, il 30% di Cabernet sauvignon e il 10% di Merlot, è il vino creato per il 700° della fondazione dell’Abbazia: selezione delle uve in vigna, poi vinificate separatamente e messe per un anno in botte da 27 hl (95%) e tonneaux (5%). Rosso ovviamente importante, dal colore rubino intenso e caldo e dal naso solenne, quasi austero, equilibrato ma ricco di sfumature che si ritrovano al palato in una rotondità niente affatto stucchevole (ci sono però cambi in vista: dalla vendemia 2021 viene prodotto in un tino-botte, spiega Terzuol)i; 

- Passito del Priore 2021, Toscana Igt da uve Vermentino 100% lasciate appassire per due mesi sui graticci, poi torchiate e fatte fermentare in acciaio per 45 giorni con un po’ di bucce, il tutto viene messo in barrique per cinque mesi: ne risulta un vino di colore paglierino dai riflessi verdognoli, molto fruttato e suadente al naso, che in bocca si mantiene agile ma dura a lungo, rivelandosi particolarmente gradevole e versatile. 


Facendo la somma delle produzioni dei vini descritti sopra e di quelli di cui parleremo una prossima volta (il vivace Rosatum di Sangiovese vinificato in bianco, il Coenobium Grance Senesi doc a taglio bordolese, il cangiante Monaco Rosso e il singolare Vinsanto), si arriva a circa 50mila bottiglie prodotte. Ora, se dicessimo che i vini di Monte Oliveto valgono da soli la visita faremmo un grave torto tanto all’abbacinante bellezza artistica, architettonica e paesaggistica del luogo, quanto al messaggio più ampiamente culturale e spirituale di cui esso è portatore. 

Ma faremmo anche un torto ai vini dicendo che essi rappresentano solo un quid pluris della visita, nemmeno fossero una sorta di souvenir. Non a caso, su prenotazione, si possono fare anche degustazioni guidate. 


Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Ed è pure la meno prevedibile: tranne qualche rara eccezione nei ristoranti in zona, infatti, attualmente l’unico modo per procurarsi i vini dell’Abbazia è andarci di persona (cosa di cui, come detto, vale assai la pena). Oppure comprarli sull’e-commerce della congregazione. 

Più territoriali di così… 

Amen!