Alla scoperta del Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore con sei grandi vini del territorio!


di Andrea Petrini

Con Marche Tasting, ovvero la serie di incontri on-line sui vini marchigiani organizzati dall’Istituto Marchigiano di Tutela Vini, abbiamo bissato l’incontro con il Verdicchio dei Castelli di Jesi attraverso la degustazione, stavolta, della tipologia Classico Superiore. Prima di entrare nel merito dei vini degustati, bisogna fare un passo indietro per spiegare bene quando un Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC può essere definito nella tipologia Classico Superiore.
Se leggiamo con attenzione il disciplinare di produzione, questo indica che un Verdicchio dei Castelli di Jesi può fregiarsi della menzione “Classico” se è prodotto nella zona originaria più antica di produzione che potete verificare nella cartina che segue.


La menzione "Superiore", invece, che potrebbe essere mal interpretata dai neofiti. Infatti, non sta ad indicare un vino qualitativamente migliore, ovvero superiore rispetto agli altri ma, come vale per ogni denominazione di origine italiana, rappresenta solo un riferimento ad un maggiore contenuto in alcol (in questo caso il disciplinare prevede un 11,50% di alcol min.) rispetto a quanto richiesto dal disciplinare del vino “base” che in questo caso è il Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC (10,50% alcol min.).

Sei, come al solito, i vini degustati in diretta zoom con i produttori presenti tra cui, questa volta, anche Ampelio Bucci che ci ha onorato della sua presenza.

Moncaro - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Verde Ca’ Ruptae” 2020 (100% verdicchio): da tre storici vigneti nell’area classica di produzione del Verdicchio nei comuni di Montecarotto, Serra de’ Conti e Castelplanio nasce questo vino dal profilo sensoriale ancora giovanissimo. Olfattivamente sa di mela verde, clorofilla, sbuffi vegetali e mandorla. Al gusto è coerente anche se la gioventù lo rende ancora leggermente fuori fuoco. Da aspettare.


Villa Bucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore 2019
(100% verdicchio): dopo aver ascoltato per qualche minuto la lectio magistralis di Ampelio Bucci sul suo Verdicchio, credetemi, è stato abbastanza difficile ritornare su questo Classico Superiore in modo da valutarlo oggettivamente e non col cuore. Questo vino, ancora con i suoi riflessi verdolini, fa emergere sensazioni di pesca, prugna gialla, biancospino, sambuco e, ormai, l’onnipresente mandorla tipica del vitigno. La vivace freschezza è assolutamente in sintonia con le morbidezze del vino che si concede anche una stuzzicante sapidità che accompagna i gradevoli ritorni di erbe aromatiche nel lungo finale.


Lucchetti - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Vigna Vittoria” 2018
(100% verdicchio): prodotto dai vecchi vigneti di proprietà (età media 30 anni) è un vino che rispecchia assolutamente la vivacità e l’estro di Paolo Lucchetti che cerca nei suoi vini autenticità e beva senza compromessi. Questo Verdicchio sa di gelsomino, camomilla, rosa gialla, mandarino e pesca con riferimenti minerali quasi salmastri. Bocca dinamica, tesa, segnata da un gioco di equilibri ben riuscito.


Socci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Bianca” 2018
(100% verdicchio): questa piccola azienda, situata nel cuore delle Marche, a Castelplanio, ha come unico vitigno di riferimento il verdicchio e come unico vino prodotto il Verdicchio dei Castelli di Jesi che in questa versione è stato prodotto attraverso la tecnologia VINOOXJGEN, un sistema di vinificazione che impedisce il contatto del vino con l’ossigeno perché privato di ogni tipo di travaso. Il mosto, infatti, diventa vino e compie l’intera vinificazione all’interno di uno specifico recipiente fino ad andare in bottiglia. A prescindere dalla sua metodologia di produzione il vino risulta aromaticamente compatto nel suo guscio di frutta dove ritrovo il kiwi, la pesca bianca, il lampone acerbo e la mela a cui, col tempo e l’ossigenazione, si accompagnano richiami floreali di sambuco e melissa. Al palato è piacevolmente agrumato e con garbato finale di mandorla verde.


Marotti Campi - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Volo D’Autunno” 2019
(100% verdicchio): questo vino, prodotto da questa storica cantina di Morro d’Alba, è una interpretazione originale del Verdicchio dei Castelli di Jesi in quanto questo vino, dopo la vinificazione, affina per circa 6 mesi a contatto sulle sue bucce. Il risultato, ovviamente, è un Verdicchio di grande struttura e portata dimensionale, dove il cedro, l’albicocca matura, il melone, gli sbuffi salmastri e le erbe mediterranee sono assolutamente amalgamati lasciando spazio alle caratteristiche varietali del vitigno senza che queste siano offuscate dal processo di vinificazione. Al sorso è denso, di struttura ma al tempo stesso piacevolissimo e affatto pesante. Termina lunghissimo su ritorni di frutta matura e salgemma.


Stefano Antonucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Stefano Antonucci” 2018 (100% verdicchio): Stefano Antonucci, self –made man del vino, da sempre produce vini che, in qualche modo, riflettono il suo carattere eclettico e carismatico e questo Verdicchio, che porta tra l’altro il suo nome, non può essere da meno. Col suo affinamento di 12 mesi in barrique è un vino carezzevole, morbido e setoso nelle sue sensazioni olfattive di ginestra, erba limoncella, mandorla fresca, a cui seguono sensazioni di cedro, arancia amara e spezie gialle orientali. Il sorso è levigato, equilibrato e sorretto da spinta sapida. Chiude con esemplare tipicità gustativa di mandorla tostata.



InvecchiatIGP: Bosio - Franciacorta Extra Brut Millesimato 2008 “Boschedòr”


di Lorenzo Colombo

Per il nostro primo articolo della nuova rubrica InvecchiatIGP andiamo a degustare un Franciacorta Millesimato, il Boschedòr di Bosio. Non è tanto il periodo di sosta sui lieviti in bottiglia il motivo di questa scelta, ma piuttosto il tempo trascorso dalla sua sboccatura, ben nove anni.


Questo a riprova, ancora una volta, che il luogo comune, purtroppo ancora imperante, che dopo la sua sboccatura un vino spumante ha solitamente vita breve è per l’appunto solamente un “luogo comune”, a patto che, naturalmente, si sia di fronte ad un prodotto d’indubbia qualità. Ed è questo il caso del nostro vino.

L’azienda

Fondata negli anni novanta l’azienda di Cesare e Laura Bosio si trova a Corte Franca dove dispone di trenta ettari, venti dei quali di vigneti, condotti in regime biologico, situati in collina con diverse esposizioni Oltre a Chardonnay e Pinot nero, utilizzati per i vini a Docg, vi si allevano anche Merlot, Cabernet sauvignon, Cabernet franc e Barbera, con un’elevata densità d’impianto (6.300 ceppi/ettaro)


La produzione annuale è di circa 120.000 bottiglie suddivise tra nove diversi Franciacorta e tre Curtefranca.

Il Boschedòr

Pinot nero e Chardonnay in parti uguali (la resa in vigna è di 45 ettolitri/ettaro) vanno a comporre questo vino, la fermentazione si svolge in vasche d’acciaio, una volta imbottigliato rimane sui lievi per almeno 30 mesi. La produzione attuale è di 7.000 bottiglie. Il vino che andiamo ad assaggiare è dell’annata 2008, con sboccatura a luglio 2012, ipotizzando la formazione della cuvée e la messa in bottiglia tra marzo ed aprile 2019 questo vino ha avuto un affinamento d’oltre tre anni in bottiglia.


Nel bicchiere si presenta con un’abbondante spuma ed un perlage fine e persistente composto da numerosissime bollicine, il colore è giallo-dorato scarico, luminoso.


Intenso ed ampio al naso dove si colgono sentori di lieviti, brioche, pane tostato, frutto giallo, mela, pera, note d’agrumi.
Cremoso e sapido, quasi salino, fresco, con spiccata vena acido-sapida, frutto giallo, canditi, agrumi maturi ed accenni tostati è quanto si coglie alla bocca, lunga la sua persistenza. Col tempo ha acquistato complessità senza perdere in freschezza.

Casata Mergé – Igp Lazio Bianco “Venere” 2019


di Lorenzo Colombo

Malvasia puntinata e Trebbiano provenienti da vigneti situati a Monte Porzio Catone per questo vino giocato su sentori di fiori e frutta gialla matura, morbido e succoso al palato, con note d’arancio maturo e con un accenno di mineralità all’olfatto. 


Un vino non cerebrale, ma lineare e decisamente godibile.

Il Pinot Nero dell'Alto Adige: la nostra TOP 10


di Lorenzo Colombo

Abbiamo partecipato come commissari a diverse edizioni del Concorso Nazionale del Pinot Nero, se non andiamo errati a ben nove edizioni, non vi partecipiamo più da tre anni, ovvero da quando l’attuale regolamento del concorso prevedere che i commissari sino unicamente tecnici, ovvero enologi e enotecnici. Seppur Concorso “Nazionale” la maggior parte dei vini in competizione proviene dall’Alto Adige e nelle 20 edizione del Concorso quasi sempre i vini premiati appartengono a questa regione.


Nei prossimi giorni pubblicheremo un articolo relativo alle Giornate Altoatesine del Pinot Nero che si sono svolte dal 12 al 14 giugno ad Egna e Montagna e scriveremo anche in merito ai vini premiati nell’edizione 2021 del Concorso, ora invece andiamo a soffermarci sui vini dell’edizione 2020 del Concorso, ovvero quelli relativi alla vendemmia 2017.


Causa pandemia lo scorso anno le Giornate del Pinot Nero non si sono tenute, così non c’è stata la possibilità di assistere alla premiazione dei vini vincitori della scorsa edizione del Concorso e di poterli degustare. 
Gli organizzatori hanno così pensato di inserire la degustazione dei “Top of Pinot Noir 2017” all’interno dell’edizione attuale delle Giornate del Pinot Nero e così domenica mattina, 13 giugno, nella sala culturale J. Fischer di Montagna, alla presenza di quasi tutti i produttori dei vini premiati abbiamo potuto partecipare a questa degustazione.


Sentendo la descrizione dell’andamento climatico dell’annata 2017, che ha creato notevoli problemi in campagna, e di conseguenza anche in cantina, non ci saremmo aspettati una simile qualità da parte dei vini assaggiati, tutti molto buoni con punte d’eccellenza (secondo noi) per almeno un paio di campioni. 
Ecco la nostra personale classifica (tra parentesi la classifica ufficiale del concorso con la relativa posizione ottenuta). C’è da dire che noi abbiamo assaggiato i vini un anno dopo la commissione giudicante e, al di là della nostra opinione personale, in questo lasso di tempo i vini sono certamente cambiati.

Castelfeder - Pinot Nero Riserva "Burgum Novum" (7° - 87,5/100): granato non molto intenso, luminoso. Intenso al naso, balsamico, spezie dolci, elegante, fresco, pulito. Fresco, delicato, succoso, elegante, mediamente strutturato, bel frutto, ciliegia, lunga la persistenza. Vino di finezza, non di potenza. 93-94

Kellerei Terlan - Pinot Noir Riserva "Monticol" (2° - 89,1/100): granato di media intensità con ricordi color rubino. Intenso al naso, speziato, note balsamiche, frutto rosso, pulito. Fresco e fruttato, speziatura delicata, elegante, bella vena acida, buon frutto, lunga la persistenza. 93


Kellerei Andrian - Blauburgunder Riserva "Anrar" (3° - 88,5/100): granato-rubino di media intensità. Buona intensità olfattiva, note floreali, fresco, frutta fresca, leggeri accenni speziati, elegante. Fresco e fruttato, media struttura, leggeri accenni speziati, buona persistenza su accenni di radici. Vino più d'eleganza che non di potenza. 90

K. Martini & Sohn – Blauburgunder "Palladium" (9° - 86,5/100): granato di media intensità. Note balsamiche e vanigliate, legno dolce, spezie dolci, buon frutto speziato. Fresco, fruttato, leggera nota piccante (pepato), discreta struttura, buona persistenza su sentori di bastoncino di liquirizia. 88-89

Kellerei Tramin - Pinot Nero "Maglen" (8° - 86,7/100): granato con riflessi color rubino di discreta intensità. Mediamente intenso al naso, legno percepibile, note balsamiche, speziato. Buona struttura, frutto scuro, speziatura dolce, bella vena acida, lunga la persistenza. 88-89

Weingut Tiefenbrunner Schlosskellerei Turmnof - Blauburgunder Riserva "Linticlarus" (3° - 88,5/100): rubino-granato di discreta intensità. Intenso al naso, speziato, frutto rosso maturo, pulito, buona eleganza. Fresco, di buona struttura, leggeri accenni piccanti, speziato, bella vena acida, chiude con buona persistenza su leggeri sentori di bastoncino di liquirizia. 88-89


Kellerei Bozen Gen. Landw. Ges. – Blauburgunder "Thalman" (9° - 86,5/100): granato di media intensità. Buona intensità olfattiva, note balsamiche e vanigliate, legno dolce. Fresco, bel frutto, note vanigliate, buona eleganza, succoso, lunga la persistenza. 88-89

Elena Walch - Pinot Nero "Ludwig" (1° - 90,3/100): rubino-granato luminoso di discreta intensità. Intenso al naso, balsamico, frutto rosso speziato, leggere note floreali, pulito, di buona eleganza. Fresco e succoso, bel frutto, accenni speziati, chiude con buona persistenza leggermente amaricante. 87



Malojer-Gummerhof - Blauburgunder Riserva (5° - 88,4/100): granato non molto intenso, luminoso. Buona intensità olfattiva, note balsamiche e vanigliate, bel frutto rosso, pulito, leggeri accenni floreali. Fresco e succoso, mediamente strutturato, succoso, buona la persistenza, chiude con leggeri sentori di radici. 87

Weingut Ignaz Niedrist - Blauburgunder "Vom Kalk" (6° - 88,2/100): granato di discreta intensità con ricordi color rubino. Buona intensità olfattiva, speziato, frutto scuro. Buona struttura, legno ancora in evidenza, leggere note tostate-affumicate, chiude leggermente amarognolo. 84-85

InvecchiatIGP: Barone Ricasoli, Toscana IGT Chardonnay "Torricella" 2008


di Stefano Tesi

La domanda è tanto legittima quanto prevedibile: campanili a parte, c’era bisogno di andare in Toscana, anzi in una zona di rossi per eccellenza come il Chianti Classico, per trovare un grande e vecchio vino bianco?


La risposta è, al tempo stesso, sì e no.

Ma se alla fine ha prevalso il sì, il motivo è semplice: trovare un bianco con alle spalle una storia (storia, non storytelling) così antica da essere affascinante è quasi impossibile, in Italia. Perché se noi oggi ci limiteremo a parlare – e garantisco che non è poco - del Torricella 2008 del Barone Ricasoli, è bene sapere che un vino con questo nome e della stessa tipologia fa tuttora bella mostra di sé nelle cantine baronali dal 1927. Mica noccioline. E che, come ci conferma Francesco Ricasoli, la sequenza delle annate ancora esistenti è la seguente: 1927, 1934, 1941, 1942, 1943, 1945, 1949, 1950, 1952, 1955, 1957, 1960, 1981, 1994, 1995, 1996, 1997, 1998, 1999, 2000, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010 e via fino ad oggi. Scusate la sfilza, ma serviva a rendere l’idea.


Altro particolare: quando, nel 1953, si tenne proprio a Brolio il 7° Congresso Internazionale della vite e del Vino, tra i vini in degustazione c’erano il “Brolio Bianco” 1895, 1925 e 1927. Il che fa in effetti presumere una certa vocazione della storica azienda a produrre bianchi da invecchiamento.


Detto questo, bisogna anche ammettere che Torricella è il nome storico, ma che le vite del vino sono due: quella fino al 1983, quando lo si faceva con Malvasia Bianca e Trebbiano, e quella dal 1993 in poi, quando il nome resta ma cambiano l’ubicazione della vigna e la varietà: solo Chardonnay, per dar vita a un bianco strutturato e fatto interamente in barrique francesi, come di moda all’epoca. Già nel 2003 di passa però all’acciaio combinato alla barrique, con un trend di progressiva diminuzione dell’uso del legno che dura ancora oggi. Dal 2009 al 2018 entra in scena un anche un po’ di Sauvignon, prima di un ritorno nel 2019 al 100% di Chardonnay. Ma se il Torricella 2008, di cui parliamo oggi, è un vino fatalmente sorprendente, non è solo per la sua storia.


Il colore è un oro molto intenso e brillante, mentre all’impatto l’olfatto è esplosivo, cangiante, complesso: “uno champagne senza bollicine”, come ci siamo trovati a commentare in diretta col produttore. Via via che il tempo passa e che il vino leggermente si scalda i sentori si susseguono e si evolvono in progressione: miele di acacia, rosa sfiorita, rosmarino e macchia, ombre salmastre, un accenno di resina, poi menta e una sorta di put-pourri di odori dell’orto, sassi bagnati e pietra focaia. In bocca il sorso ha una grande ricchezza, profondità e la lunghezza, il vino è asciutto e sapido, elegante nella sua potenza, con retrogusti che tornano a ondate e richiamano i toffees e la nocciola.

Ne ho nascosta una bottiglia nella mia riserva personale e programmato l’apertura nel 2031.

Vallepicciola - Cabernet Franc "Mordese" 2017

di Stefano Tesi

Adoro ricredermi in meglio. Di questo Cabernet Franc fatto in Chianti Classico, vinificato in acciaio e poi messo in legno nuovo da 225 lt, mi era già piaciuto il 2016, ma il 2017 anche di più: il caldo dell’annata non ha nuociuto al frutto, maturo ma vivo, mentre in bocca la struttura non nuoce all’eleganza.



Degustiamo i vini in lattina della Zai Urban Winery. Sarà questo il futuro?


di Stefano Tesi

Tanto per chiarire, vengo dalla generazione che più di trent'anni fa assaggiò i cosiddetti wine cooler, una specie di bevanda alcoolica fatta tagliando il vino col succo di frutta, roba alla quale pure il coevo 8 e 1/2 Giacobazzi (sponsor prima e poi sponsorizzato nientepopodimento che da Gilles Villeneuve) faceva vento.


Figuriamoci quindi se mi fa impressione la notizia dell'uscita sul mercato di un nuovo vino in lattina, lanciato settimane fa dalla veronese Zai (l'acronimo sta per Zona Altamente Innovativa ed è identico alla Zona Agricola Industriale che ospita il Vinitaly, "in cui l’azienda ha avuto origine", ammettono i fondatori), che tanto fa arricciare il naso al conformismo enoico nazionale. Quindi nessun pregiudizio, solo curiosità.


Infatti mi sono fatto mandare i campioni e, lo dico subito, l'assaggio del prodotto non è affatto catastrofico come era facile pronosticare. 
Anzi diciamo pure che, al confronto, questi vini molto facili ma corretti, perfino piacevoli se consumati col giusto approccio, che non provano a spacciarsi per quello che non sono, escono bene - chi più, chi meno - dal confronto con prodotti imbottigliati di pari categoria e prezzo: "Il prezzo a scaffale sarà di circa 3,50/4,50 euro a lattina. Il prodotto è in fase di lancio e sono in corso trattative con vari mercati stranieri in primis, ma anche in Italia con gruppi della GDO e altre realtà del mondo Horeca che hanno mostrato interesse" mi risponde, a domanda, il loro ufficio stampa.


Perchè non è solo l'aspetto organolettico ciò che conta in questi casi, ma quello sociale e commerciale. 
Andando per ordine, i canned wines sono sei e sono modulari, nel senso che fanno parte di un progetto di marketing unico e coordinato, all'interno del quale nessun prodotto può fare a meno degli altri. Diciamo insomma che si tratta di un paniere di lattine che fanno capo a un'unica storia, disegno, grafica e filosofia.


Zai, che si autodefinisce "urban winery", punta dichiaratamente ai mercati nel Nord America o almeno ad essi si ispira e si ammanta di un'aura green. "Le nostre referenze sono frutto di un lungo studio enologico. Per esempio Gamea, uno dei vini top di gamma è il frutto di ben quattro vendemmie, anziché una, condotte tutte a mano”. 


A riprova che la leva principale dell'operazione commerciale si basa sullo storytelling c'è il fatto che ognuno dei sei vini corrisponde a un personaggio di fantasia, cronologicamente collocato "nel 2150, anno che vede l’estinzione del 99% delle specie animali e vegetali, uva compresa, a causa del cambiamento climatico. Anche nel packaging le lattine rimandano ai personaggi, protagonisti di un viaggio per risolvere il mistero dell’antica profezia sul vino e salvare il mondo. Una storia che sarà in continua evoluzione, che non mancherà di colpi di scena, al pari di un vero e proprio fumetto".


C'è da sorridere?

Sì, ovviamente, se si vuole parlare con disincanto. Ma anche no. Può anche darsi infatti che il business possa funzionare e di per sè non ha nulla di scorretto.

Ecco i vini (nb: tutti vegani e bio, tranne il PJ White, e tutti confezionati in lattine di alluminio da 25 cc), con relativa "storia" e mie note si assaggio:

Dr. Corvinus, 100% Corvina Verona IGT, gradazione alcolica 11% Vol.: è l’ultimo erede di una dinastia di sommelier, vive con il suo assistente Cork Borg nel castello di famiglia cercando un modo per produrre il vino senza usare le uve, ormai estinte, ma con esiti poco soddisfacenti. Naso discreto, piacevole in bocca, da tutto pasto. Se bevuto alla giusta temperatura è piacevole.


Gamea, 100% Garganega Verona IGT, gradazione alcolica 9.5% Vol.: è una donna avventurosa e indipendente, che ama la natura e ha una laurea in scienze biologiche. Dedica la sua vita alla salvaguardia del Pianeta. E' un vino con qualche pretesa, piuttosto ruffiano soprattutto al naso. In assaggio bendato coi pari grado non sfigura.


Mr. Bubble, 100% Glera Veneto IGT, è un vino frizzante con gradazione alcolica 9.5% Vol.:
è un viveur che, usando il suo razzo a forma di lattina, ha battuto ogni record di velocità, tanto da guadagnarsi il nickname di “pilota del millennio”. Mi sembra decisamente il più debole dei sei vini.


Lady Blendy, Merlot e Cabernet Veneto IGT, gradazione alcolica 10.5% Vol.: è una gatta dalla doppia anima. Specializzata in meccanica e riparazioni, si prende cura degli altri e ama dormire. La notte si trasforma in uno spietato cacciatore di taglie. Organoletticamente è corretto ma eccessivamente commerciale, un vino per tutti i palati.


PJ White, 100% Pinot Grigio Terre Siciliane IGT, gradazione alcolica 10% Vol.: è l’anarchico del gruppo, il ribelle piantagrane. Pigro per natura, è convinto che tutti ce l’abbiano con lui. Passa le sue giornate ascoltando musica, suonando la chitarra e giocando ai videogame. E' nel bene e nel male esattamente quello che ti aspetti.


Cork Borg, 100% Moscato Veneto IGT, vino frizzante con gradazione alcolica 7% Vol.: è un robot a forma di cavatappi, costruito da un antenato di Dr. Corvinus. Il suo mestiere è assistere i più famosi sommelier della terra. La sua evidente mancanza di pretese lo rende coerente al tipo, un divertissement.


Conclusioni: fuori dallo snobismo, è un'operazione commercialmente interessante e, probabilmente, anche indice di un trend abbastanza netto. Non nel senso della novità in sè, ma il fatto che ci si investa con modo così deciso significa che il mercato potrebbe essere maturo. Sul piano puramente qualitativo, si tratta di prodotti ben fatti e dignitosi, spesso non peggiori di quelli di pari prezzo in bottiglia. Del resto, è chiaro che chi compra vini del genere lo fa con la leggerezza di chi non cerca bevute impegnative, ma anzi, col vino, acquista ciò che esso ha intorno: praticità, evasione, intrattenimento. La cosa più divertente? 

Prima la ricerca e poi l'assaggio comparativo alla cieca con vini comprati in GDO. Non si finisce mai di imparare.

Villa Dora - Lacryma Christi Bianco "Vigna Vulcano" 2008

Villa Dora da molti anni si dedica alla produzione di bianchi longevi, è stata la prima azienda campana ad organizzare la vendita in cassetta di più annate di Lacryma Christi, una vera e propria rivoluzione nel territorio vesuviano dove per secoli si è venduto il vino prima della vendemmia successiva per dissetare le mille osterie della grande città. 


Un progetto iniziato nel 2002 per la precisione e che si è affermato anno dopo anno. Questa etichetta, blend di Falanghina e Coda di Volpe, 
adesso curata dal bravo enologo lucano Fabio Mezza, è ormai una garanzia e sono numerosi i sommelier degli stellati che hanno messo questo Vesuvio da bere in carta.


Questo bicchiere non è esuberante, ma sottile e delicato, ha la 
straordinaria capacità di mantenere la freschezza tipica ed esuberante della Falanghina, avvolta nel naso piacevolmente fruttato della Coda di Volpe. Il suo nero di sabbia vulcanica si fa ben sentire nel finale amarognolo e, nel corso degli anni, con la straordinaria e incredibile evoluzione olfattiva che porta il bicchiere nell'inesplorato mondo dei sentori di idrocarburi e del fumè. 


Il risultato è dunque quello di un bianco esile ma longevo, un vecchietto che corre la maratona di New York, da abbinare assolutamente alla buona cucina di mare della Costa anche se noi preferiamo godercelo
piano piano smozzicando un latticino fresco dei vicini Monti Lattari. Una grande prova di forza, che ha fatto fare a Villa Dora della famiglia Ambrosio un deciso passo in avanti nella qualificazione della propria proposta.

Chartron et Trébuchet - Chablis 1er Cru Beauroy 2018


di Luciano Pignataro

Chartron et Trébuchet è una delle grandi firme di Famille Helfrich, a capo del gruppo Les Grands Chais de France.


Questo Chardonnay, 
vinificato e affinato sulle fecce in acciaio ci ha colpito per la freschezza floreale, il buon corpo, una beva immediata che fa subito finire la bottiglia.

Tenuta Fontana - Asprinio di Aversa DOC "Alberata" 2018


di Luciano Pignataro

La vite è pianta che ama maritarsi e di questa spiccata vocazione abbiamo quasi perso le tracce con la nascita della viticultura specializzata. Eppure, restano tracce incredibile di come questa pianta si sia adattata ad ogni condizione nel corso dei secoli, riuscendo a coprire un solo terrazzamento in Costiera amalfitana, oppure contribuendo all’agricoltura a due piani con la pergola.


Forse una delle espressioni più spettacolari è la vite maritata nell’Agro Aversano di cui esistono ancora pochissime ma spettacolari tracce, viti definite impropriamente ad Alberata mentre il termine tecnico preciso è piantata. Qui a farla da padrona è l’uva Asprinio, stretta parente del Greco di Tufo secondo recenti ricerche sul dna, un vitigno che molto probabilmente è stata gestita per la prima volta dagli Etruschi. Uno degli aspetti più interessanti della viticultura campana è proprio questo incrocio fra la tecnica etrusca e quella greca che si incontrarono/scontrarono nell’isola d’Ischia ma che si confrontarono lungo quasi tutta la regione perché le tracce etrusche sono ampiamente confortate dal Museo di Pontecagnano a Sud di Salerno e sicuramente si spinsero nella Piana del Sele in direzione di Paestum, lì dove poi i romani fissarono i confini amministrativi, fra la Campania Felix e la Lucania.


Ad Aversa le viti sono sostenute dai pioppi la cui altezza media si aggira fra i dieci e i 15 metri. Per vendemmiare p necessaria una vera e propria conoscenza della tecnica tramandata di generazione in generazione che tiene quasi sospesi i contadini su scale altissime. In queste zone, durante la formazione delle alte spalliere e durante i lavori di potatura secca, i tralci delle viti vengono sistemati in senso verticale in modo da formare un ventaglio aperto.

Alberata

Scrive W. Goethe nel suo "Viaggio in Italia": “Finalmente raggiungemmo la pianura di Capua…. Nel pomeriggio ci si aprì innanzi una bella campagna tutta in piano…. I pioppi sono piantati in fila nei campi, e sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti…. Le viti sono d’un vigore e d’un’altezza straordinaria, i pampini ondeggiano come una rete fra pioppo e pioppo”. Girando fra Aversa e Casal di Principe è ancora possibile godere di questo spettacolo.


Ecco dunque spiegato il fascino di questa beva, un vino decantato da Soldati nel suo Viaggio in Italia e da Veronelli che nasce da piante a piede franco sopravvissute grazie alle caratteristiche del suolo vulcanico. Parliamo di una azienda giovane perché l’imbottigliamento è iniziato solo ne 2009, ma di lunghissima tradizione familiare che risale almeno a cinque generazioni, la cui ultima è rappresentata da Mariapina e Antonio Fontana sostenuti dai genitori Raffaele e Teresa Diana. Azienda a cavallo tra l’Aversano e il Sannio, precisamente l’area del Fortore dove si coltivano aglianico, sciascinoso e falanghina mentre nell’Aversano ovviamente tutti gli sforzi sono diretti alla valorizzazione dell’Asprinio. La produzione è seguita dall’enologo fiorentino Francesco Bartoletti.

Asprinio

La fermentazione avviene in anfore di terracotta a temperatura controllata, a cui segue un affinamento, sempre in anfora, di sette mesi con permanenza sulle fecce fini e infine altri due mesi in bottiglia prima di entrare il commercio. La spericolata vendemmia avviene in genere alla fine di settembre o all’inizio di ottobre.


A distanza di quasi tre anni il bianco conserva la sua vibrante acidità, note agrumate di cedro e di miele al naso, beva spedita e fresca con un sottofondo amaro che chiuse lasciando il palato pulito. 
Una bella esperienza, un esempio di biodiversità da conservare e tutelare.

InvecchiatIGP: Tenute Rubino e il loro Primitivo IGT Visellio 2003


di Carlo Macchi

Sono convinto che Alice, quando si affacciò nel pozzo che la portò nel Paese delle Meraviglie, fosse meno sorpresa di me nel momento in cui mi sono affacciato al bicchiere dove avevo versato il primo sorso di questo stupefacente primitivo.
Ti aspetti ossidazione e alcol e invece trovi frutta matura bella concreta come prugna e ribes, accanto a fresche ma complesse note balsamiche, con liquirizia in prima fila.


Bocca rotonda ma viva, con la classica dolce pienezza dei “non tannini” vellutati del primitivo. Sorso dopo sorso il mio stupore aumentava come si moltiplicavano le sensazioni olfattive, che portavano verso il sangue e una solare macchia mediterranea.


Di fronte a cotanto vino e a tale sorpresa i miei occhi erano spalancati come quelli dello stregatto, il mio naso vibrava come quello del Cappellaio Matto dentro alla tazza di tè, la mia bocca era deliziata da questo vino che ad ogni sorso, come il fungo nella storia di Carrol, da una parte cresceva d’importanza e profondità e dall’altra rimpiccioliva nel bicchiere. Veramente un vino delle meraviglie!

Prezzo dell’annata in commercio sui 25 Euro.

Gini - Soave Classico La Froscà 2014


di Carlo Macchi

Chiamatelo Soave “base” del 2014 e da lì cominciate a salire e a stupirvi non solo per la freschezza ma per la pienezza del sorso e la profondità aromatica. 


La vendemmia 2014, accanto a tanta roba “da 2014” porta con sé un discreto numero di grandi vini. Questo è forse uno dei più sorprendenti. Chapeau!

Biodinamico "equiparato" al biologico: perché è una grande opportunità per tutti


di Carlo Macchi


Art. 1: La produzione biologica viene definita attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale. Il metodo di agricoltura biodinamica viene equiparato al metodo biologico nei limiti in cui il primo rispetti i propri disciplinari e i requisiti previsti a livello europeo per produrre biologico.

Questo è il primo articolo della normativa approvata il 19 maggio scorso e su queste parole si è scatenato un inferno mediatico che difficilmente è riuscito a far ragionare ma solo a far prendere posizione su due barricate diverse, che non hanno mai avuto l’opportunità e l’intenzione di comunicare se non a cannonate.


La cosa che, da non sostenitore della biodinamica e nello stesso tempo “fustigatore” della chimica nel vigneto, mi viene in mente è che queste poche parole siano non tanto un riconoscimento della biodinamica ma un modo per portare la biodinamica a ragionare con il settore enologico/scientifico (mi si passi il termine) più prossimo. In altre parole se un produttore biodinamico vuole i contributi non solo dovrà lavorare in regime biologico ma dovrà avere anche un ente certificatore che lo afferma, quindi sottostare a controlli che, volente o nolente, lo porteranno a confrontarsi con il mondo del biologico. 
Nello stesso tempo gli enti certificatori del biologico dovranno trovare un modo per convivere e per "creare ponti" con produttori che hanno idee e metodologie molto diverse per non dire agli antipodi.


Questi due mondi che si toccheranno potranno respingersi (ma non credo) o convivere. Prima magari da separati in casa ma in futuro potrebbero piano piano avvicinarsi e così far iniziare un dialogo che oggi, non so se per colpa di produttori o di accaniti e intransigenti sostenitori di questi mondi paralleli (i negazionisti della scienza e gli avvelenatori, tanto per usare termini con cui i due mondi si definiscono) non esiste.


Per questo vedo con piacere la scelta del legislatore, che però riuscirà ad essere propositiva solo se da una parte i produttori biodinamici e dall’altra gli enti di certificazione biologica faranno entrambi un passo avanti nell’ottica di progredire, di allargare i propri orizzonti e di arrivare a produrre vini “moralmente e fisicamente” migliori.