Cantina Giardino: il vino naturale sta affrontando meglio la crisi - Delivery IGP


di Luciano Pignataro

Per la rubrica Delivery IGP abbiamo intervistato Daniela e Antonio De Gruttola, punti di riferimento della viticoltura naturale in Campania.


Daniela e Antonio, con Cantina Giardino siete stati i precursori in Campania, e tra i primi in Italia, a imboccare la via dei vini naturali. Come state vivendo questa crisi? 

Sì, siamo stati i primi in Campania, abbiamo puntato ogni cosa sull’agricoltura pulita senza prodotti chimici di sintesi, sulla vinificazione naturale*, sulle vigne vecchie ed oggi dopo vent’anni e questa inaspettata pandemia possiamo testimoniare che questa crisi non ci ha toccati, anzi ci ha fatto crescere. In passato ci hanno giudicati per le nostre scelte, molti consideravano le nostre vinificazioni senza aggiunta di solforosa impossibili, una viticoltura senza l’utilizzo di prodotti sistemici addirittura veniva vista come la fine.Oggi la nostra piccola azienda irpina si ritrova un patrimonio unico al mondo. Nel nostro fascicolo abbiamo 10 ettari di vigne storiche, piante di 80/100 anni, dunque vitigni autoctoni, dove ci sono l’Aglianico, il Greco, il Fiano, la Coda di Volpe bianca e rossa e tantissime altre varietà di vite e di alberi da frutto che non espianteremmo per nessun motivo al mondo, perché la “multicolturalità” è una delle bellezze del terroir irpino! Produciamo più di 20 tipologie di vini, anche questa scelta è vista dal mercato tradizionale come un errore ma la domanda tipica di uno nostro distributore è “quale vino avete disponibile in questo momento?” e puntualmente l’ordine riguarderà le disponibilità. Ma chi sono i nostri distributori italiani e i nostri importatori esteri? Sono degli appassionati di vino naturale, sono dei bevitori, dei grandi conoscitori, sono giovani ma hanno un’esperienza di degustazione davvero ampia e continuano a crescere, sono dei curiosi e soprattutto sono molto dinamici, quando è arrivato il virus nei loro mercati si sono attrezzati al commercio online in pochissimo tempo. La nostra impostazione in questi tempi è vincente ma certo vogliamo come tutti ritornare alla normalità. 

*vinificazione naturale(secondo noi): le uve sane vengono portate in cantina, pigiate e fatte fermentare senza aggiunta di lieviti, in nessuna fase viene aggiunta la solforosa, non avviene alcuna filtrazione o chiarificazione o alcun intervento che prevede l’utilizzo di un prodotto chimico. Un solo ingrediente: l’uva.

C’è qualcosa che il governo e le istituzioni avrebbero potuto fare e che non è stata fatta? 

Noi riteniamo che sicuramente non è stato semplice gestire la pandemia e il governo ha aiutato inizialmente in maniera sufficiente le realtà commerciali. Nel settore agricolo tutte le misure messe in campo non sono state sufficienti e purtroppo è proprio quello il settore che doveva essere rivalutato in questa crisi pandemica. Sono molti gli Stati che si sono fatti un esame di coscienza sui sistemi di produzione alimentare ed aspettiamo che anche l’Italia faccia questa riflessione fino ad arrivare a bandire un’agricoltura che utilizza prodotti chimici di sintesi. 

Pensate che i mercati alternativi, tipo gdo e e-commerce, possano essere una soluzione nell’immediato e possono cambiare il modo di vendere il vino? 

Per noi il commercio online si è subito attivato durante il primo lockdown, lavorando in circa 30 Stati, ognuno di essi ha risposto in tempi differenti, ma hanno tutti puntato su questa forma di vendita che era l’unica possibile. Si è dunque superato il tabù dell’acquisto del vino online in stati dove non era mai avvenuto come ad esempio in Inghilterra, sono nati negozi virtuali con selezioni di vini naturali molto accurate dove alle spalle c’erano già degli esperti importatori o enotecari. Anche qualche ristoratore ha cominciato a contattare i propri clienti via mail pensando a delle formule di vendita alternative sia per il food che per il vino. In tutto questo però la gdo non c’entra nulla, chiaramente noi ci riferiamo al mercato di piccole aziende artigianali che non avrebbero i numeri per entrare nella gdo. Il commerciante di questa tipologia di vini online ci tiene ad avere una selezione specifica, ama dare la propria impronta a quella carta di vini, l’acquirente di questi tipi di vino non è uno che compra a caso, si affida ad un esperto oppure ha le idee chiare e cerca da solo le specifiche bottiglie. Ipotizzando un cliente che vuole uno nostro vino da acquistare online, inserendo su internet le informazioni principali oggi si ritrova molteplici possibilità che prima non esistevano. 

Qual è, a vostro giudizio, lo stato attuale dei vini naturali? Moda o tendenza definitiva? 

Crediamo che il pubblico di interesse di questi vini sia indubbiamente cresciuto e in questo pubblico ci sono dei consumatori più giovani che cercano vini semplici e freschi, i cosìddetti glou glou wine e poi c’è una parte che ha delineato uno stile di consumo permanente e senza tempo. Con questo vogliamo dire che secondo noi in questa fetta ci si è riappropriati del termine vino che finalmente può non essere affiancato all’aggettivo “naturale”, per loro questo è il vino, una fotografia di un’annata capace di attraversare il tempo. Come tanti vini del passato che sono stati fatti con una vinificazione che oggi definiamo per forza “naturale” ma che prima era la stilistica consolidata. E quando un consumatore acquisisce questo stile di consumo non lo lascia più. 

Quali sono le novità di Cantina Giardino? 

Ogni annata porta una novità nelle nostre produzioni. Quest’anno ad esempio durante il lockdown, avendo molto tempo a disposizione, abbiamo pensato di fare qualche cambiamento di immagine e di reintrodurre la forma della bottiglia renana per i vini bianchi ed un restyling del logo e delle etichette. Invece per la produzione a settembre abbiamo presentato la nostra prima falanghina in purezza ed introdotto dei contenitori di cemento.

A. Bergère - Champagne Selection Brut


di Luciano Pignataro per Garantito IGP

Una bollicina alla portata di tutti di questa storica maison di Epernay che ha iniziato a imbottigliare nell'immediato Dopoguerra. 


Metà 
Chardonnay e metà Pinor Noir, è un sorso fresco, agrumato, ricco di frutta bianca. Bel perlage e chiusura decisamente rinfrancante. Da ouverture!

Elena Fucci - Aglianico del Vulture DOC "Sceg" 2018


di Luciano Pignataro

Natale nell’Appennino Meridionale vuol dire Aglianico: è il momento di tirare fuori bottiglie lasciate riposare per anni e goderle grazie al lavoro del tempo che affusola i tannini, riequilibra l’acidità e mantiene vivo il vino senza limiti di tempo: dieci, venti, quaranta? Chissà, nessuno ancora lo può veramente dire. 


Tocca al più terrone del gruppo il Garantito IGP della Vigilia e allora scelgo un Aglianico del Vulture, un progetto molto bello di Elena Fucci, la prima produttrici a mettere il grande rosso della Basilicata in cura dimagrante dagli eccessi di legno della prima metà degli anni 2000. Subito i suoi vini si distinguono per eleganza, finezza, ottimo rapporto con il legno, estrazioni ponderate e non esagerate e non a caso piacciono un po’ a tutte le guide specializzati, a prescindere dall’orientamento.


Noi seguiamo questa azienda da quando fu fondata una ventina d’anni fa dal papà Salvatore, abbiamo visto Elena crescere, laurearsi in Enologia a Pisa, maturare una capacità di comunicazione anche grazie a suo marito Andrea, un toscano che conferma il primato di questa regione nel saper raccontare e saper vendere come nessuno in Italia. Insomma, la sostanza c’è, la parola anche. Ma stavolta non parliamo di Titolo, ma di
Sceg, una parola di derivazione albanese che indica il frutto del melograno, simbolo di fortuna e di speranza sin dall’antichità. Albanese? Si, perché il paese di Elena si chiama Barile e, come Ginestra e Maschito, ha la popolazione di origine albanese, quelli che circa 500 anni fa per fuggire dai turchi che avanzavano si insediarono nelle zone interne dell’Italia Meridionale. In questi secoli il sangue si è mischiato, ma alcune caratteristiche restano, soprattutto una intraprendenza lavorativa e commerciale che li distingue ancora oggi.


Elena ha avuto il nonno in vigna e quando gli amici del nonno si sono avvicinati a 90 anni, ha cominciato a riprendere i loro terreni che, altrimenti, come in tanti altri casi, rischiavano di essere abbandonati perché purtroppo la rivoluzione vitivinicola in Basilicata non ha ancora comportato una radicale inversione di tendenza nel coinvolgere le giovani generazioni a tornare. In questa piccola regione di poco più di 600mila abitanti è difficile ricavare reddito soddisfacente e la terra è lavorata ancora quasi esclusivamente dalle generazioni anziane.


L’idea nasce nel 2016 e coinvolge quattro distinte particelle su suolo vulcanico non lontano da vigna Titolo per un totale di un ettaro e mezzo con 5000 viti piantate alla fine degli anni 40. Brevi macerazioni, elevamento in botti da 500 ettolitri e, dopo due annate sperimentali, la 2016 e la 2017, ecco in commercio la 2018 con un prezzo al consumatore di poco meno di 30 euro sul web.


Le tecniche di allevamento sono biologiche, si usa il sovescio con la coltivazione dei fagioli, in totale poco più di 7mila bottiglie per questa prima annata. Insomma, un progetto per tenere in forma viti antiche, tramandare la fatica di una generazione, cosa che per noi, in quest’anno pandemico che ha colpito soprattutto le giovani generazioni, ha un altissimo valore simbolico.


Il vino, c’è bisogno di dirlo, è di grande stoffa, elegante, fine, una bella amarena croccante al naso che si ritrova al palato in una cornice fumè, una promessa di evoluzione che sicuramente potrò essere mantenuta ma che però non impedisce un bello stappo anche adesso in presenza di un piatto ben strutturato.

Ecco, questa è la nostra storia di Natale e capite perché non ci stancheremo di scrivere di vino: basta alzare lo sguardo dal bicchiere e si trova un mondo di persone, di comunità, di cose da raccontare.

Buon Natale!

Gilberto Farina, chef-patron del Ristorante La Piana racconta la sua ristorazione in tempo di Covid - Delivery IGP


di Lorenzo Colombo

Ciao Gilberto, inizia col dirci quando hai iniziato la Tua attività nel mondo della ristorazione. 

Ho aperto il mio locale Ristorante La Piana, nel 1993, a Castello di Brianza, in provincia di Lecco e, dal 2008 ho trasferito l’attività a Carate Brianza.


Bene, ma prima di aprire un tuo locale che esperienze hai avuto?

Nel 1987 mi sono diplomato alla scuola alberghiera e, durante i mesi estivi da studente, nei primi anni ‘80, ho fatto due stagioni a Londra. Dopo il diploma, sono seguiti tre stage presso Georges Cogny, quando, lasciata l’Antica Osteria il Teatro di Piacenza, si era trasferito in Valnure, nel suo primo locale, La Cantoniera.

Altre esperienze?

Ho lavorato alla Vecchia Filanda di Cernusco sul Naviglio, Stella Michelin e nei primi anni novanta, sono stato per un anno all’Enoteca Pinchiorri, a Firenze.

Cosa ne hai tratto da queste esperienze?

Mi si è aperto quel mondo che la sola scuola alberghiera non può darti, soprattutto da Cogny e da Pinchiorri; a Firenze, in particolare, mi occupavo delle carni che spesso vedevano nelle loro preparazioni l’utilizzo del vino ed ho quindi avuto l’opportunità di assaggiare vini provenienti da tutto il mondo scoprendo così un universo di cui  mi sono innamorato.


Veniamo ora alle problematiche causate da quest’epidemia. Come ti sei comportato durante il primo lockdown
?

Abbiamo chiuso subito, avvertendo la responsabilità di dover contribuire alla sicurezza ed agli sforzi che l’intero Paese stava mettendo in campo per contenere la diffusione del virus, usufruendo in parte della cassa integrazione verso i nostri cinque collaboratori; abbiamo riaperto ai primi di giugno.

Come hai sfruttato quei mesi di chiusura forzata? 

Ne abbiamo approfittato per sistemare  i locali, riorganizzare la cantina, mettere in pratica tutte le disposizioni ed attuare i protocolli che ci potessero permettere di riaprire in sicurezza al termine del lockdown. Inoltre mi sono riguardato tutti i menù proposti dal 1993 ad oggi, ho rivisto ed in parte ampliato il Menù Business per il pranzo ed ho trovato il tempo per studiare, leggendo i numerosi libri a tema “cibo e vino” della mia biblioteca. Ho cercato inoltre di mantenere il contatto con i miei clienti attraverso l’invio di Newsletter, proponendo anche blog di ricette ed un questionario per capire cosa loro si aspettavano alla riapertura.

Quindi non hai pensato di attivarti con l’asporto ed il delivery?

No, nella prima fase del lockdown sia il ristorante che la locanda erano completamente chiusi.

Quanto t’è costata la chiusura? 

In termini economici ci sono stati i costi di adeguamento alle nuove normative, i corsi di aggiornamento e formazione per il personale, la dotazione degli strumenti di sicurezza e poi la riduzione del 40% dei coperti dovuti ai distanziamenti.

Com’è andata la riapertura estiva?

Bene, i clienti abituali non vedevano l’ora di poter nuovamente sedersi al tavolo di un ristorante, però è durata poco. 

E, nel secondo lockdown?

Abbiamo attivato l’attività di asporto alla riapertura di giugno e l’abbiamo sempre mantenuta come proposta. Al secondo lockdown, lavorando da solo, ho cercato di diversificare le proposte di asporto a cui si è aggiunto il servizio delivery a causa dell’impossibilità di spostamenti tra comuni, ma senza risultati entusiasmanti, qualcosa in più s’è smosso a fine novembre ed allora, a turni, ho fatto rientrare il personale.

E con la locanda?

L’abbiamo riaperta ad ottobre, ma praticamente è stata poi quasi immediatamente richiusa.

Com’è andata la prima giornata di riapertura? (L’intervista è stata effettuata lunedì 14 dicembre, il giorno prima, domenica 13, la Lombardia è rientrata in zona gialla)

Direi molto bene, il locale era praticamente quasi pieno, 35 coperti sui 40 possibili rispettando i distanziamenti previsti.

Ho visto che recentemente hai cambiato la specialità del Menù del Buon Ricordo. 

Si, dopo 5 o 6 anni di “Millefoglie di riso croccante con ragù di pasta di salame fresca” ho voluto cambiare, ora il Piatto del Buon Ricordo è dedicato a “Tagliatelle e Misultitt”, ovvero gli Agoni essiccati del Lario, il piatto avrebbe dovuto essere presentato alle Officine del Volo a Milano lo scorso 1 dicembre, in occasione dell’annuale presentazione dei nuovi soci, ma ovviamente l’evento è stato sospeso ed ha potuto svolgersi unicamente in modo virtuale.


La tua ricerca sui formaggi continua?

Certamente, mercoledì prossimo mi sono recato in Valsassina per ritirare le ultime stagionature.

Per quanto riguarda le serate a tema e quelle pre-teatro?

Siamo riusciti a fare una serata a tema dedicata ai formaggi ad ottobre, poi ci hanno nuovamente chiusi; per quanto riguarda il teatro, la stagione è stata annullata e quindi non se n’è fatto più nulla.

Pensi che i ristori messi in atto dal governo possano essere stati sufficienti? 

Le discussioni sul tema sono su tutti i giornali, da buon brianzolo chiedo solo la possibilità di lavorare, in sicurezza adottando tutte le misure necessarie e di poter continuare a credere nella professione che ho scelto, nei suoi valori e nelle sue potenzialità.


E per quanto riguarda il futuro? 

Dopo 28 anni la passione c’è ancora tutta, altrimenti non si potrebbe fare questo lavoro, ma il morale è sotto i piedi.

Per quale motivo? 

Innanzitutto la burocrazia, che ormai occupa il 50% del mio tempo, continui nuovi adempimenti e aggiornamenti che richiedono molta attenzione con il ricorso a specialisti che incidono negativamente sui costi. Poi l’impossibilità di poter programmare il proprio lavoro, la mancanza di tempi certi in cui poter operare e la difficile gestione in questo scenario della attività di ristorazione.

Ultima domanda: so che la tua figura professionale si completa anche con l’attività di insegnamento, cosa ne trai da questa esperienza?

Ho iniziato l’attività di insegnamento da qualche anno, la scuola presso cui opero è cresciuta nel tempo ed io insieme a lei. Il desiderio di poter trasmettere la mia passione in cucina alle giovani leve, nella scuola ha trovato la sua realizzazione e nel confronto con il corpo docenti una nuova realtà in cui acquisire e trasmettere nuovi stimoli sia umani che professionali.

Io, Stefano Frassineti, vi racconto come tra Locanda Toscani e Le Tre Rane di Ruffino affronto la pandemia - Delivery IGP

di Stefano Tesi

Ironia e creatività non sono un vaccino contro il Covid, ma possono aiutare a far sopravvivere le attività, tenere su il morale e magari individuare opportunità nuove per ripartire. Con la consueta causticità Stefano Frassineti, patron della Locanda Toscani da Sempre di Pontassieve e chef de Le Tre Rane di Ruffino si esprime a 360° sulla pandemia, la crisi della ristorazione, i movimenti di protesta dei ristoratori e la necessità di lambiccarsi il cervello per arrivare vivi al momento in cui, si spera, tutto ciò sarà solo un ricordo. 


Come pochi altri ti sei dato da fare in questi mesi per tenere vivi il tuo lavoro e la clientela con servizi divertenti e invitanti. Ci fai qualche esempio?

Dopo i primi giorni, che per me sono stati di knockdown più che lockdown, ho preso consapevolezza della situazione e a metà marzo ho cominciato un delivery particolare, in collaborazione con Ruffino e lo studio di architettura Qart progetti: Cappuccetto (G)Rosso. Portavamo nelle case, oltre al piatto del giorno, anche una fiaba. Cambiando anche questa ogni giorno. E’ stato un momento particolarmente emozionante e anche di grande successo. Con la seconda chiusura ho deciso invece di lanciare i “kitte”, insomma un kit o una “scatola di montaggio” se preferisci, ovvero un contenitore con dentro tutto il necessario per farsi in casa un piatto da ristorante, ricetta compresa ovviamente. Anche quest’idea sta avendo molto successo, tanto che lo proporremo pure come regalo di Natale ”alternativo” insieme ai prodotti d’eccezione della Valle del Sasso di Santa Brigida, nostro fornitore di carni e salumi pregiatissimi.

Il "kitte" ha avuto una bella eco mediatica: credi la formula possa avere un seguito in tempi "normali" o sia addirittura un “modello di business”?

Credo di sì: ritrovata normalità, resta una formula che permette ai buongustai e agli amanti della cucina di cimentarsi anche in piatti anche elaborati, grazie all’assistenza di un tutor professionale, cioè io, che però non sarà in presenza, ma in video.


In effetti si discute molto se delivery e asporto siano "toppe" anti-emergenza o appunto nuove vie commerciali per la ristorazione: fuori dal tuo specifico, qual è la tua opinione?

Personalmente credo che siano un’opportunità oggettiva, ma in concreto penso vadano sempre valutati caso per caso e attentamente contestualizzati. Possono ad esempio essere una buona possibilità per allargare il giro di affari nelle grandi città. E magari, una volta messe a punto, che abbiano perfino le caratteristiche per diventare vere e proprie attività autonome, distaccate da quella di ristorazione in sé. Le variabili sono però moltissime e andrei causo a spacciarle come una panacea buona per tutti i mali del settore.

Hai in mente altre "trovate” nel il caso in cui - speriamo di no - il periodo di crisi dovesse andare avanti ancora per molti mesi e magari fino al 2022?

Al momento, se penso al 2022 come anno di uscita dal Covid, mi prende lo sconforto e non ho assolutamente idea di cosa potrei inventarmi per passare altri dodici mesi anno come questi che stanno finendo. Detto ciò, se il peggio dovesse succedere qualcosa in mente ce la faremo venire di sicuro. Ma è presto per saperlo ed io sono troppo concentrato sull’immediato, che è bello pesante già di per sè.


La Toscana è stato il cuore della protesta dei ristoratori, poi dilagata in tutta Italia. Quanto sei stato coinvolto e perché, secondo te, i risultati sono stati inferiori alle attese?

In realtà partecipo marginalmente alla protesta dei ristoratori toscani, li seguo ma non sempre condivido i toni e i modi della protesta. Credo comunque che la classe politica abbia risposto malissimo alle necessità della nostra categoria,  tirando fuori norme e regole una più imbarazzante dell’altra e sempre molto penalizzanti per tutti noi, senza nessunissima logica. Mi sono imposto però di non arrabbiarmi più di tanto e di essere il più sereno possibile, anche se è dura.

La ristorazione conosce molte tipologie. Da tuo punto di vista quali di questi settori sta soffrendo di più e quali avranno più difficoltà a riprendersi?

Il settore più in difficoltà in questo momento è senza dubbio la ristorazione turistica nelle città d’arte, che risente in maniera pesantissima della mancanza di turismo straniero e delle restrizioni per quello italiano, anche se probabilmente sarà anche quella che avrà il rimbalzo maggiore quando si tornerà alla normalità. Viceversa, la ristorazione media e di campagna potrebbe avere una crisi più lunga e difficile, perchè metà degli italiani non lavora, l’economia precipita, i redditi crollano e quindi, anche quando tutto sarà finito, ci saranno pochi soldi da destinare al ristorante.

Come gestisci in questa fase il rapporto con fornitori, anch'essi in difficoltà? Esiste il rischio che la crisi della ristorazione si allarghi ai produttori di vini, formaggi, salumi, etc.?

E’ un rischio reale e molto serio e purtroppo in alcuni casi è già una realtà. Tanti piccoli produttori di eccellenza stavano in piedi perché la ristorazione assorbiva e promuoveva i loro prodotti. Chi non aveva già una struttura commerciale solida, ad esempio una vendita diretta o una vendita on line fa già affermate, farà molta fatica. Credo però che questa possa anche essere una grossa occasione per creare legami nuovi e più profondi tra ristoratori e produttori nel nome della qualità, perchè una ripresa anche morale di questa monnezza di società non può che passare anche attraverso il recupero di certe cose…ma questa è un’altra storia.


Oltre che patron della locanda sei anche chef de Le Tre Rane di Ruffino: in che consiste, se c’è, la differenza tra strutture così diverse in un periodo di pandemia?

Sostanzialmente c’è  una sola ma grande differenza: Ruffino può affrontare questa crisi con maggiori mezzi e con migliori competenze. Tra le due realtà, organizzativamente parlando, non c’è paragone. Al momento della ripartenza, speriamo presto, Le Tre Rane saranno prontissime fin da subito. Noi, chissà…

Zidarich: come nasce il vino di un grande vignaiolo del Carso


Il Carso, terra aspra, di confine, che si estende nel nord-est dell’Italia e, attraverso la Slovenia occidentale e l’Istria settentrionale, prosegue fino al massiccio delle Alpi Bebie (Croazia), è ragione di vita e lavoro di Benjamin Zidarich, vignaiolo di Prepotto, località a qualche chilometro in linea d’aria dalla bellissima Trieste.

Benjamin Zidarich

Sono andato a trovarlo una mattina di estate ed entrare nella sua piccola azienda agricola, che è anche una apprezzata Osmiza, fa comprendere al visitatore quanto è duro lavorare in un territorio plasmato da tre elementi naturali: mare, vento e, soprattutto, roccia. D’altronde Carso deriva da “kar” o “karra”, parola di origine paleoindoeuropea che significa proprio roccia, pietra, che in questa regione è ricca di calcare e gesso, assolutamente permeabile, tanto che l’acqua filtra facilmente, arricchendosi di anidride carbonica, tanto da scavare nel sottosuolo grotte e gallerie dando origine al fenomeno che, guarda un po’, è noto come carsismo.

Benjamin mi aspetta tra le sue vigne, con affaccio sul golfo triestino, le cui radici affondano su qualche centimetro di terra arida, rossa, per poi abbracciare profondamente il calcare. Attualmente la sua azienda si estende per circa 10 ettari divisi in 30 parcelle (alcune situate anche oltre confine) dove, ad una altezza di circa 250 metri s.l.m., troviamo prevalentemente piante di vitovska (70% del totale), malvasia istriana, sauvignon blanc, terrano e merlot. Tutti i vigneti sono ad alta densità di impianto, dagli 8.000 ai 10.000 ceppi per ettaro, allevati prevalentemente ad alberello e le rese, come facile immaginare, sono molto basse (circa 35 q\ha). 


Tutto questo – spiega Zidarich – ci garantisce un grande equilibrio, fondamentale per la mia filosofia produttiva, visto che tutti i miei vini prevedono una macerazione per cui l’uva deve essere il più possibile sana e a giusto livello di maturazione. Io sono fortunato, vivo nel Carso, il vento che spira costantemente tra le vigne mi evita di effettuare qualsiasi trattamento chimico se con quelli necessari usando solo ed esclusivamente rame e zolfo”. 


Attenzione, però, a parlare di biologico con Benjamin perché la sua risposta potrebbe essere la seguente: “Siamo in regime bio da oltre venti anni ma, purtroppo, questa cosa non la pubblicizziamo perché quando vedi in giro bottiglie di Prosecco, prodotte da grandi aziende, con in etichetta la fogliolina verde della certificazione allora c’è qualcosa che non mi convince…...”.

Scasso e visione della roccia sotto le vigne

Ciò che rende imperdibile la visita da Zidarich è sicuramente la sua cantina, una vera e propria cattedrale del vino scavata nella roccia, a 20 metri di profondità, che rappresenta un vero e proprio viaggio al centro della terra del Carso e della sua matrice geologica. 


Un luogo suggestivo, opera del progettista ed architetto Paolo Meng, inaugurata nel 2009, ancora oggi in fase di ampliamento, che si sviluppa per circa 1.200 metri quadri suddivisi in quattro piani che ospitano tutto l’intero processo produttivo che culmina con la sala di degustazione, posta al livello più alto, dove una grande vetrata si affaccia su parte delle vigne aziendali.


Percorrere la cantina, ricca di pilastri, capitelli e volte in pietra carsica scolpita, è davvero suggestivo, la filosofia naturale di Zidarich, la sua essenzialità, si può toccare con mano perché in questo luogo manca quasi del tutto l’energia elettrica così come assenti, perché davvero non servono, sono i condizionatori d’aria perché si è prevista l’esistenza di feritoie naturali nella roccia che possono essere chiuse o aperte manualmente. 


Io lavoro enologicamente come si faceva una volta, ma senza esagerazioni, perché nel mio vino amo “sentire” la semplicità e il frutto. Questo risultato - spiega Zidarich mentre mi fa degustare qualche campione da botte - lo ottengo attraverso macerazioni al massimo due settimane, se fermento in legno, oppure di circa un mese se la vinificazione si svolge in tini di pietra carsica. Con questo materiale i tempi di fermentazione si allungano naturalmente. Per quanto riguarda l’affinamento, si usano solo botti medie e grandi di rovere di Slavonia dove i vini bianchi riposano per almeno due anni mentre i rossi hanno bisogno di più tempo. Il mio Ruje, ad esempio, è una riserva che affina per circa 5 anni”. 


E’ tempo di ritornare in superficie e di degustare i vini di Benjamin, costituiti prettamente da bianchi, che sono suddivisi in 4 linee: Green, Classica, Kamen e Collezione. 

Zidarich – Vitovska 2017: l’interpretazione di classica e didattica di questo vitigno è assolutamente convincente grazie ad un naso con ricordi fioriture estive, mela golden e carismatici sbuffi minerali. Sorso sapido, scorrevole, la beva piacevole e di buona lunghezza. 


Zidarich – Malvasia 2017: sono innamorato della malvasia istriana e del suo modo di interpretare il territorio senza eccessive concessioni aromatiche. Il bouquet floreale presenta sentori di ginestra, pompelmo rosa, erbe officinali in un finale di calcare. Sorso intenso, di impeccabile equilibrio, scosso da sapidità e freschezza agrumata. Il Carso dissetante che mi piace assai! 


Zidarich – Prulke 2017 (60% Sauvignon, 20% Vitovska 20%, Malvasia 20%): questo blend a base sauvignon blanc è una sorta di sintesi territoriale dove spiccano di ginestra, melone giallo, erbe aromatiche, buccia di mela e camomilla setacciata. Al gusto dimostra succosità, verticalità ed una avvolgente o, meglio, travolgente trama sapida che accompagna il finale quasi salmastro.


Zidarich – Kamen 2017 (100% vitovska): Benjamin è stato il primo nel Carso a vinificare in tini di pietra (Kante, prima di lui, faceva solo affinamento) che rappresentano una sorta di valida alternativa al rovere. I tini di Zidarich, tutti in pietra locale e realizzati dai maestri Marko e Kristjan Zidaric, sono formati da 5 pezzi di marmo impilati ed assemblati. Come detto in precedenza, la vitovska, una volta diraspata, viene macerata sulle bucce per circa un mese per poi affinare 22 mesi in botte di rovere. Il risultato di tutto questo è una vitovska diversa dalla precedente, in questo caso c’è profondità, struttura e un grande respiro sapido. Sorso di classe e armonica potenza che sfociano in un allungo freschissimo e dissetante. Grande vino! 



Zidarich – Teran 2017 (100% terrano): bella e tipica espressione di terrano dal frutto denso, dove ritrovo il frutti di bosco e la ciliegia matura a cui seguono echi di timo, erbe della macchia carsica, rabarbaro, ginepro e ferro liquido. Tipica impronta acida, ben equilibrata, accarezzata da un tannino ben ordinato e di rara precisione. Un vino affatto potente che ha come punti di forza la sua beva irresistibile e la sua grande versatilità negli abbinamenti gastronomici. Io, ad esempio, l’ho bevuto assieme al salame artigianale prodotto da Zidarich e sono andato in estasi…


Zidarich – Ruje 2013 (85% merlot, 15% terrano): un blend di assoluto impatto che sprigiona intensi profumi di fiori scuri macerati, marasca, bastoncino di liquirizia, felci, sottobosco e sbuffi di macchia mediterranea e grafite. Rotondo al sorso, di vellutata trama tannica e lunga persistenza sapida. Allungo deciso, austero, che termina su richiami di frutta rossa matura e mineralità scura. 



Il Centro, la stella Michelin che "odia" l'asporto e aspetta tempi migliori per riaprire - Delivery IGP


di Carlo Macchi

Il centro non è solo un ristorante del cuore, è IL MIO ristorante del cuore. Si trova al confine tra Langhe e Roero, in un paesino di poche anime, Priocca. Ha da anni la Stella Michelin (confermata anche quest’anno) ed è gestito dalla famiglia Cordero da cui cercherò, per Delivery IGP, di sapere cosa sta succedendo nella ristorazione di classe che si trova “in provincia”. Sarà un ‘intervista a tre voci, quella di Enrico Cordero patron del locale, di sua moglie Elide che gestisce in maniera impeccabile la cucina e del loro figlio Giampiero, che da alcuni anni affianca il padre in sala e cura il settore vini. 


Da quanti anni c’è il Centro? 

Enrico Cordero “La nostra famiglia ce l’ha dal 1956 però il locale esiste dal 1860 circa.” 

Da chi è composta la clientela del ristorante? 

En.C. “All’inizio è stata una clientela locale e dei paesi vicini, poi sono iniziate ad arrivare persone legate al mondo del vino e clienti da tutta la provincia e poi, da quando Elide ha preso in mano la cucina, abbiamo persone che vengono da Torino, da Milano, dalla Svizzera.” 


Il Centro è un punto di ritrovo per produttori di vino che vi portano i loro clienti. Anche dopo la prima ondata Covid e prima della chiusura per la seconda ondata è stato così? 

Giampiero Cordero “Quando sono entrato a lavorare con mamma e papà il Centro lavorava già tantissimo con i produttori e oggi questa caratteristica si è ulteriormente rafforzata con produttori di vino che arrivano non solo dal Piemonte ma anche da altre regioni come Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e addirittura dalla Borgogna. 

Adesso, con il problema Covid e l’attuale suddivisione in regioni rosse, arancioni e gialle, questo tipo di clientela è diminuito?

G.C. “Per fortuna no, non so dirti cosa succederà da domenica (domenica 13 dicembre il Piemonte è tornato in zona gialla) ma in periodo post lockdown bisogna dire che la fortuna delle Langhe è quella di avere tanti produttori che hanno sposato la scelta di supportare la ristorazione locale, quindi noi ogni giorno abbiamo avuto come minimo tre o quattro produttori a pranzo o a cena (quando si potevano fare le cene). Diciamo che cerchiamo di aiutarci a vicenda, i produttori frequentando i locali e i ristoratori comprando i vini, magari in quantitativi un po’ inferiori rispetto al passato.” 


Avete notato se, durante il periodo tra la prima e la seconda ondata, la gente abbia cambiato modo di approccio: se spende meno, o di più, o più nel cibo e meno nel vino. 

G.C. “Per quanto riguarda il livello di spesa non è cambiato quasi niente, è cambiata la richiesta nel campo del vino: prima del lockdown si vendevano soprattutto vini piemontesi e di Langa, mentre dopo, con i “confini chiusi” molte clienti di zona preferiscono vini fuori regione.” 

Adesso una domanda per Elide. I vostri sono piatti che affondano nella tradizione e volano per attenta innovazione. Con il problema Covid hai cambiato qualcosa in cucina? 

Noi non abbiamo cambiato nulla in cucina perché abbia voluto mantenere lo stesso livello qualitativo, anche se le difficoltà erano e sono aumentate. Non sapevi e non sai mai se e quando si potrà lavorare e questo crea problemi negli acquisti e nella gestione globale, ma noi abbiamo sempre mantenuto i nostri piatti, che sono un mix tra tradizione e innovazione. Non abbiamo tolto nessun piatto e anzi, ove possibile, abbiamo cercato di offrire qualcosa in più. Ci stiamo già preparando perché domenica 13 dicembre dovremmo diventare zona gialla (l’intervista è stata fatta giovedì 10) e abbiamo una voglia matta di far star bene le persone che vorranno venire da noi.

Fate asporto?

El.C. “Abbiamo scelto di non farlo per vari motivi. In primo luogo siamo a Priocca, un piccolissimo comune e quindi non abbiamo un bacino importante di clienti possibili a cui rivolgerci. Fossimo stati in una cittadina con almeno 10-15.000 abitanti sarebbe stato diverso. Inoltre fare piatti da asporto voleva dire creare dei piatti più semplici che difficilmente avrebbero rispettato il nostro standard. Infine consegnare i nostri piatti che sarebbero poi stati riscaldati non ci sembrava la strada giusta per mantenere alta la qualità.” 

Quindi siete chiusi. 

El.C.”Noi ad oggi siamo chiusi, stiamo iniziando a prepararci per domenica sperando di riaprire anche se nessuno riesce a darci indicazioni certe.” 

Allora siete stati fermi per tante settimane: con il personale come avete fatto?

El.C. “Chi poteva è tornato a casa, chi veniva da molto lontano si è fermato a Priocca e comunque sono tutti in cassa integrazione. E noi è dai primi giorni di novembre che siamo fermi.” 

Giampiero Cordero “Mi sembra giusto aggiungere che non è che siamo stati fermi per un mese e mezzo. Da buoni piemontesi fermi non riusciamo a stare e così abbiamo sistemato varie cose nelle sale, messo a posto la cantina, insomma fatto con calma tanti lavori che andavano comunque fatti. Sul delivery sono d’accordo con mia madre e anch’io ho pensato che non solo c’era il rischio di non dare un grande prodotto ma rischiava anche di essere non conveniente dal punto di vista finanziario. 


Se tu Elide, fossi Presidente del Consiglio quale sarebbe la prima cosa che faresti? 

“Innanzitutto non andrei a chiudere a settori. Prendiamo una famiglia tipo: il bambino piccolo va a scuola perché, dicono, non può essere contagiato. La mamma magari lavora in un ristorante e quindi è a casa perché il locale è chiuso. Il papà lavora in fabbrica e esce tutte le mattine incrociando tantissime persone sui mezzi pubblici e al lavoro. Che senso ha far chiudere i ristoranti se comunque la stragrande maggioranza delle persone può girare, contagiare e contagiarsi? Farei un lockdown totale per azzerare i contagi e basta.” 

Enrico, invece tu cosa avresti fatto? 

“Io avrei tenuto aperti i locali che erano a norma e in sicurezza. Nei paesi piccoli come il nostro abbiamo fatto carte false per far arrivare persone da fuori e poi ci chiudi per mesi, però nelle grandi città se succede qualcosa, anche se vince la squadra di calcio, ci sono enormi assembramenti.” 

Tocca a Giampiero 

“Da una parte concordo con mia madre, specie per la gestione del locale, dall’altra avrei tenuto aperte solo quelle realtà che potevano essere controllate e che applicavano le regole alla lettera. Magari avrei ridotto ancora la capienza dei ristoranti, però avrei lasciato aperto i locali perché non ha senso vedere piazze stracolme di persone e noi dobbiamo stare attenti al metro o ai due metri di distanza. Magari non avrei riaperto le scuole, lasciato aperti i locali e avrei potenziato i mezzi pubblici, diminuendone nello stesso tempo la capienza. Non ha senso chiudere i ristoranti e lasciare aperte le metropolitane. 


Una curiosità? La vostra clientela era /è rispettosa delle norme anticovid, mascherina etc, oppure avete dovuto intervenire spesso? 

G.C. “Fortunatamente sono sempre stati rispettosi, si scordavano solo di mettersi la mascherina quando dal tavolo, dovevano andare in bagno. Ma come glielo facevi notare rimediavano subito” 

Adesso, se riaprirete domenica prossima, i distanziamenti saranno quelli di prima? 

G.C. “Sono gli stessi ma devo dire che a noi questo distanziamento non ci ha cambiato molto le cose perché i tavoli erano già abbastanza larghi e a locale pieno abbiamo sempre due metri tra un tavolo e l’altro e un metro tra commensali.” 

Grazie mille a tutti e tre e speriamo di vederci presto.

Villa Bucci - Rosso Piceno DOC "Pongelli" 2018


di Carlo Macchi

Tutti noi conosciamo Ampelio Bucci per i i suoi Verdicchio ma questo uvaggio paritario di montepulciano e sangiovese mostra al meglio la potenza del primo e l’eleganza del secondo, il tutto condito da un naso fruttatissimo con fini speziature. 


Buonissimo adesso e sicuramente per i prossimi 7-8 anni.

Cose che non vorremmo vedere mai: un Chianti Classico a 3,99 euro!


di Carlo Macchi

Qualche tempo fa ho pubblicato un breve articolo su un Chianti Classico venduto a 2.99 euro (avete letto bene!) in uno di quelli che vengono definiti hard discount, in Toscana, per la precisione a Poggibonsi. Sono tornato qualche giorno fa in quel supermercato e ho trovato lo stesso Chianti Classico, non più scontato, a “ben” 3.99 Euro a bottiglia.


Non ho resistito e ne ho comprata una bottiglia per capire cosa può esserci in una bottiglia che viene proposta mediamente al 70-75% in meno del prezzo di un normale Chianti Classico in enoteca. 
Prima di assaggiarlo ho però ammirato la confezione: etichetta e retroetichetta stampata su carta di discreto valore, tappo di sughero di buone dimensioni e una bottiglia per niente leggera, visto che da vuota pesa ben 620 grammi! Non ho potuto fare a meno di fare due conti in tasca all’imbottigliatore (tal V.S. Srl di Lamporecchio che ha però imbottigliato nello stabilimento di San Casciano Val di Pesa) considerando che tra tappo, etichetta, retroetichetta, fascetta e bottiglia già lì se ne partiva un euro al minimo. Qualcuno obietterà che quando si parla di grossi quantitativi i costi diminuiscono notevolmente ma un euro può essere preso come prezzo medio basso per “il corredo” di una bottiglia. 

Ma veniamo al vino. 

Color rubino brillante quasi porpora, frutto piuttosto intenso con note di frutto rosso maturo, quasi passito e sentori vegetali. Naso non certo difettato anzi, magari potremmo definirlo molto poco tipico per dei sentori di frutta quasi passita al naso che ricordano, tanto per farci capire meglio, il Valpolicella Ripasso. Bocca di medio corpo, con acidità presente. Il vino gira velocemente verso sentori amari, poco piacevoli. E’ abbastanza persistente. Per la cronaca sviluppa 13.5°.


Torno un attimo alla bottiglia per sottolineare una cosa che magari avrete visto anche voi: la retroetichetta in tedesco! Al di là di capire come sia possibile che in un supermercato che si trova a 30 chilometri dal luogo di imbottigliamento si trovi un vino con etichetta tedesca, spero che la logistica della LIDL preveda un magazzino in zona, altrimenti questa bottiglia di Chianti Classico 2018 ha fatto quasi il giro del mondo (con conseguente consumo di carburante e spese relative) prima di arrivare nelle mie mani.


Torniamo a quello che c’è nella bottiglia: siamo di fronte ad un vino certamente non difettato o cattivo anzi: se proprio volessimo dargli un voto potrebbe essere attorno ai 70 punti. Questa bottiglia ha però ha in sé tutte le contraddizioni di una denominazione famosissima ma che non è ancora riuscita a dare un valore certo e stabile al proprio vino. Chi ci rimette in questo caso è sicuramente il produttore, che si trova costretto a vendere il suo prodotto (ripeto, non certo di bassissimo profilo) ad un prezzo che difficilmente può essere remunerativo. Se infatti proviamo ad andare a ritroso e togliendo il prezzo della confezione, del trasporto e il ricarico per la catena che lo distribuisce, se va bene siamo attorno ai 180/200 euro al quintale per lo sfuso. 

Magari diverse denominazioni sarebbero anche contente per un prezzo del genere ma nel Chianti Classico, con costi di produzione sicuramente piuttosto alti, vendere a 200 euro al quintale è a rimessa. Questa è, purtroppo, la tragedia che spesso sta dietro una normale bottiglia di vino e se nel Chianti Classico ci troviamo di fronte ad un grande numero di produttori imbottigliatori è proprio perché è molto difficile sbarcare il lunario producendo e vendendo il vino sfuso.