Hans Barth, “Guida spirituale alle osterie italiane da Verona a Capri”, a cura di Enrico Di Carlo


di Stefano Tesi

Dirò subito una delle cose che chi recensisce un libro non dovrebbe mai confessare: non l’ho letto. Non l’ho letto tutto, diciamo.
Ho però tre ampie giustificazioni. Innanzitutto, per arrivare da Teramo a Siena il volume ci ha messo un mese (grazie Poste Italiane!). Poi quando è arrivato non stavo così nella pelle che ho subito saltabeccato qua e là tra le pagine, senza dare una lettura lineare. E infine, non si tratta di un tomo da leggere in senso tradizionale ma semmai da compulsare, consultare, spulciare alla ricerca di luoghi, nomi, piatti, situazioni, note, spigolature.


E’ la ghiottissima – sotto tutti punti di vista – ristampa, con una ponderosa introduzione storico-critico-biografica del giornalista, scrittore e studioso dannunziano chietino Enrico Di Carlo, della “Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri” riedita nel 1921 (ma già pubblicata nel 1908 in Germania e nel 1910 in Italia) da Hans Barth (1862-1928). Opera che, come dimostrano le varie riedizioni succedutesi da allora e come sottolinea oggi anche Di Carlo, ebbe un grande successo e inaugurò, ben centodieci anni fa, quello che è ancora un filone lucroso dell’industria editoriale: la letteratura di viaggio enogastronomico.
Già questo renderebbe il libro (Verdone Editore, 365 pagine, 17 euro) interessante agli occhi di qualunque appassionato di bere, di mangiare, di viaggiare e di storia del costume.
Ma lo è ancora di più perché l’autore non è, nè era, un personaggio qualunque: giornalista, per quarant’anni corrispondente in Italia del Berliner Tageblatt, importante quotidiano politico liberale tedesco, amico di D’Annunzio, che non a caso gli scrisse la prefazione, Barth fu anche uomo di mondo, di cultura, d’ironia e di “pancia”, nel senso che non fece mai mistero della sua passione per la cucina. Passione che potè appunto assecondare visitando in lungo e in largo il nostro paese, da lui molto amato, e utilizzando la chiave di conoscenza più diretta, sicura, affidabile e ovunque socialmente esplicita: la visita alle osterie. Regalandoci così un prezioso, curiosissimo spaccato di storia minore, di vita quotidiana, di un’Italia popolare con le gambe sotto il tavolo e a cavalcioni della Grande Guerra.


Da Verona a Capri, sono oltre trecento i locali passati in rassegna dal nostro tra osterie, bar, taverne e birrerie, con una miniera di informazioni su cibi, vini (serviti quasi sempre in carducceschi “fiaschi paesani”), sughi, clienti, atmosfere, usi, costumi, mobili, apparecchiature, tintinnar di bicchieri e frequenti, perfino ammiccanti sguardi al gentil sesso, senza disparità classiste tra procaci ostesse o nobilissime contesse.
Più che una guida gastronomica, come la potremmo intendere oggi, ne esce quindi, e anzi appunto, una sorta di guida spirituale, un excursus letterario lungo e gaudente, un diario di viaggio nei luoghi di tutti i giorni da cui affiorano in continuazione, però, spunti per note erudite, citazioni latine, descrizioni di vedute e di passanti, aneddoti dei più vari. In poche parole una lettura godibilissima, a tratti esilarante, a tratti appassionante.


Inevitabilmente ho cominciato a scorrere l’indice partendo dalle osterie senesi, che Barth definisce “un buon campo per un viaggio d’esplorazione”, visto che egli stesso attribuisce alla città di allora “più di trecento dispense di vino”. Di queste, l’autore ne cita per nome tre, tra le quali la Trattoria del Sasso del sanguigno Ghigo Tozzi, il padre del grande Federigo. Considerato che la guida uscì per la prima volta nel 1908 e che Ghigo morì l’anno dopo, non è escluso che il gaudente tedesco possa dunque averlo incontrato tra i tavoli del locale. E che poi, a Roma, sua residenza abituale, abbia magari potuto conoscere, viste le comuni frequentazioni letterarie, anche Federigo. Perdonatemi questa suggestione a cui sono giunto senza peraltro neppure seguire uno dei più acuti consigli di Hans. Il quale, riferendosi al vino gustato della trattoria tozziana, riporta espressamente come vi sia “un Chianti così tollerabile che se ne può bere facilmente un fiasco e mezzo senza risentirne danno, visto che una leggera esaltazione dell’anima non è pena, ma premio”.
Il che equivale e dà forza alla celebre massima di Hemingway: “Scrivi da ubriaco e correggi da sobrio”. Probabilmente anche Barth fece così.

Tasca d'Almerita - Chardonnay "Vigna San Francesco" 2016


di Luciano Pignataro

Ecco uno dei pochi, direi pochissimi, Chardonnay italiani che mi soddisfano e che cerco. Secco, minerale, austero, una bandiera siciliana pianta nel lontano 1985 che non ha affatto perso d'attualità.


Da bere più vecchio, molto più vecchio di quanto non abbia fatto io con questo splendido 2016

Antonino Caravaglio - Chianu Cruci Salina IGP 2018

di Luciano Pignataro

Capperi o malvasia? Questo è il dilemma che si vive a Salina dove entrambi danno molta soddisfazione a chi li produce.Antonino Caravaglio, quest’anno benemerito per la viticultura al Vinitaly, ha risolto piantando capperi e viti negli ultimi vent’anni passando da cinque a tredici vitati per la precisione.

Antonino Caravaglio

Questo vino nasce a Piano Croce, un piccolo territorio pianeggiante chiamato Valdichiesa che unisce i due vulcani dell’isola, sempre carezzato dal vento, una caratteristica che rende più facile la gestione biologica dell’agricoltura e non a caso Antonino Caravaglio ha subito imboccato questa strada. Anno dopo anno ha comprato i terreni, si è ingrandito e conduce la sua giornata da una parte all’altra dell’Isola di Salina dopo aver acquistato anche a Lipari e adesso a Stromboli con l’ex direttore del TG1 Andrea Montanari dove riporta la vite dopo alcuni decenni di assenza.

vigneti a Valdichiesa

Per il cappero ha una idea tutta sua: meglio una dop Eolie che una solo Salina e sul piano della comunicazione è impossibile dargli torto vista la dimensione così piccola dell’Arcipelago.Dalla sua caverna delle meraviglie, parliamo della cantina dello stellato Signum, Luca Caruso decide di iniziare a farci bere il territorio partendo proprio da questo bianco, ottenuto da malvasia delle Lipari all’80 per cento con un saldo di vitigni autoctoni tra cui prevale il Catarratto.


La tecnica è quella di una macerazione prolungata sulle bucce per poi tenerlo in sosta in vasca d’acciaio fino al momento dell’imbottigliamento. Malvasia e Moscato vinificati in secco da sempre sono la mia passione e questo bicchiere mi colpisce non solo per i profumi esuberanti tipici del vitigno, ma soprattutto per la sostanza, il corpo, la complessità. Presentato come vino da aperitivo, secondo me ha molto da raccontare nei prossimi due tre anni, quando avrà raggiunto la maturità necessaria e al naso si comincerà a sentire il tipico effetto dei suoli vulcanici che arricchiscono il vino con il passare del tempo.
Al palato è amaro, fresco, ampio. Un esempio concreto di cosa voglia dire biodiversità quando stappiamo una bottiglia di vino. Non è importante che sia la più buona del mondo quanto, piuttosto, che sia una chiave d’ingresso nel territorio che viviamo e ci faccia conoscere le bellezze le persone che ci vivono.


Le Battistelle - Soave Classico DOC 2014


di Carlo Macchi

Uno pensa al Soave, vino da bersi giovane, gli mette accanto la difficile vendemmia 2014 e… rimane stupito! Un vino complesso, anche con fini sentori di botryte, ampio al naso, fresco, armonico e avvolgente al palato. 


Una dimostrazione di come il Soave Classico sappia invecchiare e dare incredibili soddisfazioni.

Vinix e Filippo Ronco sbarcano a Roma sabato 11 Maggio 2019


Vinix farà tappa a Roma per la presentazione del suo catalogo sabato 11 maggio 2019 presso l'hotel Radisson Blu (Via Filippo Turati, 171) dalle ore 11 alle 19.30 circa. Seguirà cena con capicordata, compratori e appassionati in compagnia dei produttori presso il ristorante Tram Tram in via dei Reti, 44. L'evento è aperto a tutti, si consiglia l'iscrizione a Vinix da qui: https://www.vinix.com per essere aggiornati su tutto.

Per informazioni: shop@vinix.com | +39 347 211 9450

DETTAGLI, ESPOSITORI E CENA

Degustazione libera per tutta la giornata dalle ore 11 alle ore 19.30 circa, con orario continuato in compagnia di un nutrito manipolo di produttori del catalogo Vinix, piccoli assaggi gastronomici per tutti i partecipanti nel corso della giornata ad accompagnare le degustazioni. Qui di seguito la lista degli espositori di questa giornata in ordine di conferma:

01) Cascina i Carpini, Pozzol Groppo (AL)
02) Cà Richeta, Castiglione Tinella (CN)
03) Tenuta La Torretta, Trevozzo Val Tidone (PC)
04) Vigneti Vallorani, Colli del Tronto (AP)
05) Calvi, Castana (PV)
06) Levii, Bleggio Superiore (TN)
07) Colleluce, Serrapetrona (MC)
08) Cascina Clarabella, Iseo (BS)
09) Maltus Faber, Genova (GE)
10) Vini Maraviglia, Matelica (MC)
11) I Stefanini, Monteforte d'Alpone (VR)
12) Poggio delle Grazie, Sommacampagna (VR)
13) Cantine del Notaio, Rionero in Vulture (PZ)
14) Cantine Viola, Saracena (CZ)
15) Pietro Beconcini, San Miniato (PI)
16) Poggio Lucina, Montalcino (SI)
17) Daniele Saccoletto (AL)

Subito dopo l'evento, intorno alle 20.30 e previa prenotazione con un commento a questo annuncio, ci troveremo a cena presso il ristorante Tram Tram in Via dei Reti, 44 a Roma, comodo da raggiungere anche a piedi dal Radisson Blu, il costo è di 38,00 euro a persona da versare direttamente al ristorante la sera stessa.

Antipasto: Alici fritte, fave e cicoria e vignarola;
Due Primi: Gricia "sbagliata" e Pappardelle al ragù bianco di agnello e carciofi croccanti;
Secondo: Coda alla Vaccinara;
Dolce: Zabaione al cucchiaio
Acqua e caffè
Vini dei produttori Vinix in abbinamento alla cena
Costo: 38,00 euro a persona

Evento Facebook:

Gasthaus Torgglhof: a Penon c'è tanto gusto!


E’ stato amore al primo canederlo. Anche perché contornato da un ragù di agnello da leccarsi i baffi. Non credendo al mio palato ho cercato la conferma in una finissima e saporita crema di asparagi e ancora incredulo e sicuramente non sazio ho rilanciato gustandomi un brasato di manzo morbido e succoso con una polenta veramente eccellente. Naturalmente non mi sono perso l’insalata di cavolo cappuccio con speck, perfetta nel dosaggio tra senape e olio extravergine.

Foto: www.suedtirol.info

Il bello è che tutto questo l’ho gustato senza avere la minima idea di chi l’avesse preparato!
Ma andiamo con calma: ero a Penon, un piccolo borgo sopra a Cortaccia, per Sauvignon Experience, la manifestazione altoatesina che oltre ad organizzare il primo Concorso nazionale per il Sauvignon, prevedeva anche altre incontri incentrati su questo vitigno.
Avevamo terminato la sessione mattutina di degustazione per il concorso e ci viene annunciato che dalle 12 (orario altoatesino) il catering servirà il pranzo. Avendo terminato un po’ prima sono uscito in tempo per veder arrivare “il catering”, cioè una macchina piuttosto piccola dalla cui bauliera sono uscite fuori quattro pentole di formato quasi casalingo.
Registro mentalmente la cosa senza dargli troppa importanza e aspetto le 12. Dalle 12.01 è successo quello che ho scritto all’inizio. Quattro preparazioni perfette e buonissime in un “catering” non le avevo mangiate da quando Annibale valicò le Alpi e quindi mi avvicino al tavolo di servizio per chiedere ad una signora che presumo essere la cuoca dove si trovi il suo ristorante. Lei mi guarda un po’ stupita e mi dice “Guardi che il cuoco è lui!”
Il lui è un giovanissimo ragazzo biondo che, un po’ imbarazzato, mi dice che il suo locale si trova in paese.
Gli faccio i complimenti e gli chiedo un biglietto da visita. Lui mi guarda e confessa di non averne nemmeno uno. Ci viene in aiuto il suo grembiule azzurro con il nome del locale, che io fotografo e la cosa finisce lì.
In realtà non finisce per niente lì! Nei due giorni seguenti sono andato ben due volte a mangiare al Torgglhof e così ho avuto modo di testare con attenzione la cucina del giovanissimo (25 anni!) Alex Kaspareth, che per ben otto anni si è fatto le ossa in un ristorante a Cortaccia e da poco tempo è tornato nella Gasthaus di famiglia.

Alex Kaspareth

Un luogo e un locale come siamo abituati a vedere in Alto Adige: uno spazio esterno con tavoloni e panche in legno e con un panorama notevole sul mondo, all’interno tre piccole sale in stile spartano ma efficace e una cucina forse ancor più piccola.
Qui Alex riesce comunque a gestire un menù che parte dai tipici piatti altoatesini, non cucinati però con la vena rustica che spesso contraddistingue questi luoghi ma figli di una mano attenta non solo alle ottime materie prime e ad una attenta presentazione. Vi faccio un esempio: pranzo per 15 persone e nel menù troviamo un semplicissimo Filetto di manzo con burro alle erbe, patate al forno e verdure”.  La carne era buonissima ma la cosa più buona era il sughetto che la carne aveva fatto. Questo vuol dire grande materia prima e mano sicura e precisa per una perfetta cottura, considerando che tutti e 15 i commensali sono stati serviti contemporaneamente

Cannellone ripieno

Mano precisa e voglia di fare qualcosa di nuovo anche nel cannellone ripieno d’asparagi verdi con pesto di crescione o nei canerderli al dente di leone su insalata con asparagi e speck croccante. Anche col pesce, in particolare col filetto di salmerino su insalata con erbe selvatiche e condimento al sesamo si nota la voglia di proporsi ad un livello più alto.
Alex, aiutato dalla mamma che gestisce la sala e dal padre che aiuta in cucina e al bar, affianca un menù stagionale al classico altoatesino, inserendo anche altri piatti concreti, come quelli citati all’inizio o come l’arrosto di manzo alla cipolla.
Sui dolci, oltre al classico strudel di mele chi era con me (io sono allergico alle fragole) mi ha garantito che i canederli di ricotta con fragole, rabarbaro e salsa alla vaniglia erano veramente buoni.

Filetto di manzo

La carta dei vini è purtroppo ristretta all’Alto Adige ma tutti i vini in carta (non sono moltissimi) sono proposti anche al calice con ricarichi veramente bassi.
Chi mi conosce sa che difficilmente mi sbilancio  ma per Alex voglio fare un eccezione: se avrà la forza e la volontà di andare avanti, senza però perdere le radici gastronomiche altoatesine, credo che tra qualche anno questo ragazzo sarà veramente molto conosciuto e apprezzato. Nel frattempo, consiglio a Slow Food di prenderlo in considerazione  per la Guida Osterie d’Italia.


A questo punto la parola tocca a voi: in auto, moto o (se ve la sentite) bici salite a Penon: un pranzo o una cena alla Gasthaus Torgglhof  sarà sicuramente una bella esperienza a prezzi molto corretti, perché dall’antipasto al dolce spenderete sui 40 euro, vini esclusi.

Gasthaus Torgglhof 
Via Kauderle, 6, Penon, Bolzano
Telefono: 0471 880021

Giuseppe Rinaldi - Dolcetto d’Alba 2017


di Roberto Giuliani

Beppe non c’è più, ma per fortuna i suoi vini, grazie alla figlia Marta, ci sono ancora. 


E questo è semplicemente buonissimo, un esempio di quanto questa tipologia sia ancora troppo sottovalutata e meriterebbe più attenzione: profuma di ciliegia e lampone, succoso e avvolgente, profondo, puro piacere.

Cascina Castlet - Monferrato Rosso Uceline 2012


di Roberto Giuliani

Che l’Italia sia un Paese con una ricca quantità di vitigni autoctoni è cosa risaputa, meno facile è conoscere quelle varietà che appartengono ad aree molto ristrette, la cui esigua produzione non consente a tutti di poterne apprezzare i vini ottenuti. Mariuccia Borio di Cascina Castlet, rappresentativa azienda di Costigliole d’Asti, ha da sempre un amore profondo per la ricerca di uve rare e dimenticate del suo territorio come l’Uvalino; un lavoro iniziato più di 30 anni fa, con passione e tenacia, frutto anche delle sue esperienze di vita. Infatti, come racconta lei stessa “Questo vitigno ha sempre fatto parte della mia vita. Per noi bambini, la vendemmia di quest’uva, che avveniva nell’estate di San Martino, era una festa”.
In passato l’Uvalino veniva appassito e utilizzato per dare maggiore carattere ad altri vini, oppure, vinificato in purezza, veniva regalato alle principali personalità del paese, come il medico, il farmacista o il parroco, ma anche proposto per le grandi occasioni come matrimoni e battesimi.


Nel 1992 Mariuccia piantò il suo primo filare, oggi dispone di un ettaro e mezzo di questa particolare varietà. Dalla vendemmia 1995 si è avvalsa della collaborazione dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia di Asti, con cui ha portato avanti un progetto presentato nel giugno 2003, in occasione del VII International Symposium of Oenology di Arcachon, organizzato dall’Università di Bordeaux, dove vennero presentate le più importanti ricerche europee in campo vitivinicolo.


Dopo alcuni anni di inevitabile iter burocratico per ottenere il riconoscimento del vitigno, il 16 luglio 2002 viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto n.32011 del 6 dicembre 2000 che sancisce l’ingresso dell’Uvalino fra le varietà di vite riconosciute e inserite nel Registro Nazionale, con codice n. 370.
Grazie a questo, l’Uvalino è entrato a pieno diritto fra le uve consentite per la produzione del vino DOC Monferrato Rosso.
Nel 2009 esce finalmente in commercio la prima annata di Uvalino, 2006, oggi Mariuccia Borio ha raggiunto quota 5.000 esemplari annui.


Il vino è stato battezzato con il nome “Uceline”, la scritta serigrafata sulla bottiglia è stata ideata per rappresentare simbolicamente un volo di uccelli, il colore vuole richiamare la terra sabbiosa dove cresce questa varietà. Il nome ha origini antiche, infatti nell’Astesana già nel Seicento venivano chiamate così le uve rosse di quello che probabilmente era l’antenato dell’attuale Uvalino; essendo le uve raccolte più tardi di tutte le altre, diventavano una ghiotta attrazione per gli uccelli.
Le uve dell’Uceline sono state raccolte a fine ottobre, a piena maturazione, trasferite in fruttaio ventilato e a temperatura controllata, dove sono rimaste per più di un mese a subire un leggero appassimento.
Dopo la pigiatura e una parziale diraspatura, si è avviata la fermentazione, durata circa 3 settimane a 22-25 °C con frequenti rimontaggi. La fermentazione malolattica e la successiva maturazione si sono svolte in tonneaux di rovere da 5 hl.
Dopo un anno di affinamento in bottiglia eccolo nel calice, con un colore rubino intenso e profondo venato di riflessi porpora; al naso si coglie facilmente l’effetto dell’appassimento in un frutto ampio che richiama la confettura, ma solo a tratti, nulla di eccessivo bensì aspetti di maggiore complessità, privi di stucchevolezze. La mora, la visciola, l’amarena, sono affiancate da sfumature vegetali mature e delicati rintocchi speziati, dalla cannella al ginepro, dal cacao alla liquirizia.
La bocca si offre avvolgente, succosa, con un tannino molto levigato, la freschezza compensa molto bene il frutto in confettura e confina in buona parte gli effetti dati dalla forza alcolica (15,5 gradi).
Un vino che, nonostante la significativa gradazione e le note di appassimento, si distingue per una materia equilibrata e non pesante, sebbene richieda inevitabilmente piatti di carattere, ideali quelli di carne, con sughi lungamente cotti e speziati.

Cantina Emanuele Ranchella – Roma DOC Bianco “AD DECIMUM” 2018


Emanuele Ranchella, senza troppo clamori, ha dato vita a questo bianco (malvasia puntinata, trebbiano verde e trebbiano toscano) di affascinante aderenza territoriale grazie ad una prorompente sapidità gustativa che richiama il territorio vulcanico dei Castelli Romani che finalmente vengono valorizzati e non svenduti con prodotti commercialmente infimi. 



SanVitis: nuova linfa nel vino del Lazio


Il Lazio, fortunatamente, negli ultimi tempi sta cercando di reagire ad una certa “staticità enologica” che lo ha caratterizzato per anni grazie ad un forte passaggio generazionale che ha portato tanti giovani alla guida delle aziende vitivinicole di famiglia gestite un tempo dai loro padri. Non solo. Questo nuova dinamicità del comparto vitivinicolo del Lazio è causata anche dalla nascita di nuove cantine, come ad esempio Sanvitis, il cui progetto nasce dalla grandissima passione per il vino di tre amici ovvero Sergio Tolomei, Massimo Orlandi e Riccardo Bani, che pur provenienti da settori completamente diversi (il primo è imprenditore nel mondo dell’ottica mentre gli altri due provengono dal settore dell’energia) hanno voluto unire le proprie forze per contribuire alla valorizzazione del vino del Lazio ponendo la loro base operativa a San Vito Romano. Il motivo? Semplice, la famiglia di Massimo Orlandi è originaria di San Vito e in questa zona, soprattutto nell’areale di Olevano Romano, ha vigne di proprietà dalle quali ha sempre prodotto vino solo ed esclusivamente per esigenze famigliari.

Sergio Tolomei, Riccardo Bani e Massimo Orlandi

Investire in questo territorio, pertanto, è stato assolutamente naturale anche se il progetto Sanvitis, attivo dal 2015, ha previsto la gestione di piccole parcelle anche nella zona dei Castelli Romani, lungo le colline di Ariccia, dove in 5 ettari di vigneto (45 anni di età media) troviamo la presenza di quelle uve che rappresentano il classico taglio del Frascati: Bellone, Malvasia e Trebbiano.


L’altro settore produttivo, come già detto, si trova ad Olevano Romano dove si coltiva un ettaro di cesanese di Affile impiantato più di cinquant’anni su un terreno di argilla rossa, molto tenace, un po’ come le persone che vivono quei territori. Sullo stesso appezzamento si trovano anche piante più giovani, oltre che di cesanese di affile, anche di bellone e passerina insieme ad una piccola parcella di cabernet sauvignon e petit verdot.


Il progetto Sanvitis lo trovo molto interessante perché, allo scorso Vinitaly, parlando sia con Luigi Ramazzotti, agronomo, che con Daniele Proietti, enologo, si cerca di perseguire al massimo una filosofia “naturale” sia in vigna, dove non vengono usati prodotti di sintesi e l’uso di coadiuvanti è limitato allo stretto necessario, sia in cantina dove il lavoro, mi conferma lo stesso Proietti, si concentra solo nel preservare i caratteri specifici dell’uva a seconda delle annate. In questo ambito assistiamo a fermentazioni spontanee, solo ed esclusivamente con l’uso di lieviti indigeni e, una volta ottenuto il vino, si aggiungono solfiti solo in fase di imbottigliamento (circa 1g/hl) per aumentare la stabilità al vino. Sia i rossi che i bianchi effettuano malolattica.


Come scrivevo, pochi giorni fa a Verona ho avuto l’occasione di degustare tutta la gamma dei vini prodotti da Sanvitis che sono stati proposti, per i bianchi, nell’annata 2016 mentre la 2015 per il Cesanese.


Bellone 2016 (bellone 100%): naso definito da frutta come melone bianco e pesca, soffio minerale e floreale di ginestra, sambuco ed erbe aromatiche di campo. Rispetto dell’annata 2017, “maschia” e potente, questa 2016 si fa apprezzare per la sua leggiadria gustativa, per l’equilibrio quasi raggiunto e per una rinfrescante acidità che rinvita continuamente alla beva. Finale persistente caratterizzato da stuzzicante mineralità. Se dovessi abbinare il vino ad un piatto tipico romano non avrei dubbi: minestra di broccoli e arzilla. Matrimonio perfetto.
Vinificazione: leggera macerazione a grappolo intero, pressatura e fermentazione a basse temperature. Malolattica svolta naturalmente. 8 mesi di affinamento in vasche d’acciaio.


Malvasia 2016 (malvasia 100%): registro olfattivo incentrato su sensazioni di tiglio, agrumi, pesca e mandorla che ben si contraddistinguono all’interno di uno sfondo aromatico giocato sulla mineralità vulcanica. Sorso pieno e vivace costituito da freschezza e aromaticità che si fondono armoniose lasciando poi il campo ad una gradevolissima sapidità che avvolge il palato tenendolo in tensione per tanti minuti. Vino dalla beva assolutamente irresistibile che abbinerei a piatti di pesce anche di una certa struttura. Il filetto di baccalà potrebbe essere il compagno perfetto per questo vino.
Vinificazione: leggera macerazione a grappolo intero, pressatura e fermentazione a basse temperature. Malolattica svolta naturalmente. 8 mesi di affinamento in vasche d’acciaio


Trebbiano 2016 (trebbiano 100%): Olfatto ben definito e perfettamente calibrato grazie a nitidi riconoscimenti di mela golden, pera, insieme a salvia, timo, fiori di campo e un tocco minerale che richiama il territorio. Trama gustativa assolutamente coerente col naso, di buon equilibrio, succosa freschezza e vibrante persistenza sapida in coda. Questo trebbiano, assolutamente polivalente a tavola, potrebbe sposarsi perfettamente con un bel piatto di coratella con i carciofi o, se volete un primo piatto, con un tradizionale piatto di gnocchi alla romana.
Vinificazione: leggera macerazione a grappolo intero, pressatura e fermentazione a basse temperature. Malolattica svolta naturalmente. 8 mesi di affinamento in vasche d’acciaio


Flaminio 2017: l’unico blend dell’azienda, una sorta di Frascati fuori dagli schemi, è composto da uve a bacca bianca dei vitigni storici del Lazio e dell’Italia centrale in genere. Il profilo olfattivo è intenso, ricco di richiami alla frutta esotica, alla ginestra, al timo, alla salvia cui seguono sentori minerali, quasi fumé. Alla gustativa è generoso, fragrante di frutta a polpa gialla, di spiccata sapidità che trascina anche nel finale. Da provare su un buon piatto di pasta alla carbonara!
Vinificazione: pressatura a grappolo intero e fermentazione a basse temperature. Malolattica svolta naturalmente. Affinamento sulle fecce fini per tre mesi e ulteriori tre mesi in vasche di acciaio. Va in commercio solitamente a marzo successivo la vendemmia.


Cesanese 2015 (cesanese di Affile 100%): nonostante sia la prima annata prodotta questo cesanese in purezza non delude aprendosi con note profonde ed intense di terra rossa, spezie scure come cardamomo e cumino, frutta rossa selvatica e tocchi di fiori rossi appassiti. Tutto da bere, è piacevole e bilanciato, con tannino fitto, di ottima trama, vivacizzato da netta sapidità che insiste sul palato regalando una persistenza piacevole ed appagante.  Questo cesanese in purezza si abbina divinamente ad un casalingo piatto di pollo ai peperoni o, se volete, ad un piatto di bucatini all’amatriciana!
Vinificazione: macerazione e rimontaggio per un periodo di 10-12 giorni, malolattica svolta naturalmente in acciaio. Affinamento di 18 mesi in acciaio e altri tre mesi in acciaio. Va in bottiglia due primavere successive la vendemmia. Segue ulteriore affinamento in bottiglia per sei mesi.



Taste Alto Piemonte 2019: focus sul Bramaterra DOC in degustazione


Il vino Bramaterra è prodotto nel territorio di sette comuni (Masserano, Brusnengo, Curino, Roasio, Villa del Bosco, Sostegno e Lozzolo)della zona collinare limitrofa al parco naturale delle Baragge, protetta dal Monte Rosa. Pare che la sua origine sia dovuta ai servi della gleba che, divenuti liberi, si stabilirono in quel territorio e coltivarono la vite, ottenendo un vino di grande pregio. Riconosciuto D.O.C. nel 1979, era anche chiamato "Vino dei Canonici" in quanto particolarmente gradito alla curia vercellese.


L’areale di produzione è composto da colline originate milioni di anni fa, con terreni acidi porfirici e una copertura superficiale di terreno fertile. Sul lato occidentale i suoli hanno una maggiore ricchezza di sabbie con depositi marini, ad est si trovano zone maggiormente argillose, a sud i terreni si fanno più profondi, con maggiore ricchezza in limo ed argilla. La vicinanza con il Monte Rosa offre una barriera naturale dai venti montani e garantisce un microclima favorevole per la coltivazione della vite.


I vini DOC Bramaterra e Bramaterra Riserva devono essere ottenuti dalle uve dei vitigni Nebbiolo (Spanna) dal 50 al 80 %; Croatina, fino ad un massimo del 30 %; Uva rara (Bonarda novarese) e Vespolina da sole o congiuntamente fino ad un massimo del 20%.

Il vino Bramaterra DOC deve essere sottoposto ad un periodo di invecchiamento minimo di 22 mesi di cui 18 il legno, mentre la versione “riserva” di 34 mesi di cui almeno 24 in legno. I vini Bramaterra e Bramaterra Riserva possono essere accompagnati dalla menzione aggiuntiva “vigna” seguita dal relativo toponimo o nome tradizionale purché il vigneto abbia un’età di impianto di almeno 7 anni.

Le Pianelle – Bramaterra 2015 (80% nebbiolo, 10% vespolina e 10% croatina): decisamente austero, tenebroso, si apre alla distanza su tenui profumi floreali e vegetali che si completano appena arriva una strabordante ferrosità con ricordi di frutta croccante. Sorso secco, deciso, graffiante con decisi ritorni minerali.


La Tur – Bramaterra Riserva 2015 (80% nebbiolo, 10% vespolina e 10% croatina): completamente diverso dal precedente per il suo essere avvolgente, intensamente fruttato, rotondo e con un finale piacevole e intensamente sapido.


Colombera & Garella – Bramaterra 2014 (80% nebbiolo, 10% vespolina e 10% croatina): l’annata rende il vino essenziale, le sfumature minerali fanno risaltare l’aristocratica componente olfattiva che ricorda le spezie e le erbe balsamiche. Bocca tesa, diretta, senza fronzoli, con tannino in progressione e finale decisamente salato.


Noah – Bramaterra 2013 (80% nebbiolo, 10% vespolina e 5% croatina, 5% uva rara): profilo leggermente evoluto dove emergono sensazioni di sottobosco, prugna secca, noce moscata, fiori rossi secchi. Elegante anche al sorso per un equilibrio già abbastanza centrato anche se il vino cede un po’ nel finale che non progredisce abbastanza.


Roccia Rossa - Bramaterra 2013 (80% nebbiolo, 15% vespolina e 5% croatina): sia per colore, granato trasparente, sia per sensazioni aromatiche questo vino regala un profilo assolutamente rarefatto nelle sensazioni di fiori rossi e spezie sottili, frutta rossa disidratata e bacche. Al gusto è armonico, con tannini sciolti e persistenza sapida nel finale.


Antoniotti - Bramaterra 2013 (70% nebbiolo, 20% croatina, vespolina 7%, uva rara 3%): una maggiore percentuale di croatina regala un Bramaterra assolutamente brioso, giovane, dotato di tanta frutta rossa, richiami minerali e vegetali. Sorso coerente, ricco, segnato da intensa freschezza e tannini ancora vispi. Finale sapido e fruttato. Vino assolutamente gastronomico.


La Palazzina – Bramaterra Riserva 2011 (80% nebbiolo, 10% croatina, 5% vespolina, 5% uva rara): una leggerissima nota eterea veicola sensazioni evolute di viola essiccata, tabacco, humus, muschio e terra rossa. Sorso sapido e gustoso, non potentissimo ma già abbastanza equilibrato. Da bere ora.


Tenute Sella – Bramaterra “I Porfidi” 2010 (70% nebbiolo, 20% croatina, vespolina 10%): a bicchiere già fermo propone un ricco ventaglio olfattivo, invitante e complesso, che richiama la terra rossa vulcanica, la frutta scura, il cardamomo, il the nero, l’anice, le erbe aromatiche, le spezie orientali. Gusto intenso, ricco di freschezza e delizioso tannino anche se il tutto sembra ancora in fase di integrazione. Finale sapidissimo che richiama la beva.


Marco de Bartoli – “Pietranera” 2016


di Lorenzo Colombo

Provengono da vigneti allevati ad alberello pantesco, sull’Isola di Pantelleria, le uve Zibibbo con le quali si produce questo vino lascito dell’indimenticato Marco De Bartoli.


Aromatico, con sentori mentolati, di salvia e d’agrumi, secco e decisamente sapido, l’abbiamo abbinato a spaghetti con ficazza di tonno.