Il Chianti Rufina tra vino ed olio - Garantito IGP


di Carlo Macchi

Una giornata sicuramente molto particolare, perché la degustazione di mercoledì 5 dicembre a Selvapiana, una delle cantine storiche della Rufina, non può essere passata agli atti come una “normale degustazione”. Abbiamo assaggiato uno di fila all’altro i tre capisaldi della denominazione, olio, vinsanto e vino, facendoci un’idea veramente chiara e assolutamente positiva di questo piccolo e vocato territorio, alle porte di Firenze, con tanta storia alle spalle.


Per prima cosa abbiamo assaggiato in maniera bendata ben 13 oli del 2018 di altrettanti produttori della Rufina. Il risultato dell’assaggio è stato positivo: l’annata non è certo eccezionale, gli oli hanno buoni profumi ma non molto intensi, che puntano molto meno di altri anni verso la foglia di carciofo e si dipanano su note più dolci, mentre il corpo è equilibrato ma non ha la potenza che molti chiedono all’olio toscano. La media qualitativa si è comunque dimostrata alta e comunque senza confronto con oli da supermercato.


Come vedete dalle foto erano tutti oli imbottigliati e questo ci porta a parlare dei costi di un buon extravergine che, alla produzione, per un serio produttore toscano non può essere inferiore agli 8-10 euro al litro. Questo anche perché, come ci dice Federico Giuntini di Selvapiana “La resa non è uguale tutti gli anni ma purtroppo i costi si. Inoltre la Rufina è al limite della zona di coltivazione dell’olivo, con note positive per gli oli ma negative per le rese e le difficoltà di lavorazione”. Quindi se ad un produttore costa 8-10 euro a quanto lo dovrebbe rivendere per guadagnarci qualcosa?  Per fortuna la raccolta 2018 è stata alla Rufina e in quasi tutta la Toscana abbondante, anche se è durata molto più a lungo che in altri anni, con rese che, sempre alla Rufina sono arrivate al massimo al 12-13%.
Praticamente tutti gli oli che vedete nella foto sono di ottima qualità ma se volete sapere quello che mi è piaciuto di più vi dirò che, a fine giornata, mi sono comprato 5 litri dell’extravergine di Selvapiana.


Dopo gli oli siamo passati ai vinsanto e, ve lo dico senza peli sulla lingua, abbiamo goduto di brutto. Il Vinsanto è un vino passito particolare: ha grande acidità, spesso coperta da alti residui zuccherini ma che viene sempre fuori, dando nerbo e vitalità al prodotto. Al naso, specie se matura per almeno 6-7 anni, ha gamme aromatiche che partono dalla frutta matura e passano a quella secca, passita e candita, arrivando a gamme terziarie che portano verso sentori di fungo e tartufo, il tutto con un sottofondo di miele.


I Vinsanto che abbiamo degustato e di cui troverete qui le schede di degustazione, ci hanno impressionato per qualità e per assoluta classicità. Sono vini che in qualche caso rischiano di non piacere perché incarnano la burbera e spigolosa anima toscana. Questi della Rufina hanno mostrato anche delle notevoli diversità olfattive, tutte però di assoluta pulizia, profondità, complessità e soprattutto piacevolezza. Ho già detto in altra sede che sono vini che non andrebbero bevuti ma santificati, perché rappresentano al meglio una tipologia sempre meno consumata e stimata, quando invece è la quintessenza della sapienza, pazienza e bravura che ci vuole per fare un grande vino.

Vi ho dato il link dove potrete vedere i risultatiti degli assaggi ma due-tre chicche ve le passo subito: Il Vinsanto del Chianti Rufina Occhio di Pernice (cioè da uve rosse) 2008, I Veroni, il Vinsanto del Chianti Rufina Riserva 2011 di Lavacchio e il Vinsanto del Chianti Rufina 2001 (non è un errore, c’è questo in commercio) di Frascole rappresentano le varie e meravigliose anime di un unico corpo.


Un vecchio detto recita che “Tutti i salmi finiscono in gloria” e così la nostra giornata di assaggi non poteva che concludersi a tavola. Ma attenzione, una tavolata particolare perché la terza degustazione era dedicata alle eccezionali possibilità di invecchiamento del Chianti Rufina attraverso una serie di vecchie annate, una per cantina.
Il bello era che la degustazione si è svolta a tavola, pranzando, proprio per capire se oltre alle possibilità di invecchiamento questi grandi rossi hanno anche la giusta elasticità, freschezza, adattabilità gastronomica oppure se sono solo dei bei monoliti da gustare ma da non portare in tavola. Inoltre, last but not least, la degustazione non solo non era bendata ma a tavola c’erano anche i produttori, con cui abbiamo scambiato pareri su ogni vino che veniva degustato.


Eccovi, prima di tutto la lista dei vini, tanto per farvi sbavare un po’, nell’ordine praticamente casuale in cui sono stati serviti.

Marchese Gondi Villa Bossi Riserva 2001
Castello di Nipozzano Chianti Rufina Riserva Montesodi 1999
Fattoria il Capitano, Chianti Rufina Riserva 2013
Frascole, Chianti Rufina Riserva 2006
Colognole Chianti Rufina Riserva del Don 2006
Travignoli Toscana IGT Tegolaia 2005
Fattoria di Grignano Chianti Rufina RiservaPoggio Gualtieri 2000
Fattoria di Lavacchio Chianti Rufina Riserva Ludii 2007
I Veroni Chianti Rufina Riserva 2010
Castello del Trebbio, Chianti Rufina Riserva Lastricato 2004
Il Pozzo Chianti Rufina Riserva 2004
Selvapiana, Chianti Rufina Riserva Bucerchiale 1995

Niente male, non trovate?

Ma veniamo ai risultati di questa particolare e gustosissima degustazione.
La prima nota riguarda la qualità dei vini: tutti quelli degustati erano in condizioni perfette (due tappi a parte) e, a detta degli stessi produttori, hanno mostrato le loro reali caratteristiche. Chi pensa che una vecchia annata della Rufina sia un vino comunque in declino, doveva essere a tavola con noi! Ognuno metteva in tavola la sua giovinezza, sia con una freschezza acida brillante e patinata, sia con una tannicità viva ma elegante, sia con complessità aromatiche non soltanto legate al mondo degli aromi terziari.
Una continua sorpresa, pensando che avevamo a tavola anche vini di 23 anni e che comunque la media era nettamente superiore ai 10.


Personalmente ho nuovamente constatato che i grandi sangiovese invecchiando raggiungono finezze che li avvicinano ai migliori Pinot Nero: hanno una setosità al palato ed un mix di gioventù ed esperienza al naso che non può non farti innamorare. Poi magari si declinano in maniera diversa: con la grande potenza espressiva della Riserva del Don 2006 di Colognole o con la suadente freschezza della Riserva di Frascole 2006 o con la ancor monolitica presenza del Lastricato del Castello del Trebbio 2004 o con il regale aplomb del Bucerchiale 1995 di Selvapiana, però tutti hanno quella matrice, quella madre generosa chiamata sangiovese, che li accomuna e li accompagna nel tempo.
Devo ammettere che qualche produttore avrebbe potuto odiarmi, visto che alcuni di questi vini sono stati abbinati a tortini di verdura o comunque a piatti non certo adatti alla loro nobiltà, ma alla fine siamo riusciti a dimostrare che le vecchie annate della Rufina sono perfettamente godibili a tavola, anche su piatti non proprio studiati a tavolino.
Scommetto che a questo punto volete sapere quelli che mi sono piaciuti di più: vi garantisco che non è stato facile scegliere, ma se dovessi fare un podio metterei al terzo posto il Ludii 2007 di Lavacchio, al secondo la Riserva del Don 2006 di Colognole e al primo sua maestà Bucerchiale 1995 di Selvapiana.


Tutti gli altri però restano a pari (e alto) merito alla base di questo podio ipotetico.
A fine pranzo, vista la bontà dei vini e in molti casi la disponibilità ancora discreta di bottiglie, è nata l’idea di esportare, in ristoranti o enoteche amiche di altre zone d’Italia, l’opportunità di conoscere, degustare e apprezzare le grandi possibilità delle vecchie annate della Rufina, magari assaggiando a fine pasto un grande Vinsanto della Rufina e naturalmente preparando piatti con l’extravergine locale.

Insomma, chi se la sente di godere come abbiamo fatto noi il 5 dicembre, alzi la mano, anzi, alzi il telefono e chiami il Consorzio del Chianti Rufina.

Tenuta Le Velette - Sole Uve 2012 è il Vino della settimana di Garantito IGP

di Roberto Giuliani

Sei anni per un ottimo Grechetto non sono nulla. E questo è un ottimo Grechetto, vinificato in parte nel legno, maturato sur lies per 3 mesi. 


Dorato lucente, melone maturo, mango, albicocca, miele, uva passita. Sapido, ancora molto fresco, polifenolico, persistente ma, soprattutto, buonissimo!

Duca di Salaparuta - Duca Enrico 1992

di Roberto Giuliani

La casa vinicola Duca di Salaparuta ha origini centenarie: nata nel 1824 da un’idea di Giuseppe Alliata, Principe di Villafranca e Duca di Salaparuta, diventata celebre sotto la conduzione del suo pronipote Duca Enrico, fu ceduta alla Regione Sicilia, quindi divenne pubblica fino al 2001, anno in cui è stata acquistata dalla ILLVA di Saronno. 

Nel 2003 torna siciliana con la nascita della Duca di Salaparuta S.p.A. della famiglia Reina, che con i brand Corvo e Florio, diventa il primo gruppo vitivinicolo privato della Sicilia.

Ma veniamo al vino: il Duca Enrico è nato nel 1984 come primo nero d’Avola in purezza e possiamo dire che è stato uno dei principali apripista del vino di qualità nella regione.
Quanto tempo è passato da quando ho acquistato questa bottiglia, se non sbaglio era il 1999. Devo dire che una certa preoccupazione nell’aprirlo l’ho avuta, non solo perché sono passate 26 vendemmie e si tratta di una 1992, ovvero non un’annata passata alla storia per qualità, ma soprattutto perché temevo sulla tenuta del tappo. Invece, come potete vedere dall’immagine allegata, ha retto benissimo, circa la metà non è stata raggiunta dal vino. Sfilarlo non ha creato problemi e l’odore non ha nulla di sospetto.



Purtroppo, dopo quasi vent’anni di conservazione in cantina, si è persa la fascetta in basso che dichiarava l’annata, ma per fortuna è scritta sul sughero.
Non ricordo bene quali fossero le regole dei disciplinari allora, ma oggi è certo che un vino da tavola non può riportarla in etichetta.
Scendiamo nel dettaglio: ottenuto da basse rese (erano già i tempi in cui si lavorava per produrre di meno e aumentare la qualità dei vini), ha subito una lunga macerazione ed è maturato un anno in barriques e tonneaux di Tronçais.


Alla vista è impressionante notare la tenuta di colore, siamo ancora su un granato pieno, di buona profondità, solo all’unghia si nota una sfumatura mattonata.
L’impatto olfattivo, dopo opportuna ossigenazione, manifesta note di tabacco in foglia, cuoio, muschio, prugna secca, un velo di cenere e polvere da sparo, humus, persino menta.
Al palato si coglie bene la nota terziaria e puoi immaginare un’età intorno ai 15-18 anni, questa è la sua condizione, grazie anche a una base acida che si è mantenuta intatta e supporta un sorso ancora piacevolmente fruttato; spuntano i fiori macerati, addirittura la scorza d’arancia essiccata, solo sul finale emerge una tonalità ossidata, ma al momento è contenuta e non disturba affatto. Fra l’altro ho aperto il vino da poco e, man mano che si ossigena, sembra assestarsi e aprirsi ancora di più.

Un bel risultato, tenendo conto che si tratta di un millesimo minore, che dimostra quanto avessero lavorato bene e quali incredibili potenzialità possa avere il nero d’Avola allevato nel modo giusto.

Frascati e Cannellino: la grande degustazione delle ultime annate secondo Garantito IGP

di Roberto Giuliani

La tipicità, la riconoscibilità, sono aspetti che possiamo ritrovare nel Frascati? Direi di sì, nonostante il disciplinare consenta numerose combinazioni di uve e dosaggi. La ragione è molto semplice, qui conta di più il suolo, in seconda battuta l’altitudine e l’esposizione possono influire sull’acidità e la struttura, ma la composizione del terreno fa la vera differenza. Siamo in un’area di origine vulcanica, circa 8.300 km quadrati che occupano il versante settentrionale dei Colli Albani; il Vulcano Laziale si è formato circa 600 mila anni fa, l’attività magmatica ha alimentato l’edificio in estensione e in altezza (oltre 2000 metri), sino all’inevitabile collasso che ha provocato in superficie la formazione della grande depressione calderica che comprende i Pratoni di Vivaro.
Le manifestazioni eruttive sono state prevalentemente di tipo esplosivo e hanno formato numerosi crateri, i più antichi sono quelli di Ariccia, Pantano Secco e Prata Porci, oggi coltivati, mentre i più recenti hanno conservato i caratteri morfologici tipici di forme giovanili, a imbuto, e sono occupati da profondi bacini lacustri come quelli di Albano (168 metri) e Nemi (33 metri). Le eruzioni del Vulcano Laziale sono continuate fino a 25.000 anni fa. Le formazioni vulcaniche sono costituite soprattutto da ceneri e lapilli depositati in strati di notevole spessore e cementati in misura diversa.

lago di Nemi

A seconda delle zone possiamo trovare pozzolane (dette “terrinelle”), cioè ceneri vulcaniche del tutto prive di cementazione che si riscontrano nelle parti più lontane dalle bocche di eruzione e danno luogo a terreni sabbiosi, profondi, permeabili all’acqua e senza ristagni né superficiali né profondi; poi ci sono i tufi litoidi, più o meno duri, derivati dalla cementazione delle ceneri e dei lapilli, con diverse denominazioni locali (cappellacci, cappellacci teneri, occhio di pesce, occhio di pernice, ecc.), coprono la parte maggiore del territorio considerato. Si tratta di suoli quasi del tutto impermeabili all’acqua e alle radici, questo comporta la necessità di effettuare scassi profondi per permettere agli agenti atmosferici di attivare la pedogenesi e mettere a disposizione delle colture, in particolare della vite, uno strato sufficiente di terreno agrario per lo sviluppo radicale e la nutrizione idrica e minerale; in misura modesta troviamo anche rocce laviche, dure, poco attaccabili dai mezzi meccanici e dagli agenti atmosferici. Sono quelle più vicine ai crateri e danno origine a terreni di scarso spessore, più adatti al pascolo o ai boschi; infine nelle zone pianeggianti, per deposito alluvionale proveniente dalle pendici sovrastanti, I terreni derivati sono profondi, tendenzialmente argillosi e spesso umidi. Le conseguenze di quelle antiche eruzioni si possono vedere addirittura nei pressi dell’aeroporto di Ciampino, basta passeggiare nei campi intorno all’Appia antica per trovare forte presenza di basalto. Un altro elemento che deve farci riflettere è l’altitudine dei terreni coltivati a vite, che va dai 70 ai 500 m s.l.m., con pendenza variabile: l’esposizione generale è orientata verso ovest e nordovest.

Basalto di Olivella

Quindi: abbiamo un disciplinare che è stato “costruito” sulla base di ciò che nei vigneti esisteva tradizionalmente e sull’ingresso di qualche varietà alloctona. Ogni vino Frascati può essere composto da una miscellanea di uve in misure che possono essere molto differenti. Basti pensare che si possono utilizzare per un minimo del 70% del totale malvasia di Candia e malvasia del Lazio (puntinata), da sole o congiuntamente. Già questi due elementi danno luogo a molte variabili. Poi ci sono i trebbiani toscano e giallo, il bellone e il greco bianco che, sempre da soli o congiuntamente, possono arrivare a occupare il rimanente 30%. Se ciò non bastasse, si possono utilizzare altre uve consentite nella regione (fra cui, ad esempio, chardonnay, riesling, sauvignon, viognier, petit manseng, trebbiano di Lugana, pigato e tanti altri) per il 15% di quel 30% (che dovrebbe corrispondere al 4,5% del totale). Quindi, se un’azienda decide di mettere un’uva semiaromatica come il sauvignon nel proprio Frascati, nella misura massima consentita (4,5%), un seppur moderato impatto sulla personalità del vino ce l’ha.

Abbiamo poi la predetta questione territorio, e qui dobbiamo tenere conto che la maggior parte delle aziende storiche dispone di vigneti in zone differenti, fattore che allontana ulteriormente la possibilità di avere punti di riferimento chiari nei vini che assaggeremo. Ciò nonostante, le degustazioni effettuate in più occasioni (personalmente posso dire di essere cresciuto con i Frascati di Villa Simone, Conte Zandotti, San Marco, Castel De Paolis, Principe Pallavicini, L’Olivella, Pietra Porzia, Poggio Le Volpi, Fontana Candida e, perché no, anche Gotto d’Oro) hanno dimostrato alcuni punti in comune nella maggior parte dei vini, che potremmo condensare in freschezza, salinità, profumi ampiamente floreali e in seconda battuta fruttati, più o meno spiccata mineralità, colori luminosi ma mai carichi, elementi che ci riportano in modo piuttosto evidente al terroir dei Castelli Romani ed evidenziano una sempre crescente qualità dei vini.
L’annata 2017 ha rivelato qualche squilibrio, soprattutto nell’acidità che spesso è apparsa disgiunta dalla struttura dei vini: complessivamente, tenendo conto che è stata molto siccitosa e di difficile interpretazione, i risultati sono stati più che incoraggianti.
Ecco, sinteticamente, le mie valutazioni durante la degustazione effettuata il 23 novembre scorso presso il Consorzio del Frascati.

FRASCATI 2017
  • Cantina Sociale di Monteporzio Catone: Susina, lavanda, fiori bianchi, limone; al palato è fresco, un po’ semplice e amarognolo, ma con buon ritorno agrumato.
  • Gotto d’Oro: volatile, erbe di campo, agrumi gialli, leggera banana, pera, bocca appena più matura, acidità un po’ scollegata, salino, molto giovane, sensazione di residuo zuccherino.
  • Tenuta di Pietra Porzia: colore più intenso, naso di frutta dolce, pesca, melone, susina matura; bocca di buona intensità, giusta freschezza, buon ritorno fruttato con finale agrumato, ha il dono della digeribilità e si beve con piacere.
  • Crio 10 – Cantine San Marco: paglierino chiaro, floreale, asciutto, leggermente acidulo, ancora indietro.
  • Crio 8 – Cantine San Marco: naso ancora fragilino, si intravedono gelsomino, mela verde, leggera ginestra, agrumi; più definito al gusto, sebbene la nota citrina sia piuttosto evidente, segno della necessità di ulteriore attesa.
  • Le Rubbie – Casale Vallechiesa: una punta di zucchero filato, frutto dolce, al palato mantiene la nota di frutto maturo, l’acidità è slegata, non sembra fare parte del vino.
  • Il Principe – Principe Pallavicini: frutto meno dolce ma sempre abbastanza maturo, bocca corrispondente, citrina, un po’ magra ma gradevole.
  • Villa Simone: agrumi e fiori bianchi, mela renetta, sensazione di residuo zuccherino, buona base minerale, promette una buona evoluzione.
  • Campo Vecchio – Castel De Paolis: pesca, leggero pompelmo, miele, un po’ più di ciccia al palato, discreta grassezza, sapido, buona piacevolezza, fine e ben fatto.
  • Terso – Merumalia: agrumi gialli, leggero erbaceo, solforosa, al palato si sente un po’ l’alcol e il calore dell’annata; dignitoso.
FRASCATI SUPERIORE 2017
  • Crio 12 De’ Notari – Cantine San Marco: leggera banana, pesca, minerale, al palato ha buona struttura, freschezza, buon tessuto ed esprime abbastanza bene i tratti salienti del Frascati.
  • Biowine De’ Notari – Cantine San Marco: fiori, susina, pesca bianca, bocca fresca appena scomposta nell’acidità, ma non male nel complesso.
  • Le Piantate – Cantine Volpetti: naso impreciso, sensazione di bucce, frutto un po’ ammaccato, a tratti richiama il formitrol; maturo in bocca eppure ancora squilibrato, con finale amaro e asciugante.
  • 1960 – Almavini Casata Mergè: mango, mela, pesca bianca, frutto dolce e discretamente maturo; buon ritorno al gusto, anche agrumato, fresco, minerale, di carattere.
  • Sine Metu – Cantina Sociale di Monteporzio Catone: naso con un buon frutto, gelsomino, pesca, agrume leggero, buon ritorno fruttato e leggera speziatura, fresco, vivace, discreta lunghezza, bel prodotto.
  • Eremo Tuscolano – Valle Vermiglia: bouquet delicato ma variegato di menta, pera, mela, timo e ricordi floreali; al palato testimonia una buona materia e uno sviluppo godibile e ben sorretto dall’acidità.
  • Conte Zandotti: profumo fine, floreal-fruttato, piacevole, bocca corrispondente, fresca, finale agrumato e di buona persistenza.
  • Heredio – Casale Vallechiesa: naso fresco con un frutto in parte esotico e abbastanza maturo; bocca atipica, disgiunta dalle sensazioni olfattive, meno convincente rispetto alla 2016. Da riprovare fra qualche mese.
  • Racemo Bio – L’Olivella: fiori gialli, albicocca, mandorla, leggera muffa, bocca ancora citrina eppure burrosa, interessante anche se ora non sembra avere raggiunto la condizione ottimale.
  • Poggio Verde – Principe Pallavicini: agrumi gialli, pesca matura, sfumature vegetali; al gusto è asciutto, non ha particolare dinamicità, buona sapidità e finale tutto sull’agrume.
  • Gold Label – Tenuta di Pietra Porzia: preferito largamente il vino base, qui abbiamo qualche eccesso in dolcezza e uno sviluppo sul frutto esotico che allontana un po’ dal carattere del Frascati.
  • Villa dei Preti – Villa Simone: probabile problema del campione (non è stato possibile riprovarlo da un’altra bottiglia), naso chiuso, debole, in bocca sembra in rifermentazione, peccato.
  • Gabriele Magno: naso maturo ma anche agrumato, bocca corrispondente, un po’ dolce sebbene l’acidità sia presente, ma appare scollegata.
FRASCATI SUPERIORE RISERVA 2017
  • Primo – Merumalia: susina, pesca gialla, mango, agrume maturo, stile moderno e non proprio tipico ma ben fatto.
  • Vigneto Filonardi – Villa Simone: per me rimane uno dei più interessanti, note di gelsomino, banana, pietra focaia, frutta tropicale, sfumature di salvia e melissa; bocca con buona intensità, corpo, acidità, sale, lungo finale, molto equilibrato.
FRASCATI SUPERIORE RISERVA 2016
  • Epos – Poggio Le Volpi: altra annata, altre caratteristiche, frutto maturo di ciliegia bianca, erbe aromatiche, vaghi cenni di idrocarburo, ricorda un po’ il riesling, non male ma certamente atipico.
  • Sesto 21 – Almavini Casata Mergè: nota di erbe aromatiche, albicocca, ma anche menta, mentolo, molto particolare; bocca corrispondente, ampia e di buona complessità, indubbiamente atipico ma interessante.
FRASCATI SUPERIORE RISERVA 2015
  • Luna Mater – Fontana Candida GIV: naso lineare, floreal-fruttato maturo, buon equilibrio e buona struttura al palato, godibile; finale lungo, maturo e con leggero lascito amaro.
La parte finale della degustazione è dedicata al Cannellino, vino dolce di antica tradizione, 6 campioni di cui uno del 2017 e gli altri del 2016. Va detto che hanno mostrato tutti notevole diversità fra loro, segno di un vino interpretato in modo del tutto personale da ciascuna azienda.
CANNELLINO DI FRASCATI 2017
  • Conte Zandotti: colore quasi bianco, naso poco dolce, profuma di uva appena appassita, in bocca è dolce ma anche con buona acidità, mandorla, agrumi, finale piacevole e di buona complessità.
  • Cantina Sociale di Monteporzio Catone: la sorpresa della giornata, agrumi maturi, frutta candita, bocca corrispondente, buona acidità (integrata) e dolcezza contenuta, finale lungo.
CANNELLINO DI FRASCATI 2016
  • Casale Vallechiesa: bel naso fine e appena dolce, ottima fruttosità, mandorla dolce; al palato qualche limite, acidità insufficiente a compensare una dolcezza spiccata.
  • Cantina Villafranca: naso un po’ ossidato, smaltato, molto dolce in bocca, stucchevole.
  • Poggio Le Volpi: colore carico, oro intenso, naso di frutta candita e secca, completamente diverso dagli altri, difficile trovare un’identità alla tipologia.
  • Villa Simone: buonissimo, forse il migliore, trama olfattiva ampia e complessa, dolce ma tenuta a frena da una speziatura fine; lungo al palato, profondo, salino.

Roccia Rossa - Bramaterra DOC 2013


Di Andrea Petrini

La frase Nomen omen, che tradotto dal latino significa "il nome è un presagio", non poteva essere più centrata per questo Bramaterra prodotto da questa piccola azienda il cui nome, Roccia Rossa, è dedicato al terreno composto da porfido ed arenaria rossa su cui sono piantate le viti, in questo caso nebbiolo, vespolina e croatina, che danno origine a questo vino austero, sanguigno e minerale.


Una bandiera per l'Alto Piemonte



Da Predappio con amore: i vini di Noelia Ricci

“Siamo una storia di famiglia. Quattro generazioni di passione e dedizione al territorio. Siamo una storia di donne, siamo una storia di fratelli. Siamo una storia di terra, scritta con le antiche argille e le sabbie calcaree. Una storia che ha il colore chiaro del Sangiovese di una volta, quello delle vigne di Predappio e della Valle del Rabbi. Siamo una storia di silenzi, d’impegno e determinazione, una storia scritta con le mani di chi cura i filari e ascolta le viti.” 
Queste sono le parole di Marco Cirese che nel 2010 ha avviato il progetto Noelia Ricci, la sua azienda, il cui cuore, formato da sette ettari di vigneto, oggi diventati nove, si trova all'interno della Tenuta Pandolfa, una proprietà ricca di storia che si estende per 140 ettari tra vigneti, seminativi e bosco ai piedi dell’appenino Tosco-Romagnolo.

Entrata. Foto - Upperglass

La denominazione, Pandolfa, sembra che derivi direttamente da Sigismondo Pandolfo Malatesta, detto il “Lupo di Rimini”, che avrebbe stazionato a lungo in questi luoghi prima di accingersi a saccheggiare nel 1436 il Castello di Fiumana. Nel corso del tempo, dopo aver affrontato varie traversie, la Tenuta nel 1941 passò di mano al Commendator Giuseppe Ricci, imprenditore di Forlì, che negli anni '50, passata la guerra, iniziò i lavori di rinnovamento della tenuta acquisendo due poderi adiacenti e impiantò i primi vitigni di sangiovese e trebbiano

Alla morte del Ricci nel 1980, fu la figlia Noelia, carismatica e visionaria, ad intuire per prima il potenziale di questi pendii e, spinta da una forte passione per il suo territorio, iniziò a piantare nuove vigne e ad avviare i lavori di costruzione della nuova e più funzionale cantina che oggi formano un vero e proprio esempio di Chateaux in terra romagnola.
La zona di produzione, infatti, si trova a Predappio, lungo ampie vallate comprese tra le province di Ravenna e Forlì-Cesena, con quote tra i 100 e i 350 metri s.l.m. dove i terreni nascono da generose argille che salendo di quota, seguendo il torrente Rabbi, diventano sempre più colorate, leggere ed intrise di minerali. I cru più interessanti di Predappio si trovano in prossimità dei crinali delle colline sopra la linea dei calanchi e sono Predappio Alta, San Cristoforo, San Zeno e Rocca delle Caminate. 


I 9 ettari di vigneti di Noelia Ricci si trovano sul crinale della collina esposto a sud-est, tra i 200 e i 340 metri s.l.m. in località San Cristoforo. In questi terreni si vedono confluire tre differenti matrici geologiche: lo spungone da Bertinoro, l’arenaria da Modigliana e la marna sulfurea da Predappio. In queste terreni difficili si coltivano , attraverso una agricoltura sostenibile che cercherà di convertirsi verso una meditata scelta biologica, sangiovese, trebbiano e, in piccolissima parte, pagadebit.

Vigneti. Foto: 21grammy.com

Tre sono i vini prodotti da Noelia Ricci, tutti ispirati al mondo degli animali che viene riportato in etichetta attraverso illustrazioni provenienti dagli archivi storici di fine ottocento, perché in queste figure c’è quel realismo, non ancora fotografico, che lascia margine espressivo all'immaginazione. 


L'unico bianco aziendale si chiama Bro' (93% trebbiano romagnolo, 7% pagadebit) la cui etichetta si ispira alla balena che nelle culture orientali è simbolo della memoria, della famiglia e dell’esperienza. L'annata 2017, nonostante il caldo, è stata gestita egregiamente e regala un vino leggero ma al tempo stesso tagliente ed aguzzo grazie al suo profilo quasi da vino nordico visto che emergono prepotenti le sensazioni di agrume, pesca bianca e biancospino. Al sorso è una lama che stuzzica il palato con una decisa sapidità finale. 
Tecniche di Vinificazione: fermentazione in acciaio del solo mosto di Trebbiano in macerazione per 6 mesi con le bucce del Pagadebit.  
Affinamento: 6 mesi in acciaio sulle fecce fini e minimo 2 mesi in bottiglia.


Il vino rosso "di entrata" di Noelia Ricci è il "Il Sangiovese" che in etichetta è contraddistinto dall’immagine di una vespa, l’insetto che più di ogni altro vive la vigna e che ne protegge la biodiversità. L'annata 2016 dei questo Romagna Doc Sangiovese Predappio regala un vino assolutamente amichevole, gioioso, fresco ma al tempo stesso appagante per complessità e facilità di beva. E' un vino di grande qualità ma, al tempo stesso, di poche pretese estetiche che mira al godimento tra amici in una domenica spensierata dove si può stare bene anche con un bel panino col salame. La Romagna, per me, è questa!
Tecniche di Vinificazione: le uve Sangiovese dei differenti cloni sono raccolte assieme e fermentate in uvaggio. La fermentazione e la successiva macerazione sulle bucce avvengono in tini di acciaio a temperatura controllata. Il contatto del vino con le bucce dura mediamente 18 giorni; segue la fermentazione malolattica.
Affinamento: 6 mesi in acciaio e minimo 8 mesi in bottiglia.


Il terzo e ultimo vino della gamma è invece "Il Godenza" la cui etichetta rappresenta il primate che interpreta la scelta stilistica di un vino che torna alle origini delle tradizioni del sangiovese. Da me è stata degustata l'annata 2015 e, senza troppi giri di parole, non posso non affermare che questo sangiovese rappresenta per me una vera e propria sorpresa, ovviamente in positivo, grazie ad un profilo sensoriale diametralmente opposto a molti Sangiovese Superiore che spesso mi trovo a degustare in giro per l'Italia. Infatti, il vino in questione non ha quella robustezza e quella prepotenza che spesso li contraddistingue. No, il Godenza, proveniente da vigne con un’altissima presenza di sabbia arenaria, è assolutamente elegante e, per certi versi, aristocratico con quei suoi profumi che rappresentano un mix di ortensia, lampone, ricordi vegetali e spiccata mineralità. Al sorso è proporzionato, suadente, carezzevole grazie ad un tannino perfettamente levigato e, soprattutto, dotato di una gagliarda persistenza sapida che richiama il terreno da cui ha origine questo splendido sangiovese di assoluta territorialità. 
Tecniche di Vinificazione: le uve Sangiovese dei differenti cloni sono raccolte assieme e fermentate in uvaggio. La fermentazione e la successiva macerazione sulle bucce avvengono in tini di acciaio a temperatura controllata. Il contatto del vino con le bucce dura mediamente 28 giorni; segue la fermentazione malolattica.
Affinamento: 8 mesi in acciaio e minimo 12 mesi in bottiglia.

Il vino Frascati: un percorso storico millenario - Garantito IGP

L'origine della vitivinicoltura nei Castelli Romani si perde in epoche lontane fino a confondersi con la mitologia. Le leggende nate sulla vite e sul vino sono, infatti, numerose e hanno sempre come protagonista un Dio che dona la preziosa piantina all'uomo. Saturno, scacciato dall'Olimpo dal padre Giove, si rifugia nel Lazio e più propriamente nei Castelli dove insegna la coltivazione della vite a Giano (di qui il nome Enotrio).

Il mito di dio Giano - Foto: http://www.beatesca.com

I Romani svilupparono velocemente la coltivazione della vite tanto che ai tempi della Prima Repubblica il vino prodotto localmente non copriva più le richieste, e nel 200 a.C., iniziarono le importazioni e gli impianti di altri vitigni fino a quando, nel 92 D.c., Domiziano proibì di impiantare nuovi vigneti, per paura che la loro sovrabbondanza causasse una riduzione di coltivazione del grano. Cicerone aveva una Villa a Tuscolo e Catone nel 200 d.C. scriveva “ […] della vite mi piace non soltanto la sua utilità, … ma anche la coltivazione e la natura stessa”. La condizione della viticoltura nel Lazio mantenne un alto livello di ricchezza fino al primo secolo dell’Impero.

Con la decadenza dell’Impero Romano le Ville patrizie dei Castelli vennero in parte abbandonate, e con esse la viticoltura subì una riduzione, che rimase concentrata soprattutto nei Monasteri nelle Abbazie, cosicché l’agro tuscolano arrivò intorno all’anno Mille con ancora una buona parte di terreni coltivati a vigneto e, verso il 1300, buona parte della viticoltura era sotto la protezione dei religiosi per la produzione di vino da messa e per preparazioni medicinali.

Gli Statuti concessi alla città di Frascati da Marcantonio Colonna, Signore e Vicario di Papa Giulio II della Rovere, datati 1515, stabilivano, in alcuni importantissimi articoli, le zone da destinare a vigneto, le modalità per determinare l'epoca della vendemmia e regolavano il commercio del vino: precisamente detta l'art. 96: "che il vino delli forestieri si venda a ellezione dei soprastanti" (quindi un Consorzio di Difesa e Tutela ante litteram) e "Statuimo et ordiniamo che qualunque del detto castello, ovvero altri che venda vino, che lo portassi fori d'esso castello, a vendere in esso, che sia vino latino, non sia lecito a nessuno venderlo più di quello che gli sarà imposto dagli soprastanti, et chi contraffarà paghi pena di soldi vinti per qualunque volta et per qualunque misura". Sante Lacerio, bottigliere di Papa Paolo III (1534-1549), in una lettera sulla qualità dei vini in circolazione afferma che il vino migliore si produce a suo giudizio a Frascati, Marino e a Grottaferrata.

Marcantonio Colonna

La nuova concezione filosofica del Rinascimento, che riportava l’uomo e la sua vita secolare al centro dell’attenzione, diede nuovo impulso alla ricerca e alla valorizzazione dei beni terreni. Desiderosi di beneficiare del clima salutare del Tuscolano, Papi, cortigiani ed esponenti delle ricche famiglie romane ricostruirono Ville e Palazzi abbandonati, e, con loro, anche le attività nei campi ripresero nuova vita. Le Vie che collegavano Frascati e Grottaferrata a Roma furono ripristinate e se ne costruirono di nuove. Il vino Frascati divenne protagonista della storia della Roma papalina e ne influenzò usi, costumi, economia. Le oltre mille Osterie del territorio, che affascinavano gli osti romani, i nobili e i visitatori di passaggio, erano quasi tutte proprietà dei produttori di vino, e, intorno ad esse, nacquero riti e costumi che sono arrivati fino al secolo scorso.


Il XIX secolo vide una trasformazione del tessuto sociale del territorio di Frascati, che, impegnato nella coltivazione della vite, dove ormai la produzione di vino era diventata l’economia trainante, richiedeva una maggiore mano d’opera nei campi. Nacquero società per la commercializzazione di quel vino laziale che, commentato da tutti i cultori della vitivinicoltura, eccelleva in bontà, robustezza e gradazione alcolica, gradevolezza e dolcezza: Giuseppe Marrocco (1835) parlando degli abitanti di Monte Porzio Catone diceva che “la maggiore utilità l’hanno sul commercio del vino”; che a Grottaferrata “i vini sono eccellenti”; e del territorio di Frascati sentenziava “il terreno è feracissimo …produce eccellenti vini”. Il Coppi, nel Discorso agrario del 1865, letto nell'Accademia tiberina il dì 15 gennaio 1866, riporta che Fabio Cavalletti nel suo podere di Grottaferrata (tuttora esistente) adottò un nuovo sistema di coltivare la vite e che il vino è di qualità eccellente.


Il successo del vino Frascati, nei decenni successivi, non poteva non portare ad una diffusione indiscriminata e disordinata del nome, tanto che fu decisa la costituzione di una regolamentazione a sua difesa. Il Consorzio di controllo fu costituito a Frascati il 23 Maggio 1949 su iniziativa di 18 produttori, nella sede di allora della Sezione Coltivatori Diretti.
Il gruppo così composto si nominò “Consorzio per la difesa di vini pregiati e tipici di Frascati”. Stabilita l’area all’interno della quale i vini prodotti potevano fregiarsi del marchio Frascati, il Consorzio aveva il compito di tutelarne il nome in Italia e all’estero.

Paolo Stramacci, attuale Presidente Consorzio. Foto: Vinotype

Nel corso degli anni e di precise disposizioni di legge, il Consorzio ha modificato la propria denominazione prima in “Consorzio Tutela Denominazione Frascati” e poi nell’attuale “Consorzio Tutela Denominazioni Vini Frascati”, a seguito dell’ottenimento della DOCG nel 2011 da parte del Frascati Superiore e del Cannellino di Frascati, prima di allora tipologie comprese nella Denominazione di Origine Controllata Frascati, Doc istituita nel 1966, tra le prime quattro in Italia.