Chi mi conosce sa che non
amo gli spumanti, metodo martinotti, soprattutto se extra dry. Motivo? Spesso
la “dolcezza” di questi vini che li rende quasi stucchevoli.
Ritorno in Umbria, a Decugnano dei Barbi, tra certezze e novità!
Sono tornato a Decugnano dei Barbi dopo sette anni e, rispetto alla mia ultima visita, che trovate descritta QUI, qualcosa purtroppo è cambiato visto che Enzo Barbi è rimasto solo alla guida dell’azienda visto che suo papà Claudio, nel 2019, è venuto a mancare. Altri aspetti invece, come ho potuto appurare nuovamente di persona, sono e rimarranno sempre immutati come, ad esempio, la determinazione della famiglia Barbi nell’essere un punto di riferimento per la produzione dell’Orvieto Classico Doc, dell’Orvieto Classico Muffa Nobile Doc, del Metodo Classico e di IGT Umbria bianchi e rossi.
Benvenuti in Umbria, a pochi chilometri dalla splendida Orvieto, più precisamente in Località Fossatello di Corbara, al confine con Toscana e Lazio, dove Decugnano dei Barbi sorge a 350 metri s.l.m., su terreni di epoca pliocenica, caratterizzati da sabbie gialle e conchiglie fossili visto che un tempo questo territorio non era altro che un fondale marino.
L’azienda si estende su 56 ettari di cui 32 vitati ricompresi nella DOC Orvieto. Le varietà coltivate sono: Grechetto, Procanico, Vermentino, Verdello, Chardonnay, Sauvignon blanc e Semillon per le uve a bacca bianca; Sangiovese, Montepulciano, Syrah, Cabernet Sauvignon, Merlot e Pinot Nero per quelle a bacca rossa. In vigna, da anni, non si utilizzano pesticidi, anti-botritici, diserbanti e concimi chimici ed è iniziata la conversione all’agricoltura biologica che terminerà nel 2024.
La storia dei Barbi, in terra umbra, inizia alla fine degli anni '60 del secolo scorso quando il nonno di Enzo, che a quei tempi comprava e vendeva vino per il mercato della Lombardia, decise di acquistare per suo figlio Claudio (papà di Enzo) un pezzo di terreno nell'orvietano che in quel periodo era molto di moda. "Mio papà spesso di scontrava con mio nonno sul tema della qualità del vino così" - mi spiega Enzo sorridendo - "acquistargli tre ettari di terreno ad Orvieto ha significato lasciargli produrre il vino come voleva lui lasciando al tempo stesso in pace mio nonno che poteva proseguire il suo lavoro senza troppe scocciature!!". Decugnano ad inizi del 1970 era in vendita e la famiglia Barbi non c'ha pensato due volte ad acquistare la tenuta, a quel tempo in miseria, non solo per la bellezza del posto ma, soprattutto, per il terreno che, rispetto alla zona sud dell'orvietano, non è di tipo tufaceo ma, come abbiamo scritto in precedenza, di carattere marnoso e argilloso e ricco di fossili di ostriche e conchiglie di epoca pliocenica. "Sai Andrea" - commenta Enzo - "mio madre è amante dello Chablis e questa terra ricorda molto quel particolare terroir francese"
Era il 1973 quando Claudio Barbi acquistò il podere piantando, in sequenza, i vitigni storici dell'Orvieto Classico (trebbiano, malvasia e grechetto) e alcune piante di sangiovese e canaiolo iniziando un'intensa fase di sperimentazione, che riguardò anche la spumantizzazione delle uve dell'Orvieto, che prese forma nel 1978 quando comparvero sul mercato tre vini: il Decugnano bianco, il Decugnano rosso ed il primo metodo classico prodotto in terra umbra. Otto anni dopo, nel 1981, l'azienda propose sul mercato prima bottiglia italiana di vino da uve botrizzate: Pourriture Noble. Nessuno fino a quel momento si era accorto che la Botrytis Cinerea “attaccava” anche i vigneti di alcune zone dell'Orvietano.
Girando per l’azienda mi accorgo che, rispetto a sette anni fa, la cantina di vinificazione è rimasta più o meno la stessa ovvero popolata da vasche di fermentazione, tutte in acciaio, destinate ognuna ad uno specifico vigneto. L’unica novità vera in questo contesto è che, rispetto alla ultima visita, ora la supervisione enologica è seguita Riccardo Cotarella.
Metodo Classico “Brut” 2016: da uve chardonnay e pinot nero nasce questo metodo classico la cui seconda fermentazione è avvenuta in grotta dove le bottiglie sono rimaste ad una temperatura costante di 13°C per 42 mesi. La sboccatura del primo lotto è avvenuta a fine Ottobre 2020. Lo spumante, solcato da persistenti catenelle di carbonica, è caratterizzato dal contrappunto fra soavi note fruttate di pesca gialle e mela golden, gelsomino e persistenti richiami iodati. Strutturato con sapidità ben garbata e finale strutturato decisamente sorretto dall’effervescenza che richiama continuamento l’assaggio.
InvecchiatIGP: Capitoni - Orcia Doc “Frasi” 2006
di Lorenzo Colombo
UN MILLESIMO: UNA FRASE
“CIO’ CHE MIGLIORE E’,
CIO’ CHE MIGLIORE SARA’,
…SCELGO.”
E’ questa la “frase” riportata in etichetta per il vino del millesimo 2006. Ogni anno infatti Marco Capitoni riporta una diversa frase sull’etichetta del suo vino più conosciuto e famoso, l’Orcia Doc Frasi, prodotto con 90% di uve Sangiovese, più Canaiolo ed una piccola parte di Colorino, vino che fermenta in acciaio e s’affina per due anni in botti da 33 ettolitri.
Dalla capsula si scorge qualche segno di colatura, infatti fatica a staccarsi dal collo della bottiglia, la superficie del tappo ci pone qualche dubbio sulla tenuta del vino, dubbio confermato quando estraiamo il sughero, imbevuto di vino per buona parte della sua lunghezza.
E’ quindi arrivato il momento dell’assaggio!
Il colore è granato profondo e compatto, l’unghia tende all’aranciato, una corretta definizione potrebbe essere “color prugna cotta”. Mediamente intenso al naso, ampio, complesso e delicato, si coglie il sottobosco, con note d’humus e di foglie bagnate, il tabacco dolce, il frutto scuro (ciliegia e prugna matura) venato da speziature dolci, le note balsamiche e gli accenni di cuoio.
La famiglia di Marco è sempre stata dedita all’agricoltura, nei 50 ettari del loro Podere Sedime si coltivava grano, seminativi, oltre ad avere oliveti e vigneti. Fu Marco, a metà degli anni Novanta a sviluppare la parte vitivinicola e ad imbottigliare il primo vino nel 2001, ora gli ettari vitati sono sei, per una produzione di 20.000 bottiglie/anno delle quali circa 4.000 di Frasi.
Vigne |
Planeta - Etna Bianco Doc 2017
di Lorenzo Colombo
Da uve Carricante allevate a 700 metri d’altitudine sul versante nord dell’Etna, su suoli costituiti da sabbie laviche, nasce questo vino strutturato e morbido, connotato da sentori di frutta gialla matura, note tropicali ed accenni idrocarburici.
La vinificazione prevede che una piccola parte del mosto fermenti in tonneaux.
C’è il Vermouth e poi c’è il Vermouth di Torino IG
di Lorenzo Colombo
Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto ministeriale 1826 del 22 marzo 2017, il Vermouth di Torino viene riconosciuto come Indicazione Geografica, è questo l’ultimo atto di un lungo percorso volto al riconoscimento dell’unicità di questo prodotto. La prima normativa riguardante il Vermouth è datata 1933 ed andava a stabilire la sua gradazione alcolica minima, il suo tenore zuccherino e la percentuale in volume del vino base e delle sostanze aggiunte.
I produttori italiani si riunirono quindi in un tavolo comune, ad Asti e grazie anche al sostegno della Federvini si arrivò alla legge italiana inviata quindi per la ratifica alla Commissione Europea per giungere infine al riconoscimento dell’Indicazione geografica del Vermouth di Torino.
Nel 2017 nasce quindi l’Istituto del Vermouth di Torino e due anni dopo viene costituito il Consorzio del Vermouth di Torino.
Il disciplinare di produzione del Vermouth di Torino prevede quattro tipologie di prodotto, basate sul colore (Bianco, Ambrato, Rosato o Rosso), altra distinzione tra i prodotti è data dal suo grado di dolcezza che presenta tre livelli: Extra Dry (meno di 30 g/l di zucchero, Dry (meno di 50 g/l) e dolce, riservato ai Vermouth con un tenore zuccherino d’oltre 130 g/l. La sua gradazione alcolica dev’essere compresa tra il 16% ed il 22% vol., è inoltre prevista la tipologia Superiore che prevede l’utilizzo di almeno il 50% di vino prodotto in Piemonte, come pure prodotte in regione debbono essere le sostanze aromatizzanti, per questa tipologia la gradazione minima sale al 17% vol.
E’ quindi seguita una degustazione guidata (a bottiglie coperte) della principali tipologie di Vermouth di Torino spiegandone caratteristiche ed utilizzo, sono così stati presentati un Vermouth Dry, uno Bianco, uno Ambrato ed uno Rosso. Questa degustazione è stata condotta da un esperto di mixology e questo c’è un poco dispiaciuto perché avremmo preferito che fosse data maggior importanza al Vermouth di Torino in quanto tale, e non come ingrediente (seppur basilare ed importante) di una bevanda miscelata.
Bordiga - Vermouth di Torino Bianco: dal naso intenso, speziato ed elegante; intenso e morbido alla bocca con sentori piccanti che rimandano nettamente allo zenzero, lunga la sua persistenza.
Drapò – Vermouth di Torino Rosato: discretamente intenso al naso, agrumato con sentori di scorza d’arancio e leggeri accenni di spezie dolci; fresco alla bocca dove si ripropongono le note agrumate che rimandano al pompelmo, lunga la persistenza.
Del Professore - Classico Vermouth di Torino Ambrato: dal color giallo-dorato luminoso, intenso ed elegante al naso dove si colgono sentori di radici e d’erbe aromatiche; fresco ed agrumato alla bocca, con accenni piccanti di zenzero e lunga persistenza.
Tosti 1820 – Taurinorum Vermouth di Torino Superiore Ambrato: color ambrato luminoso, discretamente intenso al naso dove si percepiscono sentori di caramella all’orzo; intenso alla bocca, di nuovo si coglie la caramella all’orzo oltre a sentori di radici dolci e di cannella, buona la sua persistenza.
Peliti’s - Vermouth di Torino Rosso: color granato, mediamente intenso al naso dove presenta leggere note di radici e corteccia; succoso e piacevolmente amaricante al palato, caramella al rabarbaro.
Arudi - Vermouth di Torino Rosso: color granato luminoso, Intenso al naso, con sentori di radice di genziana e rabarbaro; netti sentori di radici alla bocca (sembra un amaro), lunga la sua persistenza.
Drapò – Tuvè Vermouth di Torino Rosso: color granato, intenso e balsamico al naso dove cogliamo spezie dolci, cannella e noce moscata; di buona struttura, leggermente piccante (pepe), chiude su sentori di rabarbaro.
InvecchiatIGP: Col Vetoraz - Valdobbiadene Brut DOCG 2010
di Stefano Tesi
Le bollicine disperse in qualche angolo della cantina sono un classico per chiunque si diletti in cose di vino. E ogni volta che si ritrova qualche “giacimento”, la reazione è sempre la stessa. Duplice. La prima è: “accidenti, non mi ricordavo per niente di questa bottiglia, come è finita qui? Sennò l’avrei bevuta prima”. La seconda, invece, è più drastica: “sarà ancora buona?”.
Ovviamente, non resta che provare.
Quando ho rimosso la capsula e la gabbia di questo Col Vetoraz Valdobbiadene Brut DOCG 2010 (fatto in autoclave, con 8% di residuo zuccherino) e ho messo mano al tappo, qualche timore in effetti l’ho avuto: diciamo che appariva piuttosto stagionato, con tutte le potenziali conseguenze.
Ero curiosissimo di provare le sensazioni olfattive.
Le attese note di mela, frutti bianchi e agrumi hanno lasciato il posto a una lenta sequenza di miele di acacia, toffees e datteri immersa in una diffusa atmosfera di incenso, di cera e – per chi ha presenti certi ambienti – di sacrestia.
Casale dello Sparviero - Chianti Classico DOCG 2019
di Stefano Tesi
In quest’afoso luglio, se bevuto appena più fresco si fa dissetante e mantiene tutta la sua invitante fragranza, senza perdere nulla dell’agile robustezza.
A Volterra, alla scoperta dei vini di Monterosola!
di Stefano Tesi
Chi fa questo mestiere non deve mai fermarsi alle apparenze, anche se a volte queste sembrano messe lì per non farti guardare oltre. Non è certamente il caso di Monterosola, l’azienda volterrana che sono riuscito a visitare qualche settimana fa dopo infiniti tira e molla pandemici.
Bene anche l’Indomito 2016, Toscana IGT al 75% di Syrah e al 25% di Cabernet Sauvignon, vino molto centrato e compatto, elegante e piacevole al naso, con una bocca opulenta, goduriosa, importante ma non – fondamentale! - noiosa nè prevedibile.
Ci sono piaciuti un po’ meno, per la mera questione stilistica legata all’uso massiccio del legno, il Corpo Notte 2016, Toscana IGT al 70% di Sangiovese e al 30% di Cabernet Sauvignon, e il Canto della Civetta, Toscana IGT Merlot al 100%.
Merita invece di essere atteso il Crescendo 2016, Toscana IGT al 100% Sangiovese che, sebbene per impostazione e struttura ricalchi e forse perfino superi i due precedenti, ha le qualità per ingentilirsi e mettere a freno certi eccessi.
Decisamente più agili i bianchi.
Il Cassero 2019, IGT Toscana al 100% di Vermentino, ha un bel naso pulito e varietale, a tratti quasi pungente, mentre in bocca è salato, molto netto, solido e piacevole.
Più evoluto e complesso il Per Mare 2018, Toscana IGT al 100% Viognier: un oro limpidissimo e brillante per un naso delicato, appena metallico, accenni di pietra focaia e olio minerale, mentre in bocca ha un lungo finale amarognolo.
Sullo stesso livello si colloca il Primo Passo 2018, Toscana IGT al 40% Grechetto, al 40% Incrocio Manzoni e al 20% Viognier, con un naso elegante e asciutto ma discretamente fruttato, mentre al sorso rivela grande lunghezza, bella acidità e una sapidità che sconfina nell’amarognolo.
Chi passa da Volterra ci faccia un pensierino: si può fermarsi, degustare, visitare ed acquistare direttamente.
InvecchiatIGP: Tenuta San Francesco - Costa d'Amalfi Bianco DOC "Per Eva" 2011
di Luciano Pignataro
Questo bianco nasce a Tramonti, l'unico comune della Costa d'Amalfi che non ha sbocco al mare ma che costituisce il retroterra agricolo ricco di biodiversità di questo meraviglioso territorio. Non è famoso come il Fiorduva di Marisa Cuomo ma tra gli appassionati è ben conosciuto per la sua finezza e la sua eleganza.
dove si allevano la falanghina, la pepella e la ginestra che compongono il vino è uno dei punti più alti della Costiera, un tratto battuto dai venti di mare e di terra che mantengono puliti i grappoli. Fatte queste premesse, aggiungiamo che si tratta di una vinificazione semplice, in acciaio, con breve sosta sulle fecce, da una selezione dei migliori grappoli.
Ed è così che il Per Eva rivela una grande energia da giovane, ma con il tempo, in questo caso dieci anni, si rappresenta con
una maturità profonda al naso e al palato ed una grande complessità in grado di competere con qualsiasi altro vino bianco di questa età.
Frutta, note fumè e di idrocarburi all'olfatto, grande spinta fresca, ricca di energia, al palato. Il sorso è lungo, piacevole, è un vino che potrebbe entrare come pirata in qualsiasi batteria facendo bella figura. La 2011, ricorderete, è stata annata molto calda a partire da Ferragosto, quando l'estate sinora fresca è divenuta torrida per altri 30 giorni. questo caldo ha fatto benissimo alla maturazione di zone fredde come la frazione Ponte dove si trova Vigna dei Preti.
In conclusione: invitiamo severamente gli appassionati a conservare le bottiglie di "Per Eva" e a iniziarle a stappare non prima dei sei, sette anni di vita come testimoniano ripetute esperienze sul campo.
Lungarotti - Torgiano Rosso DOC "Rubesco" 2010
di Luciano Pignataro
Una vecchia magnum sepolta da altre ha bussato nella porta della mia memoria per farsi bere.
La Masserie - Sensus Pallagrello 2008
di Luciano Pignataro
Quanto vive il Pallagrello Nero? Beh, almeno quanto l’Aglianico, sebbene abbiamo uno storico che non va oltre il 1998, primo anno di vinificazione dell’azienda Vestini Campagnano, quando Manuela Piancastelli, il marito Peppe Mancini e l’avvocato Amedeo Barletta iniziarono questa avventura con il supporto di Luigi Moio.
Certo dopo i dieci anni è ancora bello pimpante, come abbiamo avuto di accertare con questa magnum del 2008 di una piccola azienda, La Masserie, adesso condotta da Sara Carusone.
Le cantine, si sa, sono un po’ come le biblioteche, soprattutto quelle di campagna dove bottiglie vanno su bottiglie non sempre con un ordine preciso. Proprio durante un repulisti generale ho pensato che fosse arrivato il momento di aprire il Sensus 2008 de La Masserie in magnum per abbinarlo ad un bel ruoto di pasta alla siciliana al forno. Il tema dell’invecchiamento è quello che più mi affascina nel mondo del vino: quando aprire una bottiglia? E’ giusto averle subito pronte o, piuttosto, il bello è capire quando l’evoluzione è allo zenith per stapparla. Solo l’esperienza ce lo può dire con chiarezza, ma nel caso del Pallagrello, appunto, non abbiamo un grande storico e si procede a tentativi. Siamo abbastanza sicuri della sua longevità per la vena acida prepotente, i tannini, l’alcol che lo hanno fatto confondere con l’aglianico per lungo tempo nonostante il grappolo piuttosto spargolo.
Rispetto all'"Aglianico", il "Pallagrello nero" presenta tutte le fasi fenologiche anticipate di circa 7 giorni. Infatti, il germogliamento avviene tra la prima e la seconda decade di aprile; la fioritura è a cavallo tra maggio e giugno; l'invaiatura cade tra l'inizio e il 20 di agosto, mentre la vendemmia va programmata per la prima decade di ottobre.
Gli studi condotti da Antonella Monaco evidenziano che il Pallagrello mostra una produttività maggiore rispetto all’Aglianico, vitigno utilizzato nella sperimentazione come varietà di riferimento. Infatti, la produzione unitaria e il peso medio del grappolo sono stati sensibilmente più elevati per il Pallagrello nero rispetto all'Aglianico (6.14 kg/pianta contro 3.34 kg/pianta per la produzione; 251,2 g. e 171 g per il peso del grappolo). Maggiore è anche il vigore vegetativo, come risulta dalla valutazione della quantità di legno di potatura invernale (1.37 kg/pianta contro 1.02 kg/pianta per il legno). Di questa uva ci sono al momento poche tracce storiche, e aspettiamo con ansia il prossimo libro di Manuela Piancastelli sul tema, sappiamo che Ferdinando d Borbone lo aveva inserito, insieme al Pallagrello Bianco, nella famosa Vigna del Ventaglio voluta dalla casa reale, sempre attenta alla viticultura e all’agricoltura, con le varietà più diffuse, ciascuna delle quali costituiva un filare. Oggi è diffusa soprattutto in provincia di Caserta, principalmente nei comuni di Alife, Alvignano, Caiazzo e Castel Campagnano dove era chiamata Coda di Volpe nera a causa della forma del grappolo.
Come speso capita in campagna, il successo è imitato e dopo quello della Vestini Campagnano, soprattutto dopo i successi di Terre del Principe fondata da Manuela Piancastelli con Peppe Mancini sempre sostenuti da Luigi Moio, molti hanno cominciato ad imbottigliarlo in purezza con buoni risultati. Si è trattato di una vera e propria piccola rivoluzione in questo territorio incontaminato che ha segnato un ulteriore passo in avanti della Campania verso la scelta di usare solo vitigni autoctoni, strategia culturale e commerciale che si è rivelata vincente a questa regione perché ha potuto surfare l’onda italiana nonostante le sue piccole dimensioni produttive.
I ritardi di organizzazione e di cooperazione fra le aziende non hanno favorito l’espandersi della fama di questa uva che resta però una chicca interessante per tutti gli appassionati proprio per le caratteristiche del vino che ne fanno un rosso rustico, di corpo, gastronomico, piacevole.
Proprio come questa vecchia magnum, in cui i tannini sono stati levigati dal tempo presentando un naso ricco di frutta ancora fresca in un cornice leggermente fumè, al palato una freschezza in buon equilibrio anche grazie al rapporto fra frutto e legno molto ben giocato.
InvecchiatIGP: Dorigati - Teroldego Rotaliano Diedri 2003
di Carlo Macchi
Il Teroldego Rotaliano è uno dei miei vini del cuore e questo di Dorigati è sempre stato tra i preferiti perché riesce a miscelare potenza con rotondità e perfetto uso del legno. Non è facile fare un Teroldego Rotaliano (scusate se insisto sul termine “Rotaliano” ma quelli fatti in altre zone, anche vicine, sono diversi) perché devi modellare e mixare la belluina presenza di antociani con l’atavica scarsità di tannini, riuscendo a portare a maturazione un vino che, anche a causa di pH quasi “arrendevoli” (3.70- 3.80) rischia di nascere piatto oppure con tannini verdi.
Paolo Dorigati |
Iscriviti a:
Post (Atom)