Il Morellino di Scansano protagonista a "Vinellando" 2024


di Stefano Tesi

Tirando le somme della 23° edizione di "Vinellando", l'evento-concorso dedicato al Morellino di Scansano che ogni terzo weekend di agosto si organizza a Magliano in Toscana, la prima domanda che verrebbe da farsi è: perché, su centinaia di produttori, solo qualche decina decide di mettersi in gioco partecipando a questo pur consolidato appuntamento pubblico (definito dagli stessi organizzatori “nazionalpopolare, ma di qualità”)?


Le risposte possono e potrebbero essere tante. E tutte legittime: sovraffollamento delle manifestazioni legate al vino, calendario incompatibile con altri impegni, esaurimento del budget, periodo feriale, scarsa fiducia nel potenziale promozionale dell’evento in parola o in questo tipo di eventi in generale, aspettative ed esigenze diverse rispetto alla tipologia di pubblico presente, questioni diplomatiche o politiche interne alla denominazione, strategia aziendali o chissà cos’altro.


Io, però, da presidente (ahimè, altrettanto “storico”) della giuria che da sempre sovraintende al momento-clou di Vinellando, ossia il concorso per “il miglior Morellino” e per il “Morellino più tipico” (quest’anno era di scena la vendemmia 2022), mi sono fatto una domanda parallela. E l’ho espressa anche pubblicamente, durante la premiazione. Chiedendomi: cosa ha spinto invece 23 produttori a iscrivere il proprio vino al contest, insomma a mettersi in gioco, in gara, diciamo pure a esporsi, in una circostanza giocata in casa, in un contesto familiare e pertanto, come tale, anche un po’ insidioso? L'ho trovato un gesto di coraggio niente affatto scontato, a ben pensarci. E a cui va dato il giusto riconoscimento.

Giuria

La risposta, o meglio le risposte le ho in buona parte trovate già negli assaggi. Tutti svoltisi ovviamente alla cieca, e sotto il vigile occhio di un notaio, dal sottoscritto e dai colleghi della giuria: Filippo Bartolotta, Aldo Fiordelli, Francesca Granelli, Richard Baudains e Riccardo Margheri. Una scelta, quella di un panel giudicante composto esclusivamente da critici, alla quale non ho contribuito direttamente, ma che ho condiviso, perché garante, rispetto al passato, di un’uniformità di metodo – condivisibile o meno che sia – capace di dare indicazioni coerenti. Le stesse indicazioni che, ed ecco la prima delle risposte, i vignaioli in concorso cercavano esplicitamente di ottenere per capire se e quanto la strada da loro intrapresa sia in grado di incontrare il gusto della stampa, quali ne siano invece i punti deboli, su quali le leve puntare per riscuotere riscontri positivi su guide e giornali. L’obbiettivo può apparire ovvio, ma non lo è affatto: primo, perché il criterio di degustazione dei giornalisti è diverso da quello di altre e pur qualificatissime categorie di assaggiatori. Secondo perché, al di là del risultato finale, era proprio l’approccio dei giornalisti ai vini, nel loro complesso e nei dettagli stilistici o tecnici, che ai vignaioli interessava conoscere. Mettendo a fuoco specificità che, in una giuria mista di professionalità diverse come in passato, rischiava di vedersi annullata per compensazione. E quindi di non poter dare indicazioni precise.
Intendiamoci bene: 23 campioni, qualunque sia la composizione di una giuria, non possono certo rappresentare l’intera denominazione e quindi offrire prove di alcunchè sulla medesima. Quindi nessuna velleità in tal senso. Ma alcuni indizi di tendenza forse, sì, li possono dare.


Anche quest’edizione di Vinellando non ha infatti mancato di fornirli: dai calici sono emerse, ad esempio, minori estrazioni, più freschezza, più agilità e al tempo stesso, in modo a volte contraddittorio, il tentativo da parte di alcune aziende (non sempre riuscito, ma questo fa parte del gioco) di mantenere uno stile e una riconoscibilità propri, a volte anche a costo di inseguire modelli meno attuali, ma commercialmente più affidabili nei confronti della clientela consolidata. Il risultato finale è stato, nelle differenze a volte anche marcate tra le diverse etichette, la percezione di un trend condiviso e di un ulteriore rialzo della qualità media rispetto alle precedenti edizioni. Resa evidente non solo dai giudizi individuali, ma dalla classifica finale, dagli scarsi scarti tra i punteggi di noi giurati e dalla discussione di confronto sui campioni che - altro importante elemento di novità rispetto al passato – si è deciso di animare tra una batteria e l’altra.
Non credo sia un caso se, alla fine, si è riscontrata una convergenza piuttosto decisa verso i nomi dei vincitori: al primo posto come “Miglior Morellino 2022” si è piazzato il Podere Poggio Bestiale, al secondo posto la Fattoria dei Barbi, al terzo Il Forteto della soc. agr. Le Rogaie.


Ancora meno casuale il fatto che la palma di “Morellino più tipico” sia andata allo stesso vino vincitore, a riprova che, almeno per i sei degustatori in campo, l'idea della qualità e quella della "tipicità" (concetto volutamente sfumato e che di solito dà il "sale" al confronto) coincidono o quasi. Alla luce di questo, si torna alla domanda iniziale: perché, davanti a un'occasione di confronto come quella offerta da Vinellando e a prescindere dall'intrinseco valore promozionale della manifestazione, su centinaia di produttori di Morellino di Scansano, solo qualche decina decide di mettersi in gioco partecipando a un concorso organizzato sul territorio e quindi, in qualche modo, pure identitario?

Il dibattito è aperto: battete un colpo!

InvecchiatIGP - Paternoster: Aglianico del Vulture "Rotondo" 2008


di Luciano Pignataro

Non è certo una novità la predisposizione all’invecchiamento sano e gioioso dell’Aglianico in generale e del Vulture in particolare. Quando si lasciano dormire le bottiglie al riparo della luce, stese e a temperatura giusta non c’è bottiglia ben eseguita che possa ossidarsi. Naturalmente molto dipende dall’annata e dal protocollo di lavorazione, ma in generale possiamo dire che fra acidità e alcol e davvero difficile perdersi grandi bevute. Spinto da non so quale impulso infanticida ho allungato la mano verso la magnum di Rotondo di Paternoster, anno 1998, oltre un quarto di secolo fa. Il motivo che mi spinge a parlare di questo vino è il fatto che questa etichetta della storica cantina di Barile, che ebbi la fortuna di visitare quando ancora aveva la vecchia sede nel cuore del paese arbëreshe a quota 600 metri, parte proprio con questo millesimo spettacolare in Vulture.


Perché la decisione di affiancare al Don Anselmo, etichetta portabandiera dell’azienda un secondo vino? Bisogna ritornare con la mente a 26 anni fa, ossia alla fine degli anni ’80 quando l’uso della barrique, sotto la spinta di Parker nel mondo e di Veronelli in Italia, conobbe uno sviluppo incredibile. In pratica, nonostante la resilienza di alcuni produttori tradizionali che usavano botti grandi, non c’era cantina che non avesse il 225 litri da esibire al visitatore con la stessa foga con la quale oggi vengono nascoste in un doppio fondo sostituite dall’anfora o dagli antichi tonneaux. Moda che va, moda che viene, fatto sta che Paternoster decise di produrre una etichetta dall’uva di una tenuta appena acquisita fuori il paese dove poi sarebbe sorta la moferna cantina, utilizzando appunto la barrique per l’aglianico chiamando la bottiglia Rotondo. Fu, manco a dirlo, il primo tre bicchieri della Basilicata dopo anni di due bicchieri al Don Anselmo.


All’epoca la Guida Gambero-SlowFood era un vero Ipse dixit nel mondo del vino capace di orientare il mercato e svuotare effettivamente le cantine. I tradizionalisti continuarono a preferire il Don Anselmo ma fu il Rotondo il vino emblematico del rinnovamento del Vulture sino all’arrivo di Titolo di Elena Fucci a partire dal 2004.
A distanza di tanti anni cosa possiamo dire. Beh, in tutta sincerità che la scelta della Guida Ipse dixit era forse omolgante ai mantra dell’epoca ma che non era sbagliata: il Rotondo 1998, annata che Veronelli definì problematica in cantina nonostante i facili entusiasti da vendemmia del secolo che allora si portavano quanto le barrique, si è espresso con una perfezione didattica assoluta, senza sbavature, senza cedimenti, senza residui, con un naso maturo in cui frutto e legno appaiono assolutamente ben integrati e un palato bellissimo, elegante, fine, con una chiusura lunghissima e precisa che invoglia a ripetere il sorso. Non c’è stanchezza bnel berlo nonostante l’alcol e ben si è accompagnato ad ogni ben di Dio, da un erborinato cilentano di capra alla milza imbottita, dal cotechino irpino alla pasta e ceci e ai pecorini stagionati.


Una grande bevuta che ci ricorda una stagione di grande entusiasmo anche al Sud, atteggiamento ottimistico che ha avuto le sue difficoltà ma anche le sue conferme. Un vino assolutamente identitario, che conferma le potenzialità in credibili di questa regione vulcanica, dello stesso territorio di Barile, il paese che ha il lato nord-est della sua collina trasformato in una gruviera per le oltre cento cantine scavate nel corso dei secoli e che oggi compongono il cammino delle Sheshë.
Un territorio onirico, silente, sorvegliato dalle sette bocche del vulcano che esplose in modo devastante 700mila anni fa e dai castelli di Lagopesole e Menfi costruiti dal grande Federico II, un monarca decisamente più moderno e aperto mentalmente della nostra attuale classe dirigente.

Gravner - Rosso Rujno 2006


di Luciano Pignataro

Uno dei vini italiani mitologici in magnum con uve merlot e cabernet sauvignon di una vecchia vigna. La ricchezza al naso e la pulizia al palato hanno un valore assoluto, insuperabile. 


Ma quello che colpisce 
sono la modernità e la bevibilità di questo vino sacro, un privilegio averlo provato grazie a Simone Padoan.

Antonella Lombardo e i vini calabresi di Bianco


di Luciano Pignataro

Antonella Lombardo faceva l’avvocato a Milano quando, nel 2019, decise di invertire la direzione di marcia della propria vita tornando a Bianco, in Calabria, per fare vino. Uno dei numerosi casi di abbandono della grande città che non aveva retto allo stress dell’emergenza rivelando la propria debolezza strutturale con le immagini della grande fuga alle stazioni di migliaia di giovani del Sud.
Bianco è nella Locride, precisamente lungo la Costa dei Gelsomini e le tracce della cultura del vino risalgono sicuramente ai Greci che sbarcarono nell’VII secolo a Capo Zefirio. Fu così che la Calabria divenne una piattaforma di lancio dei vitigni coltivati dai coloni e la traccia di questa storia è nell’incredibile numero di varietà di uva, oltre cento, che ne fanno ancora oggi la regione italiana più ricca di patrimonio genetico.

Antonella Lombardo -  Foto: Reggiotoday

Le tracce di questa storia sono nelle centinaia di palmenti sparsi sulle colline della costa, circa 700 tra Bruzzano, Casignana e Ferruzzano dove ne sono stati catalogati ben 160: in pratica ciascuna famiglia lavorava in propri l’uva e aveva il suo personale, un po’ come noi oggi abbiamo in tutte le case il frigorifero! Il nome Bianco viene dai calanchi argillosi che costituiscono, insieme ai venti dello Jonio e dell’Aspromonte, al clima e alla luminosità, le condizione pedoclimatiche favorevoli alla viticoltura la cui importanza viene sottolineata dalla dop Greco di Bianco. Uva è in realtà una Malvasia chiamata Greco, termine usato in tutto il Sud per uve molto differenti fra loro.

Bianco -  Calabria

L’arrivo di Antonella e l’incontro con l’enologo toscano Emiliano Falsini hanno acceso la miccia del cambiamento, un po’ a Cirò una quindicina di anni fa o come sta avvenendo in provincia di Cosenza sul Pollino e lungo nella provincia di Reggio Calabria dalla Costa Viola a Bivonci. Emiliano Falsini sta lavorando molto al Sud, citiamo i vini Fontanavecchia nel Sannio, Francesca Fiasco negli Alburni in Cilento, Girolamo Grieco sull’Etna. Interpreta il vino, soprattutto i rossi, in maniera decisamente moderna, a sottrarre piuttosto che aggiungere per usare due termini in voga della critica gastronomica. Rossi bevibili ma non banali, direi essenziali.

Emiliano Falsini

Ed è quello che riesce ad ottenere anche in questo luogo, dai circa cinque ettari di vigna di Antonella Lombardo che deve combattere con rese basse, bassissime: a stento raggiunge le 15mila bottiglie perché non si superano i 20 quintali per ettaro negli ultimi anni soprattutto per la carenza di acqua che stressa le viti ormai dal lontano 2003, prima vera annata calda italiana con i suoi 40 giorni pazzeschi che allora sembravano una eccezione e che adesso sono la norma. I vini di Antonella hanno personalità, carattere, possono piacere o meno ma sicuramente si ricordano. Sono ottenuti da uve allevate in regime biologico dove si pratica solo sovescio. La fermentazione viene sollecitata da lieviti indigeni. Noi li abbiamo provati in cantina, ricavata dai capannoni di una cooperativa vitivinicola che ha chiuso i battenti tanti anni fa.

Charà Rosato Nerello Mascalese IGT Calabria 2023 

Siamo di fronte alla Sicilia e dobbiamo dire che di Nerello qui ne abbiamo tanto con grandi risultati. Il vino viene affinato per cinque mesi sulle fecce. Qui il rosato si esprime alla grande, ricco di personalità, piacevole, sapido.

Cheiras Greco di Bianco DOC 2022

Qui siamo in una tradizione rivisitata come diremmo a tavola, via il caramello e i datteri, avanti con note suadenti di pesca, sentori di macchia mediterranea. Il vino affina sulle proprie fecce per oltre un anno.

Greco Calabria IGT 2022 

La conferma della mia teoria per cui i bianchi andrebbero bevuti tutti almeno dopo due anni dalla vendemmia. Da una sola vigna, Fresco, polposo, lunghissimo e dissetante.


Autoritratto Mantonico Calabria IGT  2022 

Questo vitigno bianco rilanciato da Nicodemo Librandi insieme a Donato Lanati alla fine degli anni ’90 potrebbe giocare un ruolo importante su questo fronte grazie alla incredibili capacità di invecchiamento. Il nome rivela l’ambizione di Antonella di farne un grande vino. Lavorato in acciaio, affina per cinque mesi.

Particella 58 Calabria IGT 2022

Vino certificato biologico, il bianco viene lavorato in acciao dopo una macerazione di 24 ore a freddo. Il risultato è un bianco elegante, di ottimo spessore, decisamente piacevole.


Aoristo Gaglioppo Calabria IGT  2020 

Siamo lontani da Ciro, 202 chilometri sulla famosa 106 jonica che rappresenta uno dei gravi ritardi che abbiamo in Italia. Aqui la mano di Falsini è evidente: il vino è leggero, freschissimo, si aggancia ai grandi rossi dei Cirò Boys e di Librandi (Duca Sanfelice). Affina in legno grande e barrique dopo la fermentazione in acciaio per 15 mesi e poi altri sei in bottiglia prima di essere commercializzato.

Ichò 2020 Calabria IGT rosso

Un vino di vigneto che mette insieme nerello mascalese, gaglioppo e calabrese nero. Lunga macerazione a contatto con le bucce e affinamento in legno grande e barrique per 15 mesi, poi altri sei mesi in bottiglia. Il risultato è un vino scattante, dal frutto piacevole e preciso. Dalle ottime prospettive di invecchiamento.


Ogni vino è un racconto, un sogno, l’espressione di una donna che ama la sua terra in maniera viscerale e che è pronta a sacrificare tutto per portare avanti questo progetto. Antonella ed Emiliano sono una coppia micidiale che ci farà divertire molto, intanto vi dico che questi vini sono antichi e moderni. Non è un ossimoro, perché la radici e il territorio hanno tanto da raccontare, ma l’impostazione segue proprio il gusto moderno del momento, soprattutto sui rossi nei quali si rivela meglio la mano. E bianchi? Se si lascia libera un po’ di acidità senza averne paura ci si può davvero divertire. L’equilibrio non fa per noi!

InvecchiatIGP: San Felice - Vino da Tavola Vigorello 1990


di Carlo Macchi

Narrano le storie chiantigiane che tra la fine degli anni ‘60 e inizio degli ’70 a San Felice, all’ora ancora borgo dove abitavano gli operai dell’azienda e non signori che possono permettersi i costi di un Relais chiantigiano, le cose dal punto di vista enoico non andavano tanto bene: le molte uve rosse (sangiovese in gran parte, ma anche colorino, canaiolo), che mescolate al trebbiano e alla malvasia portavano al vecchio uvaggio per il Chianti, si vendevano male. Forse si sarebbero vendute meglio le uve bianche da sole e così Enzo Morganti, allora fattore e responsabile della cantina pensò, assieme a Giulio Gambelli, di togliere le uve bianche dalle rosse per fare un vino bianco con maggiori possibilità di vendita.


Il loro bianco, assieme a quello di altri che fecero la stessa pensata, venne chiamato Galestro ed ebbe un discreto successo, però le uve rosse senza le bianche dettero risultati incredibili e da quella “pensata al contrario” nacque il Chianti Classico moderno e soprattutto i primi Supertuscan chiantigiani.
Uno dei primi in assoluto, tanto da essere messo temporalmente quasi alla pari col Tignanello, fu il Vigorello la cui prima annata è la 1968. Naturalmente ci sarebbero voluti almeno altri 15 anni per far capire le potenzialità della tipologia denominata Supertuscan, che venne osannata nel mondo e servì a far conoscere il vino toscano.


La 1990, annata di altissima qualità, fu una di quelle nate nel momento migliore e dalle uve migliori. Rispetto ai primi anni il Vigorello aveva cambiato uvaggio, passando nel 1979 dal sangiovese e altre uve autoctone a quello per cui venne conosciuto negli anni d’Oro dei Supertuscan, cioè sangiovese e cabernet sauvignon. Approcciarsi ad una bottiglia del genere non è mai facile, sia per la sua storia che per le aspettative, specie poi se arriva da una vendemmia così importante come la 1990.


Stappo e…bestemmio! Infatti il tappo sa di tappo da fare schifo e l’assaggio successivo sembra essere solo una formalità per confermare ed ampliare il fronte dei peana ai vari dei presenti nel mondo. Invece il dio Bacco, che probabilmente era molto interessato alla bottiglia, fa il miracolo! Non solo il vino non sa di tappo (l’abbiamo finita dopo ore e nessuno dei commensali ce l’ha trovato) ma fin dall’inizio quell’amalgama aromatica che parte dal balsamico, passa per la macchia mediterranea, punta verso note leggermente vegetali, curvando anche su sentori di liquirizia e china, si presenta in perfetta forma.


Il naso è quindi più che a posto e anche il colore, un rubino leggermente scarico è quello che ci aspettavamo. In bocca c’è l’apoteosi: tannicità vellutata, equilibrio, giusta freschezza e corpo importante ci fanno esclamare una serie di “ Ohhhhhhhh” accompagnate da altre esclamazioni positive ma pecorecce che è bene non riportare. Un vino semplicemente superlativo, tra l’altro condiviso con tecnici non toscani che non riuscivano a rendersi conto di come fosse potuto nascere e arrivare fino lì un vino del genere. Se devo dirla tutta, anche io sono rimasto profondamente colpito dalla sua freschezza e assolutà bontà: uno dei vini più buoni che abbia mai bevuto.

Cantina Tramin - Alto Adige Doc Gewürztraminer Epokale 2016


di Carlo Macchi

Il Gewürztraminer senza se e senza ma! Un infinito campo fiorito, un bancone immenso di frutta secca e candita, potenza, armonia e rotondità incredibile al palato. Zucchero residuo?


Si, ma chissene! Se avete la mappa delle miniere di Ridanna Monteneve, dove per 6 anni matura l’Epokale, usatela!!!

Gradis’ciutta, 39 modi di dire Collio


di Carlo Macchi

In una degustazione che copre un periodo di 20 anni, che ti presenta ben 39 vini di tre tipologie diverse (Collio Pinot Grigio, Collio Friulano, Collio Bianco), che parla della storia del Collio e di una cantina che forse non viene percepita per quello che è, c’è il rischio di andare in overbooking enoico, cioè di avere tanti e tali argomenti che qualcuno (anzi più di uno) cannibalizzerà altri. Per provare a minimizzare questo rischio cercherò di essere da una parte schematico e dall’altra eviterò di tediarvi con una presentazione annata per annata, cercando di centrare, con pochi vini, i molti temi di questa degustazione.


Degustazione che Robert Princic, titolare e anima di Gradis’ciutta ha voluto “Per cercare di capire meglio cosa abbiamo fatto e dove stiamo andando”. Per questo ha chiamato attorno al tavolo non tanto giornalisti ma tecnici e personaggi come Giulio Colomba, che nella storia degli ultimi 30 anni dei vini friulani ha avuto un ruolo assolutamente centrale.

19 annate di Pinot Grigio: la sorpresa!

Abbiamo iniziato con il Pinot Grigio, vitigno tanto amato da Robert quanto “poco amato” (eufemismo) dal sottoscritto. Quando ho visto che si andava indietro fino al 2004 sono rimasto sorpreso e, lo ammetto, anche un po’ preoccupato, sempre a causa del mio “non amore” per questo vitigno che, a livello italico, ho visto declinare o come vino semplicissimo da “esportazione” o come prodotto molto (spesso) troppo- concentrato, appesantito da dosi assurde di legno nuovo.


La degustazione era incentrata sul vino base di Robert, il Collio Pinot Grigio, quindi un vino base, non passato in legno, non certamente fatto per essere invecchiato e tantomeno per essere presentato dopo venti anni: abbiamo iniziato con la 2023 per poi andare indietro sino alla 2012 senza saltare un’annata. Poi, saltando 2011, 2008, 2006 e 2005, siamo arrivati sino alla 2004. Le prime annate, diciamo fino alla 2019, posso definirle come annate “di rodaggio”. Oramai è infatti normale che una buona cantina abbia bianchi che si sviluppano bene per 5-6 anni e quindi la diminuzione della componente fruttata e floreale era messa in preventivo, un po’ meno la sua fine “sostituzione” con note minerali. In bocca ogni vino manteneva ottima freschezza. La cosa che mi ha colpito di più è stato un progressivo aumento della complessità dei vini, cosa che è continuata, con alcune logiche variazioni dovute all’annata fino almeno al 2014. Altra cosa da sottolineare in questo secondo gruppo è stato il corpo e l’acidità dei vini, che sembrava quasi aumentare annata dopo annata.


La 2014 però, annata piovosa e difficilissima, è stato il punto di svolta della degustazione, sia per la sua acidità importante che per un naso assolutamente giocato su note di idrocarburo. Punto di svolta perché dalla 2013 fino alla 2004 il filo conduttore è stato la sorpresa, culminata con un 2009 spettacolare (ancora fruttato) giovanissimo e profondo e un 2004 ancora molto presente e dinamico. Tra i commenti durante e dopo l’assaggio voglio riportarvi quello di un tecnico che da circa 40 anni lavora sul Collio “Il Pinot Grigio è stato, praticamente in tutta Italia, “declassato” fin dal vigneto al ruolo di vino semplice facile, immediato. Cloni, forme di allevamento, rese altissime per ettaro, vinificazioni “semplicistiche” hanno snaturato questo vitigno. Gli hanno cambiato i connotati facendo pensare a tutti che il solo suo modo di esprimersi fosse attraverso vini da bere quasi in tempo reale. Questa degustazione ha fatto capire cosa questo vitigno possa dare, semplicemente lasciandolo esprimersi come sa.”


Non solo mi ha trovato d’accordo (con mia sorpresa, ma i vini lo hanno dimostrato) su tutta la linea ma mi ha permesso di rinforzare un mio vecchio concetto e cioè che la forzatura fatta agli inizi degli anni 2000 su tanti vini del Collio (e dei Colli Orientali), proponendo quelli che allora venivano chiamati “Superwhites”, vini iperconcentrati e pieni di legno, ha condotto fuori rotta tanti produttori, portandoli a fare vini muscolari che non erano buoni da bere giovani ma spesso non reggevano nel tempo. Il Pinot Grigio BASE di Robert è la dimostrazione lampante di come un vitigno, semplicemente lasciandolo esprimere, possa in Collio dare grandi risultati, quasi sempre migliori rispetto a berlo nei primi due-tre anni di vita. Bisogna anche dire che una cantina che nel 2004 produceva un Pinot Grigio del genere, andrebbe tenuta in maggiore considerazione e che anche Robert dovrebbe guardarsi allo specchio e vedersi come produttore di vini da anche e soprattutto invecchiamento e non solo da bere giovani.

19 annate di Friulano: la conferma!

Rispetto ai Pinot Grigio abbiamo degustato dalla 2023 fino alla 2015 (proposto anche in versione tappo stelvin) senza interruzioni. Saltando la 2014 abbiamo proseguito senza interruzioni di annate dal 2013 al 2009 per poi chiudere con 2006 e 2005. Se il Pinot Grigio è un vitigno da me “non amato” il Friulano è invece da sempre per me l’uva/vino che rappresenta in pieno la friulanità, il vino che anno dopo anno mi colpisce in degustazione, insomma quello che amo di più.


Assaggiarne 19 annate, a questo punto paragonandole con quelle del Pinot Grigio, mi ha permesso di avere alcune chiare conferme. La prima è che se devo eleggere le annate migliore degli ultimi 20 anni in Collio, dividendo in due il periodo, metto per il periodo 2004-2015 al primo posto la 2009, seguita dalla 2010 e per il secondo la 2019 e la 2016. Altra cosa importantissima è che un livello alto di acidità nelle uve e nei vini non garantisce di fatto una maggiore serbevolezza: in certi territori e per determinati vitigni (vedi i due presi in considerazione) l’importante è il pH e l’equilibrio generale di un prodotto. Detto questo parliamo dei 19 Friulano BASE, partendo dal presupposto che San Floriano del Collio, cioè la zona dove Gradis’ciutta ha i vigneti, è per me terra più profumi che di potenza.


Le prime annate fino alla 2019, non hanno avuto un andamento paragonabile ai Pinot Grigio, dimostrando come questo vitigno sia più sensibile agli andamenti climatici. Dal 2018 questa “sensibilità alle annate” si è trasformata in un’adattabilità alle annate” cioè quelle più calde hanno presentato una gioiosa maturità e quelle più fresche note aromatiche sull’idrocarburo e freschezza importante al palato. Tra tutti voglio eleggere l’accoppiata 2009-2010 come “coup de coer” (come direbbero i francesi) : due vini di grande profondità aromatica, con il 2010 più su note floreali e il 2009 su sentori minerali, enttrambi di incredibile freschezza e pienezza. Mi piace citare anche la rotonda “piacioneria” del 2012, la durezza storica della 2013 (anche a livello italiano), il grande equilibrio della 2016, la finezza della 2018 e la solare pienezza e della 2022. Sarà perché amo questo vino ma un andamento più altalenante rispetto al Pinot Grigio lo spiego con la sua assoluta, autoctona “friulanità”, che lo porta a spiccare maggiormente nelle grandi annate ma comunque ad avere un buon paracadute in quelle meno buone. Lo dico prendendo in considerazione non solo questa degustazione storica ma anche tutte quelle che da quasi 20 anni, faccio per Winesurf. Proprio per questo dico che i produttori del Collio, dei Colli Orientali e dell’Isonzo dovrebbero dare sempre più maggiore spazio a questo vitigno, che ha anche il grande pregio di essere da sempre in sintonia con questa terra, cosa non da poco visto la difficoltà crescente delle recenti vendemmie.

Sette annate di Collio Bianco (friulano, malvasia, ribolla) il tempo è galantuomo!

Il Collio Bianco può avere varie facce, ma quella più “furlana” è certamente composta dall’uvaggio friulano, malvasia, ribolla. Questo è per molti, Robert compreso, un vino “importante” e quindi vinificato con l’uso del legno. Chi mi conosce o magari ha semplicemente letto poche righe sopra sa quanto veda con sospetto l’uso del legno in tanti bianchi e certamente quelli di Robert non fanno eccezione. Abbiamo degustato dal 2019 al 2015, con due innesti “prima e dopo”: la 2021 ancora in affinamento e la 2009.


Quello che mi sento di dire prima di parlare di annate è che se i bianchi friulani hanno bisogno di tempo in questa tipologia ne abbisognano ancor di più, non solo per permettere la legno di essere digerito ma anche e soprattutto per dare modo ai tre vitigni di presentarsi da “soli ma in compagnia”. In altre parole un Collio Bianco giovane è un riassunto di uno scritto che ha bisogno di tempo per presentare al meglio i protagonisti della storia. Protagonisti con caratteristiche diverse che non è bene assemblare e basta, devono stare assieme, conoscersi e presentarsi in coro: un tenore e un basso non possono cantare bene lo stesso pezzo assieme, ma possono interagire perfettamente in un’opera lirica.
Qui non si canta (almeno che non ne beviate una bottiglia intera…) ma il linguaggio del Collio Bianco 2009 (ancora, che grande annata!) è chiaro nonostante un legno ancora presente: freschezza da una parte (ribolla) , aromi fini e complessi dall’altra (malvasia) e giusta grassezza che amalgama il tutto (Friulano) sono interpreti ben definiti di questa “buonissima opera”, che ha una versione 2015 più calda e avvolgente e una 2017 più prorompente ma ancora troppo “amalgamata a se stessa”.

In chiusura

Spero di aver reso nella maniera meno noiosa possibile lo spirito di una degustazione numericamente imponente, estremamente piacevole ma molto complessa per riuscire a trovarvi fili conduttori non scontati. Forse la cosa che non ho fatto notare ma che occorre ribadire è che tutto questo mette in mostra la qualità nel tempo di una cantina che forse non molti considerano di alto livello e che probabilmente anche gli stessi titolari fanno fatica a posizionare tra le migliori del Friuli. 
Infine, credo che diversi produttori friulani, in particolare del Collio, Colli Orientali e Isonzo, abbiano le carte in regola (e le bottiglie in cantina) per organizzare una degustazione del genere. I risultati potrebbero essere migliori o peggiori ma se si vuole tirare su il nome, i prezzi e soprattutto la considerazione dei vini questa è per me la strada giusta, specie se seguita da un numero importante di cantine.

InvecchiatIGP: Cantine I Favati – Fiano di Avellino DOCG “Pietramara” 2003


In questo caldo periodo di vacanze italiane, mentre vi scrivo a Roma sfioriamo i 40° all’ombra, mi è venuto il dubbio se dedicare la rubrica InvecchiatIGP, all’approfondimento di un grande rosso oppure lasciare spazio a qualcosa di più “fresco” e stagionale descrivendo un bianco italico la cui evoluzione mi ha profondamente emozionato. Non ho avuto dubbi, visto la calura estiva, a porre in essere la seconda alternativa e così mi è venuto in mente che qualche mese fa, ospite della FIS di Roma, mia vecchia scuola sommelier, avevo degustato, all’interno di una verticale storica, un grande Fiano di Avellino “Pietramara” 2003 portato in degustazione da Cantine I Favati. L'azienda irpina, nata nel 1996, inizia ad imbottigliare solo 4 anni più tardi grazie alla tenacia di Giancarlo Favati e Rosanna Petrozziello che oggi, assieme al cognato Piersabino e alle figlie Carla e Brigida, gestiscono questa bellissima realtà con il prezioso contributo dell'enologo Vincenzo Mercurio.


Oggi l’azienda conta circa 40 ettari suddivisi tra San Mango, Atripalda, Venticano e Montefredane per ben 9 etichette tra Fiano, Greco, Aglianico (prevalenza zona Taurasi DOCG) per una produzione totale di oltre 100.000 bottiglie.


All’interno di questa gamma di altissimo livello, sicuramente il Fiano di Avellino “Pietramara”, etichetta nera, è il vino bianco più iconico e storico prodotto da questa piccola azienda irpina che proprio nel 2000, a quattro anni dalla sua nascita, ha prodotto la prima annata di questo Fiano di Avellino in appena 3.600 bottiglie. Questo vino, in particolare, proviene da una singola parcella di 5 ettari situata a Contrada “Pietramara”, ad Atripalda, un piccolo “anfiteatro” naturale che si apre da nord-est a nord ovest a circa 450 metri di altezza.


Come scritto in precedenza, all’interno della verticale storica, che ha previsto la degustazione delle annate 2022 - 2021 - 2020 - 2019 - 2018 - 2017 - 2016 - 2013 - 2010 – 2003, è proprio l’ultima quella che mi ha emozionato di più e sapete perché? Risposta semplice, per il motivo che spesso la 2003 viene classificata come annata molto calda in Italia e quindi, di conseguenza, legata a vini SICURAMENTE alcolici, voluminosi e dallo scarso potere evolutivo.



Il Fiano di Avellino “Pietramara” 2003 è protagonista di InvecchiatIGP perché è stato emozionante e sbalorditivo, ciò che molti, in negativo, ipotizzano in teoria, è stato nella pratica demolito grazie ad un vino ancora dinamico, ricco di gioventù, certo avvolgente e strutturato, ma affatto pesante.

Rinelli Vigneti - Cesanese di Affile Dop “Bosco” 2023


Marco Pettinelli e suo figlio Stefano, enologo ed agronomo, coltivano ad Affile una vecchia parcella di Cesanese che hanno recuperato dall’abbandono. 


Ispirandosi a pratiche 100% naturali sia in vigna che in cantina nasce questo Cesanese di Affile che rilancia la denominazione con un rosso viscerale dall’anima Pop.

A Ferragosto beviamo Mirabella e il suo Franciacorta Demetra Senza Solfiti Aggiunti


Mirabella nasce nel lontano 1979 quando Teresio Schiavi, lungimirante enologo, insieme all’amico Giacomo Cavalli, ingegnere e proprietario terriero, posarono la “prima pietra” delle Cantine Mirabella, dal nome del primo vigneto aziendale, nel comune di Paderno Franciacorta all’interno di un’antica filanda dove iniziarono a spumantizzare tremila bottiglie di Franciacorta.



Oggi Mirabella è ancora gestita da Teresio Schiavi, cuore e fondatore dell’azienda, al quale si sono affiancati i suoi due figli Alessandro (enologo e direttore commerciale) ed Alberto (responsabile marketing) che attualmente gestiscono 45 ettari di vigneto, gestito tutto in biologico (certificazione Valoritalia), concentrati nella porzione centro-orientale della Franciacorta ovvero nei comuni di Paderno FC, Passirano, Bornato e Provaglio d’Iseo.

Alberto, Teresio ed Alessandro Schiavi

Siamo particolarmente orgogliosi della nostra vocazione naturale – mi conferma Alberto Schiavi - la Franciacorta è un’area densamente antropizzata, i suoi abitanti vivono a stretto contato con le vigne. Il ricorso a prodotti di origine naturale, unito all’uso di atomizzatori che ne evitano la dispersione - e permettono di utilizzarne solo un terzo - è un segno concreto di sensibilità civica e ambientale”.


L’altro aspetto peculiare di Mirabella è la sua particolare attenzione per il Pinot Bianco che, attualmente, cosa rara per la denominazione, è piantato per il 25% dei vigneti. “Questa uva, da sempre, ci piace moltissimo – sottolinea Schiavi - perché dona freschezza, eleganza, gentilezza, alleggerendo e compensando la possibile pesantezza dell’andamento climatico. E perché è il più italiano dei nostri vitigni. Non facile da allevare, poco redditizio, e perciò abbandonato da molti viticoltori per lungo tempo, da noi invece vive e cresce bene anche grazie all’età delle nostre vigne”.

Panoramica azienda

Tra i tanti ottimi Franciacorta prodotti da Mirabella per questo Ferragosto la mia scelta è caduta sul Demetra Senza Solfiti Aggiunti (100% chardonnay), un Brut Nature (meno di 3 grammi\litro di residuo zuccherino) prodotto dalle vigne storiche del ’79 e nato dall’evoluzione di Elite, nato nel 2008 e primo Franciacorta in assoluto senza addizione di metabisolfito di potassio, antiossidante che può “disturbare” i degustatori più sensibili se presente in grande quantità.


Il vino, che rimane sui lieviti per 24 mesi, si fa decisamente apprezzare per la sua piacevolezza agrumata accompagnata da “piccanti” sensazioni di zenzero e pepe bianco. Freschezza in prima battuta all’assaggio corroborato da cremosa effervescenza che bilancia il tratto sapido ma sempre delicato del vino.


Un Franciacorta assolutamente godibile che noi tutti di Garantito IGP vi consigliamo augurandovi un Buon Ferragosto!! Prosit!

InvecchiatIGP: Leone De Castris - Salice Salentino Donna Lisa Riserva 1995


di Roberto Giuliani

Quando iniziai ad assaggiare i vini della Leone De Castris negli anni ’90, fui subito colpito dalla loro qualità media e dalla decisa impronta espressiva. A questa nota azienda pugliese si deve il primo vino rosato imbottigliato d’Italia (1943), il mitico Five Roses, ottenuto da negroamaro con una piccola aggiunta di malvasia nera.


Approfondendo anno dopo anno la conoscenza di questi vini, dal bianco Messapia a base verdeca, al Messere Andrea, rimasi particolarmente impressionato dalle caratteristiche del Salice Salentino Donna Lisa Riserva, anch’esso a base negroamaro con una quota di malvasia nera; ma quello che non ero ancora pronto a capire era la sua potenziale longevità. Poi ho avuto alcune occasioni di assaggi di annate vecchie, che però riguardavano vini tra i 10 e i 15 anni di vita, pertanto non nego che quando ho aperto questo 1995 sono rimasto esterrefatto.


Un millesimo che sulla carta non rappresentava il top, ma se c’è una cosa che il vino è in grado di fare, è smentire qualsiasi previsione, dimostrando che non è possibile uniformare un giudizio, mai, tanto più in un Paese così eterogeneo come il nostro.

Piernicola Leone de Castris

Così, una volta versato nel calice, ho accostato quasi con timore il naso e… ho avuto la prova incontrovertibile che avevo di fronte poco più che un ragazzo! Lo stupore si è trasformato velocemente in pura emozione, non c’era un solo sentore che potesse indicare un viaggio volto al termine. Il fruttato era ancora vivo e stimolante, la parte terziaria leggera e non dominante, quel piccolo legno che appena messo il vino in commercio si faceva notare, ora era perfettamente integrato e aveva lasciato al vino il compito di raccontarsi.


Al primo sorso l’emozione è cresciuta ulteriormente: tanta freschezza ancora viva, che sosteneva perfettamente l’impalcatura solida e di notevole eleganza; sentire addirittura l’arancia rossa e guizzi di rabarbaro mi ha spiazzato, la presenza di un leggero strato di porcini, humus e cuoio testimoniava solo che il tappo è in sughero e un’evoluzione ci deve essere per forza! Magari ginepro, magari ciliegia in confettura, magari una balsamicità rinfrescante, ma di segni di irrecuperabile decadenza neanche l’ombra.

A voler essere cattivo avrei potuto dargli una decina d’anni, non certo 29!

Sono queste le ragioni per cui, ancora oggi, scrivere e raccontare di vino non smette di darmi gioia, pur con la consapevolezza che non è acqua e va bevuto in quantità moderata, possibilmente accanto a un buon piatto.

Come diceva il buon Yoda: “Difficile da vedere è. Sempre in movimento il futuro è”.

Simone Capecci - Offida DOC Pecorino "Ciprea" 2021


di Roberto Giuliani

Criomacerazione e affinamento in cemento fino a primavera per regalarci, dalle colline di San Savino, frazione di Ripatransone, un Pecorino intenso e agrumato, con netti richiami alla salvia e alla pesca, una spiccata freschezza e un piacevole velo sapido. 


Ed è pure biologico…

Luca Di Piero - Quattro Mani Bianco 2020


di Roberto Giuliani

Una volta tanto sono arrivato ai vini di quest’azienda di Civita Castellana (VT) in una fase successiva; infatti, Luca Di Piero è conosciuto per le sue eccellenti creme alla nocciola e i suoi torroni, ottenuti dai propri noccioleti. È un vero agricoltore, lavora olive e nocciole, coltiva uve da vino, produce farina di grano tenero, tutto a km 0., ad eccezione del cacao utilizzato per lo strepitoso cioccolato gianduia e per le creme (ma non è detto che con questo clima sempre più tropicale non finisca per coltivare anche quello!).


Il Quattro Mani Bianco 2020 è ottenuto da uve fiano con un piccolo contributo di roscetto (ma nelle annate successive credo sia passato al fiano in purezza). Il vigneto risiede su terreno tufaceo, da cui si ricava 1,5 kg di uva per pianta (circa 60 q. per ettaro); le uve fermentano in acciaio dove permangono per un anno, poi affinamento di 6 mesi in bottiglia. Per l’imbottigliamento si appoggia all’affidabilissima azienda Doganieri Miyazaki di Castiglione in Teverina (VT).

Fonte: Etruria News

La gradazione si ferma a 13°, cosa che permette di assaporare questo bianco senza sentirsi invadere da ondate di calore (che aggiunto a quello che stiamo subendo in questa estate rovente, metterebbe a dura prova chiunque). Nel calice ha un bel colore oro lucente con sfumature verdoline; profuma di pesca, susina, mandorla, agrumi e rimanda a note di erbe di campo e fiori.


In bocca mostra un’ottima struttura, equilibrio e stimolante freschezza, il ritorno di frutta gialla e agrumata è deciso e avvolgente, un sorso pieno dal gusto sapido e persistente. Da provare con il fieno di Canepina, un piatto tipico di questo piccolo comune del viterbese, ottenuto con una pasta simile alle fettuccine ma molto più sottile, nella versione rivisitata da Felice Arletti (Il Calice e la Stella) con ragù di manzetta e granella di nocciole.

InvecchiatIGP: Claudio Mariotto - Colli Tortonesi Doc Timorasso “Derthona” 2010


di Lorenzo Colombo

Fondata nel 1921 dal bisnonno di Claudio Mariotto, l’azienda con sede a Vho dispone attualmente di 54 ettari di vigneti situati tra i 250 ed i 300 metri d’altitudine per una produzione annuale di circa 150.000 bottiglie.


Il Timorasso

Vitigno assai diffuso un tempo, tanto da essere il più coltivato nel territorio tortonese sino all’arrivo della fillossera, ha visto nel corso degli anni ridursi sempre più la sua superficie vitata a vantaggio di altri vitigni tanto che negli anni Novanta se ne contavano solamente una ventina d’ettari (dati ISTAT). Se poi andiamo a vedere i dati forniti durante la prima edizione di Derthona Due.Zero, tenutasi nell’aprile 2022, la situazione appariva ben più sconfortante, ovvero poco più di mezzo ettaro nel 1987, e 3,5 ettari nel 2000.

Claudio Mariotto - Foto: Lavinium


Da inizio 2000 il vitigno è stato poi riscoperto e la sua superficie è via via cresciuta nel corso degli anni: 25 ettari nel 2009, 95 ettari nel 2017, 111 ettari nel 2018, 175 ettari nel 2019, 276 ettari nel 2021, gli ultimi dati parlano di 395 ettari e la corsa al suo impianto non è certamente terminata. Tra gli autori di questa riscoperta, oltre a Walter Massa, considerato il padre del vitigno, c’è certamente d’annoverare Claudio Mariotto, tra i primi a puntare su questo vitigno. Il Timorasso viene utilizzato, oltre che nella Doc Colli Tortonesi, anche in una decina di vini ad IGT lombardi.

Il vino

Prodotto con uve selezionate da una trentina d’ettari di vigneti con diverse esposizioni, situati su suolo calcareo-argilloso, allevati a Guyot con resa di 70 q.li/ha. Dopo la fermentazione in vino s’affina sui lieviti in contenitori d’acciaio con ripetuti batonnages.


Color oro antico, intenso e luminoso. Discretamente intenso al naso, di buona eleganza, vi cogliamo sentori di pesca, albicocca, note terziarie di frutta secca, accenni tostati e di pasta di mandorle. 


Intenso al palato, sapido, accenni agrumati di cedro, ritroviamo le leggere note tostate ed i sentori di frutta secca, lunga la sua persistenza.