Almatò, il ristorante romano dove vige la regola del tre


Almatò, nato a gennaio 2020 quando la pandemia era appena alle porte, è un progetto ristorativo che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, oggi sta diventando sempre più punto di riferimento nel panorama ristorativo della Capitale grazie ad un giusto connubio tra sperimentazione culinaria, rispetto della tradizione e buona dose di entusiasmo, misto ad incoscienza, visto che il locale è gestito da tre amici poco più che trentenni.

Alberto, Tommaso e Manfredi

La sala

Situato nel tranquillo quartiere Delle Vittorie, a metà strada tra il centro storico e la movida di Roma Nord, Almatò devo il suo nome dall’unione dei nomi di Alberto Martelli (socio ristoratore), Manfredi Custoreri (restaurant manager) e Tommaso Venuti che, conosciutesi sui campi di rugby, hanno deciso di dar sfogo alla loro passione per la buona cucina dato vita a un locale che sin dagli inizi ha saputo distinguersi per l’originalità della proposta culinaria, in uno spazio curato nel dettaglio per risultare elegante e accogliente.


La nostra cucina è cambiata molto nel tempo: puntiamo ora su piatti con la giusta dose di eclettismo, dal gusto intenso e al tempo stesso raffinato, ma senza dimenticare chi siamo, portandoci quindi dietro il valore della tradizione” sottolinea Tommasi Venuti, classe 1992, con un passato tra le cucine di Villa Crespi e con Heinz Beck a La Pergola Rome Cavalieri.


Da Almatò sembra vigere la “Regola del 3” perché oltre i tre volti e le tre anime dei soci fondatori sono tre anche i percorsi di degustazione, rispettivamente da 5, 7 e 9 portare a 75, 100 e 120 euro, e tre opzioni per ogni tipologia di portata che il cliente può scegliere nel menù alla carta. Il motivo? Semplice, rendere snello e dinamico il lavoro in cucina fornendo allo chef tutto il tempo creare i suoi piatti partendo da poche materie prime stagionali di qualità altissima.


La sala, elegante ed essenziale nei suoi caldi colori, è il regno di Riccardo Robbio, maître e sommelier, campano classe 1989, giunto a questa nuova sfida professionale dopo gli importanti trascorsi da Kai Mayfair a Londra, Imàgo all’Hassler, La Pergola e Pipero a Roma. A lui spetta curare i circa 20 coperti del locale proponendo interessanti abbinamenti grazie ad una carta dei vini che, come il menù, è abbastanza snella contando al massimo un centinaio di etichette che fanno riferimento essenzialmente a grandi cantine sia italiane che internazionali come, ad esempio, Bollinger, Mastroberardino e Tasca d’Almerita.

Uno degli Appetizer

Durante la mia ultima visita al locale ho optato per il percorso di degustazione da cinque portate con abbinamento vini incluso, che è iniziato con tanti deliziosi piccoli appetizer tra cui spiccano un ottimo calvofiore in tre consistenze (arrosto al burro nocciola, in crema alla base, in carpaccio, avvolto in salsa tartara e kefir) e il classico uova di quaglia alla monachina con crema di tuorlo d'uovo, da sempre presente nel menù di Almatò.

Uova di quaglia alla monachina

La tradizione romana e la cucina del recupero, temi cari allo chef, sono esaltati dalla proposta culinaria successiva costituita da un golosissimo maritozzo alla picchiapò di agnello accompagnato da maionese al wasabi e sedano croccante. Da mangiare rigorosamente con le mani! 

Maritozzo alla picchiapò

L’abbinamento perfetto, grazie a Riccardo, mi porta in Franciacorta con un ottimo 61 Rosé di Berlucchi.


Arriva il primo piatto e si inizia ad usare la forchetta con la tagliatella, coniglio, beurre blanc all’arancia e olive, un piatto delicato e bilanciato il cui ragù rimasto nel piatto è vittima, successivamente, di una irrinunciabile scarpetta fatta con la buonissima focaccia calda preparata da Tommaso poco prima il nostro arrivo. 

Tagliatella, coniglio, beurre blanc all’arancia e olive

Il piatto è stato abbinato ad un calice di Ferentano (100% roscetto) prodotto dalla famiglia Cotarella.


Il secondo piatto ci porta invece nella zona di Campagnano di Roma da dove proviene il succulento manzo 30 mesi alla brace con fave, piselli e carciofi, omaggio alla primavera e alla vignarola romana, il tutto accompagnato da una kombucha prodotta con i baccelli dei piselli e le foglie esterne del carciofo. Piatto interessantissimo che sintetizza un po’ la filosofia culinaria di Almatò fondendo in un'unica proposta ricerca, tradizione, leggerezza e attenzione alla cucina del recupero. Chapeau!

Manzo 30 mesi

L’abbinamento al calice proposto dal sommelier è stato un Etna Rosso DOC “Ghiaia Nera” (100% nerello mascalese) di Tasca d’Almerita. Matrimonio perfetto.


Dopo la mousse di melanzane al cioccolato, predessert che strizza l’occhio al sud Italia, arriva Gianni, il dessert che è anche uno dei manifesti gastronomici di Almatò. Presente in menù sin dall’apertura del ristorante, è un omaggio a Manfredi, Gianni per gli amici, e alle sue passioni ovvero al sigaro, che in questo caso è di cioccolato aromatizzato al tabacco, e al gelato che Tommaso interpreta al gusto variegato di nocciola e cacao con fondo di biscotto alla nocciola.

Gianni

Chiusura golosa e per nulla stucchevole, degno finale di una cena che mi ha lasciato grandi speranze per questi tre ragazzi che portano finalmente un po’ di aria fresca all’interno del panorama ristorativo della Capitale. Bravi!

Almatò
Via Augusto Riboty 20/c – Roma
Tel: 06/69401146
www.almato.it

InvecchiatIGP: Monte Tondo - Soave Classico Doc “Casette Foscarin” 2005


di Lorenzo Colombo

Per la rubrica del sabato, InvecchiatIGP, andiamo solitamente a cercare quelle bottiglie che nel corso degli anni si sono accumulate nella nostra cantina e delle quali a volte non ricordiamo più neppure l’esistenza. E’ il caso di questo Soave, acquistato, molto probabilmente, durante una nostra visita presso la cantina Monte Tondo, della famiglia Magnabosco


Si tratta di un vino che attualmente rientra in una delle 33 UGA riconosciute al territorio del Soave, ma che allora non lo era.

Iniziamo quindi dalla nascita delle UGA

Lo studio di zonazione del Soave, iniziato nel 1995, aveva portato all’individuazione di 14 sottozone individuate in base alle loro caratteristiche orografiche, climatiche e pedologiche. 

UGA Soave

Da questo studio si era poi arrivati dapprima all’individuazione di 45 macrozone (39 delle quali all’interno del territorio del Soave Classico) ed infine, nel 2019, si è giunti a poter ufficialmente registrare 33 UGA (Unità Geografiche Aggiuntive), 28 delle quali nella zona classica.

L’azienda

Il fabbricato dell’Azienda Monte Tondo non passa certamente inosservato, situato com’è a poche centinaia di metri dall’uscita autostradale Soave-San Bonifacio, si trova nel comune di Soave, nella parte più meridionale del territorio della Doc Soave Classico dove si trovano anche i vigneti per la produzione del loro Soave Doc Monte Tondo.

Credit: maderural.com

La famiglia Magnabosco dispone però anche di vigne in altre zone, ovvero sul Monte Foscarino dove in due distinti vigneti si producono il Soave Classico Doc Casette Foscarin, oggetto della nostra degustazione e il Soave Classico Superiore Docg Foscarin Slavinus. Sempre nel territorio del Soave e precisamente sul Monte Tenda si produce un altro Soave, e precisamente un Recioto di Soave, ci sono poi altri vigneti sul Monte Gazzo, dove oltre alle uve per la produzione del Soave troviamo anche Cabernet sauvignon. Infine altri vigneti si trovano in Valpolicella, a Cazzano di Tramigna, dai quali si ricavano Valpolicella, Amarone e Ripasso. 
In totale sono una quarantina gli ettari vitati per una produzione annuale di circa 300.000 bottiglie.

Il vino

I vigneti per la produzione di questo vino (90% Garganega e 10% Trebbiano di Soave) si trovano in Località Casette, sul Monte Foscarino, qui i suoli, di natura vulcanica, sono caratterizzati dalla presenza di basalto e vanno a conferire ai vini i tipici sentori minerali e sulfurei. 


La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio, il vino viene quindi posto parte in barriques e parte in tonneaux usati dove sosta per sei-otto mesi, viene quindi assemblato e rimane in affinamento per altri quattro-cinque mesi in acciaio, segue un’ulteriore sosta di almeno sei mesi prima d’essere messo in commercio. All’interno del Cru Foscarino, uno tra i più ampli tra i 33 Crus del Soave, l’azienda Monte Tondo produce due vini, il Casette Foscarin, oggetto del nostro assaggio, e il Foscarin Slavinus.

La degustazione

Diciamo che l’approccio con questo vino non è iniziato nel modo giusto, l’apertura della bottiglia non è stata infatti delle più facili, il tappo si è dapprima spezzato in due e la parte rimanente all’interno del collo della bottiglia si è letteralmente sbriciolata, a nulla è valso neppure l’utilizzo del cavatappi a lamelle, abbiamo così dovuto filtrare il vino con un colino per eliminare ogni residuo di sughero e versarlo in un decanter. Svolte queste operazioni preliminari passiamo alla degustazione vera e propria, iniziando come prassi stabilisce, dall’analisi visiva.


Il vino si presenta con un color giallo-oro luminoso, c’era da aspettarselo visto che sono passati (quasi) vent’anni dalla vendemmia. Lo troviamo intenso al naso dove le note boisé ed i ricordi di legno, seppur affievoliti dal tempo, sono ancora presenti, lo troviamo complesso, son sentori che vanno dallo zucchero vanigliato all’albicocca, dalla camomilla all’Erba Iva (Achillea Moschata), vi troviamo inoltre ananas maturo, pesca gialla, fiori secchi, accenni sulfurei e note minerali ed un impercettibile sentore d’idrocarburi.


In bocca notiamo il suo buon corpo, la vena acida ancora ben presente, la sua nota sapida, confettura di pesca gialla, albicocca, mela cotogna, ananas e, nuovamente, leggeri ricordi di legno, lunghissima infine la sua persistenza. In pratica la classica bottiglia sulla quale non avevi grandi aspettative ma che alla luce dei fatti ti stupisce.

Valenti - Etna Rosato Doc 2022 “Poesia”

di Lorenzo Colombo

Le uve per la produzione del Poesia provengono dalla vigna Corvo, situata sul versante Nord dell’Etna, il suo colore ramato scarico si ottiene tramite un contatto con le bucce di otto ore.


Intenso al naso, con note d’agrumi e d’erbe aromatiche essiccate, fresco, asciutto e leggermente tannico alla bocca.

La Verticale (in Magnum) di Guidalberto è pura goduria!


di Lorenzo Colombo

L’IGT Toscana Guidalberto viene spesso considerato il secondo vino della Tenuta San Guido – e probabilmente all’inizio lo era anche-, ovvero il vino che viene dopo il Sassicaia, ma in realtà così non è anche se il suo prezzo è assai minore, si tratta unicamente di un vino diverso, nella cui composizione ad accompagnare il Cabernet sauvignon troviamo infatti il Merlot, anziché il Cabernet franc, come avviene nel Sassicaia. Come ben specificato sul sito aziendale, il Guidalberto, che prende il nome da Guidalberto della Gherardesca pioniere della conversione agricola del territorio nei primi decenni dell’Ottocento “Non vuole calcare le orme del Sassicaia ma proporsi, piuttosto, come un vino che racconti un’altra vocazione del territorio di Tenuta San Guido”.


La sua genesi è assai più recente rispetto a quella del vino simbolo della Tenuta San Guido, nasce infatti nel 2000 e d’allora è stato prodotto in tutte le annate, i vigneti si trovano su un suolo calcareo, ricco d’Alberese e Gabbro, parzialmente argillosi e ricchi di pietre, l’altitudine varia tra i 100 ed i 300 metri slm, l’esposizione è Ovest, Sud-Ovest ed il sistema d’allevamento è a cordone speronato con densità di 6.200 ceppi/ettaro. La composizione di questo vino, ed in minima parte la sua lavorazione, sono cambiate nel corso degli anni, infatti all’inizio, oltre a Cabernet sauvignon e Merlot entrava nella sua composizione anche un 20% di Sangiovese, vitigno utilizzato sino al 2004, dopo di che la sua ricetta è rimasta stabile (60% Cabernet sauvignon e 40% Merlot) sino al 2020, mentre dal 2021 in poi i due succitati vitigni sono stati utilizzati in parti uguali.


Nell’ambito della tappa milanese dell’evento “La grande bellezza”, tenutosi lunedì 20 aprile presso Ai Chiostri di San Barnaba, abbiamo potuto partecipare ad una degustazione verticale che prevedeva l’assaggio di cinque annate (in Magnum) di Guidalberto, dalla 2021 sino alla prima prodotta, ovvero la 2000, la degustazione è stata condotta con garbo da Raffaele Vecchioni, che ha dapprima ricostruito la genesi di questo vino.

Ecco le nostre considerazioni sui vini degustati

2021 - Frutto di un’annata di grande qualità con la vendemmia dell’uva Merlot iniziata già a fine agosto e quella del Cabernet sauvignon nella seconda settimana di settembre. La fermentazione si è svolta in acciaio per entrambe le uve –separatamente- con una macerazione di un paio di settimane con rimontaggi e délastage mentre l’affinamento è stato effettuato in barriques di rovere francese (una piccola parte in rovere americano) per il 40% nuove, il tutto per 15 mesi.


Color rubino, luminoso e trasparente, di discreta intensità. Bel naso, intenso, fresco e pulito, molto elegante, fruttato, frutto rosso dolce, floreale, spezie dolci e legno dolce, note vanigliate. Dotato di buona struttura, fresco, con trama tannica in perfetto equilibrio, sapido, verticale, con buona vena acida, presenta accenni piccanti di pepe, lunga la sua persistenza. Un vino giovanissimo, ma che promette assai bene. 

2019 - Annata dall’andamento climatico estremamente variabile che ha comportato una grande attenzione e cure in vigna dal germogliamento -anticipato- sino alla vendemmia, iniziata ai primi di settembre con il Merlot delle altitudini più basse per concludersi ad inizio ottobre con gli ultimi Cabernet sauvignon. Fermentazione in vasche d’acciaio con macerazione di un paio di settimane per il Merlot e leggermente più prolungate per il Cabernet sauvignon, affinamento per 15 mesi in barriques di rovere francese (20% in rovere americano).


Color rubino di discreta intensità, leggeri accenni granati sull’unghia. Buona la sua intensità, balsamico, frutto dolce e più maturo del precedente vino, ciliegia, leggeri accenni vegetali. Intenso e strutturato, piccante pepato, tannino deciso e leggermente asciugante, verticale, il frutto appare meno maturo rispetto a quanto percepito al naso, lunga la sua persistenza.

2017 - Annata calda e siccitosa che ha notevolmente influito sulle caratteristiche del vino, la vendemmia del Merlot è iniziata a fine agosto proseguendo quindi nel mese di settembre per il Cabernet sauvignon. Vinificazione in vasche d’acciaio con macerazione di un paio di settimane per il Merlot e leggermente più breve per il Cabernet sauvignon, con frequenti rimontaggi e délastage, affinamento per 15 mesi in barriques di rovere francese e per un 5%-7% in rovere americano.


Color rubino, piuttosto intenso e compatto. Buona la sua intensità olfattiva come pure l’eleganza, frutto rosso maturo, accenni di prugne, leggere venature vegetali.
Strutturato, si svuota un poco nel centro bocca, buona vena acida, tannino leggermente asciugante, ci ricorda la pellicina di castagne crude, meno equilibrato rispetto ai precedenti vini. Alla bocca non ha rispettato le aspettative che ci aveva fornito al naso. 

2012 - Annata particolare, con un’estate molto calda ma con notevoli escursioni di temperatura tra giorno e notte, vendemmia leggermente anticipata con uve che presentavano acini di piccole dimensioni con una perdita di poco inferiore al 10% della produzione. 60% Cabernet sauvignon, 40% Merlot, fermentazione in vasche d’acciaio con macerazione di circa due settimane, affinamento in barriques francesi (un 5%-7% s’affina in barriques americane) per 15 mesi.


Rubino di discreta intensità con unghia tendente al granato. Buona la sua intensità olfattiva, elegante ed armonico, note balsamiche e di frutto rosso dolce e maturo, ciliegia matura, accenni di prugne essiccate. Fresco e verticale, armonico, elegante, con tannino in perfetto equilibrio, buona vena acida, bel frutto, accenni di liquirizia, lunga la sua persistenza.
un vino elegante e dal grande equilibrio, di notevole qualità, il migliore della batteria. 92/100

2000 - Prima annata di produzione, il blend era composto da 40% Cabernet sauvignon, 40% Merlot e 20% Sangiovese, quest’ultimo vitigno è stato utilizzato sino all’annata 2004 e poi definitivamente tolto. La vendemmia è iniziata ai primi di settembre per il Merlot ed a metà del mese per il Cabernet sauvignon. Fermentazione in vasche d’acciaio con una macerazione di una decina di giorni, affinamento in barriques francesi, per 1/3 nuove (un 5%-7% s’affina in barriques americane) per 15 mesi.


L’età del vino si coglie già dalle sue tonalità, granato di buona profondità con unghia tendente all’aranciato. Buona la sua intensità olfattiva, balsamico, note terziarie di sottobosco, humus, tabacco, radici, fiori secchi, legno ancora percepibile. Strutturato, con tannino un poco asciugante e che tende leggermente all’amarognolo, note di radici, lunga la sua persistenza su sentori di bastoncino di liquirizia. Un vino diverso dai precedenti, con un naso interessante, anche se ovviamente evoluto, ma che alla bocca si perde un poco, pare non compiuto ed un poco slegato., d’altra parte la sua vita l’ha fatta. 


Presso i banchi d’assaggio siamo riuscito anche ad assaggiare l’ultima annata, la 2022, da poco imbottigliata. Il suo colore è rubino purpureo, luminoso. Buona la sua intensità olfattiva, fresco, con un bel frutto, ciliegia, presenta note balsamiche e leggeri accenni di fumo.
Pulito e fresco, con bella vena acida e tannini setosi, spezie dolci, bell’equilibrio gustativo, buona la sua persistenza. Un vino giovanissimo ma che promette molto bene.

InvecchiatIGP: Valentino Butussi - Sauvignon Blanc Colli Orientali del Friuli "Genesis" 2014


di Stefano Tesi

Non ho mai fatto mistero del mio apprezzamento per i vini di Butussi, dei quali in generale apprezzo non solo la precisione, la finezza e l’eleganza, ma anche la dimensione di compostezza all’interno della quale essi nascono. E che mi pare lo specchio perfetto della stessa filosofia familiare, ossia una giusta miscela di realismo, di coerenza alle proprie dimensioni e di una capacità di visione enoica attenta ma senza fronzoli, frutto di un coraggio e un pragmatismo molto friulani.


Ne è un lampante esempio l’abitudine di rimettere in commercio tutti i cru aziendali otto anni dopo la prima uscita, tanto per capire non solo l’evoluzione del prodotto in sè, ma anche il suo impatto sul consumatore e sui gusti del pubblico. Già anni fa, con risultati lusinghieri, mi ero imbattuto nel loro Genesis, un Friuli Colli Orientali Doc, Sauvignon 100%, biologico dal 2013, proveniente dalla Madonna dell’Aiuto, una piccola vigna (mezzo ettaro e poco più) di fondovalle tra San Biagio e Rosazzo, piantata nel 1990, dove le correnti della montagna si incontrano e – spiega Filippo Butussi, che è anche l’enologo dell’azienda di famiglia – provocando forti escursioni termiche consentono all’uva di maturare molto più lentamente, anche dieci giorni dopo rispetto alle quote più alte, e di dare al vino una forte impronta territoriale.


Assaggiare il Genesis in verticale (2000-2007-2022-2014-2015-2019-2021) è stato però tutto un altro paio di maniche. Tra le varie annate, sebbene con scarti in qualche caso davvero minimi, ci è piaciuta più di tutte le 2014, che abbiamo trovato di grande personalità e di un equilibrio quasi olimpico.


All’occhio in vino si presenta di un color oro carico e brillantissimo. Al naso l’impatto è gentile, con una varietalità che lascia subito il campo a un ventaglio di sentori cangianti e delicati, dei quali alla fine nessuno prevale: toffees, frutti tropicali, accenni agrumati, fiori appassiti si affacciano, scompaiono, poi tornano. Tutte sensazioni che si riaffacciano con grande eleganza a livello retronasale e in bocca, dove emerge una netta nota citrica e l’acidità si fa ben sentire. Ne esce una bevuta gratificante, lunga, profonda, a tratti perfino provocante, che si pone esattamente a metà tra l’esplosività delle annate più recenti e l’affascinante maturità di quelle più vecchie.

Fattoria San Michele a Torri - Nudo 2022 vino rosso Toscana IGT San Michele a Torri


di Stefano Tesi

Lasciamo perdere mode, diffidenze, etichette: questo “senza solfiti” biologico a base di Sangiovese, fatto in acciaio a Scandicci, ossia alle porte di Firenze, è semplicemente buono. 


Bel frutto pulito e fragrante, nessun eccesso, sapido, piacevole e non banale. Occhio solo ai bicchieri: ha 15 gradi!

Asti Spumante DOCG ed ostriche, abbinamento vincente!


di Stefano Tesi

Una delle cose che mi piace del Vinitaly è che il clima febbrile, ma anche un po’ scanzonato della fiera rende a volte possibili esperimenti che in altre occasioni mai ti sarebbe venuto in mente di fare. E spesso con risultati che vanno oltre ogni aspettativa. Una di queste pensate è venuta tempo fa all’enologo e direttore tecnico Andrea Capussotti e al collega giornalista Riccardo Viscardi: proporre una degustazione di abbinamento tra Asti Docg Metodo Classico di varie annate e ostriche. Non ostriche qualunque, però: di tre tipologie diverse (Golden, Black e Sant’Antonio) e tutte allevate nell’Adriatico dalla Co.de.go di Goro. Scelta quasi patriottica e un po’ provocatoria, come spiega il direttore del Consorzio, Giacomo Pondini: “Provengono da un laboratorio italiano, a differenza di altre varietà allevate nel nostro paese, ma provenienti da seme francese”. Viva l’Italia e il prodotto nostrale, insomma.


Al di là del messaggio patriottico, gli scopi erano in sostanza due.

Uno, ovvio: suggerire un ulteriore ampliamento delle potenzialità di consumo offerto dalla versatilità dell’Asti. E un altro, meno ovvio: addentrarsi nei meandri ancora in buona parte inesplorati della capacità di invecchiamento di questo vino, spesso un po’ snobbato. “Un salto in avanti è possibile?”, si è chiesto infatti Viscardi prima di cominciare la degustazione. E riferendosi volutamente a tante cose: strategie di marketing, individuazione di nuovi mercati, mentalità del consumatore, orientamento dei critici.


Alla luce dei fatti, la mia risposta è sì. E non solo nel senso delle potenzialità di nuovi sbocchi che l’esperimento ha messo in evidenza. Ma anche, più sottilmente, in quello dell’approccio all’Asti e ai suoi abbinamenti. Un approccio edonistico, anzi godereccio, più familiare, certamente poco consueto, per alcuni perfino impensabile. In realtà, però, niente affatto facile, né banale. Di sicuro meno paludato di quelli già collaudati, anche meno rassicurante sotto il profilo esteriore, pure meno ingessato se vogliamo. Eppure interessante, direi pure intrigante nella prospettiva di un’accoppiata diversa dal solito di bollicine e molluschi. La grande sapidità delle ostriche è andata a nozze con le nouance dolci e cremose, ma non stucchevoli, del Moscato d’Asti e certe note salmastre si sono fuse bene con i sentori a volte erbacei, a volte asciuttamente floreali degli spumanti.

I quali, a loro volta, sono stati una sorpresa. Eccoli.

Marcalberto 2020 Asti Docg Metodo Classico

Spuma media, bolla fine, colore oro metallico, ha un bel ventaglio di eleganti sentori salmastri e floreali, mentre in bocca è gentile, cremoso, morbido.

Tressesanta Cuvèe 2020 Asti Docg Metodo Classico Cantina Alice Bel Colle

Colore dorato, bollicine medie, naso con interessanti marcate note vegetali, di verde e di erba che tornano in bocca.


Cuvage 2018 Asti Docg Metodo Classico Millesimato

Oro pieno, perlage molto fine, al naso offre delicati sentori floreali che richiamano il mughetto, in bocca è pieno , sobrio, con una punta di dolcezza in più.

De Miranda 2017 Asti Doch Metodo Classico De Miranda

Oro ramato, bolla media, ha un complesso bouquet di fiori appena appassiti mentre al palato è profondo, quasi pastoso, ricco di sfumature.

Gancia Cuvèe 24 Mesi Asti Docg Metodo Classico 2013

Colore dorato, perlage fine, al naso dà un ventaglio vastissimo di note vegetali grasse, erba vetriola, orto umido mentre in bocca l’eleganza e la lunghezza smorzano la dolcezza.

In sintesi: se faranno ancora una simile degustazione, ci andrò di corsa.

InvecchiatIGP: Mastroberardino - Greco di Tufo "Nova Serra 2000"


di Luciano Pignataro

La mia nota passione per i vini bianchi invecchiati mi spinge ad incontri non previsti quando mi trovo in ristoranti di lunga storia con una cantina attrezzata da tempo, come nel caso del ristorante stellato "Taverna del Capitano" a Marina del Cantone, in Campania. Qui il vino trova il suo rifugio sicuro perché fu Salvatore Caputo, figlio del fondatore Alfonso, a decidere di creare uno spazio specializzato dedicato alle bottiglie, una cantina a forma di cambusa di nave dove, anno dopo anno, è cresciuta una delle proposte tra le più ampie della Campania, una attenzione coltivata poi da Mariella, terza generazione con il marito Claudio Di Mauro, tra le prime donne italiane a diplomarsi sommelier con l’Ais.


Ecco dunque spiegata questa magnum 2020, annata calda e difficile, di Nova Serra Greco di Tufo DOC (la DOCG parte dal 2003) di Mastroberardino. Si tratta di una annata calda, non particolarmente attrattiva in nessuna parte d’Italia, particolarmente difficile soprattutto per molti rossi anche perché il clima durante la vendemmia fu abbastanza irregolare, tale da rendere difficile la gestione della raccolta.
La DOCG Greco di Tufo è tra le più piccole in Italia, comprende otto comuni in provincia di Avellino (oltre Tufo, Altavilla Irpina, Chianche, Montefusco, Prata di Principato Ultra, Petruro Irpino, Santa Paolina e Torrioni) per una superfice di poco più 700 ettari rivendicati in 62 chilometri quadrati per un totale di quasi 2 milioni e mezzo di bottiglie prodotte fra i 300 e i 700 metri tra le colline tagliate dal fiume Sabato. Dopo la Falanghina del Sannio, è il bianco più venduto in Campania. Si tratta di una denominazione fra le più antiche d’Italia, riconosciuta come DOC nel 1970 grazie all’opera di Antonio Mastroberardino che ne riprese la coltivazione in una fase in cui stava per sparire.


Nova Serra, con Radici Fiano di Avellino e Radici Taurasi fa parte di un trittico pensato e impostato proprio da Antonio per caratterizzare meglio le uve (il disciplinare prevede in genere anche un 15% di Coda di Volpe) e farle esprimere al massimo. Si tratta in pratica di un cru di una collina a Montefusco che arriva sin sotto il paese a quota 600 metri su un suolo franco argilloso con forti tracce vulcaniche.


Quando Mariella ci porta la bottiglia confesso che l’emozione era tanta, mai bevuto un Greco di Tufo di 24 anni anche se, basandomi sulla mia esperienza, sulla conoscenza abbastanza profonda dei vini di Mastroberardino e certo di una conservazione perfetta perché altrimenti mai sarebbe stato portato a tavola, non avevo dubbi sulla riuscita della beva. E infatti anche il tappo esce senza difficoltà, integro. Il colore, come altre volte era capitato con i Greco più antichi, vira verso il giallo paglierino carico, quasi oro.


Il naso si presenta con una complessità fantastica e difficilmente replicabile, dal cedro al miele di castagno, alla frutta gialla candida, alle note di canfora. Si tratta di profumi intensi, persistenti, talmente gradevoli da costringerci a rinviare l’assaggio che conferma la complessità olfattiva oltre a regalare una potente energia, tipica di questo rosso travestito da bianco. Un vino salato, senza concessioni piacione. Nessun cenno ossidativo, il vino è semplicemente integro e perfetto. La beva è lunga, salata, un vino capace di abbinarsi anche a piatti di mare ben strutturati nonostante il tempo trascorso.

Piero ed Antonio Mastroberardino - Credit: nuovairpinia

Oggi l’azienda punta sempre più decisa sui tempi lunghi, un esempio è il progetto Stilema che vuole in qualche modo rinnovare lo stile di Antonio Mastroberardino. La bevuta è stata tanto più straordinaria perché questi vini non erano pensati per un tempo così lungo, anche se il formato Magnum aiuta sempre in questa direzione, vini eccezionali e imbattibile per il rapporto fra qualità e prezzo.

Cesarini Sforza - Trento Doc Brut Rosé "1673" 2016


di Luciano Pignataro

Sul primo spaghetto con le cozze decidiamo di stappare uno dei nostri Trento preferiti che gode di un’ottima annata da pinot nero e chardonnay di Colline Avisiane e Val di Cembra. 


Naso agrumato, sorso fresco e appagante, sapido, lunghissimo e preciso nel finale che invoglia al nuovo sorso. Viva l’Italia!

I vini calabresi della "punta" dello stivale


di Luciano Pignataro

La Calabria è sicuramente terra da scoprire per gli appassionati di vino. Se la zona del Cirò è ormai consolidata fra gli operatori e gli appassionati, sono innumerevoli le zone di produzione, le uve, le aziende, che attendono di salire ad una ribalta che sono sicuro ci sarà perché sono davvero tante le sorprese, e tutte a favore del consumatore che si trovano in questa regione che è prima in Italia per numero di vitigni autoctoni. Del resto il motivo è facilmente intuibile, la punta dello Stivale è stato sempre un pontile di approdo da Oriente e da Sud del Mediterraneo per chi volesse proseguire la sua corsa alla ricerca di nuove terre. Ancora oggi è tragicamente cosi. Il fascino dei 400 chilometri di Costa Ionica è in questa distesa di mare da cui sembra che debba sempre arrivare qualcuno.

Credit: icalabresi.it

Al Vinitaly mi è così capitato di condurre con Giovanna Pizzi una degustazione della punta dello Stivale, ossia quel tratto di costa che porta dal Tirreno allo Jonio passando per Reggio Calabria la cui provincia è piantonata dall’Aspromonte.
Come vedete, sono numerose le IGT e due le DOC che poggiano alle falde del sistema collinare, di fronte c’è l’Etna con le sue storie dantesche che sbuffa, venti di mare e di terra ed una agricoltura ancestrale di cui si parla veramente poco in sede nazionale. Condizioni pedoclimatiche che in un paese normale renderebbero straordinario questo territorio che invece appare ordinario come il Colosseo ai romani.


Sei etichette non bastano per conoscere tutto, ma possono dare rapide indicazioni, essere un primo assaggio, diciamo un invito ad approfondire, a fermarsi. A bere dalle coppe i vini inebrianti che racconta o secoli di travagli, emigrazioni, fortune e sfortune. Una degustazione che segue solo criteri geografici.

Tramontana - 5 Generazioni Calabria IGT 2023

L’azienda e la tenuta risalgono alla fine dell’800. In degustazione uno dei bianchi tipici della Calabria, il Greco. Siamo tra Villa San Giovanni e Reggio. Mancano ancora studi scientifici su questi vitigno per stabilire se si tratta di uve diverse con lo stesso nome (come nel caso della Falanghina) o se invece parliamo sempre della stessa cosa. Questo, lavorato in acciaio, è ben lontano dalla rusticità del Greco di Tufo, si presenta più equilibrato e con toni agrumati e aromi di fermentazione. Del resto si tratta di un campione da vasca. Ha sicuramente buon corpo e un buon equilibrio inizierà a trovarlo dopo aver scapolato almeno l’estate.

Criserà - Arghillà IGT 2022

Anche Criserà, come Tramontana, conta almeno cinque generazioni , fondata più o meno nello stesso periodo alla fine dell’800. Un segnale che ci troviamo in una zona non inventata di recente, ma con una lunga storia. Del resto le due cantine sono distanti appena una decina di chilometri l’una dall’altra. Una storia di tradizione visto che la igt, nata nel 1995, comprende numerose varietà di rosse e di bianco, davvero un punto di passaggio fra Scilla e Cariddi. Le uve sono Calabrese Nero e Nerello Cappuccio, secondo me la vera arma segreta della Calabria dopo aver fatto alcuni assaggi di rossi moderni e buonissimi. Anche questo sa di Etna per la finezza, l’eleganza e al tempo stesso la forza poderosa, la vivacità della beva. I tannini sono setosi, la freschezza è incredibile, si tratta di un vero e proprio rosso contemporaneo in cui la prima lezione positiva viene dalla bevibilità, da una semplicità di approccio che però non scade nella banalità.


Malaspina Consolato - Pellaro rosso IGT 2021

Il terzo vino ci porta in un’altra azienda storica, circa una quarantina di chilometri in direzione Sud, ormai sullo Jonio aperto, a Melito di Porto Salvo. Fondata nel 1967, oggi è gestita dalle quattro figlie di Consolato. La IGT Pellaro ha le stesse caratteristiche dell’Arghillà, ma è in una fascia di terreno precisa e il nome associato ad una indiscussa vocazione circoscritta ad alcune zone del comune di Reggio Calabria e del comune di Motta San Giovanni. Le uve del disciplinari sono simili, in questo caso abbiamo, Nerello Cappuccio al 60% e Nocera, altro vitigno molto diffuso in questa parte della Calabria. Il protocollo di vinificazione prevede anche un passaggio in barrique per circa otto mesi. Il vino si presenta dunque appena più complesso al naso con sentori di carruba e note balsamiche, mantiene la freschezza e la bevibilità grazie a tannini ben risolto. La fusione fra il frutto e il legno è perfetta.

Tenuta Regina di Sant’Angelo - Don Saso 2021 Palizzi Rosso IGT

Da Melito di Porto Salvo a Palizzi, dove c’è la tenuta principale di questa azienda a quasi 400 metri di altezza, corro altri trenta chilometri, di fatto inizia la risalita lungo lo Jonio in direzione di Catanzaro. L’azienda della famiglia Idone, aderente alla Fivi, si divide fra questo terreno, gli uliveti e un altro appezzamento a Villa San Giovanni. Il Don Saso è una magnifica sorpresa: prodotto esclusivamente da Nerello Mascalese in purezza, affina in acciaio e in bottiglia prima di essere messo in commercio. Una scelta molto chiara, perché il Palizzi igt, nato nel 1995 come Arghillò e Pellaro, consente l’uso di molte uve a bacca nera e bianca. In questo caso misuriamo quello che ho anticipato nella premessa, vini di grandissima beva, elegante, sorprendenti per la tenuta olfattiva e gustativa, lunghi nella chiusura, in questo caso godiamo di frutta croccante e straordinaria personalità.

Feudo Gagliardi - Biancamusa 2022 Locride Bianco IGT

Da Palizzi alla sede di Feudo Gagliardi a Caulonia corrono altri 90 chilometri. Sulla destra il mare, sulla sinistra le colline piene di ulivi che annunciano l’Aspromonte. L’agriturismo produce olio, ortaggi e vino ed è un luogo magnifico per trascorrere le vacanze. Con la cantina aderisce alla Fivi. Il Locride igt, ricosciuto nel 1995 come i precedenti, copre prticamente tutta la fascia costiera jonica della Provincia di Reggio. Il Biancamusa, poco più di 1500 bottiglie, è lavorato solo in acciaio e vetro e viene commercializzato all’inizio dlel’estate. Il blend prevede la metà di Mantonico e per il resto Insolia e Malvasia.Si presenta con un tono rustico, agrumato, assolutamente abbinabile alla cucina di orto e di mare, ideale per i latticini freschi del territorio. Un piccolo gioiellino di carattere, da bere senza perdersi in chiacchiere e senza aspettare altro tempo.

Cantine Lavorata - Bivongi Riserva DOC 2017

La cantina ha una tradizione di famiglia che risale all’800, ma l’azienda nasce ufficialmente nel 1958 a Roccella Jonica, siamo quasi in provincia di Catanzaro, a 36 chilometri da Caulonia.. Questo è l’unico dei sei vini che ha il riconoscimento doc. Nello specifico la Bivongi doc i cui vini vengono dai Bivongi, Caulonia, Monasterace, Riace e Stiloi in provincia di Reggio e dal comune di Guardiavalle in provincia di Catanzaro. Il Bivongi riserva dell’azienda è ottenuto da uve Greco Nero, Calabrese e Gaglioppo coltivati nel comune di Riace a circa 300 metri di altezza. Dopo la vinificazione in acciaio, dopo sosta per 12 mesi il vino sosta in botti di castagno per circa due anni. Abbiamo un vino di corpo, dai tannini risorti, con note di confettura di amarena, carruba, caffè e tabacco. Sorso lungo, ben sostenuto dalla freschezza.

CONCLUSIONI

Il nostro viaggio sulla Punta dello Stivale termina con la consapevolezza rafforzata della enorme ricchezza di questa regione che rivela un potenziale ancora sostanzialmente inespresso ma che sicuramente ha un grande avvenire: qualità, identità territoriale, non omologazione, ottimo rapporto qualità e prezzo e una purezza ambientale che si riflette in bicchieri allegri e sorprendenti. Da Reggio alla Locride è un caleidoscopio di colori, dal verde degli ulivi all’azzurro del mare, immersi dai profumi del Bergamotto e di una natura straripante. Qui c’è tutto quello che abbiamo perso in città.

InvecchiatIGP: Robert Mondavi - Carneros Merlot 1997


di Carlo Macchi

Erano diversi anni che dovevo mettere a posto seriamente la mia cantina e per farlo ho scelto il lungo weekend di Pasqua. Vi garantisco è stato un lavoraccio, ma ne sono uscito vincitore e soddisfatto. Sono uscite, oltre alla soddisfazione, alcune bottiglie di cui non ricordavo assolutamente l’esistenza, tra cui questo Merlot di Mondavi che probabilmente risale ai tempi in cui studiavo per diventare master of Wine.


Un Merlot che, sempre con il linguaggio dei MW potremmo definire “average” cioè di gamma media, abbastanza rappresentativo della zona ma dal prezzo piuttosto contenuto e quindi un vino non certo adatto, sulla carta, all’invecchiamento.
Carneros è un AVA (American Viticultural Area) che si trova incastrata tra Napa e Sonoma, vicino alla baia di San Pablo che ne condiziona il clima: infatti è considerata zona fresca perchè soggetta sia ai venti che arrivano dal mare sia alle nebbie che spesso ne coprono una buona parte. Il terreno è collinare ma piuttosto morbido e ondulato, con colline che difficilmente superano i 250 metri s.l.m.


E’ una delle poche zone californiane dove il cabernet sauvignon non è di casa ma, come dimostra la mia bottiglia, si coltiva merlot ma soprattutto chardonnay e pinot nero che, visto il clima fresco, servono soprattutto per degli spumanti.


Vista anche l’etichetta non proprio in condizioni ottime non mi aspettavo molto dal vino e purtroppo la sensazione si confermava trovandomi a tu per tu con il tappo, che si è sfaldato velocissimamente.

Invece mi sono dovuto ricredere.

Il colore era ancora rubino, anche se le note aranciate stavano per avere il sopravvento, ma la parte migliore del vino sono stati indubbiamente gli aromi: mai sentito così tanto intensamente note di fungo, tartufo e terra bagnata, mentre lasciando il vino all’aria dopo un po’ arrivavano anche lievi sentori floreali. In bocca era equilibrato ma non certo potente, mostrava però una minima tannicità ancora piuttosto vivace. Tra l’altro, nonostante in etichetta ci fosse scritto Unfiltered, il vino non aveva praticamente depositi.


Insomma, non era certo un vino morto e lo ha dimostrato la sera di Pasqua a circa 10 ore dall’apertura e dall’essere stato messo in un decanter: ancora una volta gli aromi di fungo e tartufo erano netti e profondi e in bocca era ancora di buona ampiezza. Ha accompagnato in maniera degna l’agnello pasquale.

Castello di Cigognola - Oltrepò Pavese DOCG Metodo Classico Rosé Brut 2015 Moratti


di Carlo Macchi

Oltre a profumare di rosa e frutta di bosco, essere elegante al palato con un perlage molto fine, questo rosé 100% pinot nero dell’Oltrepò Pavese porta un nome basilare per chi tifa Inter. 


Modo migliore per brindare alla nascita di GIN (Giornalisti Interisti Naturali) non poteva esserci. Triplete Wine!

Vinitaly 2024 chiude col botto: 100mila presenze per dire sì al grande vino italiano


Vinitaly archivia oggi la 56^ edizione con 97mila presenze. In leggero incremento gli operatori esteri da 140 paesi a quota 30.070 (31% sul totale), di cui 1200 top buyer (+20% sul 2023) da 65 nazioni selezionati, invitati e ospitati da Veronafiere in collaborazione con Ice Agenzia.
Bilancio positivo anche per Vinitaly Plus, la piattaforma di matching tra domanda e offerta con 20mila appuntamenti business, raddoppiati in questa edizione, e per il fuori salone Vinitaly and the city, che ha superato le 50mila degustazioni (+11%). La 57^ edizione si terrà a Veronafiere dal 6 al 9 aprile 2025.


Per il presidente di Veronafiere, Federico Bricolo: “Vinitaly consolida il proprio posizionamento business e un ruolo sempre più centrale nella promozione internazionale del vino italiano. I dati della manifestazione, unitamente al riscontro positivo delle aziende, confermano gli obiettivi industriali dell’attuale governance di Veronafiere fortemente impegnata a potenziare il brand fieristico del made in Italy enologico nel mondo. Va in questa direzione il rafforzamento della collaborazione con tutti i referenti istituzionali, oggi in prima linea con Veronafiere nel sostenere l’internazionalizzazione del settore”.

“La profilazione degli operatori è tra i nostri principali obiettivi strategici - commenta l’amministratore delegato di Veronafiere, Maurizio Danese -. Un risultato già centrato nella scorsa edizione, quella della svolta di Vinitaly, e proseguito quest’anno anche nei confronti della domanda domestica, in particolare quella del canale horeca attraverso iniziative di comunicazione e marketing che hanno contribuito all’incremento delle presenze italiane. In questi giorni abbiamo registrato reazioni positive da parte delle aziende, dei consorzi e delle collettive regionali. Una iniezione di fiducia in un momento complesso che ci vede impegnati a supportare il principale prodotto ambasciatore e apripista dell’agroalimentare del Belpaese nel mondo”.

Sul fronte delle presenze estere a Vinitaly 2024, gli Stati Uniti si confermano in pole position con un contingente di 3700 operatori presenti in fiera (+8% sul 2023). Seguono Germania, Uk, Cina e Canada (+6%). In aumento anche i buyer giapponesi (+15%).

Chiuso Vinitaly, si confermano i primi appuntamenti del calendario estero: Wine to Asia (Shenzen 9-11 maggio 2024); Vinitaly China Roadshow, Shanghai, Xian, Guangzhou (2-6 settembre 2024); Wine South America a Bento Gonçalves (RS) Brasile (3-5 settembre 2024); Vinitaly USA (Chicago 20-21 ottobre 2024); Vinitaly @ Wine Vision (Belgrado 22-24 novembre 2024).