Scopriamo la viticoltura in Moldova bevendo il Fetească Neagră “98 Hectares”


di Lorenzo Colombo

33.850 Km² incastonati tra Romania ed Ucraina, questa è la Moldova, paese costituitosi nel 1991, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica.  Situata a cavallo del 47° parallelo vanta la stessa latitudine delle migliori zone viticole europee, la natura del suo territorio è assai frammentata, con basse colline, altipiani e pianure, è attraversata da due grandi fiumi, il Prut ed il Dniester, il primo è un affluente del Danubio mentre il secondo sfocia nel Mar Nero, la vicinanza con quest’ultimo ha una notevole influenza sul clima della regione tendenzialmente continentale.
In Moldova ci sono 112 mila ettari a vigneto e sono oltre una cinquantina i vitigni presenti, sia internazionali che locali, Il 70% dei vitigni sono a bacca bianca, presenti prevalentemente nella parte centrale del paese, mentre quelli a bacca rossa si trovano nelle regioni meridionali, oltre un terzo dei vigneti sono allevati con varietà aromatiche. 


Sono quattro le regioni viticole: Balti, situata nel nord del paese, Codru, nella sua parte centrale, Ștefan Vodă a Sud-Est e Valul lui Traian che si spinge a Sud-Ovest sino al Danubio, le ultime tre si fregiano della IGP. 

Il 50% dei vitigni appartengono ai cosiddetti “internazionali”, ovvero varietà francesi diffuse in tutto il mondo, tra i principali vitigni troviamo: Cabernet Sauvignon (8.169 ha), Merlot (7.689 ha), Aligoté (7.765 ha) e Chardonnay (4.133 ha). 


Tra i vitigni locali i più diffusi sono: Rkatsiteli (3.898 ha), Kodryanka (1.143 ha) e Fetească Alba (954 ha), però, quello più coltivato in assoluto è la Moldova, uva da tavola che a volte viene anche vinificata e che, coi suoi 12.375 ettari occupa oltre il 10% del vigneto del paese. 

Il vino che andiamo a degustare proviene dalla regione di Valul Lui Traian (Vallo di Traiano), che a sua volta è suddivisa in 7 distretti: Leova, Cantemir, Cahul, Comrat, Ceadâr-Lunga, Taraclia e Vulcanesti per un totale di 43.300 ettari di vigneti.
Qui si producono principalmente vini rossi (60%) ma la regione è famosa anche per i suoi vini liquorosi. Il clima in genere è caldo, influenzato dal Mar Nero e dai Monti Tigheci. 

La Feteasca Neagră 

La Feteasca Neagră è un vitigno autoctono della Romania, dove se ne trovano 2.845 ettari (oltre l’87,5% della superficie mondiale), i rimanenti 400 ettari sono situati in Moldova.  Il vitigno produce grappoli di dimensioni medio-grandi, con buccia violacea scura, resiste bene sia al gelo che alla siccità, come pure al marciume ma produce poco, necessita quindi di una potatura che preveda molte gemme. 


E’ in grado di raggiungere elevati quantità di zuccheri, pur mantenendo una buona acidità, i grappoli però non hanno una maturità uniforme e questo comporta molta attenzione durante la vendemmia. Vi si ricavano sia vini rossi - in molti casi destinati all’invecchiamento - sia vini rosati. 

L’azienda 

L'azienda "Vinuri de Comrat" si trova nel sud della Moldova, nella regione autonoma "Gagauzia" che ha come capitale Comrat. E’ stata fondata nel 1895, quando il ministro delle finanze dell'Impero russo, S.I. Witte, emanò un decreto per la costruzione di 14 depositi di vino, di proprietà dello Stato, nella provincia della Bessarabia per la produzione di vodka. Una di queste fabbriche è stata costruita a Comrat e consisteva di quattro diverse sezioni, una per la produzione di vodka con una cantina per lo stoccaggio delle merci, un magazzino, un alloggio per l'amministratore ed un fabbricato per i lavoratori. Nel 1897 iniziò la produzione di vino da tavola e per il trasporto delle merci è stata realizzata una scuderia. 


Dopo la seconda guerra mondiale, accanto ai locali esistenti fu costruito uno stabilimento per la lavorazione dell'uva, questo diede nuova vita all'azienda, vennero rimodernati i vecchi edifici e iniziò la produzione di vino.
Nel 1969 fu organizzato uno stabilimento agroindustriale, con sede nella cantina di Comrat, che comprendeva 15 aziende agricole e 8 cantine, questo impianto agroindustriale era in grado di lavorare sino a 80.000 tonnellate di uva a stagione.
Nel 1995, a seguito della privatizzazione, la cantina di Comrat è stata riorganizzata in JSC "Vinuri de Comrat".


Oggi l'azienda possiede di oltre 300 ettari di vigneti unitamente a cinque aziende agricole situate nella regione vinicola "Valul lui Traian", lavora 5-6mila tonnellate di uva e imbottiglia circa 3 milioni di bottiglie di vino all'anno e dà lavoro a 160 dipendenti.
L'azienda produce più di 50 tipologie di vini, sia varietali che frutto di blend, utilizzando sia uve di varietà europee sia autoctone, storicamente coltivate solo in Moldova e Romania, vini che vengono esportati in oltre 20 paesi, soprattutto nell’Europa dell’Est, ma anche in Cina e Giappone, dispone inoltre di una propria rete di negozi aziendali. 


Fiore all'occhiello dei vignaioli della fabbrica “Vinuri de Comrat” sono i vini delle linee “Plai Moldova”, “98 Hectares”, “Provincia della Bessarabia”, “Detox Cabernet-Sauvignon” e la linea locale “Folklore”, maturati in botti di rovere e prodotti secondo tutte le moderne tecnologie di vinificazione. Attualmente, dei 14 depositi di vino di proprietà statale, costruiti nel XIX secolo, nella provincia di Bessarabia sul territorio della Repubblica di Moldova, è stato conservato solo il deposito di vino Comrat. 
Il JSC "Comrat Wines" è uno dei più antichi monumenti storico-architettonici ed industriali dell'Ottocento in Moldova. 


Il vino che andiamo a degustare è l’IGP Valul lui Traian Feteasca Neagră 2017, appartenente alla linea produttiva “98 Hectares”. Viene prodotto con uve selezionate e raccolte a mano, la fermentazione si effettua tramite l’utilizzo di lieviti selezionati e l’affinamento si svolge in botti di rovere francese dove il vino sosta per almeno sei mesi. 


Si presenta con un color granato profondo. Discretamente intenso al naso, ampio, vi cogliamo note autunnali, di sottobosco, funghi, foglie umide, prugna matura, con accenni balsamici e mentolati, spezie dolci e tabacco dolce, cacao, accenni di caffè. Media la sua struttura e buona l’eleganza, succoso e balsamico, con tannini morbidi, vellutati, delicato, armonico, equilibrato, con sentori di cioccolato alla menta, vaniglia, ciliegia, buona la sua persistenza. 

InvecchiatIGP: Cantine Ornina - Vallechiusa Toscana IGT Bianco 2018


di Stefano Tesi

Togliamoci subito il dente, anzi i denti, e facciamo tre confessioni.

La prima è che, prima di aprirla, su questa bottiglia avevo qualche perplessità: l’età considerevole e l’inquietante colore carico mi facevano temere marsalature epiche.

La seconda è che del vino, oltre all’annata che vedete, avevo anche la 2012 e la 2013: erano destinate a una verticale che, coi produttori, da luglio scorso ci eravamo reciprocamente promessi di fare insieme ma che poi, per le solite contingenze, è slittata sine die. E, siccome da un mesetto Marco e Greta Biagioli, così si chiamano i proprietari, sono alle prese con la nuova arrivata Flora (congrats!), ho pensato che per un altro un po’ di tempo avranno ben di meglio a cui pensare che a degustare con me.

Mi ero così risolto, terza confidenza, a procedere da solo. Ma stappata e assaggiata la 2011, ho deciso di mettere da parte le altre due per poterle davvero condividere con gli amici di Ornina o almeno con altri amici, nella speranza che fossero come questa.

La storia della cantina e del cammino che ha portato alla nascita dell’azienda è bella e divertente, eccentrica come (almeno in accezione vinicola) è del resto il Casentino, l’area il cui il tutto si trova. Biodinamici e steineriani, così come l’architettura e i principi a cui si ispirano, Marco e Greta puntano però al sodo, non si nascondono dietro il marketing dell’esoterismo e non puntano affatto sulla vera o presunta stranezza che spesso pubblico e critica attribuiscono a certe scelte ritenute a priori troppo radicali.

Basta fare un salto in loco - e io lo feci - per capire invece la linearità della loro visione e comprendere anche il rapporto simbiotico che i nostri hanno col luogo, che è pure dove vivono e ospitano. Cominciarono nel 2008 con la vigna del babbo, nel 2014 hanno costruito la nuova cantina: “Al momento produciamo 7 etichette, ma considerando che ogni anno ci dedichiamo almeno a una quota esperimento, la lista è sicuramente destinata a crescere”, ammettono in rete.


A maggio scorso avevo assaggiato il loro Vallechiusa Bianco, un IGT Toscana a base di Trebbiano, Malvasia e una punta di Moscato, e mi era piaciuto. Macerazione non troppo lunga, mi avevano spiegato, fermentazione spontanea in acciaio e maturazione di 15 mesi in cemento.

“Chissà come si evolve nel tempo”, chiesi.

Da qui l’idea della verticale delle annate più vecchie superstiti: 2011, 2012, 2013.

Ed eccola la 2011, bottiglia impietosamente (o a sommo studio?) bianca. Tappo integro. L’etichetta rivela che, accanto a Trebbiano e Malvasia, dentro all’epoca c’era anche un po’ di Sauvignon Blanc.

Del colore abbiamo detto. Mi aspettavo una botta di trebbianone evoluto e invece, sorpresa, il ventaglio si apre tra fiori di campo appassiti, fieno, sassi bagnati e roccia spezzata, ondate di resina, mirto, macchia marina e una lunga scia quasi salmastra, elegante, che non satura e torna a folate.
La gradevolezza continua in bocca, con una sapidità agile che smorza l’alcool (13,5°) e fa dispiegare con lentezza il lungo retrogusto delicatamente amarognolo. Disorientato dal divario tra le aspettative e l’assaggio, ho ritenuto opportuni riassaggiare e riassaggiare, così se n’è andata mezza bottiglia.


Del resto lo diceva anche la pulzella Amanda Sandrelli a non distaccatissimo messere Massimo Troisi in una scena cult di “Non di resta che piangere”, no? Bisogna provare, provare, provare, provare…

Rottensteiner - Alto Adige Gewurtztraminer "Cancenai" 2021


di Stefano Tesi

Ti balocchi a lungo e piacevolmente con Hannes e Judith, inseguendo il filo delle loro riuscite interpretazioni della Schiava, e verso la fine ti colpiscono a tradimento con questo Gewürztraminer fuori passo, anomalo, asciutto, pulito, ricco e complesso, coinvolgente, da cercare col lanternino.

Il Lady F di Donne Fittipaldi e quell'Orpicchio dimenticato!


di Stefano Tesi

La mia passione per le cose strambe e fuori passo, per le tecniche dimenticate, i piatti desueti, le coltivazioni abbandonate, le varietà soppiantate e, in particolare, per i vitigni rari e perduti è nota. Si tratta di una curiosità, anche sotto il profilo organolettico, prima di tutto culturale. Quasi archeologica. Se poi, oltre che antica, la cosa è pure buona, meglio.


Nello specifico del vino il mio interesse è aumentato molto quando, anni fa, coi colleghi dell’Aset abbiamo fatto una bella degustazione di microvinificazioni di alcuni antichi vitigni toscani recuperati dal benemerito Crea di Arezzo. Si trattava ovviamente di produzioni sperimentali. Fu però in quella circostanza che il direttore dell’ente, Paolo Storchi, ci parlò del fatto che alcune aziende avevano reimpiantato un po’ di quelle uve e avevano avviato una produzione di vino destinata al pubblico.
Tra i vitigni che più mi avevano colpito c’era l’Orpicchio. Leggo dalle mie note di allora: “Varietà bianca coltivata nel Valdarno Superiore fino alla metà del ’900, poco vigorosa, piuttosto precoce. Giallo paglierino con riflessi verdastri, profumo piuttosto intenso di fiori bianchi, buon frutto, in bocca è altrettanto intenso, piacevole e lungo. Una tipologia certamente interessante in chiave reinterpretativa“.


Sono stato perciò ben lieto di ritrovarlo oggi in produzione sotto forma di IGT Toscana: è il “Lady F“, annata 2019, di Donne Fittipaldi, l’azienda tutta al femminile (la mamma Maria Fittipaldi Menarini e le figlie Carlotta, Giulia, Serena e Valentina) nata nel 2004, quando la famiglia Fittipaldi Menarini decise di impiantare a Bolgheri alcuni ettari di Merlot, Petit Verdot, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc (dal quale si ricava Magnetic, un interessante Bolgheri Rosso affinato in cocciopesto), Malbec e, per l’appunto, Orpicchio.


Racconta l’enologo, Emiliano Falsini: “Lo sovrainnestammo nel 2013 su 8mila metri di un Sangiovese di cui non eravamo soddisfatti. Cercavamo qualcosa di particolare e Stefano Dini, l’agronomo, ci consigliò la Volpola o l’Orpicchio. Ma la prima non si trovava, mentre il secondo era disponibile presso un’azienda di Vinci che lo usava come uva da taglio. Prendemmo le marze e la storia cominciò. Si tratta di una varietà che a Bolgheri non ci ha dato troppe difficoltà, salvo soffrire un po’ le annate umide per via del suo grappopolo molto compatto e quindi soggetto alla botrite. Anche le prove di vinificazione furono subito soddisfacenti. All’inizio lo facevamo solo in barrique, alternandone di vecchie e di nuove, dal 2017 per metà lo mettiamo invece in acciaio. E’ un vino particolare, da un punto di vista organolettico somiglia al Pinot bianco ma sembra adatto anche all’invecchiamento: abbiamo bottiglie di quattro anni fa ancora ottime. La produzione è piccola, massimo 3000 pezzi l’anno, ma ne siamo molto orgogliosi, anche perchè siamo solo due aziende a farlo“.


All’assaggio il Lady F si presenta di un bel colore dorato e brillante. Al naso il primo impatto è di pesca matura e di frutti estivi, poi si stempera a ventaglio e ricorda il biancospino, la pietra focaia e una nota quasi lapidea. In bocca è abbastanza intenso, lungo ma non troppo complesso, con un accenno di legno e una coda sapida che lo rende godibile.

InvecchiatIGP: Rivera - Castel del Monte Rosso "Il Falcone" Riserva 2000


di Luciano Pignataro

Durante la cena a palazzo Rospigliosi a Roma organizzata dall’Istituto Grandi Marchi abbiamo apprezzato moltissimo la decisione di Sebastiano Rivera di proporre una vecchia annata di Falcone, il top dell’azienda, che ha accompagnato la viticoltura pugliese praticamente da sempre.
Una magnum 2000, annata sulla quale noi siamo sempre stati perplessi, il primo vero campanello d’allarme del global warming che spesso ha colto le aziende divino impegnate in quel periodo a preparare vini materici e sovraestratti per un pubblico più abituato all’alcol che all’arte di bere. Ne sono usciti vini poco distesi, contratti, in cui spesso la freschezza ha dovuto cedere il passo.


Sarà stata la versione in magnum, o comunque la frescura dei venti delle Murge che accarezzano il futuribile castello di Federico II, primo e ultimo esempio di costituzione di uno Stato Unitario in Italia. Fatto sta che il bicchiere si è rivelato sorprendente. Prima dobbiamo però aggiungere che il Falcone un blend di Nero di Troia, di cui l’azienda Rivera è stata sinora l’interprete più convinta e autorevole e di Montepulciano d’Abruzzo, un saldo del 60 per cento che sostanzialmente tende a rendere il vino più morbido e bevibile.


A distanza di oltre 20 anni il rosso è puro, ricco di energia e pimpante, il colore è granato ma vivo, il naso regala frutta rossa in conserva, carruba, note fumè e di cenere, rimandi di foglie di tabacco e lieve tostatura di caffè. Il palato è un piccolo grande capolavoro, lungo piacevole, assolutamente in linea con lo spirito moderno, non lascia alcun segno di stanchezza. Un piccolo grande capolavoro che, tra gli altri, ha segnato l’ingresso dei vini pugliesi nella moderna enologia italiana.

Marulli - Menone Negroamaro Salento IGP 2019


di Luciano Pignataro

Da una piccola vigna ad alberello di 80 anni a Copertino nasce questo Negroamaro non filtrato, maturato in vasche interrate per tre anni e ancora 12 mesi in bottiglia. 


Succoso, fresco, bevibile, appagante. Eterno.

Cantina Coppola e l’anima bianca del Negroamaro


di Luciano Pignataro

Nell’immaginario collettivo la Puglia è rossa e il Negroamaro è il suo profeta. Battute a parte, resta il dato che l’attenzione generalizzata della critica corrisponde sempre meno alla realtà produttiva. Ma questo non vale solo per la Puglia. In Italia il rapporto fra la produzione di vini rossi e bianchi si è completamente rovesciato negli ultimi 15 anni: nel 2005 la proporzione era 53 a 47, nel 2020 siamo a 42 (rossi) e 57 bianchi. Anche nella Puglia che vanta il tridente rosso su cui sono concentrati tutti gli sforzi produttivi e narrativi, Primitivo, Negroamaro e Nero di Troia, le cose stanno cambiando: nel 2020 il vino bianco nel suo complesso cresce del 13% contro il calo del 12% del vino rosso e il bilanciamento storico si inverte con 5.2 m/hl contro 4.5m/hl. E stiamo parlando di una Regione che, con i suoi dieci milioni di ettolitri, è seconda solo al Veneto per produzione.


Dato atto doverosamente che questi numeri sono estrapolati dal sito "I numeri del Vino" (
www.inumeridelvino.it), torniamo a bomba, cioè come la lettura di gran parte della critica sia dislessica rispetto alla realtà che sta cambiando rapidamente sotto i nostri occhi a causa del cambiamento delle abitudini alimentari e anche perché, diciamolo, non esiste più il freddo di una volta a causa del global warming.
Questa premessa per dire che non sembri stravaganza la decisione di Cantina Coppola, una realtà che vanta un insediamento a Gallipoli dal 1489, di usare il Negroamaro vinificato in bianco per produrre un fermo secco, ormai dal 2004 e due spumanti con la regia dell’amico di famiglia Giuseppe Pizzolante Leuzzi di assoluto pregio.


Alt! Ricordiamo a noi stessi che la Puglia è stata all’avanguardia nella spumantizzazione metodo classico dal 1979, anno in cui a san Severo fu fondata D’Araprì, ancora oggi una delle pochissime aziende impegnate solo ed esclusivamente con le bollicine. Cogliamo l’occasione per ribadire che ogni paragone con lo Champagne, ma anche con le zone italiane che si propongono su questo segmento (Prosecco, Trento Doc, Franciacorta e Oltrepò) è assolutamente inutile perché, nella solita creatività anarchica italiana, ormai si spumantizza tutto e ovunque e dunque le bollicine devono essere lette solo come uno dei metodi di vinificazioni attraverso i quali si esprimono uve e territorio. Il bello dell’anarchia è che l’appassionato può trovare delle chicche inaspettate ad ottimo prezzo. Come queste della Cantina Coppola che abbiamo degustato nella nuova cantina al centro della proprietà nel corso di una presentazione sabato scorso.
La Cantina, poco meno di centomila bottiglie, ha da sempre un occhio di riguardo per il bianco, basti pensare che Carlo Coppola, papà degli attuali proprietari, fu il primo a piantare Vermentino nella tenuta di oltre 60 ettari in riva allo splendido mare di Gallipoli dopo un viaggio in Sardegna nel 1980.


Rocci 2020 Negroamaro Puglia IIGT

La prima etichetta risale al 2004. Il fatto che l’azienda creda in questo prodotto è confermato dalla decisione, ancora rara in Italia, di uscire un anno dopo la vendemmia per cui l’ultima annata in commercio è, appunto, la 2020. Il vino, vinificato in acciaio, ha un grado alcolico contenuto a 12,5 e questo favorisce la sua bevibilità. All’olfatto prevale ancora una sensazione citrica a cui si aggiungono la mela e note di macchia mediterranea e rimandi balsamici. Al palato la freschezza resta il tema dominante sin dall’ingresso del vino che conferma le piacevoli note di frutta migliorate da una marcata sensazione salina, sino alla chiusura amara, lunga, precisa, che lascia la bocca pulita.

Coppola 2015 Metodo classico 36 mesi

Passando adesso al primo dei due spumanti, dobbiamo anzitutto osservare una continuità olfattiva con il vino fermo. Certo. Le note agrumate portano al cedro più che al limone, le sensazioni balsamiche sono più accentuate e fa capolino un rimando fumè che allunga i profumi del vino. Il perlage è fine e persistente, mentre la decisione di pratica il Dosaggio Zero esalta le note di freschezza e regala al sorso un grande potenziale gastronomico, di possibilità di abbinamento poliedrico. Certamente non ristretto solo alla cucina di mare o ai piatti dei ristoranti giapponesi che ormai proliferano ovunque in Italia. Il sorso è lunghissimo, piacevole, fresco, dinamico, sapido, in equilibrio con una chiusura travolgente e piacevole, che invita subito a fare il bis e poi il tris. La produzione è di 3300 bottiglie.

Coppola 2016 Metodo Classico 60 mesi

Il protagonista della mattinata di degustazione nella bella cantina pensata per l’accoglienza è stato il 60 mesi: un investimento notevole per una piccola cantina, meno di mille bottiglie a 60 euro. In questo caso la linea di continuità che prima abbiamo rilevata tra il secco e la bollicina marca decisamente la terza tappa. Ai sentori agrumati subentrano note di frutta, mela, canfora, menta, mirto. I sentori fumé sono leggermente accentuati. Insomma, un naso più profondo che apre ad un sorso pieno, ricco ed energico che dal centro lingua occupa rapidamente tutto il palato. Anche in questo caso la vendemmia anticipata, il dosaggio zero e la mancata malolattica si sono rivelate a nostro giudizio te ottime mosse perché alla fine abbiamo uno spumante di grande bevibilità, anche in questo caso decisamente efficace.


CONCLUSIONI

Tre vini bianchi di grande pregio in terra di Gallipoli, capaci di essere abbinati a quasi tutta la cucina d’autore e a gran parte di quella tradizionale purché non sia eccessivamente "pomodorosa". Un impresa importante che ribadisce la volontà della cantina di specializzarsi e di surfare una tendenza profonda nl mondo dei consumi che ancora non è stata percepita completamente dagli addetti ai lavori e dagli appassionati. E questa la mette in una posizione di vantaggio commerciale e culturale.

Chianti Classico Collection 2022: focus sull'annata 2020


Dopo quasi due anni, dopo questa maledetta pandemia, sono tornato con grande piacere alla Stazione Leopolda di Firenze dove, dal 21 al 22 marzo 2022, si è tenuta la ventinovesima Chianti Classico Collection.


Appena entrato si è capito subito quale fosse il filo conduttore di questa edizione visto che, come potete vedere anche dalle foto, il tema alla base dell’allestimento della location è stato il territorio del Chianti Classico e la sua suddivisione in Unità Geografiche (UGA), il nuovo percorso che la denominazione ha deciso di intraprendere al fine di valorizzare al massimo delle caratteristiche distintive del Chianti Classico.

Credit: Winenews

Questa nuova suddivisione del territorio di produzione del Chianti Classico in aree più ristrette e dotate di maggiore omogeneità, porterà a indicare in etichetta (in una prima fase solo sui vini Chianti Classico Gran Selezione) il nome del comune o della frazione, rafforzando la comunicazione del binomio vino-territorio, aumentando la qualità in termini di identità e territorialità, consentendo al consumatore di conoscere la provenienza delle uve e, non ultimo, stimolando la domanda attraverso la differenziazione dell’offerta.



Per questo sono state individuate e delimitate undici aree all’interno della zona di produzione del Chianti Classico, distinguibili in base alla combinazione unica di fattori naturali (composizione del suolo, microclima, giacitura dei vigneti, ecc.) e fattori umani (storia culturale, tradizioni locali, spirito di comunità): San Casciano, Greve, Lamole, Montefioralle, Panzano, Radda, Gaiole, Castelnuovo Berardenga, Vagliagli, Castellina, San Donato in Poggio.

Tutto questo recita il comunicato stampa che è stato dato a noi blogger\giornalisti per cui, appena entrato nella sala degustazione riservata, la prima domanda che mi sono fatto è stata: ”Siamo sicuri che 11 UGA riflettano davvero le reali differenze territoriali? Non saranno troppe e frutto di una decisione diplomatica volta ad accontentare un po’ tutti i “campanili”?

L’altro obiettivo di queste poche di ore di degustazione spese alla Stazione Leopolda è stato valutare l’ultima annata in commercio del Chianti Classico, la 2020, perché avendo sentito opinioni contrastanti volevo farmi una opinione assolutamente personale e scevra da ogni pregiudizio.

Giovanni Manetti - Presidente Consorzio Chianti Classico

Prendendo sempre spunto dal comunicato ufficiale del Consorzio si evince che, in questo millesimo particolare, il territorio del Gallo Nero non ha, per sua fortuna, sperimentato eventi climatici estremi come purtroppo si sono verificati in altre regioni d’Italia. A una primavera abbastanza fresca è seguita un’estate calda e lunga ma con buone escursioni termiche fra il giorno e la notte (le temperature minime sono state sempre contenute sia a luglio che ad agosto) consentendo il completamento ottimale del processo di maturazione delle uve. Da evidenziare anche l’assenza di stress idrico grazie alle piogge di giugno e di settembre. Tutti questi sono i presupposti per un’altra ottima annata di Chianti Classico, di grande struttura e di grande equilibrio.

Per capire se tutto ciò che ci hanno raccontato in termini di UGA e di caratteristiche di annata sia realmente tangibile nel bicchiere, ho degustato una sessantina di Chianti Classico “base”, da sempre i miei preferiti per espressività, al fine di testare sul campo l’esistenza di linee comuni e differenze tra i campioni prescelti.

Di seguito, suddivisi per territorio, i migliori vini degustati:

Castelnuovo Berardenga

Carpineta Fontalpino - Chianti Classico Fontalpino 2020

Bevuto già qualche tempo fa in azienda. Dopo qualche mese si conferma intenso, fruttato, materico ma con una bevibilità ed un equilibrio davvero notevole!

Vagliagli

Complicità – Chianti Classico “Assolo” 2020

Avvolgente e complesso, sa di mora, ciliegia ed erbe aromatiche. Sorso salino e godibile.

Radda

Istine - Chianti Classico 2020

Angela da tempo non sbaglia un colpo e con questo Sangiovese in purezza guida con orgoglio la bella truppa raddese interpretando la soavità del territorio in maniera impeccabile.

Gaiole

Riecine – Chianti Classico 2020

Il “timbro di fabbrica” di questa azienda lo adoro da tempo, soprattutto amo l’aspetto agrumato e sapido di questo Chianti Classico dal sorso teso, terso e profondo come pochi altri in zona.

Panzano

Monte Bernardi - Chianti Classico "Retromarcia" 2020

La bellezza di questo vino: interpretare il terroir di Panzano, che dà sempre vini ricchi ed carnosi, con armonia e definizione. La progressione di questo sangiovese è assolutamente dirompente.

San Casciano

Cigliano di Sopra – Chianti Classico 2020

Avvolgente, succoso, nitido. La componente acido-sapida e la sua scorrevolezza lo trasportano tra i Chianti Classico più beverini degustati.

Greve

Podere Poggio Scalette – Chianti Classico 2020

Tipicamente espressivo di visciola e agrumi con piccolo corredo di erbe aromatiche. Bocca di appagante freschezza, facilità e piacevolezza di beva.

Montefioralle


Maurizio Brogioni Winery – Chianti Classico “H’amorosa” 2020

Ricco di frutta al naso, al sorso manifesta struttura proporzionata e coesa che svela un finale sapido davvero appagante.

Lamole

Podere Castellinuzza – Chianti Classico 2020

Non c’è nulla da fare, quando bevo Lamole mi sento come se entrassi in un campo fiorito di iris che dona al vino una levità ed una rarefazione davvero entusiasmante. Terroir unico.

Castellina

Castello La Leccia - Chianti Classico 2020

Guido Orzalesi, pian piano, sta riuscendo nell’impresa di togliere al Chianti Classico di questa aziende tutte le inutili sovrastrutture del passato per portare, come in questo caso, il sangiovese ad una essenzialità chiantigiana che mi piace da morire.

San Donato in Poggio

Isole e Olena – Chianti Classico 2020

Vibrante e complesso, sprigiona intesi aromi di prugna e visciola, a seguire incenso, rabarbaro e fiori rossi appassiti. La bocca è emozionante, potenza e controllo vanno a braccetto rendendo tutto dannatamente armonico.

Foto: Ricasoli.com

Conclusioni

Quando tiro le fila di una degustazione così lunga e complicata cerco sempre di confrontarmi con qualche amico\collega e, come sempre, il primo che vado a cercare è il mitico Carlo Macchi che in tema di sangiovese toscano è una voce più che autorevole. Mi fa piacere aver letto su Wine Surf le mie stesse riflessioni sulla 2020 che si rivelata una annata “classica” dove il vino tende ad esprimersi nel bicchiere esaltando, a seconda del terroir, la florealità, la solarità, la freschezza oppure la “sana ruvidezza” del sangiovese. I 2020, pertanto, sono Chianti Classico dinamici, mai pesanti ed eccessivi in alcol e tannino, che rendono spesso e volentieri la beva succosa e godibilissima anche nel caso di affinamenti del vino in legno che non risulta quasi mai invadente.


Per quanto riguarda le UGA e la loro leggibilità nel bicchiere, ho notato che in molti casi, come ad esempio mi è accaduto per Radda, Lamole o Panzano, il vino effettivamente si esprime nel bicchiere con caratteristiche assolutamente uniche tali da giustificare la menzione territoriale. In altri casi, invece, queste sfumature non sono così nette e caratterizzanti. Non so, siamo sicuri che, ad esempio, dividere in Comune di Castelnuovo Berardenga in due UGA (Vagliagli e Castelnuovo Berardenga) sia realmente un valore aggiunto per la denominazione e non si rischi, invece di confondere il consumatore finale? 

Le risposte, come sempre, le darà solo il tempo.

InvecchiatIGP: Manni Nossing - Valle Isarco Doc Kerner 2016


di Carlo Macchi

La Valle Isarco era considerata fino a poco tempo fa il confine nord per la produzione di vino in Italia e in effetti a pochissimi chilometri dalle vigne di Manni si trova la Plose, una delle più belle piste da sci d’Italia. Però è anche vero, e lo possono confermare tutti quelli che sono stati in Valle Isarco d’estate, che quando è caldo lì sembra di essere in un forno, magari ventilato, ma sempre forno.


Manni Nossing è stato uno dei primi a immaginare la Valle Isarco come la conosciamo oggi e sicuramente la sua testardaggine e lungimiranza ha permesso a questo territorio di crescere e di farsi conoscere. Questo grazie vini da vari vitigni ma se ce n’è uno che rappresenta questo territorio è certamente il Kerner. Di origine tedesca (incrocio tra trollinger e riesling) si è ambientato benissimo in Alto Adige ma spesso ha caratteristiche molto diverse a seconda del territorio, dell’altitudine e soprattutto della mano del produttore. Si passa da Kerner che sembrano dei riesling giovani con meno profumi, a Kerner che ricordano gli agrumi matura di un sauvignon in annate calde, ad altri che, forse a causa dell’uso scriteriato del legno, perdono ogni riferimento e potrebbero essere fatti in qualsiasi parte del mondo.


Questa bottiglia di Manni, invece, nonostante la vicinanza ad un piccolo mappamondo e forse la quintessenza del vero Kerner: intensi aromi di agrumi (limone, mandarino, arancia) mescolati a note di idrocarburo e di sensazioni mentolate. Un naso veramente perfetto, preciso ma di grande ampiezza. Bocca estremamente sapida, concreta, profonda, con una freschezza che tiene vivo il vino per tanti, tanti secondi ma che mai diventa amara e mostra grande eleganza finale.
Un vino che vale il giro del mondo (ora si che serve il mappamondo) per venire a berselo!

Riofavara - Terre Siciliane IGT "Nsajàr" 2019


di Carlo Macchi

Recunu, Cutrera e Rucignola: tre vitigni antichi siciliani per un vino che nasce tra Modica e Pachino, vicino al mare e unisce il nord alla Sicilia: aromi da Riesling giovane di grande livello, bocca sapida, calda avvolgente. 


Finezza e pienezza unite assieme. Nsajàr vuol dire provare e voi… provatelo

Sana Slow Wine Fair: occasione irripetibile per assaggiare vini italiani e dal mondo

Cantine biologiche e rispettose dell’ambiente, piccoli produttori, aziende agricole, vignaioli innovativi: sono 542 le realtà dall’Italia e dal mondo, scelte da Slow Food tra chi ha firmato il Manifesto del vino buono, pulito e giusto, che partecipano da domenica 27 a martedì 29 marzo 2022 alla prima edizione di Sana Slow Wine Fair. Conferenze online, masterclass, degustazioni e spazi di dialogo per appassionati e professionisti: non mancano le occasioni per incontrarsi - nuovamente in presenza - e condividere con gli esperti del settore riflessioni sul mondo vitivinicolo, le sue sfide e le sue opportunità. Un evento unico nel suo genere che offre ai partecipanti la possibilità di trovare in un solo luogo il meglio della produzione artigiana e sostenibile italiana e internazionale.


La prima edizione di Sana Slow Wine Fair è organizzata da BolognaFiere con la direzione artistica di Slow Food, in partnership con FederBio e Confcommercio Ascom Bologna, con il supporto di Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dell’ICE, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna. Sana Slow Wine Fair 2022 è possibile grazie al supporto di moltissime realtà, pubbliche e private, che credono in questo progetto. A nome di tutte, ringraziamo i main partner: FPT Industrial, Reale Mutua, UniCredit.

«Sana Slow Wine Fair contribuirà a far crescere la vera grande comunità del vino che si è creata a partire dalla Guida Slow Wine e Bologna diventerà nei prossimi giorni la capitale del vino buono, pulito e giusto. I temi al centro della manifestazione sono fondamentali per andare incontro alle sfide che il momento di difficoltà attuale ci pone di fronte, a partire dalla crisi climatica e dalla siccità che in questi giorni è un vero dramma per i produttori. In questo, un ruolo importante è quello dei giovani che si fanno portatori della sostenibilità ambientale nelle loro scelte quotidiane, anche quando scelgono un vino in enoteca» sottolinea Federico Varazi, Vice Presidente di Slow Food Italia.

All’auspicio di Antonio Bruzzone, che ha sottolineato come «la crescita di un appuntamento di questa ambizione necessita che le istituzioni ci credano, non solo nella manifestazione ma anche nel ruolo che il territorio deve avere nel settore fieristico e vitivinicolo, secondo una visione di politica di sviluppo a lungo termine», hanno risposto gli assessori Alessio Mammi, per la Regione Emilia-Romagna, e Daniele Ara, per il Comune di Bologna, confermando l’interesse verso la fiera e invitando BolognaFiere e Slow Food a un incontro per lavorare insieme alle prossime edizioni.

Per Giancarlo Tonelli, Direttore Generale Confcommercio Ascom Bologna, questa manifestazione serve per far crescere anche la qualità intera del mondo dell’enogastronomia bolognese.

Il focus sugli espositori

Delle 542 cantine presenti, 63 sono quelle che esprimono una bella biodiversità internazionale. Oltre all’Italia, sono infatti 18 i Paesi rappresentati con i loro produttori nei padiglioni 15 e 20 di BolognaFiere: Albania, Austria, Argentina, Bosnia Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Cile, Croazia, Francia, Grecia, Macedonia Del Nord, Montenegro, Perù, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, Uruguay.

«Sono cantine che hanno voluto fortemente far parte della Coalizione ed essere presenti alla Fair. E per i produttori che provengono dall’estero non è così scontato in questi tempi. Inoltre, si tratta di aziende di piccole e medie dimensioni che nella maggior parte dei casi non sono nemmeno distribuite in Italia. Un’occasione irripetibile quindi sia per i professionisti che potranno selezionarle che per il pubblico che potrà assaggiare etichette che nella maggior parte dei casi non sono state mai assaggiate in Italia, e spesso addirittura in Europa» sottolinea Giancarlo Gariglio, coordinatore internazionale della Slow Wine Coalition, che aggiunge. «I produttori emiliano romagnoli che sono presenti lavorano già seguendo i principi della Coalition, quello che speriamo è che Sana Slow Wine Fair rappresenti un momento di ritrovato orgoglio e una spinta a sostenere la produzione buona della regione da parte dei professionisti».

Più della metà degli espositori - in totale 302 cantine – ha una certificazione biologica o biodinamica o presenta etichette certificate. È un segnale fortissimo perché, come evidenziano i dati del Report Wine Monitor Nomisma, il mercato del vino bio si dimostra in grande crescita con un incremento dei consumi in Italia del 60% negli ultimi tre anni. Anche la produzione vitivinicoltura biologica registra numeri positivi. Dai dati Sinab Italia, con 117.378 ettari di vite bio, il nostro Paese conta un’incidenza sulla superficie vitata complessiva di oltre il 19%, la più alta in Europa e nel mondo. Negli ultimi 10 anni la produzione di vino biologico è aumentata quasi del 110% a testimonianza di una maggiore sensibilità dei consumatori verso prodotti di qualità, sostenibili e rispettosi dell'ambiente.

«Il vino biologico, che non utilizza pesticidi e sostanze chimiche di sintesi a protezione della fertilità del suolo e della biodiversità, conferma il suo ruolo centrale all’interno del processo di transizione ecologica verso un’agricoltura sempre più sostenibile. I tre pilastri del Manifesto Slow Food per il vino buono pulito e giusto – sostenibilità ambientale, tutela del paesaggio e crescita sociale e culturale delle campagne – sottoscritto anche da FederBio, contraddistinguono il vino biologico insieme al valore dell'identità territoriale delle denominazioni d'origine del nostro Paese con l'unico logo certificato dall'Unione Europea che premia il lavoro di tanti viticoltori», dichiara Maria Grazia Mammuccini, presidente FederBio.

E poi ci sono le storie. A partire da quella di Rita Babini, produttrice Ancarani Vini Faenza per cui «il buono pulito e giusto rappresenta identità territoriale e visione di un’agricoltura per cui vogliamo veder crescere il nostro lavoro oggi ma anche regalarlo a chi lo vorrà fare domani. Il riferimento al cambiamento climatico e al fatto che non piove ha una serie di ripercussioni concrete sul nostro lavoro sia per questa annata ma anche per la prossima. Questa fiera riassume tutti gli sforzi quotidiani che facciamo per cercare un equilibrio produttivo che ci permetta di fare il nostro lavoro in onestà e che questo accada in Emilia Romagna è un vero motivo di orgoglio. E infine un invito, è vino buono, pulito e giusto ma è anche buono da bere, noi saremo lì ad accogliervi con i nostri vini e con un bel sorriso».

Si potranno poi scoprire le storie di Ivana Simjanovska, co-autrice della guida Slow Wine per la Macedonia del Nord, di Marina Santos, produttrice brasiliana di vino naturale, o di Gregory Perucci, proprietario dell’Agricola Felline a Manduria (Taranto), che coltiva Primitivo all'ombra della vegetazione spontanea. Ma anche quella di Alexis e Jannis, greci di origine, che in provincia di Gorizia gestiscono la cantina Paraschos. E ancora: l'Enantio Riserva 1865 Prefillossera prodotto dalla famiglia Fugatti dell'azienda agricola Roeno, il Rubicone Rosso I.G.T. nato dallo scambio di tecniche e di esperienze fra produttori georgiani ed emiliano-romagnoli, il Cannonau di Mamoiada realizzato dai produttori dell'associazione sarda Mamojà.

Nove masterclass per 360 partecipanti

Nove le masterclass in programma che permetteranno ai circa 360 professionisti del vino e appassionati che parteciperanno di approfondire la conoscenza dei vini di alcune tra le denominazioni, i Domaines, le Maisons, gli Châteaux e i Weingüter più iconici, grazie alla voce di profondi conoscitori delle zone scelte. Ad esempio, per la prima volta nel panorama italiano, sarà possibile assaggiare i vini cinesi, rappresentati da cinque cantine, e ascoltare i racconti di Lan Liu, curatore della prima guida Slow Wine ai vini della Repubblica Popolare Cinese.

Nonostante alcune siano esaurite, c’è ancora la possibilità di partecipare a una di queste esclusive esperienze, acquistando i biglietti disponibili sul sito della manifestazione.

I momenti di approfondimento

La manifestazione, aperta virtualmente da una serie di convegni online - sempre disponibili sul sito della manifestazione - prende il via ufficialmente domenica 27 marzo alle 9 con la plenaria di apertura della Slow Wine Coalition, la rete internazionale, inclusiva e collaborativa che unisce i protagonisti del mondo del vino. Dopo i saluti delle autorità, apre la plenaria Giancarlo Gariglio, coordinatore internazionale Slow Wine Coalition, che presenta i paper dei tre convegni digitali di Sana Slow Wine Fair dedicati a sostenibilità ambientale, difesa del paesaggio e ruolo sociale delle cantine. Seguono il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi che illustra gli effetti dei cambiamenti climatici sull’agricoltura e sull’enogastronomia, Carlo Petrini, fondatore e presidente di Slow Food, che interviene sulla transizione ecologica e sul ruolo dell’agricoltura, e il presidente di Libera Don Luigi Ciotti che introduce il tema sempre attuale del rapporto tra produzione agricola e legalità. La plenaria è su invito, aperta ai delegati della Sana Slow Wine Fair e ai giornalisti. Il pubblico può assistere alla manifestazione attraverso il sito web slowinefair.slowfood.it

Momenti di approfondimento sono gli incontri nella Slow Wine Arena e nello Spazio Slow Food, che intendono fornire un quadro ampio e variegato del panorama vitivinicolo internazionale. Tra i numerosi temi affrontati, ad esempio, la biodiversità dei vitigni, il packaging sostenibile, le carte dei vini, le progettualità sociali e il turismo alternativo.

Partecipare a Sana Slow Wine Fair

I biglietti sono disponibili online sul sito della manifestazione oppure direttamente alle casse di BolognaFiere.

Sei un professionista del mondo del vino? Puoi partecipare da domenica 27 a martedì 29 marzo.

Sei un appassionato? A te è dedicata la giornata di domenica 27 marzo.

Se hai acquistato una masterclass in programma nelle giornate di lunedì e martedì puoi acquistare l’ingresso alla fiera anche in queste due giornate dedicate ai professionisti.

Il Parco di San Rossore e il suo miele di spaggia!


di Carlo Macchi

In tempi come questi, dove la tristezza e l’amarezza non possono che regnare sovrane, forse parlare di cose buone e dolci riesce a rendere meno difficile la nostra giornata, e cosa di più dolce e buono del miele? Ma oggi non vi parlerò solo di miele ma di un luogo bellissimo, il Parco di San Rossore. Siamo sulla costa toscana tra Pisa e Viareggio, dove una pineta secolare, casa di conigli, cinghiali, caprioli, e cervi, si affaccia sul Tirreno. Tra il mare e la pineta c’è la spiaggia e soprattutto le dune tra spiaggia e pineta, regno di altri esseri, più piccoli, come le api.


La pineta di San Rossore la conosco bene perché in passato ho organizzato bellissime manifestazione all’interno della Tenuta Presidenziale, che è nel cuore della pineta. Ho assistito anche alle acrobazie dei “folli” che, armati praticamente solo di corde, passano da un pino all’altro per raccogliere i pinoli del parco, di una bontà assoluta ma che oramai, giustamente, costano più dell’oro. Conosco così benissimo i silenzi del bosco, i suoi rumori soffusi e soprattutto i suoi profumi, dovuti a tantissime specie di piante e di fiori che, andando verso la spiaggia, aumentano d’intensità. Tra questi profumi ve n’è in particolare uno che solo nasi molto addestrati o antenne “professionali” come quelle delle api possono percepire, quello dell’elicriso. Magari molti di voi ne sentiranno parlare per la prima volta ma è una pianta che cresce tra le dune: verde-grigia per buona parte dell’anno, fiorisce da maggio a giugno mettendo in mostra dei fiori gialli dotati di pochissimo polline ma più che sufficiente per delle intenditrici come le api.
Se qualcuno adesso pensasse che il suo profumo sia un qualcosa di secondario sappia che diverse sostanze usate in cantina, come la gomma arabica, hanno al loro interno il profumo di elicriso, che nasi molto allenati possono riconoscere nel vino.


Ma torniamo al miele: in questo luogo bellissimo e profumato, la spiaggia e le dune della pineta di San Rossore , grazie alle api, alle molte piante e ai molti fiori nasce questo miele che mi ha letteralmente lasciato a bocca aperta. Dovete sapere che non sono un grande amante del miele e delle cose dolci in generale: in casa ho una sequela di barattoli di miele che mi hanno regalato in varie occasioni, aperti per l’assaggio e poi lasciati lì a morire.


Questo barattolino stava per fare la stessa fine ma il mezzo cucchiaino messo in bocca, oltre a bloccarmi come un cane da punta per la squisita sorpresa mi ha costretto a riprenderne subito un cucchiaio colmo e a godermelo come non ho mai goduto col miele. Di solito infatti riesco a percepire sol uno o due profumi ma in questo i fiori vengono fuori a vagonate ma con sussurante eleganza: inoltre in bocca risulta molto meno dolce e più complesso di qualsiasi altro miele abbia mai assaggiato. In via retronasale poi i profumi di elicriso, lentisco, pino, ginepro, diventano ancora più netti e potenti.


Insomma, una goduria! La cosa che mi ha veramente colpito è, come accennato, che questo miele è molto meno dolce, meno “stucchevole”, come diciamo noi toscani, della media e quindi ti permette (in realtà MI ha permesso) di mangiarlo a cucchiaini colmi, come non ho mai fatto in vita mia. Lo si capisce anche dalle fotografie , dove il barattolino è praticamente finito: mentre scrivo il “praticamente” è stato eliminato.

InvecchiatIGP: Castello dei Rampolla - Vigna d'Alceo 1997


di Roberto Giuliani

Quando uscì quest’etichetta, nel 1996, in un’epoca in cui la Toscana stava attraversando la fase dell’internazionalizzazione dei propri vini, fra barriques, tonneaux, vitigni francesi e non solo, nuove tecnologie in vigna e cantina, la guida Vini d’Italia 1999 (che a quel tempo era ancora condivisa Gambero Rosso/Arcigola Slow Food) gli assegnò d'emblée il premio come vino dell’anno.


Erano tempi in cui il prezzo di un vino poteva lievitare fortemente in base ai premi ricevuti, anche se era già in commercio. L’odore dei soldi è magico, manda senza esitazione l’etica a farsi benedire. Ma tralasciamo questo particolare, anche perché in questo caso il Vigna d’Alceo partì già con un valore piuttosto alto per quei tempi, ricordo che nelle pochissime enoteche romane che erano riuscite ad accaparrarsi qualche bottiglia, si vendeva attorno agli 80 euro. E questo non impedì che quelle poche migliaia di bottiglie prodotte sparissero in un battito d’ali.

Giacomo Tachis

Del resto l’arrivo di Giacomo Tachis nell’azienda di Alceo di Napoli Rampolla, era già una garanzia di successo, molti produttori avrebbero fatto carte false per poter avere la consulenza dell’enologo più famoso del momento. Fu proprio lui a convincere Alceo a impiantare cabernet sauvignon e petit verdot a Panzano in Chianti, non a Bolgheri! Ovviamente la prima rivoluzione avvenne tra i filari, con le rese che si abbassarono in modo repentino, fino ad arrivare a soli 300 grammi d’uva per pianta, con conseguenti concentrazioni di sostanze un tempo impensabili e vini dal colore violaceo-nerastro impenetrabile. In pratica l’emblema dei famosi “Supertuscans”, che per un buon numero di anni hanno spopolato, in molti casi con prezzi da capogiro, aprendosi molto bene al mercato estero (perché da noi chi se li poteva permettere…).


La seconda uscita del Vigna d’Alceo fu la 1997, dichiarata “annata del secolo” in un momento in cui il vino italiano era in pieno sviluppo: fu uno slogan perfetto dal punto di vista commerciale, tanto che favorì la diffusione dei cosiddetti vini “en primeur”, prenotati e pagati in anticipo prima di vederli in enoteca. La cosa per un po’ ha funzionato piuttosto bene, poiché il vino “en primeur” aveva il prezzo bloccato e ti proteggeva dai possibili aumenti in caso di successo. Il Vigna d’Alceo 1997, ad esempio, alla sua uscita in commercio si aggirava sui 100 euro, ma nel giro di un semestre, ammesso che fosse possibile ancora trovarne qualche bottiglia, ce ne volevano 130-150. Ma questa è storia…


Insomma, stappiamo questo ’97, 85% cabernet sauvignon e 15% petit verdot, conservato rigidamente in cantina climatizzata, al buio, coricato, in assenza di vibrazioni e di luce, ovvero nella condizione ottimale per durare nel tempo. Bene, posso tranquillizzarvi subito, il tappo ha tenuto in modo perfetto e il vino non presenta alcun difetto, né pericolose ossidazioni. Il colore ha ancora una tonalità vivace, cuore rubino che digrada verso il granato. Come è doveroso fare dopo oltre vent’anni di chiusura, lo facciamo respirare a lungo, molti minuti, non perché ne abbia particolare necessità, ma per farlo aprire il più possibile.


Basta fare un paio di immersioni olfattive per rendersi conto che il vino è vergognosamente in pieno vigore, a tal punto che i prevedibili profumi terziari spinti sono totalmente disattesi, non vi è alcuna traccia di funghi, cuoio conciato, ceralacca e quant’altro potrebbe denunciarne almeno una condizione da “brizzolato”.

Il colore del vino

Macché, più passa il tempo e più il frutto emerge potente, viscerale, ribes nero davanti a tutti, ma anche un tocco di ciliegia matura, senza cenni alla confettura. Avvincente nei successivi richiami a cacao, menta, tabacco, ginepro e leggera ematite, il tutto in un’atmosfera estremamente sobria e vitale; a volte la lunga ossigenazione può produrre improvvise regressioni, qui invece tutto è perfettamente in tiro, vibra come un diapason, un’onda armoniosa che si affievolisce molto lentamente.


Ne provo un sorso e trovo una sintonia perfetta, un’armonia di suoni che rasenta la percezione tattile, non ho mai pensato a un vino in senso squisitamente fisico, corporeo, ma qui è davvero il caso. Va detto per amor di cronaca che il tannino è pura seta e che, nonostante l’annata fu piuttosto calda, qui siamo a 13 gradi alcolici, un valore oggi quasi impossibile da ottenere con queste rese, a tutto vantaggio di un gusto intenso ma mai pesante, dal tocco dolce, affabile, ti circuisce con i guanti di velluto. Davvero sorprendente, forse il migliore supertuscan classe 1997, per tenuta ed eleganza, che mi sia capitato di assaggiare in anni recenti, e detto da uno che non li ha mai amati…

Nota a margine: in seguito il nome in etichetta è divenuto semplicemente “D’Alceo”.

Mani di Luna - Sangiovese "Checcarello" 2018


di Roberto Giuliani

Un 15% di barbera in un vino che ti introduce nella “visione” di Rocco Trauzzola, tradizionalista fino al midollo, che schiaccia l’uva con i piedi, fa fermentazione con i lieviti indigeni e maturazione in cemento. 


Il Checcarello ha l’anima contadina, puro e diretto, succoso, fresco, fruttatissimo!