Il Parco di San Rossore e il suo miele di spaggia!


di Carlo Macchi

In tempi come questi, dove la tristezza e l’amarezza non possono che regnare sovrane, forse parlare di cose buone e dolci riesce a rendere meno difficile la nostra giornata, e cosa di più dolce e buono del miele? Ma oggi non vi parlerò solo di miele ma di un luogo bellissimo, il Parco di San Rossore. Siamo sulla costa toscana tra Pisa e Viareggio, dove una pineta secolare, casa di conigli, cinghiali, caprioli, e cervi, si affaccia sul Tirreno. Tra il mare e la pineta c’è la spiaggia e soprattutto le dune tra spiaggia e pineta, regno di altri esseri, più piccoli, come le api.


La pineta di San Rossore la conosco bene perché in passato ho organizzato bellissime manifestazione all’interno della Tenuta Presidenziale, che è nel cuore della pineta. Ho assistito anche alle acrobazie dei “folli” che, armati praticamente solo di corde, passano da un pino all’altro per raccogliere i pinoli del parco, di una bontà assoluta ma che oramai, giustamente, costano più dell’oro. Conosco così benissimo i silenzi del bosco, i suoi rumori soffusi e soprattutto i suoi profumi, dovuti a tantissime specie di piante e di fiori che, andando verso la spiaggia, aumentano d’intensità. Tra questi profumi ve n’è in particolare uno che solo nasi molto addestrati o antenne “professionali” come quelle delle api possono percepire, quello dell’elicriso. Magari molti di voi ne sentiranno parlare per la prima volta ma è una pianta che cresce tra le dune: verde-grigia per buona parte dell’anno, fiorisce da maggio a giugno mettendo in mostra dei fiori gialli dotati di pochissimo polline ma più che sufficiente per delle intenditrici come le api.
Se qualcuno adesso pensasse che il suo profumo sia un qualcosa di secondario sappia che diverse sostanze usate in cantina, come la gomma arabica, hanno al loro interno il profumo di elicriso, che nasi molto allenati possono riconoscere nel vino.


Ma torniamo al miele: in questo luogo bellissimo e profumato, la spiaggia e le dune della pineta di San Rossore , grazie alle api, alle molte piante e ai molti fiori nasce questo miele che mi ha letteralmente lasciato a bocca aperta. Dovete sapere che non sono un grande amante del miele e delle cose dolci in generale: in casa ho una sequela di barattoli di miele che mi hanno regalato in varie occasioni, aperti per l’assaggio e poi lasciati lì a morire.


Questo barattolino stava per fare la stessa fine ma il mezzo cucchiaino messo in bocca, oltre a bloccarmi come un cane da punta per la squisita sorpresa mi ha costretto a riprenderne subito un cucchiaio colmo e a godermelo come non ho mai goduto col miele. Di solito infatti riesco a percepire sol uno o due profumi ma in questo i fiori vengono fuori a vagonate ma con sussurante eleganza: inoltre in bocca risulta molto meno dolce e più complesso di qualsiasi altro miele abbia mai assaggiato. In via retronasale poi i profumi di elicriso, lentisco, pino, ginepro, diventano ancora più netti e potenti.


Insomma, una goduria! La cosa che mi ha veramente colpito è, come accennato, che questo miele è molto meno dolce, meno “stucchevole”, come diciamo noi toscani, della media e quindi ti permette (in realtà MI ha permesso) di mangiarlo a cucchiaini colmi, come non ho mai fatto in vita mia. Lo si capisce anche dalle fotografie , dove il barattolino è praticamente finito: mentre scrivo il “praticamente” è stato eliminato.

InvecchiatIGP: Castello dei Rampolla - Vigna d'Alceo 1997


di Roberto Giuliani

Quando uscì quest’etichetta, nel 1996, in un’epoca in cui la Toscana stava attraversando la fase dell’internazionalizzazione dei propri vini, fra barriques, tonneaux, vitigni francesi e non solo, nuove tecnologie in vigna e cantina, la guida Vini d’Italia 1999 (che a quel tempo era ancora condivisa Gambero Rosso/Arcigola Slow Food) gli assegnò d'emblée il premio come vino dell’anno.


Erano tempi in cui il prezzo di un vino poteva lievitare fortemente in base ai premi ricevuti, anche se era già in commercio. L’odore dei soldi è magico, manda senza esitazione l’etica a farsi benedire. Ma tralasciamo questo particolare, anche perché in questo caso il Vigna d’Alceo partì già con un valore piuttosto alto per quei tempi, ricordo che nelle pochissime enoteche romane che erano riuscite ad accaparrarsi qualche bottiglia, si vendeva attorno agli 80 euro. E questo non impedì che quelle poche migliaia di bottiglie prodotte sparissero in un battito d’ali.

Giacomo Tachis

Del resto l’arrivo di Giacomo Tachis nell’azienda di Alceo di Napoli Rampolla, era già una garanzia di successo, molti produttori avrebbero fatto carte false per poter avere la consulenza dell’enologo più famoso del momento. Fu proprio lui a convincere Alceo a impiantare cabernet sauvignon e petit verdot a Panzano in Chianti, non a Bolgheri! Ovviamente la prima rivoluzione avvenne tra i filari, con le rese che si abbassarono in modo repentino, fino ad arrivare a soli 300 grammi d’uva per pianta, con conseguenti concentrazioni di sostanze un tempo impensabili e vini dal colore violaceo-nerastro impenetrabile. In pratica l’emblema dei famosi “Supertuscans”, che per un buon numero di anni hanno spopolato, in molti casi con prezzi da capogiro, aprendosi molto bene al mercato estero (perché da noi chi se li poteva permettere…).


La seconda uscita del Vigna d’Alceo fu la 1997, dichiarata “annata del secolo” in un momento in cui il vino italiano era in pieno sviluppo: fu uno slogan perfetto dal punto di vista commerciale, tanto che favorì la diffusione dei cosiddetti vini “en primeur”, prenotati e pagati in anticipo prima di vederli in enoteca. La cosa per un po’ ha funzionato piuttosto bene, poiché il vino “en primeur” aveva il prezzo bloccato e ti proteggeva dai possibili aumenti in caso di successo. Il Vigna d’Alceo 1997, ad esempio, alla sua uscita in commercio si aggirava sui 100 euro, ma nel giro di un semestre, ammesso che fosse possibile ancora trovarne qualche bottiglia, ce ne volevano 130-150. Ma questa è storia…


Insomma, stappiamo questo ’97, 85% cabernet sauvignon e 15% petit verdot, conservato rigidamente in cantina climatizzata, al buio, coricato, in assenza di vibrazioni e di luce, ovvero nella condizione ottimale per durare nel tempo. Bene, posso tranquillizzarvi subito, il tappo ha tenuto in modo perfetto e il vino non presenta alcun difetto, né pericolose ossidazioni. Il colore ha ancora una tonalità vivace, cuore rubino che digrada verso il granato. Come è doveroso fare dopo oltre vent’anni di chiusura, lo facciamo respirare a lungo, molti minuti, non perché ne abbia particolare necessità, ma per farlo aprire il più possibile.


Basta fare un paio di immersioni olfattive per rendersi conto che il vino è vergognosamente in pieno vigore, a tal punto che i prevedibili profumi terziari spinti sono totalmente disattesi, non vi è alcuna traccia di funghi, cuoio conciato, ceralacca e quant’altro potrebbe denunciarne almeno una condizione da “brizzolato”.

Il colore del vino

Macché, più passa il tempo e più il frutto emerge potente, viscerale, ribes nero davanti a tutti, ma anche un tocco di ciliegia matura, senza cenni alla confettura. Avvincente nei successivi richiami a cacao, menta, tabacco, ginepro e leggera ematite, il tutto in un’atmosfera estremamente sobria e vitale; a volte la lunga ossigenazione può produrre improvvise regressioni, qui invece tutto è perfettamente in tiro, vibra come un diapason, un’onda armoniosa che si affievolisce molto lentamente.


Ne provo un sorso e trovo una sintonia perfetta, un’armonia di suoni che rasenta la percezione tattile, non ho mai pensato a un vino in senso squisitamente fisico, corporeo, ma qui è davvero il caso. Va detto per amor di cronaca che il tannino è pura seta e che, nonostante l’annata fu piuttosto calda, qui siamo a 13 gradi alcolici, un valore oggi quasi impossibile da ottenere con queste rese, a tutto vantaggio di un gusto intenso ma mai pesante, dal tocco dolce, affabile, ti circuisce con i guanti di velluto. Davvero sorprendente, forse il migliore supertuscan classe 1997, per tenuta ed eleganza, che mi sia capitato di assaggiare in anni recenti, e detto da uno che non li ha mai amati…

Nota a margine: in seguito il nome in etichetta è divenuto semplicemente “D’Alceo”.

Mani di Luna - Sangiovese "Checcarello" 2018


di Roberto Giuliani

Un 15% di barbera in un vino che ti introduce nella “visione” di Rocco Trauzzola, tradizionalista fino al midollo, che schiaccia l’uva con i piedi, fa fermentazione con i lieviti indigeni e maturazione in cemento. 


Il Checcarello ha l’anima contadina, puro e diretto, succoso, fresco, fruttatissimo!

Agriturismo Il Casaletto a Grotte Santo Stefano: un posto del cuore a due passi da Roma


di Roberto Giuliani

Siamo nel Viterbese a due passi da Vitorchiano, bellissimo borgo noto per l’estrazione del peperino, una roccia magmatica di colore grigiastro utilizzata per la produzione di lastricati, scale, zoccolature e molto altro. Grotte Santo Stefano fino al 1927 era un comune della provincia di Roma, l’anno dopo Mussolini riformò le province laziali e questo borgo fu aggregato a Viterbo che divenne provincia, da cui dista poco più di 15 km. Poco fuori dal paese, sulla strada Grottana, si trova l’agriturismo Il Casaletto, un punto di riferimento per tutta la provincia, dove Marco Ceccobelli, oste come Dio comanda, porta avanti l’attività iniziata dal padre Sauro.


Ci troviamo nella campagna della Tuscia, ovvero il territorio dove anticamente abitavano i Tusci, cioè gli Etruschi, che hanno lasciato non poche meraviglie della loro permanenza fra l’alto Lazio, la bassa Toscana e l’Umbria occidentale. Basta guardarsi intorno e, fra magnifici borghi, vallate, fiumi, boschi, un agriturismo dove poter mangiare, dormire e attrezzarsi per esplorare la zona arriva proprio a fagiolo. L’azienda è nata alla fine degli anni ‘60, oggi dispone di un orto e cura un allevamento di suini allo stato brado, fa ristorazione e pizzeria (e su questa specialità vanta i 3 spicchi del Gambero Rosso), non a caso Marco preferisce definirlo “Osteria Agricola”.


L’attività è sempre rimasta a conduzione familiare, Marco in cucina, il fratello Stefano e il babbo Sauro si occupano dell’orto, della campagna circostante e dei suini, mentre Donatella Baccelliere gestisce il lavoro di sala. Come potete immaginare le carni e i salumi sono elementi imprescindibili del Casaletto, ma qui si lavora così bene e la qualità trasuda in ogni aspetto che diventa davvero difficile, se si arriva nel fine settimana, scegliere se provare le numerose pizze o la fantastica cucina. Io vi consiglio di andarci minimo due volte, perché sono ambedue da provare assolutamente!


Questa volta, con un gruppetto di vecchi amici, ci siamo concessi un pranzo, non completo come avremmo voluto, perché vi assicuro che se partite dagli antipasti e prevedete di arrivare al dolce, l’unico modo è saltare i primi o i secondi; noi abbiamo deciso di saggiare i primi, e non siamo rimasti delusi.


Non voglio scegliere troppo nel dettaglio dei piatti, ma è importante capire quanto le materie prime facciano la differenza, c’è poco da fare, come avviene con il vino che tutto parte dalla vigna, qui la materia prima ha un ruolo fondamentale, tutto è selezionato con cura, dalle farine alle carni, dalle verdure (tutte provenienti dall’orto) ai formaggi locali. Aggiungiamo poi che Marco Ceccobelli di esperienza ne ha da vendere, ed ecco che ciascuna portata assume dignità di “leccornia”, con il vantaggio che qui le dosi non son mai risicate, ce n’è abbastanza per godere alla grande, in un’atmosfera tranquilla, seguiti con attenzione. La carta dei vini poi va ben oltre la media di quelle che si trovano nella maggior parte degli agriturismi, con un’ampia selezione di vini bianchi, rosati, spumanti e rossi della zona e del resto d’Italia, ma anche uno spazio tutt’altro che risicato agli Champagne.


Visto il menu, ci siamo subito resi conto che non provare qualcosa era davvero un peccato, essendo in sei abbiamo optato per prendere tutte cose diverse (tranne in un paio di casi), in questo modo abbiamo assaggiato un po’ di tutto; fra le cose che hanno lasciato un segno indelebile ci sono a furor di popolo la “Zucca laccata all’amaro di rabarbaro su fonduta di caciofiore delle campagne romane e sottobosco autunnale”, un antipasto davvero delizioso, equilibrato ma dai sapori ben definiti; anche il “Fritto misto di quinto quarto di manzetta maremmana” ci è piaciuto per la perfetta doratura, ogni elemento era perfettamente asciutto, la parte oleosa si sentiva solo una volta assaggiato e la qualità sia della carne che delle verdure d’accompagno era eccellente.


Sui primi l’ovazione è arrivata con i “Cannelloni ripieni di manzetta maremmana, ricotta di pecora e pecorino Pira”, semplicemente spettacolari, con una gustosissima crosticina nella parte superiore del cannellone, uno di quei piatti che in molti casi sfuggono di mano, diventando pesanti, troppo carichi, qui invece era tutto perfetto. Altro primo piatto riuscito è “Gnocchi al ragù, antica ricetta alle tre carni”, in seconda posizione solo perché mancava una spolverata di parmigiano a dargli più slancio, problema prontamente risolto.


I dolci si sono rivelati un’altra carta vincente, sono la cartina di tornasole di un ristorante e qui sono andati alla grande, a partire dal commovente “Quasi un tiramisù con biscuit di mandorle, cremoso al caffè, praline al cioccolato Valrhona e mousse al mascarpone”, da applauso! Buonissima anche “La nostra versione di zuppa inglese scomposta”, un dolce divertente che ti permette di assaporare ogni singolo componente e poi percepire tutta la sua espressività mettendoli insieme. La “Torta al cioccolato fondente Valrhona con mousse allo zenzero e cannella” ha riscosso molte approvazioni, unica nota a margine: se avesse avuto un po’ più di cremosità e grassezza sarebbe stata perfetta.


Infine si è rivelato splendido lo “Zuccotto di mele cotte nello strutto, con crema inglese alla vaniglia e sciroppo ricavato dal torsolo e la buccia della mela”, l’idea della mela cotta mi aveva creato una certa diffidenza, invece l’assaggio ha stravolto ogni mia immaginazione, un dolce davvero superbo.


I vini che hanno accompagnato antipasti e primi hanno fatto la loro figura, sia l’Olevano Romano Cesanese Superiore Silene 2020 del mitico Damiano Ciolli che il Cortona Syrah 2017 dell’altrettanto mitico Stefano Amerighi.


Ah! Elemento non trascurabile, qui non si paga pane (ottimo fra l’altro) e coperto. Quanto abbiamo speso? Meno di 50 euro a persona vino compreso. Aspettatevi un secondo articolo dedicato alle pizze…

InvecchiatIGP: Casal Pilozzo – Dedo 2000


Non sono un grande patito, come altri colleghi sommelier, delle c.d. degustazioni alla cieca sia perché, a volte, mi piace contestualizzare ciò che sto bevendo, sia perché, diciamolo tranquillamente, spesso nel tentativo di riconoscere il vino che ho nel bicchiere sparo delle grandissime cavolate. Ripensando a certe serate, però, non posso non riconoscere il valore educativo di questo tipo di wine tasting soprattutto se, come ha fatto il mio amico Simone Di Vito di Intravino, ti versano nel bicchiere vini talmente inaspettati ed emozionanti da rivoluzionare il mio concetto di estetica del vino.


Come potete vedere anche voi dalla foto, alla vista il colore è di un rosso rubino trasparente e vivissimo tanto che, tra gli ospiti, già qualcuno ipotizzava fosse un nebbiolo di Valtellina o un grande sangiovese.

Al naso rivela già qualcosa in più. Ha un profumo vegetale percettibile, profondo, elegante, non invaso da eccessi pirazinici che spesso rendono pesante e monocorde il quadro aromatico complessivo che in questo vino, cangiante minuto dopo minuto, si arricchisce di sensazioni di pepe, rosa canina, ribes i cui effluvi sono ben racchiusi, come doni preziosi conservati nel tempo, all’interno di uno scrigno sapido che fornisce ulteriore personalità ed equilibrio a questo liquido rosso ancora sconosciuto. Odori terziari? Non pervenuti!

“E’ un cabernet sauvignon in purezza!!!

“Ma no, è un taglio bordolese italiano!!!!

“Sì, è un San Leonardo!!!!!

“Macchè, la veste cromatica è troppo trasparente!”

“E’ francese, di sicuro!!!

Tutto la tavolata, compreso il sottoscritto, a discettare su ogni molecola odorosa che si elevava dal bicchiere per poi tracollare dall’emozione una volta bevuto. Già, tracollare, è il verbo giusto, perché questo vino è un gioiello di armonia, eleganza, spinta acida e progressione sapida. Perfetto nella sua nitidezza e contemporaneità. Nulla, ancora una volta, che faccia presagire un affinamento importante del vino. Nulla!

“E Loira, è Loira!”

“Ma no, è un Loredan Gasparini Montello Venegazzu Superiore!!!”

“ Nooooo, è Francia!, magari una zona poco famosa”

“Qua sento “odore” di grande Toscana”

Simone toglie la carta stagnola dalla bottiglia e arriva il mutismo completo delle sala.


E’ un Dedo 2000, merlot e cabernet franc , prodotto da quel visionario di Antono Pulcini, proprietario di Casal Pilozzo. E’ un vino del Lazio, precisamente prodotto da vigne piantate a Monteporzio Catone, località dei Castelli Romani, dove lo stesso Pulcini, nel lontano 1987, piantò 13 ettari di vigneto su terreno di origine vulcanica. 


Il Dedo 2000 è una della tante perle che potete trovare all’interno della lunga cantina scavata nel tufo che, ancora oggi, conserva migliaia di bottiglie di diverse annate di quelli che lo stesso vignaiolo chiama “Vini da Invecchiamento”. Vorrei scrivere tanto della visione enologica, ormai quasi irripetibile, dei vini di Pulcini ma, mentre scrivo questo articolo, il vino è ancora nel calice e me lo vado a godere. Basta con i rimpianti, almeno per stasera….

Caccia al Piano - Bolgheri Superiore DOC 2018


Questo Bolgheri Superiore, taglio Cabernet Sauvignon (70%) e Cabernet Franc (30%), è stato prodotto da Tenuta Caccia al Piano, di proprietà della famiglia Ziliani, e la 2018 è stata la prima annata prodotta.


Vino di personalità, suadente nei profumi di macchia marina e frutti rossi che regala, cosa per nulla scontata per la denominazione, una beva succosa, equilibrata e dinamica.

Francesco Panella:”Festeggiamo i 100 anni dell’Antica Pesa con un libro”!


Cento anni sono un traguardo importante, storico, e vanno festeggiati nel modo migliori possibile, soprattutto se a compierli è uno dei ristoranti più storici di Roma come l’Antica Pesa gestita da quattro generazioni dalla famiglia Panella. Questo locale, situato nel cuore di Trastevere, è una vera e propria istituzione tanto che la sua storia inizia nel secolo XVII, dove nell’attuale Via Garibaldi c’era un punto di riscossione doganale sul grano. Qui, si usavano strumenti come pesi e bilance per distribuire il cibo portato dagli agricoltori locali e sempre in questo luogo, per i più bisognosi, i doganieri realizzarono una vera e propria taverna, luogo di accoglienza e solidarietà.



Bisogna arrivare al 1922, con la prima generazione dei Panella, alla vera e propria svolta per questa taverna che venne riconvertita in autentica e verace trattoria romana con l’obiettivo di continuare a sostenere i contadini locali utilizzando le produzioni della campagna romana per cucinare i piatti della tradizione. Quando la trattoria cominciò ad essere apprezzata in città i Panella scelsero per il locale un nome emblematico in onore alle loro origini: Antica Pesa.


Ma è negli anni Cinquanta, con la Dolce Vita, che l'Antica Pesa diventa un punto di riferimento, una tappa obbligata per tutti coloro che desiderano immergersi nella vera romanità, nello spirito autentico di una città unica al mondo. Artisti, scrittori, attori, registi, ma anche gente comune, turisti e non, si danno appuntamento alla Pesa per gustare i piatti della tradizione in un'atmosfera "verace" e caratteristica. E negli anni seguenti, grazie a una gestione fortemente radicata nel territorio ma capace di aprirsi alla sperimentazione, l'Antica Pesa, gestita oggi dai fratelli Simone e Francesco Panella, si conferma depositaria della tradizione, che reinterpreta e innova alla luce della propria storia che oggi viene raccontato in questo libro “100 anni di cucina romana nelle ricette e nella storia dell’Antica Pesa” (Newton Compton, pg 192, 16 euro). Il libro è diviso in due parti, una storica, in cui attraverso ricerche effettuate in più archivi hanno tracciato il passato del locale il cui primo riferimento scritto risale al 1871 quando all’interno de “Il Volontario di Pio IX”, scritto da Antonmaria Bonetti, si narra di come l’autore avesse ritrovato il collega e amico soldato seduto alla tavola dell’Osteria della Pesa, a “mangiare mezzo pollastro arrosto”.

La Carbonara dell'Antica Pesa

La seconda parte, invece, è dedicata prettamente alla cucina dell’Antica Pesa raccontata attraverso 40 ricette, tutto spiegate nel dettaglio per replicarle a casa, che rappresentano i piatti più rappresentativi che si sono susseguiti nel menù del ristorante nel corso di questi cento anni. Un libro, perciò, che racconta non solo la passione per la cucina della famiglia Panella visto che, attraverso tante le tante foto e gli aneddoti presenti nel volume, rappresenta un piccolo grande racconto della storia italiana la cui sublimazione è avvenuta anche all’interno delle sale dell’Antica Pesa che oggi, a distanza di cento anni, rappresenta un polo di cultura italiana dai caratteri unici ed inimitabili.

Simone e Francesco Panella

Per parlare di questa nuova pubblicazione, ma non solo, ho intervistato Francesco Panella che ho letteralmente rapito per qualche minuto mentre era ad accogliere gli ospiti nelle sale dell’Antica Pesa.

Francesco, cosa è per te questo ristorante?

L’Antica Pesa non è solo un ristorante ma è un luogo che ha trasmesso ospitalità fin dalla metà del 1800 e quando siamo entrati noi Panella nel 1922 non abbiamo fatto altro che apprendere l’uno dell’altro il miglior modo per dare ospitalità a chi passa a trovarci. In questi cento anni abbiamo passato momenti belli, meno belli come due guerre e tre pandemie ma noi non abbiamo mai mollato per tanti motivi.

Quali sono?

Noi siamo una famiglia che ha avuto ed ha nel DNA un forte spirito di accoglienza, questo è ben più che un lavoro perché abbiamo anche un forte di responsabilità, anche morale, con chi ci ha preceduto. Sai quanto gente viene qua e mi dice: ”Mio nonno si è sposato qua, mio papà anche e io mi sposerò qua…..”. Ecco, quando senti dal cliente queste cose non puoi avere motivi per mollare un’attività che va oltre la ristorazione pure e semplice.

Tornando ai vostri inizi, che tipo di ristorazione fornivate? C’era un piatto tipico del ristorante?

Dai racconti di mia nonna noi eravamo specializzati in “fagottini” dove c’era la pasta che veniva preparata col formaggio, il pepe macinato. I pastori, poi, la andavano a mangiare su per il Gianicolo, un colle di Roma che dista poco dal ristorante. Si lavoravano sicuramente prodotti freschi, genuini che, al tempo, ovviamente, avevano i loro problemi di conservazione….

Quali sono le caratteristiche del cliente abituale dell’Antica Pesa di oggi?

E’ un cliente che cerca rassicurazioni, che cerca un ambiente casalingo e si fida totalmente del nostro servizio e dei nostri consigli. E’ una persona che vuole passare due ore in serenità celebrando occasioni importanti. Non di rado vengono coppie che si sono sposate qua e che, dopo anni, celebrano il loro anniversario in queste sale. L’Antica Pesa non è solo un ristorante ma è anche un luogo della memoria dove si rivivono emozioni.

Questo ristorante, alla fine, per voi non solo un luogo di lavoro. E’ una vera e propria seconda casa…

Quando sei figlio di ristoratori e vivi il lavoro come una passione il ristorante non può non essere casa tua. Lo vivi a 360°, anche da piccolo, quando magari la mattina presto, prima della scuola, andavo con mio padre a comprare le materie prime ai Mercati Generali. Desideravo farlo, quello era il mio Luna Park. Non scorderò mai le cassette di legno che volavano, i profumi, i colori di un luogo magico che era animato poi da personaggi incredibili alla stregua di quelli che poi si vedono, per finta, all’interno dei parchi giochi moderni.

Cosa hai imparato in quegli anni?

Ho imparato sicuramente la contrattazione, che negli anni ’70 e ’80 all’interno dei Mercati Generali, era qualcosa di assolutamente folkloristico e, poi, ho imparato anche a riconoscere la genuinità e la freschezza del prodotto dal suo odore. Ah, ho imparato anche il romanesco stretto!

Antica Pesa Brooklyn

Insieme ai tuoi fratelli Simone e Lorenzo, nel 2012, la famiglia ha aperto il suo primo avamposto di successo internazionale a New York, precisamente Williamsburg. Quali sono le principali differenze enogastronomiche tra Italia e Stati Uniti?

A New York, non avendo una cultura di cucina casalinga, le persone spesso vanno a mangiare fuori avendo anche tantissimi ristoranti di grande qualità dove possono mangiare italiano, indiano, giapponese, cinese, spagnolo, etc... In questo modo, a mio parere, non si riesce a dare un peso culturale elevato a ciò che si ha nel piatto per cui, dal punto di vista enogastronomico, la clientela media dell’Antica Pesa di New York ha una competenza generica, a tratti mostruosa, sulla cucina internazionale, ma non ce l’hanno specifica come per esempio in Italia dove, ad esempio, possiamo non conoscere cosa sia il curry ma magari sappiamo tutto di come si cucina la lasagna e delle sue variazioni regionali.

Visto che vai spesso negli States, esiste ancora la vera cucina italo-americana?

Esiste ancora, assolutamente, è una cucina che abbiamo esportato come elemento di valore prendendo dagli Stati Uniti l’opportunità di fare business. La cucina italiana, con le sue ricette tradizionali, ha unito questi due Paesi per sempre e questo simbolo di amicizia tra popoli diversi, ovvero la cucina italo-americana, dovrebbe essere raccontata all’interno di un museo come elemento di socializzazione unico nel suo genere.

Il Made in Italy, pertanto, è ancora una carta vincente?

In un periodo difficile come questo, dove ogni Paese sta cercando di tirare su il proprio PIL, il made in Italy potrebbe essere troppo totalizzante, invadente, per cui sarebbe meglio trasformare il made IN Italy con il made WITH Italy. Si vince con l’Italia e non in Italia. Ti faccio un esempio: se a New York porti un pastaio italiano e adoperi un pomodoro del New Jersey che, credimi, è eccezionale, si fa sistema con lo Stato che ti ospita che, a suo volta, ti aiuta a ripartire.

Torniamo alla tua vita privata e parliamo di un argomento che a me interessa particolarmente: il vino. Quanto è importante per te, anche da ristoratore?

Per me è un elemento fondamentale perché lo lego, visto il mestiere che faccio, al termine della mia giornata lavorativa quando, finalmente, mi rilasso e posso permettermi un calice. Non solo, il vino per me importante anche quando non lavoro perché amo condividere una bottiglia mentre sono in compagnia di un amico o di un famigliare. Un calice di buon vino, inoltre, me lo bevo anche solo mentre magari leggo o vedo un quadro. Insomma, non potrei vivere senza, è un partner irrinunciabile.

L’Antica Pesa ha una cantina fantastica con dei vini molto ricercati. Il cliente medio del ristorante che vini ordina?

Adesso mi chiedono molto vini naturali e la cosa mi piace parecchio perché penso siano prodotti assolutamente godibili e dal buon rapporto qualità\prezzo. Questi vini sono assolutamente stimolanti per chi fa servizio in sala perché sono prodotti che spesso vanno comunicati e per certi versi “spiegati”. E’ facile vendere, ad esempio, i vari Supertuscan ma, se mi permetti, nel corso del tempo, soprattutto nei confronti dei clienti meno esperti, ritengo che più di qualcuno abbia approfittato del loro blasone fornendo prodotti magari non all’altezza o, comunque, dai ricarichi eccesivi.

Cantina dell'Antica Pesa

Quello dei ricarichi, soprattutto nell’alta ristorazione è un problema….

La vera sfida, infatti, è fare i giusti ricarichi perché dobbiamo dare a tutti la possibilità di bere un sogno, anche fosse solo un calice. Oggi ci sono tanti strumenti per arrivare a questo obiettivo e un ristoratore capace deve regalare sogni realizzabili.

Ultima domanda: oltre che essere grande ristorate sei anche un personaggio televisivo conducendo da anni “Little Big Italy”. Visto la tua esperienza, quale è il posto dove si mangia peggio al mondo?

Premesso che ormai la cultura enogastronomica è arrivata a buoni livelli in tutto il mondo, se parliamo di cucina italiana penso che il centro America non sia il posto migliore per noi italiani. Troppe salse, mamma mia!!!

InvecchiatIGP: Portinari - Soave Doc “Santo Stefano” 2006


di Lorenzo Colombo

Ad ulteriore prova che il vino bianco italiano, quando proviene da determinate zone ed è di qualità, regge benissimo il passare del tempo eccovi un Soave ancora in forma smagliante dopo oltre 15 anni dalla vendemmia. E’ prodotto dall’azienda agricola di Umberto Portinari situata ai piedi delle colline di Brognoligo, si tratta di una piccola realtà, dispone infatti unicamente di quattro ettari a vigneto suddivisi in due distinti appezzamenti, Ronchetto, dal quale si ricava un Soave a DOCG ed Albare.


Ne avevamo scritto nel 2011, quando eravamo stati in visita all’azienda ed al seguente link potete trovare tutte le informazioni relative a vini ed azienda:
https://www.ioeilvino.it/portinari, ci sembra quindi ridondante ripetere quanto potete trovare nel suddetto articolo, ci limitiamo unicamente a riferire che, rispetto ad allora c’è da registrare l’ingresso in azienda di Silvio, figlio di Umberto, che ora affianca nella conduzione aziendale la sorella Maria ed il padre. 
Il vigneto Ronchetto, messo a dimora nel 1960, è situato in collina, a 150 metri d’altitudine su suoli di natura vulcanica e con un’esposizione che gli garantisce il soleggiamento per tutto il giorno. Il vigneto Albare invece si trova in pianura, su suoli alluvionali argillosi ed è stato messo a dimora nel 1987, in questo vigneto si applica un tipo di vendemmia chiamata Doppia Maturazione Ragionata.


Dalle uve provenienti da questo vigneto, vendemmiando tardivamente le uve, frutto di una Doppia Maturazione ragionata (sempre nel sopracitato articolo trovate la spiegazione di questo metodo) si ottiene il Soave Santo Stefano, frutto della nostra degustazione.

Il vino

Le uve - Garganega in purezza - vengono raccolte verso la metà del mese di novembre, la fermentazione si svolge in piccole botti di rovere dove il vino s’affina per 24 mesi, seguono quindi ulteriori due anni di sosta in bottiglia prima della commercializzazione. L’avevamo assaggiato in occasione della nostra visita in azienda, undici anni fa ed ora ci accingiamo nuovamente a degustare questo Soave del 2006, acquistato in quell’occasione e rimasto sono ad ora custodito nella nostra cantina. 


Certo non ci aspettiamo di ritrovarvi le stesse sensazioni provate allora e sappiamo benissimo che stiamo correndo il rischio di trovare un vino a fine carriera, se non ormai decrepito.

Ma così non è!

Il colore è oro intenso e luminoso, sembra olio. Buona la sua intensità olfattiva, vi cogliamo note di fiori gialli, frutta gialla matura, pesca e mela, scorza d’arancia, netti i sentori d’erbe officinali, fieno, fiori essiccati, nocciole. Morbido ed alcolico al palato, frutta dolce, pesca ed albicocca sciroppate, uvetta, note boisé ed accenni di distillato affinato in legno, leggeri accenni tannici, buona infine la sua persistenza.


Un vino che ha pienamente ricompensato la pazienza d’averlo lungamente atteso.

Conti Degli Azzoni - Colli Maceratesi Doc Ribona 2020


di Lorenzo Colombo

La Ribona, o Maceratino, è un raro vitigno coltivato prevalentemente in provincia di Macerata. 


Il vino che andiamo ad assaggiare viene vinificato in vasche d’acciaio con l’utilizzo di lieviti indigeni e s’avvale di un breve affinamento in bottiglia, si presenta quindi fresco, fruttato e floreale, succoso ed agrumato al palato, pulito e persistente.

Vinã Arnáiz - D.O. Rueda Verdejo 2019


di Lorenzo Colombo

La D.O. Rueda è conosciuta per i suoi vini bianchi, la sua superfice vitata è infatti costituita per il 98% da vitigni a bacca bianca con il verdejo - principale vitigno della denominazione - che con una superficie di 17.764 ettari su un totale di 20.650 ettari copre l’86% del vigneto regionale. Nella vendemmia 2021 su 1.210.672 q.li di uva raccolta ben 1.065.330 erano di Verdejo, mentre la quantità di sauvignon blanc, che è il secondo vitigno più coltivato, si è fermata a 80.000 q.li.


Il territorio della D.O. Rueda è situato su un altopiano pianeggiante, tra i 700 e gli 870 metri sul livello del mare, qui gli inverni sono freddi e lunghissimi, le primavere brevi con gelate tardive ed estati calde e secche, rinfrescate da sporadici temporali.
I suoli, color marrone scuro, prendono il nome di "cascajosos" e sono in genere sabbiosi, limosi e sassosi, ben drenanti e ricchi di calcio e magnesio.
Le precipitazioni sono scarse, solitamente tra i 300mm ed i 500mm/anno mentre l’insolazione è elevatissima, raggiungendo le 2.600 ore/anno.


Il Consejo Regulador della D.O. Rueda ha messo a punto un sistema pratico per consentire ai consumatori di riconoscere facilmente la tipologia di vino che andranno ad acquistare, questo sistema si basa su una serie di etichette di diverso colore posizionate sul retro della bottiglia che, per quanto riguarda i vini bianchi, vanno ad indicare se si tratta di vino fermo, spumante, fortificato o prodotto da vigne vecchie (almeno trent’anni d’età). Stessa modalità, con colori diversi delle etichette, è stata adottata anche per i vini rossi e rosé.
Inoltre, attraverso un codice numerico stampato su quest’etichetta colorata è possibile conoscere la tracciabilità del prodotto.


Nella Rueda l’uva Verdejo è presente da oltre dieci secoli, il suo germogliamento è solitamente tardivo e il lavoro di potatura può arrivare fino al mese di marzo o all'inizio di aprile, anni fa a fine inverno veniva effettuato uno scavo attorno a ciascuna vite per concentrare l’acqua e all’inizio dell’estate la buca veniva nuovamente ricoperta di terra, pratiche che al giorno d’oggi non vengono più eseguite.

L’azienda

La sede dell’azienda Viña Arnáiz si trova nella città di Haza, nella provincia di Burgos, nel cuore della D.O. Ribera del Duero ed è situata in un’antica fortezza medioevale, attorno alla quale s’estendono 92 ettari di vigneti con vitigni a bacca nera. La capacità di stoccaggio di questa enorme cantina è di 90.000 ettolitri di vino, vi si trovano infatti 51 serbatoi d’acciaio e ben 6.000 barrique, sia di rovere francese che americano.
La capacità di lavorazione è di 80.000 bottiglie al giorno.


Viña Arnáiz è un marchio appartenente al Gruppo García Carrión, primo gruppo vitivinicolo europeo e quarto al mondo, è presente sul territorio di ben dieci tre le più prestigiose Denominazioni d’Origine spagnole, tra cui per l’appunto quella di Rueda e possiede 15 impianti di vinificazione dislocati nei vari territori. Nato nel 1890 a Jumilla, il Gruppo è ancora gestito dalla quarta e quinta generazione della famiglia García Carrión.

Il vino

Si presenta nel bicchiere con un color giallo paglierino luminoso di buona intensità. Intenso e fresco al naso dove si colgono sentori di frutta a polpa gialla, mela, fiori gialli, note di fieno e leggeri accenni aromatici.


Succoso e dotato di buona struttura, sapido, nuovamente cogliamo il frutto giallo, la mela e sentori d’erbe officinali che si percepiscono sul lungo fin bocca.In definitiva si tratta in un vino semplice ma dalla piacevole e scorrevole beva.

InvecchiatIGP - Tenuta Friggiali, Brunello di Montalcino Riserva 1999


di Stefano Tesi

Quando, per puro diletto e quindi senza taccuino di scorta né velleità tecniche, vai a trovare degli amici con altri amici (tutti del settore del vino, ma questo è un destino fatale!), pur confidando di bere buone cose non ti aspetti di trovare ad attenderti un vecchio Brunello stappato a tempo debito e pronto per il calice.  E se invece lo trovi, compiacimento a parte, due sentimenti ti solleticano. 


Da un lato la curiosità di riassaggiare un grande vino da invecchiamento di un’annata ormai antica (4 le stelle attribuite all’epoca alla vendemmia) e per di più nel formato che dovrebbe esaltare al massimo proprio la vocazione alla lunga sopravvivenza. Da un altro il timore che, come talvolta spesso accade, certi millesimi di quella denominazione e certe annate di quel periodo storico si rivelino deludenti, stanche, non di rado esauste, con buona pace dello spreco di astri sanciti al momento del rating e delle ottimistiche previsione di una vita centenaria. 

La bottiglia che bel bella mi aspettava era una magnum di Tenuta Friggiali Riserva 1999, una delle due proprietà montalcinesi (questa ha una serie di vigne degradanti dai 450 ai 250 metri sul versante sud-ovest di Montalcino; l’altra è invece Pietranera, dalle parti della Velona) della famiglia Peluso Centolani. Con mia grande consolazione, i dubbi sono stati subito fugati e la curiosità appagata. 


Il vino era integro già nel colore, fitto e pieno, con un leggerissimo accenno di unghia granata. Integro e intenso anche al naso, di primo acchito quasi compatto direi, con un frutto maturo ma ancora pimpante, lacerti di freschezza, una vaga speziatura e una composta coda terziaria che dava al tutto una complessità misurata, niente affatto senile. E anche in bocca ho ritrovato un Brunello vivo, tutto da bere, senza cedimenti, anzi sorprendentemente giovanile nella sua composta rotondità, pur in un’importanza e in una struttura di fondo innegabili. Qualità che hanno agevolato assai il consumo conviviale, dialettico, puramente edonistico e senza liturgie a cui nella circostanza la bottiglia era stata destinata. Ma, ciononostante, rimasta capace di tenere desta l’attenzione dei commensali sul bicchiere. 

Bene in tutti i sensi insomma. 

Quanto in generale alla stappatura delle vecchie bottiglie, inclusa l’ipotesi di trovarle non più buone, bisognerebbe forse recuperare la componente ludica di tutto questo, per invogliare la gente a ravanare meglio nelle proprie cantine. Ma se ne parla un’altra volta.

Poggerino - Chianti Classico Riserva "Bugialla" 2018


di Stefano Tesi 

Ecco un altro della serie che la Gran Selezione doveva uccidere le riserve: da un’annata non semplice ecco un vino di potente eleganza, pronto ma non troppo, rotondo ma fragrante.


Il vino 100% Sangiovese da un’unica vigna che convince all’olfatto con la ciliegia matura e gratifica al palato con la mordidezza.

La disfida delle frittelle di San Giuseppe senesi


di Stefano Tesi e Walter Peruzzi

Or sono tre anni che, qui sulla rubrica GARANTITO IGP, mi diffusi su quello che gli angloamericani chiamerebbero “Siena’s best kept secret“, ovvero le impareggiabili frittelle di San Giuseppe. Quelle senesi ovviamente, fragranti e asciutte, che, con tutto il rispetto per le altre, nulla hanno da spartire con gli omonimi cloni mollicci prodotti, credo, ovunque in Toscana e forse anche fuori.


Inutile dire che si tratta di una delle mie leccornie preferite, nonchè una delle principali cause dei miei dissesti di salute giacchè, nel periodo tra Carnevale e il 19 marzo (l’unico durante il quale si preparano, almeno per la vendita al pubblico), ne ingollo in quantità imbarazzanti.

Ma se la volta scorsa mi limitai a un racconto individuale venato di amarcord e a qualche generica informazione, stavolta ho pensato di fare le cose in grande: non solo una degustazione tecnica, analitica e circostanziata delle frittelle di tutti e tre i produttori cittadini, ma addirittura un raffronto a quattro mani, o a due palati se preferite, in tandem con un collega anche lui senese doc, Walter Peruzzi, che co-firma questo articolo. Anzi, di più: per comprovare la veridicità e l’immediatezza del nostro frittelle-tasting, abbiamo girato anche un video di pochi minuti che ci riprende durante gli assaggi e i soppesamenti organolettici.

“Per noi senesi le “frittelle di piazza”, come tutti le chiamiamo, sono indissolubilmente legate al Carnevale. Ne sono anzi un simbolo olfattivo e gustativo indelebile per tutte le generazioni“, spiega Walter. “I più vissuti ricordano ancora i tre “banchetti” (a Siena non si dice “chiosco”!) di Piazza del Campo, equidistanti ed efficacissimi nel diffondere quell’inconfondibile aroma nei pomeriggi freddi e umidi di febbraio e marzo. Difficile resistere alla tentazione di quelle caldissime palline di riso appena staccate dalla “piccia” e servite nel cartoccio, cosparse di zucchero semolato. Ogni banco aveva i suoi affezionati clienti, che si dividevano su quale fosse il migliore. Discussione di lana caprina, perché poi erano diverse solo le sfumature ed era una questione di gusto personale. Oggi in piazza ne è rimasto solo uno, quello storico del Savelli della Torre, da sempre il primo a montare e ultimo ad andarsene. Gli altri due, prima uno, poi anche l’altro (ricordo il suo nome, il Bianchi), sono stati spostati verso la periferia ed hanno cambiato proprietario. Ma non le ricette. Neanche i fedelissimi estimatori. E nemmeno le discussioni su chi sia il più bravo. Noi ci abbiamo provato a stabilirlo, ma è dura…”.

Ed ecco infatti le nostre schede.

FRITTELLE CIOFI (Via Massetana-Romana 56, Siena).

Peruzzi: si presentano ben dorate, con la giusta quantità di zucchero semolato attaccato alla superficie. All’esterno rimane un po’ di untuosità di troppo, che tuttavia non si ritrova all’assaggio. Croccanti fuori, l’interno è ben alveolato, con la pasta di riso cremosa distribuita uniformemente. Il sapore c’è tutto, con note di scorza d’arancia e giusta sapidità; non si avverte zucchero all’interno.



Tesi: la croccantezza è quella giusta, la granulosità dello zucchero aggiunge quel poco di scricchiolio ulteriore che invita al morso. Il profumo è intenso, con una piacevole nouance di agrumi, mentre dalla crosta trasuda in abbondanza l’olio di frittura, che sporca un po’ le mani ma senza dare sensazioni olfattive sgradevoli. Al palato la frittella è saporita, intensa, appetitosa, con un riso giustamente cremoso, non stucchevole.

Punto di forza: sapore e persistenza.

FRITTELLE GIORNI (Via Bernardo Tolomei, Angolo Via Savina Petrilli).

Peruzzi: anche queste ben dorate e zuccherate all’esterno, si presentano più asciutte e scolate di quelle del Ciofi. Al palato risultano ben croccanti fuori e cremose dentro. La pasta è umida, con un’alveolatura più limitata delle precedenti. Inoltre si nota l’aggiunta di zucchero nell’impasto, anche se moderato, che sostituisce o sovrasta il gusto della scorza di arancio. Un’interpretazione più casalinga, in qualche modo, che si avvicina al gusto di qualche decina di anni fa.



Tesi: la doratura appare perfetta e la frittura molto asciutta, ingentilita da uno zucchero di grana piuttosto fine. L’impasto di riso è decisamente cremoso, piuttosto dolce e compatto, buono ma senza le altre sfumature che ci si potrebbero attendere. Una frittella gustosa e semplice, di piacevolezza più immediata e meno lunga, olfattivamente più neutra della precedente.

Punto di forza: equilibrio e tradizione.

FRITTELLE SAVELLI (Piazza del Campo).

Peruzzi: esterno in linea, dorate e zuccherate. Si presentano meno compatte delle altre ed infatti all’interno il riso è poco, concentrato verso il bordo e quasi vuoto in centro. Sono le più gonfie e leggere, la crema interna ha una buona cremosità, con tracce evidenti di scorza di arancia, che al palato non risulta tuttavia così presente come ci si aspetterebbe. Non c’è zucchero nell’impasto, il sapore è molto delicato, quasi neutro.



Tesi: l’aspetto è invitante, le tracce dell’olio di frittura non disturbano, la dose di zucchero è abbondante. La frittella è assai croccante e cedevole al morso, molto alveolata, di una consistenza gradevole. Il profumo è tenue, fine, delicato come del resto il gusto, gentile e senza eccessi, pressochè liscio e quindi anche privo dell’impennata che ci si attenderebbe.

Punto di forza: leggerezza e croccantezza.