Ritorno in Umbria, a Decugnano dei Barbi, tra certezze e novità!

Sono tornato a Decugnano dei Barbi dopo sette anni e, rispetto alla mia ultima visita, che trovate descritta QUI, qualcosa purtroppo è cambiato visto che Enzo Barbi è rimasto solo alla guida dell’azienda visto che suo papà Claudio, nel 2019, è venuto a mancare. Altri aspetti invece, come ho potuto appurare nuovamente di persona, sono e rimarranno sempre immutati come, ad esempio, la determinazione della famiglia Barbi nell’essere un punto di riferimento per la produzione dell’Orvieto Classico Doc, dell’Orvieto Classico Muffa Nobile Doc, del Metodo Classico e di IGT Umbria bianchi e rossi.



Benvenuti in Umbria, a pochi chilometri dalla splendida Orvieto, più precisamente in Località Fossatello di Corbara, al confine con Toscana e Lazio, dove Decugnano dei Barbi sorge a 350 metri s.l.m., su terreni di epoca pliocenica, caratterizzati da sabbie gialle e conchiglie fossili visto che un tempo questo territorio non era altro che un fondale marino.


L’azienda si estende su 56 ettari di cui 32 vitati ricompresi nella DOC Orvieto. Le varietà coltivate sono: Grechetto, Procanico, Vermentino, Verdello, Chardonnay, Sauvignon blanc e Semillon per le uve a bacca bianca; Sangiovese, Montepulciano, Syrah, Cabernet Sauvignon, Merlot e Pinot Nero per quelle a bacca rossa. In vigna, da anni, non si utilizzano pesticidi, anti-botritici, diserbanti e concimi chimici ed è iniziata la conversione all’agricoltura biologica che terminerà nel 2024.

Claudio ed Enzo Barbi

La storia dei Barbi, in terra umbra, inizia alla fine degli anni '60 del secolo scorso quando il nonno di Enzo, che a quei tempi comprava e vendeva vino per il mercato della Lombardia, decise di acquistare per suo figlio Claudio (papà di Enzo) un pezzo di terreno nell'orvietano che in quel periodo era molto di moda. "Mio papà spesso di scontrava con mio nonno sul tema della qualità del vino così" - mi spiega Enzo sorridendo - "acquistargli tre ettari di terreno ad Orvieto ha significato lasciargli produrre il vino come voleva lui lasciando al tempo stesso in pace mio nonno che poteva proseguire il suo lavoro senza troppe scocciature!!". Decugnano ad inizi del 1970 era in vendita e la famiglia Barbi non c'ha pensato due volte ad acquistare la tenuta, a quel tempo in miseria, non solo per la bellezza del posto ma, soprattutto, per il terreno che, rispetto alla zona sud dell'orvietano, non è di tipo tufaceo ma, come abbiamo scritto in precedenza, di carattere marnoso e argilloso e ricco di fossili di ostriche e conchiglie di epoca pliocenica. "Sai Andrea" - commenta Enzo - "mio madre è amante dello Chablis e questa terra ricorda molto quel particolare terroir francese"

Fossili nel terreno

Era il 1973 quando Claudio Barbi acquistò il podere piantando, in sequenza, i vitigni storici dell'Orvieto Classico (trebbiano, malvasia e grechetto) e alcune piante di sangiovese e canaiolo iniziando un'intensa fase di sperimentazione, che riguardò anche la spumantizzazione delle uve dell'Orvieto, che prese forma nel 1978 quando comparvero sul mercato tre vini: il Decugnano bianco, il Decugnano rosso ed il primo metodo classico prodotto in terra umbra. Otto anni dopo, nel 1981, l'azienda propose sul mercato prima bottiglia italiana di vino da uve botrizzate: Pourriture Noble. Nessuno fino a quel momento si era accorto che la Botrytis Cinerea “attaccava” anche i vigneti di alcune zone dell'Orvietano.

Enzo Barbi

Girando per l’azienda mi accorgo che, rispetto a sette anni fa, la cantina di vinificazione è rimasta più o meno la stessa ovvero popolata da vasche di fermentazione, tutte in acciaio, destinate ognuna ad uno specifico vigneto. L’unica novità vera in questo contesto è che, rispetto alla ultima visita, ora la supervisione enologica è seguita Riccardo Cotarella.


La parte più bella e suggestiva di Decugnano dei Barbi, come sempre, è costituita dalle antiche grotte etrusche scavate nella sabbia, regno di quel metodo classico che Claudio Barbi, originario di Brescia e con ovvie ispirazioni franciacortine, ha voluto porre in essere nel 1978 spumantizzando le uve tipiche dell'Orvieto grazie all'aiuto di Corrado Cugnasco, enologo aziendale dell'epoca.


Con Enzo, visto il caldo di Luglio, decidiamo di dedicarci quasi esclusivamente alla degustazione delle bollicine e dei vini bianchi aziendali. Si inizia, ovviamente, con il grande Metodo Classico di Decugnano dei Barbi!

Metodo Classico “Brut” 2016: da uve chardonnay e pinot nero nasce questo metodo classico la cui seconda fermentazione è avvenuta in grotta dove le bottiglie sono rimaste ad una temperatura costante di 13°C per 42 mesi. La sboccatura del primo lotto è avvenuta a fine Ottobre 2020. Lo spumante, solcato da persistenti catenelle di carbonica, è caratterizzato dal contrappunto fra soavi note fruttate di pesca gialle e mela golden, gelsomino e persistenti richiami iodati. Strutturato con sapidità ben garbata e finale strutturato decisamente sorretto dall’effervescenza che richiama continuamento l’assaggio.


Orvieto Classico Superiore DOC “Mare Antico” 2018 (55% grechetto, 20% vermentino, 20% chardonnay, 5% procanico): ex “Il Bianco” di Decugnano dei Barbi, questo vino nasce dalle migliori uve dei migliori appezzamenti della tenuta e prende il nome, fortemente evocativo, dai terreni sui cui sono piantati i vitigni e che, come scritto precedentemente, sono di origine marina e perciò ricci di fossili marini, argilla e sabbia. La 2018, come mi spiega Enzo, è stata per loro una annata complicata dal punto di vista delle temperature medie (non si arriva ai picchi di calore della 2017) e per questo motivo il vino risulta molto avvolgente ed intenso con la sua complessità fruttata che richiama la nespola, il frutto della passione, la felce e l’elicriosio. Beva suadente, in grande equilibrio sotto la spinta acido-sapida. Una significativa mineralità dona lunghezza gustativa con finale fruttato e carico di richiami olfattivi.


Orvieto Classico Superiore DOC “Mare Antico” 2019
(55% grechetto, 20% vermentino, 20% chardonnay, 5% procanico): rispetto all’annata precedente, la 2019 è stata di gran lunga più equilibrata e di questo ce ne rendiamo conto appena mettiamo il naso nel bicchiere che, stavolta, emana non sensazioni avvolgenti di frutta gialla ma fresche nuance di melone bianco, susina, pompelmo, virando poi verso nette percezioni salmastre che richiamano profondamente il terroir di provenienza del vino. Al sorso una sapidità quasi salina e la percettibile freschezza regalano tanta vivacità, lunghezza ed una beva nobile ma spensierata.


Umbria Bianco IGT “L’Inquisitore” 2019
(100% sauvignon blanc): proveniente da una vecchia vigna di sauvignon blanc, la quale ha dato vita ad un’edizione speciale di 1300 bottiglie nel 2016, l’Inquisitore è un vino che è nato per spazzare via alcuni pregiudizi e alcune polemiche sul sauvignon blanc tanto che, come si vede nella retroetichetta, tutti noi, nella morale di Enzo Barbi, siamo inquisitori visto che giudichiamo spesso e volentieri un vino senza nemmeno assaggiarlo. Chi identifica negativamente il sauvignon blanc solo con alte percezioni pirazine e tioli sarà notevolmente sorpreso da questo sauvignon blanc umbro che gode, anche grazie all’annata decisamente equilibrata, di eleganza e mineralità senza mai strabordare in connotazioni gusto-olfattive naif che, per anni, ci hanno tutte trasformato in (santi) inquisitori.


Umbria Rosso IGT “Il Rosso” - Special Edition A.D. 1212” 2018
(65% syrah, 20% cabernet sauvignon e 15% montepulciano): il vino, che da anni rappresenta un punto di riferimento per i rossi umbri, sfoggia una notevole complessità fatta di mora e prugna matura, seguita da una rinfrescante ed esplosiva successione di cola, radice di liquirizia; un continuo mutamento che sfocia, richiamando il syrah, in una chiusura di spezie nere indiane. Sorso voluttuoso, di sostanza, ma al tempo stesso mai seduto su se stesso grazie ad una freschezza incisiva ed an un tannino di grana fine. Si congeda lentamente e senza fretta su ricordi balsamici. Nota tecnica: la fermentazione avvenuta in acciaio. Un terzo del vino è stato affinato per un anno in barrique di rovere francese (nuove, di secondo e terzo passaggio), mentre i rimanenti due terzi sono rimasti in affinamento in acciaio. Dopo un assemblaggio meticoloso, il vino è stato imbottigliato e fatto affinare in bottiglia per altri 6 mesi.


Orvieto Classico Doc Muffa Nobile “Pourriture Noble” 2016
(55% grechetto, 45% sauvignon blanc, 5% procanico): Claudio Barbi, oltre ad essere stato il precursore del metodo classico ad Orvieto, è stato il primo (1981) a credere nelle potenzialità e nello sviluppo della muffa nobile in questo territorio. Questo muffato, perciò, da sempre rappresenta una vera e propria bandiera qualitativa di Decugnano dei Barbi che si esprime in questa bella annata su sentori di zafferano, legno di faggio, miele millefiori, albicocca disidratata, marmellata di arance. In bocca la dolcezza è sapientemente gestita grazie a sapidità e acidità del vino che, martellando, vanno a riequilibrare la morbidezza di questo muffato da farci l’amore. Nota tecnica: le uve sulle quali si era sviluppata la botrytis cinerea sono state raccolte in due successivi passaggi, nella seconda metà di settembre. Arrivate in cantina, le uve sono state immediatamente pressate in maniera estremamente soffice. La fermentazione è avvenuta in un unico tino di acciaio ed è durata un paio di mesi. Il vino è stato imbottigliato nel Novembre 2020.

InvecchiatIGP: Capitoni - Orcia Doc “Frasi” 2006

di Lorenzo Colombo 

UN MILLESIMO: UNA FRASE

“CIO’ CHE MIGLIORE E’,
CIO’ CHE MIGLIORE SARA’,
…SCELGO.”

E’ questa la “frase” riportata in etichetta per il vino del millesimo 2006. Ogni anno infatti Marco Capitoni riporta una diversa frase sull’etichetta del suo vino più conosciuto e famoso, l’Orcia Doc Frasi, prodotto con 90% di uve Sangiovese, più Canaiolo ed una piccola parte di Colorino, vino che fermenta in acciaio e s’affina per due anni in botti da 33 ettolitri. 


Ed è questo il vino che abbiamo scelto per l’InvecchiatIGP di questa settimana, bottiglia scovata tra i numerosi vini con più di qualche anno sulle spalle sparsi per la cantina. 
Dalla capsula si scorge qualche segno di colatura, infatti fatica a staccarsi dal collo della bottiglia, la superficie del tappo ci pone qualche dubbio sulla tenuta del vino, dubbio confermato quando estraiamo il sughero, imbevuto di vino per buona parte della sua lunghezza. 


Al naso però non presenta nulla d’anomalo e quindi riprendiamo fiducia. Segue poi la decantazione del vino, prevedendo una buona dose di deposito, ipotesi però non confermata dai fatti, sul fondo della bottiglia non c’è quasi traccia di sedimento. 

E’ quindi arrivato il momento dell’assaggio!

Il colore è granato profondo e compatto, l’unghia tende all’aranciato, una corretta definizione potrebbe essere “color prugna cotta”. Mediamente intenso al naso, ampio, complesso e delicato, si coglie il sottobosco, con note d’humus e di foglie bagnate, il tabacco dolce, il frutto scuro (ciliegia e prugna matura) venato da speziature dolci, le note balsamiche e gli accenni di cuoio. 


Alla bocca la struttura non appare massiccia, anzi, pare il tempo l’abbia un poco smagrito, il vino è fresco, intenso e succoso al palato dove ritroviamo le note balsamiche ed i sentori di spezie dolci, il tannino, perfettamente integrato nell’insieme è ancora presente ma quasi con discrezione e lo rende asciutto, si percepiscono accenni di liquirizia e di radici, leggere note mentolate e di caffè e la sua persistenza è più che buona.Un vino che non ha subito alcun cedimento dato dal tempo, né al naso né alla bocca, forse come sopra accennato, negli anni ha perso solamente un poco in volume. 


L’azienda di Marco Capitoni si trova nel comune di Pienza, in Val d’Orcia, una tra le più belle zone della Toscana, se non d’Italia, bella e sfortunata però -se parliamo della Val d’Orcia vitivinicola- si trova infatti compressa tra due tra le più importanti denominazioni italiane: il Brunello di Montalcino ed il Vino Nobile di Montepulciano e, sebbene molti dei vini che vi si producono hanno ben poco da inviare agli ingombranti vicini, faticano un poco ad emergere e ad essere considerati per il loro reale valore. 

Marco Capitoni - Credit: promowine

La famiglia di Marco è sempre stata dedita all’agricoltura, nei 50 ettari del loro Podere Sedime si coltivava grano, seminativi, oltre ad avere oliveti e vigneti. Fu Marco, a metà degli anni Novanta a sviluppare la parte vitivinicola e ad imbottigliare il primo vino nel 2001, ora gli ettari vitati sono sei, per una produzione di 20.000 bottiglie/anno delle quali circa 4.000 di Frasi.

Vigne

I vigneti si trovano ad oltre 450 metri d’altitudine su quello che un tempo era un fondale marino, le caratteristiche del suolo e le notevoli escursioni termiche dovute all’altitudine fanno si che se ne ricavi un’uva dal notevole potenziale, che, ben gestita in cantina, è in gradi di dare vini complessi ed eleganti. A proposito di uva il vitigno principale è il Sangiovese, seguito dal Merlot, utilizzato, quest’ultimo in blend con il Sangiovese nell’Orcia Doc Riserva Capitoni. Terzo ed ultimo vino prodotto è il Troccolone, Sangiovese in purezza affinato in anfora. 

Planeta - Etna Bianco Doc 2017


di Lorenzo Colombo

Da uve Carricante allevate a 700 metri d’altitudine sul versante nord dell’Etna, su suoli costituiti da sabbie laviche, nasce questo vino strutturato e morbido, connotato da sentori di frutta gialla matura, note tropicali ed accenni idrocarburici.


La vinificazione prevede che una piccola parte del mosto fermenti in tonneaux.

C’è il Vermouth e poi c’è il Vermouth di Torino IG


di Lorenzo Colombo

Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto ministeriale 1826 del 22 marzo 2017, il Vermouth di Torino viene riconosciuto come Indicazione Geografica, è questo l’ultimo atto di un lungo percorso volto al riconoscimento dell’unicità di questo prodotto. La prima normativa riguardante il Vermouth è datata 1933 ed andava a stabilire la sua gradazione alcolica minima, il suo tenore zuccherino e la percentuale in volume del vino base e delle sostanze aggiunte. 


Nel 1991, con l’individuazione delle Indicazioni Geografiche Tipiche viene poi riconosciuto e tutelato il Vermouth di Torino, nel 2014, durante un seminario negli Stati Uniti, emerse l’urgenza di una di una maggior protezione del prodotto dato che in quel paese leggi più elastiche andavano a permette la produzione di Vermouth senza le caratteristiche peculiari di questo prodotto. 
I produttori italiani si riunirono quindi in un tavolo comune, ad Asti e grazie anche al sostegno della Federvini si arrivò alla legge italiana inviata quindi per la ratifica alla Commissione Europea per giungere infine al riconoscimento dell’Indicazione geografica del Vermouth di Torino. 

Nel 2017 nasce quindi l’Istituto del Vermouth di Torino e due anni dopo viene costituito il Consorzio del Vermouth di Torino. 

Il disciplinare di produzione del Vermouth di Torino prevede quattro tipologie di prodotto, basate sul colore (Bianco, Ambrato, Rosato o Rosso), altra distinzione tra i prodotti è data dal suo grado di dolcezza che presenta tre livelli: Extra Dry (meno di 30 g/l di zucchero, Dry (meno di 50 g/l) e dolce, riservato ai Vermouth con un tenore zuccherino d’oltre 130 g/l.  La sua gradazione alcolica dev’essere compresa tra il 16% ed il 22% vol., è inoltre prevista la tipologia Superiore che prevede l’utilizzo di almeno il 50% di vino prodotto in Piemonte, come pure prodotte in regione debbono essere le sostanze aromatizzanti, per questa tipologia la gradazione minima sale al 17% vol. 


Lo scorso 16 giugno il Consorzio del Vermouth di Torino si è ufficialmente presentato alla stampa presso il Palazzo Parigi Hotel a Milano. Erano presenti il Presidente del Consorzio Roberto Bava ed il direttore Pierstefano Berta che hanno tenuto la relazione dal titolo “Dai Savoia alla nuova legge di tutela: il racconto del Vermouth di Torino”. 
E’ quindi seguita una degustazione guidata (a bottiglie coperte) della principali tipologie di Vermouth di Torino spiegandone caratteristiche ed utilizzo, sono così stati presentati un Vermouth Dry, uno Bianco, uno Ambrato ed uno Rosso. Questa degustazione è stata condotta da un esperto di mixology e questo c’è un poco dispiaciuto perché avremmo preferito che fosse data maggior importanza al Vermouth di Torino in quanto tale, e non come ingrediente (seppur basilare ed importante) di una bevanda miscelata. 


Infine erano presenti 53 Vermouth di Torino in degustazione libera, prodotti da 22 aziende, purtroppo il poco tempo a disposizione ci ha permesso d’assaggiarne solamente una dozzina, tutti piuttosto interessanti, tra i nostri preferiti andiamo a citare: 

Bordiga - Vermouth di Torino Bianco: dal naso intenso, speziato ed elegante; intenso e morbido alla bocca con sentori piccanti che rimandano nettamente allo zenzero, lunga la sua persistenza. 

Drapò – Vermouth di Torino Rosato: discretamente intenso al naso, agrumato con sentori di scorza d’arancio e leggeri accenni di spezie dolci; fresco alla bocca dove si ripropongono le note agrumate che rimandano al pompelmo, lunga la persistenza. 

Del Professore - Classico Vermouth di Torino Ambrato: dal color giallo-dorato luminoso, intenso ed elegante al naso dove si colgono sentori di radici e d’erbe aromatiche; fresco ed agrumato alla bocca, con accenni piccanti di zenzero e lunga persistenza. 

Tosti 1820 – Taurinorum Vermouth di Torino Superiore Ambrato: color ambrato luminoso, discretamente intenso al naso dove si percepiscono sentori di caramella all’orzo; intenso alla bocca, di nuovo si coglie la caramella all’orzo oltre a sentori di radici dolci e di cannella, buona la sua persistenza. 


Cocchi – Storico Vermouth di Torino Rosso
: color tra il topazio ed il granato, intenso al naso dove presenta sentori di radici dolci e spezie dolci; succoso al palato, vi cogliamo radici dolci e caramella al rabarbaro, lunga la sua persistenza. 

Peliti’s - Vermouth di Torino Rosso: color granato, mediamente intenso al naso dove presenta leggere note di radici e corteccia; succoso e piacevolmente amaricante al palato, caramella al rabarbaro. 

Arudi - Vermouth di Torino Rosso: color granato luminoso, Intenso al naso, con sentori di radice di genziana e rabarbaro; netti sentori di radici alla bocca (sembra un amaro), lunga la sua persistenza. 

Drapò – Tuvè Vermouth di Torino Rosso: color granato, intenso e balsamico al naso dove cogliamo spezie dolci, cannella e noce moscata; di buona struttura, leggermente piccante (pepe), chiude su sentori di rabarbaro.

InvecchiatIGP: Col Vetoraz - Valdobbiadene Brut DOCG 2010


di Stefano Tesi

Le bollicine disperse in qualche angolo della cantina sono un classico per chiunque si diletti in cose di vino. E ogni volta che si ritrova qualche “giacimento”, la reazione è sempre la stessa. Duplice. La prima è: “accidenti, non mi ricordavo per niente di questa bottiglia, come è finita qui? Sennò l’avrei bevuta prima”. La seconda, invece, è più drastica: “sarà ancora buona?”.


Domanda che implica un’ulteriore variabile dettata dalla teorica longevità del vino, nel senso che tanto più si considera lo spumante in parola nato per essere consumato presto e tanto minore è di norma la speranza (e quindi maggiore il pregiudizio) che possa essersi mantenuto bene.

Ovviamente, non resta che provare.

Quando ho rimosso la capsula e la gabbia di questo Col Vetoraz Valdobbiadene Brut DOCG 2010 (fatto in autoclave, con 8% di residuo zuccherino) e ho messo mano al tappo, qualche timore in effetti l’ho avuto: diciamo che appariva piuttosto stagionato, con tutte le potenziali conseguenze.


Versato nel bicchiere, il vino si è presentato però di un bell’oro intenso, carico e brillante, con spuma cremosa e perlage lento, finissimo.

Ero curiosissimo di provare le sensazioni olfattive.

Le attese note di mela, frutti bianchi e agrumi hanno lasciato il posto a una lenta sequenza di miele di acacia, toffees e datteri immersa in una diffusa atmosfera di incenso, di cera e – per chi ha presenti certi ambienti – di sacrestia.


In bocca la briosità è fatalmente perduta, ma emerge un’eleganza composta e saggia, lunga, piacevole nei suoi echi di frutta secca e mandorle, appena sapidi, che mi hanno fatto accompagnare il vino a tutta la cena e alla conversazione successiva. 
Il che non è poco. Quasi quasi torno in cantina a vedere se ne avessi dimenticata un’altra bottiglia.

Casale dello Sparviero - Chianti Classico DOCG 2019


di Stefano Tesi

In quest’afoso luglio, se bevuto appena più fresco si fa dissetante e mantiene tutta la sua invitante fragranza, senza perdere nulla dell’agile robustezza. 


Scaldandosi un po’ la mammola si arrotonda, l’alcool emerge e il sorso si arricchisce, ma con la bella naturalezza del compagno ideale per il tonno del Chianti che ho nel piatto.

A Volterra, alla scoperta dei vini di Monterosola!


di Stefano Tesi

Chi fa questo mestiere non deve mai fermarsi alle apparenze, anche se a volte queste sembrano messe lì per non farti guardare oltre. Non è certamente il caso di Monterosola, l’azienda volterrana che sono riuscito a visitare qualche settimana fa dopo infiniti tira e molla pandemici.


Sebbene anche qui, a fianco del vino, di cose da osservare ce ne siano molte: da un’architettura imponente che non tutti apprezzano (ma costruita interamente con una pietra rara, il panchino di Pignano, un materiale antico a km zero) a una cantina gravitazionale, operativa dalla vendemmia 2018 e realizzata per intero all’interno di un’intercapedine d’aria con pompe di calore che servono l’intera struttura, da almeno un paio di scorci cartolineschi (siamo a 440 metri s.l.m. e nei giorni fortunati si vedono i monti della Corsica innevati) alle famose installazioni di Mauro Staccioli da toccare praticamente con mano.


Gli occhi del cronista invece, prima di dedicarsi agli assaggi, sono caduti su due dettagli senza dubbio meno glamour, ma assai importanti: l’interessante esperimento, condotto con le università di Pisa e di Bologna, della semina sotto i filari del trifoglio sotterraneo permanente per l’inerbimento (tutti i 125 ettari dell’azienda, dei quali 23 a vigneto, sono certificati biologici fino all’imbottigliamento, ma in etichetta il bollino non è ancora rivendicato) e 4 ettari di oliveto che, oltre alle classiche varietà Frantoio, Leccino e Pendolino, comprende anche il Lazzero della Guadalupe, una rara cultivar locale salvata dall’estinzione.


Da quando, nel 2013, Monterosola è stata acquisita dalla famiglia Thomaeus (industriali svedesi di origine scozzese, ndr) – dice il general manager Michele Senesi, che mette nel racconto anche il coinvolgimento di chi è nato e vive a pochi km da qui – sono cambiate molte cose rispetto alle origini. Dal 2015, in particolare, quando fu decisa la costruzione della nuova cantina e un progressivo cambio stilistico dei vini che, sotto la guida di Alberto Antonini, nostro enologo fin dal 2008, ha visto ovviamente una decisa svolta tre anni fa, con l’entrata in funzione della nuova cantina”.


Cambio che è molto evidente nei bianchi, aggiungiamo noi, ed è ancora in divenire nei rossi, alcuni dei quali risentono della passata impostazione e della vecchia cantina. 
Ecco perché, ad esempio, ci ha convinto il Per Terras 2018, un Toscana IGT, 100% Cabernet Franc da vigne nuove fatto in botte grande: nella sua evidente gioventù ha un tratto varietale molto marcato, esuberante sì ma niente affatto invasivo ed anche in bocca ha una levità quasi croccante che, tutt’altro che banale, lo rende viceversa sciolto e sapido.


Bene anche l’Indomito 2016, Toscana IGT al 75% di Syrah e al 25% di Cabernet Sauvignon, vino molto centrato e compatto, elegante e piacevole al naso, con una bocca opulenta, goduriosa, importante ma non – fondamentale! - noiosa nè prevedibile.


Ci sono piaciuti un po’ meno, per la mera questione stilistica legata all’uso massiccio del legno, il Corpo Notte 2016, Toscana IGT al 70% di Sangiovese e al 30% di Cabernet Sauvignon, e il Canto della Civetta, Toscana IGT Merlot al 100%.


Merita invece di essere atteso il Crescendo 2016, Toscana IGT al 100% Sangiovese che, sebbene per impostazione e struttura ricalchi e forse perfino superi i due precedenti, ha le qualità per ingentilirsi e mettere a freno certi eccessi.

Decisamente più agili i bianchi.

Il Cassero 2019, IGT Toscana al 100% di Vermentino, ha un bel naso pulito e varietale, a tratti quasi pungente, mentre in bocca è salato, molto netto, solido e piacevole.


Più evoluto e complesso il Per Mare 2018, Toscana IGT al 100% Viognier: un oro limpidissimo e brillante per un naso delicato, appena metallico, accenni di pietra focaia e olio minerale, mentre in bocca ha un lungo finale amarognolo.


Sullo stesso livello si colloca il Primo Passo 2018, Toscana IGT al 40% Grechetto, al 40% Incrocio Manzoni e al 20% Viognier, con un naso elegante e asciutto ma discretamente fruttato, mentre al sorso rivela grande lunghezza, bella acidità e una sapidità che sconfina nell’amarognolo.


Chi passa da Volterra ci faccia un pensierino: si può fermarsi, degustare, visitare ed acquistare direttamente.

InvecchiatIGP: Tenuta San Francesco - Costa d'Amalfi Bianco DOC "Per Eva" 2011


di Luciano Pignataro

Questo bianco nasce a Tramonti, l'unico comune della Costa d'Amalfi che non ha sbocco al mare ma che costituisce il retroterra agricolo ricco di biodiversità di questo meraviglioso territorio. Non è famoso come il Fiorduva di Marisa Cuomo ma tra gli appassionati è ben conosciuto per la sua finezza e la sua eleganza. 


Dobbiamo dire che le caratteristiche 
di questo areale, anzi, le condizioni pedoclimatiche, complessivamente parlando, sono molto favorevoli alle uve bianche. In primo luogo lo strato più superficiale è stato "irrorato" dalle eruzioni del Vesuvio, alcune delle quali hanno anche seppellito le antiche ville dei Romani in questo lembo di costa. Una condizione che ha salvato centinaia di ceppi a piede franco. In secondo luogo è una viticultura del freddo e di alta quota, parliamo di circa 500 metri di altezza, anche 600 in questo caso, perchè la Vigna dei Preti
dove si allevano la falanghina, la pepella e la ginestra che compongono il vino è uno dei punti più alti della Costiera, un tratto battuto dai venti di mare e di terra che mantengono puliti i grappoli. Fatte queste premesse, aggiungiamo che si tratta di una vinificazione semplice, in acciaio, con breve sosta sulle fecce, da una selezione dei migliori grappoli. 


Ed è così che il Per Eva rivela una grande energia da giovane, ma con il tempo, in questo caso dieci anni, si rappresenta con
una maturità profonda al naso e al palato ed una grande complessità in grado di competere con qualsiasi altro vino bianco di questa età.


Frutta, note fumè e di idrocarburi all'olfatto, grande spinta fresca, ricca di energia, al palato. Il sorso è lungo, piacevole, è un vino che potrebbe entrare come pirata in qualsiasi batteria facendo bella figura. La 2011, ricorderete, è stata annata molto calda a partire da Ferragosto, quando l'estate sinora fresca è divenuta torrida per altri 30 giorni. questo caldo ha fatto benissimo alla maturazione di zone fredde come la frazione Ponte dove si trova Vigna dei Preti. 


In conclusione: invitiamo severamente gli appassionati a conservare le bottiglie di "Per Eva" e a iniziarle a stappare non prima dei sei, sette anni di vita come testimoniano ripetute esperienze sul campo.

Lungarotti - Torgiano Rosso DOC "Rubesco" 2010


di Luciano Pignataro

Una vecchia magnum sepolta da altre ha bussato nella porta della mia memoria per farsi bere. 


Sangiovese e un po' di Colorino, fermentazione
in acciaio, poi un anno di legno e uno di bottiglia. Così il vino bandiera di Lungarotti ha riscaldato un bel pranzo di famiglia: fresco ed efficace sul cibo.

La Masserie - Sensus Pallagrello 2008


di Luciano Pignataro

Quanto vive il Pallagrello Nero? Beh, almeno quanto l’Aglianico, sebbene abbiamo uno storico che non va oltre il 1998, primo anno di vinificazione dell’azienda Vestini Campagnano, quando Manuela Piancastelli, il marito Peppe Mancini e l’avvocato Amedeo Barletta iniziarono questa avventura con il supporto di Luigi Moio. 
Certo dopo i dieci anni è ancora bello pimpante, come abbiamo avuto di accertare con questa magnum del 2008 di una piccola azienda, La Masserie, adesso condotta da Sara Carusone. 


Siamo conservatori nelle bottiglie, e questa magnum era sepolta in cantina dopo una visita all’azienda di Bellona, in provincia di Caserta, fatta nel lontano 2012. Nonostante il vino avesse già quattro anni, decisi di aspettare.
Le cantine, si sa, sono un po’ come le biblioteche, soprattutto quelle di campagna dove bottiglie vanno su bottiglie non sempre con un ordine preciso. Proprio durante un repulisti generale ho pensato che fosse arrivato il momento di aprire il Sensus 2008 de La Masserie in magnum per abbinarlo ad un bel ruoto di pasta alla siciliana al forno. Il tema dell’invecchiamento è quello che più mi affascina nel mondo del vino: quando aprire una bottiglia? E’ giusto averle subito pronte o, piuttosto, il bello è capire quando l’evoluzione è allo zenith per stapparla. Solo l’esperienza ce lo può dire con chiarezza, ma nel caso del Pallagrello, appunto, non abbiamo un grande storico e si procede a tentativi. Siamo abbastanza sicuri della sua longevità per la vena acida prepotente, i tannini, l’alcol che lo hanno fatto confondere con l’aglianico per lungo tempo nonostante il grappolo piuttosto spargolo.


Rispetto all'"Aglianico", il "Pallagrello nero" presenta tutte le fasi fenologiche anticipate di circa 7 giorni. Infatti, il germogliamento avviene tra la prima e la seconda decade di aprile; la fioritura è a cavallo tra maggio e giugno; l'invaiatura cade tra l'inizio e il 20 di agosto, mentre la vendemmia va programmata per la prima decade di ottobre.


Gli studi condotti da Antonella Monaco evidenziano che il Pallagrello mostra una produttività maggiore rispetto all’Aglianico, vitigno utilizzato nella sperimentazione come varietà di riferimento. Infatti, la produzione unitaria e il peso medio del grappolo sono stati sensibilmente più elevati per il Pallagrello nero rispetto all'Aglianico (6.14 kg/pianta contro 3.34 kg/pianta per la produzione; 251,2 g. e 171 g per il peso del grappolo). Maggiore è anche il vigore vegetativo, come risulta dalla valutazione della quantità di legno di potatura invernale (1.37 kg/pianta contro 1.02 kg/pianta per il legno). Di questa uva ci sono al momento poche tracce storiche, e aspettiamo con ansia il prossimo libro di Manuela Piancastelli sul tema, sappiamo che Ferdinando d Borbone lo aveva inserito, insieme al Pallagrello Bianco, nella famosa Vigna del Ventaglio voluta dalla casa reale, sempre attenta alla viticultura e all’agricoltura, con le varietà più diffuse, ciascuna delle quali costituiva un filare. Oggi è diffusa soprattutto in provincia di Caserta, principalmente nei comuni di Alife, Alvignano, Caiazzo e Castel Campagnano dove era chiamata Coda di Volpe nera a causa della forma del grappolo.


Come speso capita in campagna, il successo è imitato e dopo quello della Vestini Campagnano, soprattutto dopo i successi di Terre del Principe fondata da Manuela Piancastelli con Peppe Mancini sempre sostenuti da Luigi Moio, molti hanno cominciato ad imbottigliarlo in purezza con buoni risultati. Si è trattato di una vera e propria piccola rivoluzione in questo territorio incontaminato che ha segnato un ulteriore passo in avanti della Campania verso la scelta di usare solo vitigni autoctoni, strategia culturale e commerciale che si è rivelata vincente a questa regione perché ha potuto surfare l’onda italiana nonostante le sue piccole dimensioni produttive.
I ritardi di organizzazione e di cooperazione fra le aziende non hanno favorito l’espandersi della fama di questa uva che resta però una chicca interessante per tutti gli appassionati proprio per le caratteristiche del vino che ne fanno un rosso rustico, di corpo, gastronomico, piacevole.


Proprio come questa vecchia magnum, in cui i tannini sono stati levigati dal tempo presentando un naso ricco di frutta ancora fresca in un cornice leggermente fumè, al palato una freschezza in buon equilibrio anche grazie al rapporto fra frutto e legno molto ben giocato.

InvecchiatIGP: Dorigati - Teroldego Rotaliano Diedri 2003


di Carlo Macchi

Il Teroldego Rotaliano è uno dei miei vini del cuore e questo di Dorigati è sempre stato tra i preferiti perché riesce a miscelare potenza con rotondità e perfetto uso del legno. Non è facile fare un Teroldego Rotaliano (scusate se insisto sul termine “Rotaliano” ma quelli fatti in altre zone, anche vicine, sono diversi) perché devi modellare e mixare la belluina presenza di antociani con l’atavica scarsità di tannini, riuscendo a portare a maturazione un vino che, anche a causa di pH quasi “arrendevoli” (3.70- 3.80) rischia di nascere piatto oppure con tannini verdi.


Le strade che ha cercato il Teroldego per farsi conoscere e riconoscere (anche se spesso non lo riconosciamo visto che purtroppo entra come taglio in tanti vini blasonati…) sono state diverse e non tutte per me hanno portato a migliorare il vino e a farne capire le reali possibilità.

Paolo Dorigati

Paolo Dorigati, anima del gruppo di giovani produttori “Teroldego Revolution” (ve ne parlerò in un prossimo articolo) mi ha stappato questo 2003, lasciandomi a naso e bocca aperta. A parte il colore che sembra non degradare mai il naso è un insieme potentissimo che in prima battuta ricorda i grandi Bordeaux del Medoc grazie a note di cassis, di paglia, di liquirizia e a raffinate note floreali e vegetali, il tutto perfettamente armonizzato dal legno. La bocca è concreta ma docile: i tannini sono perfettamente fusi, setosi ma delineati. Lunghissimo e equilibrato chiude con misurata dolcezza tannica, lasciandosi ancora del tempo per stupire.

Dr.Bürklin-Wolf - Riesling Trocken Wachenheimer Altemburg 2017


di Carlo Macchi

Il Palatinato non è certo la prima zona che viene in mente parlando di Riesling tedeschi e questa cantina, pur essendo famosissima non è certo tra le più conosciute. 


Però questo loro cru ha le carte in regola (acidità, ampiezza olfattiva, profondità gustativa) per dare soddisfazione ora e nei prossimi 20-30 anni.