Malagousia, la Cenerentola greca che profuma di fiori e albicocche


di Carlo Macchi

Incontrare un vitigno che non conosci è sempre una scoperta, se poi quel vino/vitigno viene dalla Grecia è ancora più intrigante e infine se il solito impagabile Haris Papandreou te ne propone quindici campioni in assaggio il cerchio si chiude e, naturalmente si apre la degustazione nella sede di Winesurf.


Il vitigno in questione è la Malagousia, uva riscoperta negli anni ’70 del secolo scorso nella regione di Nafpaktia e per questo chiamata spesso la Cenerentola dei vini greci. Non ci sono molte notizie su quest’uva: pare che a inizio del secolo scorso venisse apprezzata anche per la buona produttività ma che nel tempo fosse stata sostituita da coltivazioni irrigue molto più redditizie. Comunque Vangelis Gerovassiliou assaggiò, spinto dal suo professore di enologia, l’uva e rimase sorpreso dalle sue caratteristiche, decidendo di vinificarla prima nella cantina Porto Carras e successivamente nella sua. Questo lo ha portato ad essere chiamato “il padre della Malagousia” ma soprattutto ad essere stato il primo a produrla e venderla, subito seguito da un buon numero di produttori greci.


La riscoperta di questo vitigno ha portato infatti a (ri)piantarla in molte zone della Grecia (dalla Macedonia alla Tessaglia alla Grecia Centrale) con climi anche molto diversi tra loro. Siamo di fronte ad un vitigno a bacca bianca, dal grappolo piuttosto esteso, che esprime intense aromaticità, specie su note floreali ma anche su sentori di pesca e albicocca. L’acidità non è altissima ma una vendemmia abbastanza precoce gli permette di conservare una sufficiente freschezza. Al contrario di tanti vini bianchi non si percepisce, anche da campioni di zone diverse, note estremamente sapide o saline. Sicuramente dà il meglio di sé nei primi 2/3 anni di vita e quasi sempre viene vinificata in acciaio a temperatura controllata e messa in commercio giovane. Qualche produttore ha provato anche a vinificarla parzialmente o totalmente in legno con risultati interessanti. Molto interessanti sono anche le poche versioni passite dove i sentori di albicocca matura sono quasi inebrianti.


Se volessimo allestire un podio dei quindici campioni degustati il podio virtuale potrebbe essere composto (in ordine sparso) dal Mikrokosmos 2022 di Zafeirakis, con profumi fini che puntano sull’agrume e dalla netta verticalità, dalla Malagousia 2023 elegante e persistente di Tsikrikonis, e dalla Malagousia 2023 di Vangelis Gerovassiliou, con particolari note fumé che affiancano quelle floreali e un corpo di giusta ampiezza.


In generale sono vini che ancora credo paghino la giovinezza di tanti impianti e forse rese un po’ troppo alte dovute anche ad un mercato nazionale che lo richiede sempre più. Sono convinto che tra 6/7 anni potremo trovare delle Malagousia più piene senza rinunciare alla caratteristica principale che è appunto l’aromaticità. Dimostrano comunque ancora una volta che il vino greco combatte alla pari con i prodotti di qualsiasi altra nazione e che le moderne forme di vinificazione sono oramai ben assimilate e comprese a ogni livello.


Dal punto di vista dell’importazione non siamo messi benissimo ma si possono ordinare direttamente in Grecia su vari siti. I prezzi vanno dai 10/11 euro ai 24-25 per le selezioni più importanti. La media è comunque attorno ai 15 e sono sicuramente soldi ben spesi, specie se ci mettiamo il fattore novità.

Mostra mercato dell’artigianato della valtiberina toscana: Paola De Blasi è il nuovo direttore artistico


La 49ª edizione della Mostra Mercato dell’Artigianato della Valtiberina Toscana si avvicina a grandi passi e in attesa del grande appuntamento, in programma nel cuore di Anghiari dal 25 aprile al 1° maggio, siamo felici di annunciare l’ingresso nel Comitato Organizzatore di una nuova figura. Si tratta di Paola De Blasi, nominata Direttore Artistico della manifestazione. È laureata in Scienze Agrarie, abita a Firenze dove lavora nell’ambito della comunicazione nel settore vitivinicolo nello studio Thurner PR (e non solo), è legata al mondo della televisione, è anghiarese a tutti gli effetti e proprio nel borgo tiberino porta avanti “Beba”, l’azienda di famiglia. Un ruolo nuovo ed importante per dare ulteriore slancio alla Mostra Mercato dell’Artigianato della Valtiberina Toscana già nell’edizione 2024 e soprattutto in vista del prossimo anno, il cinquantesimo di una manifestazione che è da sempre riferimento per il settore del fatto a mano e che promuove le eccellenze dell’artigianato, conservandone tradizioni e peculiarità, ma guardando ogni anno di più verso il futuro.


Paola De Blasi è già al lavoro in vista della Mostra 2024 e si è approcciata con entusiasmo al nuovo ruolo. “Ringrazio l’Ente Mostra per avermi affidato l’incarico di Direttore Artistico, per me motivo di grande emozione. L’artigianato è una bella opportunità per Anghiari e per tutto il territorio ed è nostro compito renderlo fruibile e amato dalle nuove generazioni. Per 48 edizioni - ha sottolineato Paola - il nostro paese, grazie alle storiche botteghe situate nel suo affascinante centro storico, è stato custode di un patrimonio immenso. Dobbiamo continuare questo percorso di valorizzazione con una lettura dell’artigianato profonda, compresa e condivisa, capace di far divenire Anghiari e la Mostra non solo custodi, ma anche ambasciatori di un settore che rappresenta tutte le imprese capaci di portare nel mondo la genialità italiana. Necessario raccontare questo con un linguaggio contemporaneo che consenta una lettura attuale delle tecniche moderne, così da mantenere il cuore autentico dell’artigianato per raccontare il futuro. Per questo stiamo aprendo la strada ad attività convegnistica e a laboratori che possano mostrare cosa significa essere artigiani oggi, innalzando sempre di più la qualità, facendo scoprire oggetti di nicchia, dando una prospettiva internazionale alla narrativa di un’arte preziosa, quella del saper fare con le mani, con attenzione all’ambiente e al gusto. Prospettive valide per questa edizione ed in vista della cinquantesima del prossimo anno. L’artigianato è creatività, ingegno e passione: quell’anima che rende i prodotti autentici, unici ed irripetibili. Affinché l’identità italiana non vada persa - ha concluso il direttore artistico - dobbiamo difenderla, facendo appassionare i giovani all’artigianato, come delicato equilibrio alchemico fra tradizione e intelligenza”

Appuntamento da non perdere quindi ad Anghiari con la 49ª Mostra Mercato dell’Artigianato della Valtiberina Toscana. Dal 25 aprile al 1° maggio, per gustare le eccellenze di artigianato e arte in uno dei Borghi più belli d’Italia.

La manifestazione è organizzata dall’Ente Mostra Valtiberina Toscana, in collaborazione con Camera di Commercio di Arezzo-Siena, Regione Toscana, CNA Arezzo, Confartigianato Arezzo, Provincia di Arezzo, Comune di Anghiari, Associazione Pro-Anghiari e Banca di Anghiari e Stia Credito Cooperativo.

Vinitaly 2024, a Verona il festival del vino in programma dal 14 al 17 aprile


Oltre 4mila cantine espositrici da tutte le regioni italiane e da 30 Paesi esteri e più di 30mila operatori internazionali – tra cui i 1200 top buyer da 68 nazioni – , oltre alle delegazioni commerciali dei principali Paesi acquirenti. Si aprirà così domattina alle ore 11 il Vinitaly 2024. In contemporanea, anche la 28ª edizione di Sol, International olive oil trade show, il 25° Enolitech, salone internazionale delle tecnologie per la produzione di vino, olio e birra, e Xcellent Beers, la rassegna dedicata alle produzioni brassicole artigianali, al suo debutto “autonomo” quest’anno.


All’inaugurazione, nell’auditorium Verdi del Palaexpo, interverranno Lorenzo Fontana, presidente della Camera dei Deputati; Barbara Bissoli, vicesindaca del Comune di Verona, Flavio Massimo Pasini, presidente della Provincia di Verona; Federico Bricolo, presidente di Veronafiere; Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale; Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste; Luca Zaia, presidente Regione Veneto; Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy, e Gennaro Sangiuliano, Ministro della Cultura.

Nel corso dell’inaugurazione verranno assegnati anche i riconoscimenti “Premio Vinitaly International Italia”, “Premio Vinitaly International Estero” e i nuovi “Vinitaly Wine Critics Award” e “Premio Vinitaly 100 anni”.
A seguire, l’inaugurazione dello stand della Regione del Veneto, al padiglione 4. Nella prima giornata di Vinitaly, presente anche Paolo Zangrillo, Ministro per la Pubblica Amministrazione per il taglio del nastro dell’area Piemonte insieme al vicepremier Tajani.

“Se tu togli il vino all’Italia – un tuffo nel bicchiere mezzo vuoto” sarà la ricerca del 56° Salone internazionale del vino e dei distillati per la Giornata del made in Italy, presentata nell’area MASAF del Palaexpo. Lo studio, realizzato dall’Osservatorio Uiv-Vinitaly-Prometeia, valuta l’impatto in termini socio-economici, culturali, turistici e d’immagine di una eventuale scomparsa del vino dall’Italia, con un focus su 3 territori simbolo dell’economia rurale a trazione enologica: Barolo, Montalcino ed Etna.
Presente il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida.
Oltre ai vertici di Veronafiere, intervengono Giuseppe Schirone, principal Prometeia, Carlo Flamini, responsabile dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly, Francesco Cambria, presidente del Consorzio Etna, Fabrizio Bindocci, presidente del Consorzio Brunello, Micaela Pallini, presidente di Federvini, e Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione italiana vini.

Vinitaly USA. Nel primo pomeriggio il vicepremier Antonio Tajani visiterà lo stand di Vinitaly USA, dove verrà presentato il nuovo progetto fieristico internazionale targato Vinitaly che debutterà a Chicago il 20 e il 21 ottobre 2024. L’evento è organizzato da Fiere Italiane in compartenariato con Vinitaly, l’Italian American Chamber of Commerce Chicago-Midwest e ICE-Agenzia.

InvecchiatIGP: Tenuta di Fiorano - Fiorano Rosso 1988


di Roberto Giuliani

Mi sono chiesto in più occasioni come mai la Tenuta di Fiorano, per la sua straordinaria storia e per la qualità dei suoi vini, ha fatto una gran fatica a raggiungere quella fama che le competeva a pieno diritto. Non sto qui a raccontare delle vicissitudini storiche della famiglia Boncompagni Ludovisi, ma vi basti pensare che in quel territorio che fiancheggia l'Appia Antica a due passi da Roma, nel 1946 il Principe Alberico ereditò dal padre Francesco una grossa quota delle tenuta, allora costituita da uliveti, pascoli e seminativi, decise di impiantare il primo vigneto, forte di una conoscenza agricola e agronomica, con i vitigni internazionali cabernet sauvignon e merlot, più sémillon e malvasia per fare dei vini bianchi. Prima di chiunque altro, teniamolo a mente! Chiese la consulenza al mitico Tancredi Biondi Santi, che in più occasioni portò con sé il giovane Giuli Gambelli.


Tutto questo si svolgeva in una terra già allora totalmente incontaminata, che così è rimasta fino ai giorni nostri, quindi un bene preziosissimo, perché da subito si è lavorato sempre in biologico, quello serio, ben più bio di quanto prevedano i disciplinari. Allora non era praticamente possibile visitare la cantina, il vino si poteva acquistare solo in loco, pagando in contanti, uno dei pochi che avevano potuto visitarla era Luigi Veronelli, che si innamorò letteralmente di quei vini e contribuì a far sapere al mondo che la Tenuta di Fiorano era la migliore azienda del Lazio.


Poi, per ragioni mai chiarite, il Principe Alberico nel 1998 decise di espiantare tutte le vigne e interrompere la produzione; a nulla valse la proposta di occuparsene da parte del Marchese Piero Antinori (che aveva sposato la figlia di Alberico, Francesca), di cui non condivideva né la filosofia né il modo di produrre vino. Non mi addentro ulteriormente sulle vicissitudini che seguirono, vi dico solo che a prendere le redini dell'azienda fu poi il Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi, che senza alcuna esperienza in campo vitivinicolo, ma colmo di passione e orgoglioso di guidare l’attività di questa storica Tenuta, dagli inizi del 2000 ha ripreso a produrre vino, con le stesse uve che il cugino aveva impiantato 50 anni prima, tranne il sémillon che arrivò un po’ di anni dopo.

 Il Principe-Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi

Poche settimane fa ho avuto il piacere di tornare in azienda e degustare i vini bianchi e rossi prodotti, con una interessantissima verticale del Fiorano Rosso, di cui l'annata 1988 mi ha davvero emozionato.


Assaggiare questo vino mi ha portato al di fuori del solito contesto degustativo in cui analizzi tecnicamente, tiri fuori i sentori, l'acidità, il tannino, no. Qui entriamo in un ambito diverso, perché questo '88 ti solleva dalla sedia di almeno venti centimetri, sto parlando un grandissimo cabernet sauvignon, perfettamente tarato sul terroir d'appartenenza, che ha mostrato una vitalità, un'energia, una ricchezza espressiva davvero esaltanti. 


Alla cieca non lo avresti mai indovinato, 36 anni che non sembrano neanche 10, con quelle sensazioni che rimandano alla macchia mediterranea, agli aghi di pino, alla resina, al ginepro, poi menta, frutto integro che ricorda la prugna e quella componente vegetale che rimanda al peperone ma maturo, direi affumicato. Tanta eleganza e scioltezza da cavallo di razza, e chi se lo dimentica più!

Alfonso Rinaldi - Colline Novaresi Bianco Costa di Sera dei Tabacchei 2021


di Roberto Giuliani

L’Erbaluce di Alfonso Rinaldi (ora nelle sapienti mani del figlio Riccardo) riesce ad emozionarmi ogni volta che lo assaggio.


Il vino profuma di fiori di campo, susina gialla, cedro maturo, pesca, mandorla, un fiume di sensazioni che chiude salino e con una freschezza integrata grazie all’anno in più di bottiglia.

Tenute del Fasanella - Paestum IGP Rosso Auso Biologico 2018


di Roberto Giuliani

Quello che le cooperative fanno vini commerciali e non di valore è un luogo comune che sta facendo ancora danni nell’ambiente enoico. Non c’è dubbio che in passato le cantine sociali di buona parte della penisola mirassero prevalentemente a fare numeri, ma da almeno vent’anni a questa parte in molte regioni le cose stanno cambiando in modo netto, soprattutto per quanto riguarda le realtà medio-piccole, come in questo caso.

Parliamo di Tenute di Fasanella, una cantina situata in quel meraviglioso territorio che è il Parco Nazionale del Cilento Vallo di Diano e Alburni, in provincia di Salerno. Fu Michele Clavelli, sindaco del Comune di Sant’Angelo a Fasanella, a prendere l’iniziativa di coinvolgere un drappello di vignaioli per creare una cooperativa che desse lustro al territorio cilentano. Era il 2003, l’idea ebbe successo e furono oltre 40 ad associarsi; da subito l’impostazione fu quella di lavorare in biologico nel rispetto di un territorio dove la natura ha ancora uno spazio incontaminato dove poter esercitare le sue funzioni di salvaguardia.


Il principio era, quindi, più che meritevole, nel 2004, dopo opportune valutazioni delle microzone più adatte, si è iniziato a impiantare le uve tipiche del territorio, come Aglianico, Aglianicone, Primitivo e Fiano, alle quali sono state aggiunte di recente le varietà autoctone cilentane Santa Sofia e Mangiaguerra. Il primo imbottigliamento è stato il 2008, anno in cui è arrivata anche la consulenza dell’enologo Sergio Pappalardo, che ha seguito tutto il processo produttivo di Tenute del Fasanella. Già nel 2009 la Tenuta era in conversione biologica, grazie al fatto di trovarsi in un contesto pedoclimatico del tutto favorevole. La certificazione è arrivata nei tempi opportuni e il lavoro in vigna e cantina è stato impostato con la massima attenzione, consentendo di arrivare a imbottigliare i vini senza aggiunta di solfiti.


Le uve che danno vita all’Auso 2018 sono aglianico per l’80% e primitivo per la restante parte, provengono da un vigneto di 3,62 ettari, posizionato a 500 metri di altitudine in zona San Vito Prato e Lupinelle. Le due uve vengono raccolte in epoche del tutto diverse, il più precoce primitivo nella prima decade di settembre, mentre per l’aglianico si arriva anche alla terza decade di ottobre. Dopo la diraspatura avviene la macerazione prefermentativa a freddo, quella alcolica si svolge in acciaio per 10 giorni a temperatura controllata; poi si effettua la svinatura e pressatura soffice. Alla fine della fermentazione alcolica e malolattica, i due vini ottenuti vengono assemblati e maturati per il 60% in acciaio sulle fecce fini e per il 40% in tonneaux esausti (8° passaggio), segue un affinamento di tre mesi in bottiglia.


Il nome del vino, Auso, rappresenta il primo tratto e il più tortuoso del fiume Fasanella, e deriva dalla profonda grotta da cui fuoriesce, significa “abisso” e per i Santangiolesi è l’origine. Mi aveva già colpito il Fiano Phasis 2022, di cui ho scritto di recente qui, con l’Auso 2018 ho avuto conferma che questa cooperativa lavora davvero bene: colore rubino con riflessi granata, perfettamente attraversabile dalla luce; profumi di marasca, mirtillo, ribes nero, mirto, cenni di macchia mediterranea, leggero ginepro, pepe bianco, corteccia.


All’assaggio si lancia dritto in avanti, con slancio, grazie a una freschezza decisa e a sensazioni quasi piccanti, su un tannino per nulla ruvido ma equilibrato; le sensazioni fruttate riemergono con decisione mettendo in evidenza una quota agrumata che gli dà ulteriore spinta nel finale. Niente male, se poi pensiamo che lo si può trovare attorno ai 10 euro…

InvecchiatIGP: Villa Sparina - Gavi DOCG “Monterotondo” 2010


Il Gavi, storico vino piemontese prodotto da cortese in purezza, ha recentemente festeggiato a Roma i 50 anni dal riconoscimento della DOC. Era l'anno 1974 quando il Cortese di Gavi veniva annoverato tra le denominazioni di origine controllata, istituite con l’obiettivo di valorizzare i prodotti di qualità rappresentativi di una specifica area territoriale.


La zona di origine del Gavi Docg, prodotto con uva cortese in purezza, si trova nel sud est del Piemonte, al confine con il comune di Genova, e dista 90 km da Milano e 130 km da Torino. Il disciplinare limita la zona di produzione a 11 comuni compresi nella provincia di Alessandria. Ciò che rende speciali le terre del Gavi è sicuramente l’incontro tra il vento marino che soffia dal Mar Ligure e la neve dell’Appennino. Il clima moderatamente continentale, gli inverni freddi e le estati calde e ventilate, l’altitudine dei pendii e l’esposizione, i terreni marnosi, calcarei e argillosi danno vita al Grande Bianco Piemontese: un terroir originale che ritroviamo nel bicchiere.

L'areale del Gavi DOCG - Lavinium

I 1.600 ettari di vigneti si trovano a un’altitudine media compresa tra i 180 e i 450 m.s.l., con pendenza variabile ed esposizione generale orientata verso nord-ovest e sud-est. Dal punto di vista geologico, il terroir del Grande Bianco Piemontese si divide in Terre Rosse, Fascia Centrale e Terre Bianche.


Le argille rosse rappresentano la fascia settentrionale della denominazione, quella che dalla pianura alessandrina si eleva a colline caratterizzate da dolci pendenze. Suoli di colore rossastro, a prevalenza argillosa, ricchi di ferro, creati dai depositi alluvionali accumulati dalla lenta azione erosiva dei fiumi. È la fascia climaticamente più calda e regala Gavi di ottimo corpo e struttura.


La fascia centrale, che affiora sulla linea che unisce Serravalle Scrivia, Gavi e San Cristoforo, vede un’alternanza di marne e arenarie. Terreni misti di argille, sabbie e ciottoli dove non mancano terrazzamenti fluviali, formazioni marine e rocce derivate da crosta oceanica. Sono le aree che donano Gavi in profondo equilibrio tra struttura e sapidità.


Le terre bianche, infine, rappresentano la parte più meridionale del comprensorio, che si fa sempre più ripida avvicinandosi all’Appennino, superando i 400 metri di altitudine. I terreni diventano chiari, caratterizzati da marne tufacee di origine marina, ricche di microelementi e fossili. Suoli decisamente più poveri e duri, immersi in un clima più rigido e ventilato. Da qui provengono Gavi caratterizzati da estrema finezza, delicati profumi e spiccata mineralità.


Durante la cena di festeggiamento dei 50 anni dalla DOC, ho potuto apprezzare anche la longevità del Gavi grazie ad una delle aziende di riferimento della denominazione ovvero Villa Sparina. L’azienda, una delle più storiche nel territorio, dedicata alla viticoltura oltre 70 ettari di vigneti tra i quali spicca un piccolissimo appezzamento, sito in località Monterotondo, dove vecchie piante di cortese di almeno 60 anni sono piantate su terreni costituiti prevalentemente da argille rosse.

Moccagatta vista dall'alto

La famiglia Moccagatta ha lasciato riposare questo Gavi per 10 anni all’interno delle sue storiche cantine al fine di regalare, almeno negli intenti, un vino dalla grande personalità.


Beh, diciamo che l’obiettivo è stato assolutamente perseguito perché il vino da me degustato, nonostante ancora un legno in fase di integrazione, si è fatto apprezzare per una vivacità ed una complessità aromatica che spaziava dalla mela golden alla frutta esotica fino ad arrivare di agrumi, spezie dolci su un letto sapido e minerale. Coerente al gusto, l’ampia avvolgenza glicerica sostiene ed equilibra una sferzata fresca, a tratti salmastra, di ampio respiro.

Podere Ema – Toscano Rosso IGT “Foglia Tonda” 2020


Un vignaiolo intraprendente come Enrico Calvelli, la bellezza del territorio chiantigiano, un vecchio vitigno autoctono valorizzato, un affinamento in anfora di Terracotta di Impruneta, sono gli ingredienti di questo foglia tonda in purezza dal carattere unico ed inimitabile come la Terra da cui proviene.

SRC (Esserci) è tutto ciò che conta sull’Etna


La voglia di esserci è nata più di dieci anni fa, sull’Etna, circondati da un territorio unico al mondo e a quel tempo, forse, ancora poco inflazionato. Randazzo, nel versante nord del vulcano, ha una bellezza a cui non si può resistere, soprattutto ha un terroir dalle grandi potenzialità si vuole produrre vino nudo e crudo, senza sovrastrutture, assecondando la Natura nel bene e nel male. Non potevano aspettare oltre Rori Parasiliti, sua moglie Cinzia Baraldi e la loro figlia Sandra, il momento per far partire il loro progetto di vita era arrivato e così, nel 2012, parte il progetto SRC Vini il cui acronimo, se lo si legge scandendo bene le consonanti, fa riferimento alle iniziali di Sandra, Rori e Cinzia, una famiglia del vino cha ha deciso di Esserci puntando, più che alla forma, alla sostanza dei vini del vulcano. Un’essenzialità ed un’anima contadina che si esprimono già nei 15 ettari di vigneti, dislocati in varie parcelle tra Randazzo, Castiglione di Sicilia e Milo, tra i 650 e i 1000 metri s.l.m., dove tutte le lavorazioni sono effettuate manualmente, al massimo due volte l’anno, trattando solo ed esclusivamente con elementi naturali come zolfo, farina di roccia e propoli.


Vecchie viti, allevate ad alberello e a spalliera, dove troviamo piante di nerello mascalese, grenache, carricante, coda di volpe, insolia e minnella contenuti da struggenti muretti a secco immersi in un contesto naturale ricco di biodiversità grazie alla presenza di oliveti, frutteti e macchia mediterranea.

Vecchie Viti Credit: Triple A

Questo approccio “naturale” in vigna, ovviamente, lo ritroviamo anche in cantina dove Rori cerca di essere il meno interventista possibile grazie a fermentazioni spontanee, minimo uso di solforosa ed evitando processi di chiarifica, filtrazioni e travasi. “Less is more” potrebbe essere il motto di questa cantina che attualmente produce mediamente 30.000 bottiglie suddivise in otto etichette che, ognuna con le proprie peculiarità, restituiscono al degustatore l’anima ruvida e profonda di un terroir etneo al di fuori dalle classiche convenzioni enologiche.

Rori e Cinzia

Ultimamente a Roma, grazie ad Federico Latteri e Titti Casiello che hanno portato i nostri vignaioli in tour per l’Italia, ho potuto degustare tutta la produzione di SCR Vini tra cui uno splendido Etna Rosso 2020 che, a mio giudizio, per espressività e piacevolezza, ha superato le mie migliori aspettative.

Titti e Federico

Blend di nerello mascalese (90%) ed altre uve autoctone (10%) provenienti da un appezzamento di 4 ha sito a Castiglione di Sicilia (contrada Crasà), questo rosso dell’Etna, prodotto in circa 13.000 bottiglie si fa apprezzare per la sua gioviale immediatezza grazie ad una complessa unione di sensazioni di mammole, ciliegie, fragoline di bosco, ribes fuse a lievi cenni speziati che rendono il naso, ma soprattutto il sorso, un elogio alla freschezza e alla bevibilità grazie anche ad un tannino gentile e ad una sapidità travolgente che spalancano la strada ad una bevibilità clamorosa che, almeno in questa versione, libera le briglie a questo Etna Doc rendendolo meno austero e più popolare.

Il colore

Per descrivere le sensazioni che ho provato mi è venuta in mente una frase di Bruno Munari, uno dei massimi protagonisti dell'arte, del design e della grafica del XX secolo, che una volta ha detto:” complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare.

InvecchiatIGP: Gaggioli - Vino da Tavola Rosso Bagazzana


di Lorenzo Colombo

Non ricordiamo precisamente quando ci siamo stati in quest’azienda situata a Zola Predosa, in provincia di Bologna, saranno però passati tranquillamente una ventina di anni, fatto sta che il vino che andiamo a degustare non ci aiuta molto a ricordare, essendo quello che anni fa veniva classificato come Vino da Tavola non poteva infatti riportare in etichetta l’annata di produzione, ma neppure il nome del vitigno o la zona di produzione. Abbiamo cercato a tal proposito di risalire dal numero del lotto, informazione questa obbligatoria sull’etichetta dei vini, ma anche questo non è che ci ha dato alcuna certezza, trattandosi di una serie di numeri e lettere.
Quello che ci pare di decifrare è infatti un 22, ultime cifre di una serie posizionata sotto il contenuto del recipiente. Potrebbe quindi trattarsi di un vino del 2002, perlomeno ipotizziamo, in quanto ai vitigni utilizzati, consultando alcune vecchie guide di vini, di fine anni Novanta/inizio anni 2000 abbiamo trovato 60% Cabernet sauvignon e 40% Merlot.


La bottiglia in questione era da tempo immemore posizionata sulla griglia della nostra cantina e tutte le volte che la vedevamo abbiamo sempre pensato che non fosse il caso d’aprirla aspettandoci che il suo corretto abbinamento sarebbe stato il lavandino, date le condizioni che trasparivano dalla sua capsula, con evidenti segni di muffa e di colatura di vino. Una domenica di febbraio ci siamo però decisi a metterla alla prova e dobbiamo dire che è stata una piacevolissima sorpresa.


La storia dell’azienda Gaggioli ha inizio negli anni Settanta del Novecento, quando Carlo Gaggioli recupera il Vigneto Bagazzana e negli anni Ottanta inizia a commercializzare il suo vino sfuso. Negli anni Novanta s’inizia ad imbottigliare ed attualmente Carlo Gaggioli, morto recentemente, e la figlia Maria Letizia producono circa 130.000 bottiglie all’anno suddivise tra una quindicina d’etichette, da 21 ettari di vigna.

Carlo Gaggioli

Naturalmente il vino che andiamo a degustare non esiste più, nel corso degli anni ha cambiato nome ed è stato aggiunto, nella sua composizione lo Syrah, ora si chiama Colli Bolognesi Rosso Bologna Doc ed è composto da 50% Cabernet sauvignon e 50% tra Merlot e Syrah, viene vinificato in vasche d’acciaio e s’affina sia in acciaio che in botti di rovere da 15 ettolitri per un periodo variabile dai 12 ai 18 mesi. Null’altro siamo riusciti a sapere da parte dell’azienda produttrice.

La degustazione

Come scritto in precedenza la bottiglia non si presentava molto bene, l’abbiamo quindi approcciata con parecchia diffidenza. Pulita la capsula, coperta di muffa e con chiari segni di colatura, ci siamo con cautela approssimati all’estrazione del tappo che per la verità è uscito senz’alcun problema, era però completamente intriso di vino e nell’estrarlo dal cavatappi s’è rotto in più pezzi.


Non dava però segni d’anomalie olfattive particolari, così, versato un piccolo quantitativo di vino nel bicchiere l’abbiamo assaggiato, non trovando nulla di strano.
E’ quindi seguita la decantazione, onde separare il possibile fondo creatosi negli anni, che però s’è alla fine rivelato minimo. Nel bicchiere troviamo un vino dal color tra il granato ed il mattonato, con unghia aranciata.


Mediamente intenso al naso, un poco chiuso, dopo qualche minuto s’apre su sentori di sottobosco, tabacco dolce, humus e dopo poco tempo ancora emergono note di marmellata di prugne, noci, nocciole ed accenni di vaniglia.
Discreta la sua struttura, il tannino è ancora ben presente ma s’è ammorbidito ed addolcito, ritroviamo netti i sentori di prugne, sia cotte che in confettura uniti ad accenni vanigliati e di fichi secchi, buona la sua persistenza. Un vino sorprendente e decisamente interessante, soprattutto alla bocca.

Feudo Montoni - Igt Terre Siciliane Nerello Mascalese “Rose di Adele” 2023


di Lorenzo Colombo

Vino fresco, sapido, succoso, agrumato, dal color rosa pallido che prende il nome dal roseto che Elio, padre di Fabio, attuale proprietario, ha dedicato alla moglie Adele.


Le uve provengono da un vigneto di 40 anni d’età frutto di piante selvatiche innestate a mano, situato a 600 metri d’altitudine.

Cantina Menegola, elogio dei vini della Valtellina


di Lorenzo Colombo

Abbiamo conosciuto Walter Menegola nel 2011, quando visitammo la sua azienda in occasione della prima edizione della Guida Slow Wine, l’azienda allora era nata da poco –è nel 2006 che escono le prime bottiglie col proprio nome-, anche se la famiglia di Walter produceva uva e la conferiva sin dal 1850.
Ricordiamo ancora con emozione la visita al vigneto centenario, quello da cui, ancor’oggi provengono le uve per la produzione del Sassella Riserva.

Walter Menegola

Ci siamo ritornati una settimana fa e abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Walter mentre assaggiavamo i suoi vini. Ora l’azienda dispone di 5 ettari vitati, quattro dei quali in proprietà situati a Castione Andevenno, l’altro, in affitto, si trova a Berbenno, ci sono inoltre quattro conferitori, tre dei quali nella zona del Sassella. La produzione annuale s’aggira sulle 50.000 bottiglie il 30% delle quali vengono esportate, i principali paesi sono Stati Uniti, Giappone e paesi del Nord Europa, cinque etichette. Un poco atipico, sia per il vitigno che per la zona, il colore dei vini, sempre piuttosto intenso, Walter sostiene che non è vero che il nebbiolo abbia poco colore, “occorre solamente riuscire ad estrarlo dalle bucce”. 

Rotovinificatore

Atipica anche la fermentazione dei vini che avviene in un rotovinificatore fatto costruire appositamente, non ci risulta che altre aziende valtellinesi l’utilizzino.
Alla nostra domanda sul fatto che questo ci pare uno strumento del passato, legato agli anni ottanta-novanta del secolo scorso, Walter risponde che la notte “vuole dormire” e che questo strumento, utilizzato come fosse un follatore - ovvero le pale ruotano per pochi minuti ogni tre/quattro ore - glielo permette, senza snaturarne i vini né accorciandone la vita. A tal proposito l’assaggio dello Sforzato 2013, attualmente in commercio ce ne darà conferma.

Vigneti


Durante la nostra visita abbiamo potuto assaggiare l’intera produzione, ecco il nostro pensiero.

Vino rosato “Inciso”

Nato in maniera quasi casuale, nel 2013, quando si decise di intervenire sul mosto dello Sforzato, salassandolo, il nome del vino deriva dall’incisore, ovvero colui che ha inciso sulla roccia la figura riportata in etichetta. Prodotto -tramite salasso- da uve Nebbiolo dell’annata 2022. La tecnica del salasso, utilizzata per la prima volta nel 2013 nella produzione dello Sforzato, e che ha dato adito a questo vino rosa, ora viene applicata a tutti i vini aziendali. Al vino non vengono aggiunti solfiti in nessuna fase della lavorazione, la solforosa totale (dovuta alla fermentazione) è di 18 mg/litro.


Color tra il rosa antico ed il ramato, di buona intensità. Di media intensità olfattiva, vi cogliamo leggeri sentori di frutti di bosco macerati ed accenni di tabacco. Alla bocca è un’esplosione di frutta dolce, ciliegia, frutti di bosco macerati, sentori di caramella alla frutta, note d’agrumi. Il vino risulta un poco dolcino, il suo zucchero residuo è di 19 g/litro il che lo colloca tra i vini “amabili”, comunque la sua dolcezza è in parte mitigata dalla buona vena acida. 
Per evitare eventuali rifermentazioni il vino viene microfiltrato prima dell’imbottigliamento. Si tratta comunque di un vino che potremmo definire “poco valtellinese” dove si nota uno scostamento tra le sensazioni olfattive e quelle gusto-olfattive, adatto a quei consumatori poco smaliziati e/o cercano in un vino la semplicità e la facilità di beva. Ne sono state prodotte 8.000 bottiglie che vengono vendute in azienda a 12 euro.

Valtellina Superiore “Orante” 2018

Orante, ovvero l’oratore. Le uve provengono da vigneti con un’età media di 35 anni, situati a Castione Andevenno, tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine. Affinato per 12 mesi in botti di rovere francese da 20 ettolitri ai quali seguono 36 mesi di sosta in bottiglia.


Color granato di buona profondità. Intenso al naso dove presenta sentori di radici, sottobosco e leggeri accenni balsamici. E’ caratterizzato alla bocca da un tannino deciso ed un poco asciugante che a tratti rimanda alla pellicina delle castagne crude, buone sia la struttura che la vena acida, sentori di legno. 17.000 le bottiglie prodotte il cui prezzo in azienda è di 17 euro.

Sassella “Rupestre” 2020

Le uve provengono da vigneti di 65 anni d’età situati tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine a Castione Andevenno, vinificazione con macerazione di nove giorni, 24 mesi d’affinamento in botti da 20 ettolitri seguiti da due anni di sosta in bottiglia.


Color granato di buona profondità. Bel naso, di buona intensità olfattiva, frutto rosso maturo e dolce, note balsamiche, sentori d’erbe aromatiche. Dotato di buona struttura, buon frutto, bella vena acida e buona trama tannica, accenni di rabarbaro, buona la persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Sassella Riserva 2018

Come sopra specificato le uve provengono da un vigneto di oltre cent’anni d’età situato a Castione Andevenno, il vino viene affinato in botti di rovere da 20 ettolitri dove sosta per 45 mesi ai quali segue un lungo periodo di riposo in bottiglia. La produzione è limitata a 3.000 bottiglie il cui prezzo in azienda è di 55 euro.


Color granato di buona profondità. Discretamente intenso al naso, elegante e complesso, leggeri accenni speziati note floreali di fiori essiccati. Dotato di buona struttura e trama tannica importante ma ben integrata, asciutto, bel frutto e buona vena acida, notevole l’equilibrio gustativo, lunghissima la persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Sforzato di Valtellina “Duemilatredici”

Si tratta dell’annata attualmente in vendita, la 2015 (che abbiamo peraltro assaggiata) verrà presentata al prossimo Vinitaly. Il vigneto da cui provengono le uve ha 35 anni d’età. Affinato per 12 mesi in barriques nuove e successivamente in botti di rovere da 20 ettolitri per altri 12 mesi, seguono cinque anni di riposo in bottiglia prima della commercializzazione. 4.800 le bottiglie prodotte, vendute in azienda a 55 euro.


Color granato profondo. Bel naso, elegante, buona la sua intensità olfattiva, frutto dolce, ciliegia matura, note balsamiche. Fresco, sapido e succoso, con un bel frutto ed una buona trama tannica, lunghissima la sua persistenza.

Sforzato di Valtellina 2015 (non ancora in vendita – non l’abbiamo fotografato perché ancora senza etichetta).


Granato profondissimo. Più intenso al naso rispetto al vino del 2013, frutto scuro maturo, note floreali. Fresco, con tannino deciso, asciutto, sentori di ciliegia matura e prugna, lunga la persistenza

InvecchiatIGP: Terra di Seta - Chianti Classico 2009


di Stefano Tesi

Quella di Maria Pellegrini e Daniele Della Seta è la classica storia di un cambio di vita che approda nel mondo del vino. E che, sì, se imprime comprensibilmente una svolta netta all’esistenza dei due protagonisti rischia anche - se poi non corroborata da fatti concludenti - di tradursi in un po’ abusato argomento da mero storytelling, come in giro se ne leggono tanti.


Non mi addentrerò troppo, dunque, nella pur bella avventura di lei, vignaiola da generazioni, e di lui, romano di nascita ma con alle spalle un quarto di secolo vissuto da biologo all’Università di Siena, che nel 2000 comprano la proprietà e poi dal 2007, con la costruzione della nuova cantina, iniziano a produrre in proprio con l’etichetta Terra di Seta. Non indugerò nemmeno sul fatto che questa è l’unica cantina in Italia (e in Europa ce ne sono solo due) la cui intera produzione vinicola (circa 50mila bottiglie all’anno) dal 2008 è certificata kosher.


Mi pare molto più importante, in questa sede, sottolineare l’adesione subitanea dell’azienda al biologico, sotto l’ala protettiva di un agronomo-faro in questo settore come Ruggero Mazzilli, e il ricorso a un enologo di spessore come Enrico Paternoster. Siamo dunque in Chianti Classico, comune di Castelnuovo Berardenga, versante UGA “Vagliagli”: 46 ettari in tutto, accorpati, di cui 15 di vigneto, in stragrande maggioranza Sangiovese (“ne abbiamo messo 28 cloni diversi”, spiega Daniele) e un po’ di Cabernet Sauvignon, piantati su suoli di macigno, alberese e porzioni di galestro, dove la quota elevata (500 metri slm) tende a stemperare il tipico calore di certi versanti meridionali dell’area.


E’ in occasione di una bella verticale dei Chianti Classico e dei Chianti Classico Riserva aziendali che mi sono imbattuto in questo sontuoso 2009, che include un 5% di Cabernet Sauvignon. Presentatosi con un bel rubino caldo e l’unghia leggermente aranciata, al naso è penetrante, quasi pungente, con un marcato residuo di frutto, freschezza e screziatura che lo rendono perfettamente pimpante, ma non senza una composta soavità.


In bocca è sapido, ricco e ampio, molto diretto, niente affatto evoluto ed evocatore invece di uno certo stile un po’ antico, familiare, riconoscibile e rassicurante, che emerge soprattutto dai tannini gentilissimi, frutto di legni azzeccati. Quello che, in definitiva, si potrebbe chiamare i perfetto “fatto concludente” in grado di ridare senso e vigore ad una vicenda dove prevale la story e il telling è ai minimi termini.