di Roberto Giuliani
Quando ho conosciuto Anna Mercandelli e Mimmo Capeto dell’azienda Sacrafamilia, sita nel comune di Godiasco Salice Terme (PV), sono rimasto seriamente in difficoltà. Non mi ero mai trovato, nel mondo del vino, ad avere a che fare con una coppia profondamente religiosa che ha un rapporto con la vigna unico al mondo, così meticoloso da conoscere a menadito ogni acino di ogni singolo grappolo (nessuno, che io sappia, porta in cantina 3 quintali d’uva da un ettaro di vite). La loro non è un’ossessiva ricerca della perfezione, che pure c’è, ma l’esigenza di ottenere la massima purezza possibile, tanta è la loro fede nel lavoro contadino. Un rapporto che va ben oltre gestire un vigneto per ottenere vini eccellenti, per me comune mortale, peraltro ateo, è davvero difficile comprendere tanta abnegazione, tanto convincimento.
Illuminante il loro commento riportato da Gabriella Grassullo in un suo articolo del 2014 su Viniplus: “Sognavamo di fare un vino che riuscisse ad accarezzare il pensiero, la cultura e i sentimenti, per risvegliare il senso primordiale del gusto. Un prodotto sensibile e puro che potesse svelare il carattere del terroir e la spiritualità del produttore nel contesto unico e irripetibile di ogni vendemmia. Abbiamo creato questo vino senza compromessi, perché nessun prodotto chimico o biologico potesse influenzarne la purezza, il carattere ed il destino sensoriale. Un prodotto che nasce dal rapporto sacro e vitale che abbiamo con le piante, con l'energia del Cielo e il respiro della Terra. Un vino spirituale ed archetipo che migliora, anno dopo anno, il gusto del proprio tempo per diventare piacere, salute e ispirazione umana”.
Avrei potuto parlare di questo vino nella rubrica Invecchiato IGP, ma non mi sembrava il contesto giusto, perché ciò che ho potuto appurare va ben oltre il concetto di “invecchiamento” e mi lascia davvero senza parole. Dovete sapere che stappai questa bottiglia (sì, proprio quella di cui vi sto scrivendo) ben 7 anni fa, sufficienti per trasformare in aceto (nella migliore delle ipotesi) qualsiasi vino semplicemente ritappato con il suo sughero e messo in cantina, senza neanche aspirarne l’ossigeno. La quantità presente nella bottiglia era elevata, mancava solo quello che mi era servito per la degustazione fatta nel 2016, ma comunque di ossigeno ne è entrato abbastanza e sette anni sono davvero un’infinità di tempo.
Bene. Diciamo intanto che l’elevata alcolicità (16 gradi dichiarati in etichetta) può avere dato un leggero contributo alla sua stabilità, ma di certo non basta, ho dovuto buttare fior di Amarone dopo poche settimane dall’apertura, che di alcol ne avevano di più. L’unica ragione possibile per cui il vino che ho davanti è tutt’altro che defunto, è dovuta, ne sono certo, a quella attenzione certosina, a quel trattare pianta per pianta come figlie, al non avere mai usato chimica in vigneto, neanche rame o zolfo (quest’ultimo, proveniente da miniere in Polonia, è stato utilizzato fino al 2008), ad aver preferito vinificare in vetroresina, con macerazioni lunghissime che arrivano al totale dissolvimento del frutto; non so, non sono né agronomo né enologo, ma di fronte a me c’è qualcosa di inspiegabile, perché questo 2012, ottenuto da cabernet sauvignon e croatina, si è evoluto magnificamente, è tutt’altro che stanco, conserva un brio e una voglia di vivere ammirevoli, insomma lo sto bevendo con grande emozione.
Scandagliandolo al microscopio sensoriale c’è sicuramente la percezione ossidativa (che però in parte era presente sin dall’inizio), ma questa sembra averlo esaltato in ogni sua particella, rendendolo unico nel suo genere, potremmo avvicinarlo, per vaga approssimazione, a un porto di trent’anni, per profondità e lunghezza, ma in realtà viaggia su un binario del tutto personale che mi lascia davvero sbalordito, fuori da qualsiasi canone vinoso.